La scienza bizantina e latina prima dell'influsso della scienza araba. La struttura del sapere

Storia della Scienza (2001)

La scienza bizantina e latina prima dell'influsso della scienza araba. La struttura del sapere

Alfonso Maierù

La struttura del sapere

La classificazione delle conoscenze

Gli elementi fondamentali adottati nel Medioevo, prima dell'ingresso della cultura araba, per sistemare e classificare le conoscenze erano desunti da schemi classificatori ereditati dall'Antichità e riguardanti sia la divisione della filosofia sia il sapere enciclopedico; a essi si aggiungeva, diventando sempre più condizionante, la considerazione del rapporto tra il sapere profano e umano e quello della dottrina cristiana e della Bibbia, che racchiude la rivelazione trasmessa dal Dio cristiano agli uomini. Restano piuttosto defilate in questo periodo la riflessione sulle 'arti meccaniche' e la loro posizione nel sistema delle scienze.

Le divisioni della filosofia

Nell'Alto Medioevo era ampiamente diffusa la conoscenza di due divisioni della filosofia. La prima, nota come 'divisione stoica' ‒ ma attribuita anche a Platone o a Senocrate ‒ articolava la filosofia in tre parti: fisica o filosofia naturale, etica o filosofia morale, logica o filosofia razionale; questa divisione era tramandata da molti autori e accreditata da Agostino (De civitate Dei, VIII, 4). La seconda divisione era di matrice più immediatamente aristotelica e proveniva da fonti alessandrine (Ammonio); nella versione datane da Boezio nel primo commento all'Isagoge di Porfirio, la filosofia era considerata un genere diviso in due specie: una teoretica o speculativa, l'altra pratica o attiva. La prima specie si articolava a sua volta in rapporto agli oggetti della speculazione, agli atti e alle facoltà impegnate. La disciplina più alta, la teologia, aveva per oggetto gli 'intellettibili' (ciò che è per sé uno e identico, sempre costante nella propria natura divina, e che si coglie soltanto con la mente e con l'intelletto); la seconda, di cui non era fornito il nome, aveva per oggetto gli 'intelligibili', era collocata in posizione intermedia e considerava le opere celesti della divinità, quel che nel mondo sublunare gode di animo beato e di sostanza pura, e infine le anime umane e cioè tutto ciò che al contatto coi corpi è degenerato dall'intellettibile all'intelligibile; la terza, detta 'fisiologia', studiava la natura e le proprietà dei corpi. La parte pratica della filosofia si articolava anch'essa in tre ambiti, che avevano per oggetto rispettivamente la cura di sé, la cura dello Stato e i doveri familiari.

A questa bipartizione Boezio faceva seguire il discorso sulla logica, arte che secondo alcuni costituiva una parte della filosofia, mentre altri pensavano che ne fosse non una parte ma uno strumento; Boezio faceva notare però che tutto ciò che era studiato dalla logica ‒ nelle sue tre operazioni fondamentali della definizione, della divisione e dell'argomentazione ‒ era utile alla filosofia, così come era utile alla grammatica (e all'articolazione delle otto parti del discorso) o alla retorica (In Isagogen Porphyrii commenta, I commento, I, 3-4). Più tardi, nel secondo commento all'Isagoge, Boezio riesaminò il problema della collocazione della logica, e concluse che essa era insieme parte e strumento della filosofia, sicché la filosofia era costituita di tre parti: la speculativa (che si occupava della natura delle cose), l'attiva (che si occupava della vita pratica) e la razionale o logica (ibidem, II commento, I, 3).

Il contributo di Boezio alla classificazione delle conoscenze non si ferma qui, ma comprende altri due interventi. Il primo di essi riguardava la collocazione delle matematiche; nel prologo del De arithmetica (I, 1) le discipline matematiche erano presentate come un quadrivio, un quadruplice percorso che solo portava al culmine della perfezione nel campo delle discipline filosofiche. Per un verso, sembra che Boezio assegnasse alle matematiche una funzione propedeutica alle discipline filosofiche (come gradini per cui si ascendeva dal sensibile all'intelligibile); per un altro verso, sembra invece che esse fossero concepite come parti costitutive della filosofia. Nel De arithmetica la sapienza professa la 'scienza' delle cose che sono propriamente (e cioè, delle cose che per natura sono incorporee e immutabili in sé, ma che sono soggette a mutamento per la partecipazione del corpo) e che sono denominate 'essenze'; queste a loro volta sono di due tipi: quantità continua o grandezza, e quantità discreta o moltitudine, tra cui rientra il numero. A sua volta, la moltitudine è oggetto dell'aritmetica se considerata in sé, mentre è studiata dalla musica se considerata nei suoi rapporti; le grandezze possono invece essere immobili (oggetto della geometria), oppure mobili (oggetto dell'astronomia).

L'altro contributo boeziano alla classificazione delle conoscenze è un testo molto noto, e cioè il secondo capitolo dell'opuscolo De Trinitate, dedicato soltanto all'insieme delle discipline teoretiche o speculative, di cui Boezio tornava a precisare l'oggetto, aggiungendo questa volta indicazioni di metodo. Egli ribadiva che tre sono le parti della scienza speculativa. La più 'bassa' di queste parti, quella naturale, considera le forme dei corpi insieme con la materia di cui sono composti, non potendosi le forme separare dai corpi (ed essendo questi in movimento, la forma, congiunta alla materia, è soggetta al moto); la parte naturale della scienza speculativa ha dunque per oggetto le forme in quanto non astratte dalla materia, e perciò in movimento (in motu inabstracta). La seconda parte è la matematica, che si occupa delle forme dei corpi, le quali, pur essendo nella materia e non potendo sussistere separate da essa, tuttavia sono considerate senza materia e perciò senza movimento (sine motu inabstracta). La terza parte è quella teologica e ha per oggetto realtà separate dalla materia e dal movimento, come è Dio (sine motu abstracta atque separabilis: c'è da osservare che le qualificazioni sono riferite non agli oggetti, ma alle discipline, in questo caso alla teologia).

Quanto al metodo utilizzato da ciascuna scienza, l'autore precisava che nelle cose naturali si procede secondo ragione; nelle cose matematiche si procede "secondo la disciplina" (disciplinaliter), cioè 'secondo dimostrazione', o con procedimento dimostrativo (v. disciplina vel demonstratio in Boezio, In Topica Ciceronis commentariorum libri sex, I); nelle cose divine si procede secondo l'intelletto, contemplando la pura forma che è l'essere stesso e dalla quale deriva ogni essere. Le indicazioni di metodo riguardavano la funzione della facoltà superiore dell'anima umana (di natura razionale: "la ragione appartiene solamente all'essere umano, come l'intelligenza a quello divino", Philosophiae consolatio, V, 5, 4, p. 99). La ragione mette in opera procedimenti dimostrativi (nella matematica) o non strettamente dimostrativi (come nella 'filosofia della Natura' o fisica), e si erge per quanto può verso la realtà divina, rimuovendo da essa ogni attributo proprio della realtà finita; in tutti i casi, protagonista è sempre la ragione nelle sue varie possibilità conoscitive (Boezio, De Trinitate, VI; Philosophiae consolatio, V, 5, 11-12; Maioli 1978).

Come si può vedere, i problemi posti dalla classificazione delle conoscenze di Boezio sono almeno due: uno riguarda la posizione della logica (v. oltre), l'altro l'assetto delle scienze teoretiche o speculative, e in particolare la posizione delle scienze matematiche, sia per quanto riguarda il loro oggetto ‒ che sembra andare verso posizioni platoniche nel commento a Porfirio, ma che nel De Trinitate si attesta su una posizione aristotelica ‒ sia riguardo alla loro collocazione nel sistema delle scienze, come parte della scienza teoretica o come insieme di discipline propedeutiche a essa. Per questo secondo problema, la risposta dell'autore pare sostanzialmente orientata verso l'inclusione delle scienze matematiche tra le discipline teoretiche. Le oscillazioni boeziane dipendevano forse dalle fonti di volta in volta utilizzate, ma da ultimo trasmettevano al Medioevo la convinzione che si dessero tre scienze teoretiche, la seconda delle quali era la matematica, articolata in quattro discipline ‒ aritmetica, musica, geometria, astronomia ‒ che costituivano complessivamente il 'quadrivio' (termine documentato per la prima volta nel latino di Boezio) delle arti liberali.

A stabilizzare quest'ultimo aspetto della classificazione delle scienze valse l'intervento di Cassiodoro, che riprendeva anch'egli dalle stesse fonti greche la divisione della filosofia in 'ispettiva' (o teoretica) e 'attiva' (o pratica); la parte ispettiva si articolava in naturale, dottrinale e divina, con la dottrinale che si divideva nelle quattro discipline dell'appena ricordato 'quadrivio'; la parte pratica a sua volta si divideva in tre: morale, dispensativa e civile. A proposito della partizione della filosofia dottrinale è da tener presente che il termine greco 'matematica' era reso da Cassiodoro con 'dottrinale' e che per lui la filosofia dottrinale era la "scienza della quantità astratta; quantità astratta è quella che trattiamo con la sola ragione astraendo dalla materia o dagli altri accidenti" (Cassiodoro, Institutiones, II, 3, 4-6, ed. Mynors, pp. 110-111, e 21, p. 130).

Per quanto riguarda la parte pratica della filosofia, sia Boezio che Cassiodoro adottavano la tripartizione di origine aristotelica (morale individuale, economica e politica) con inversione di posizione tra la seconda e la terza in Boezio; questi non forniva la denominazione di ciascuna scienza pratica e la sostituiva con la semplice enumerazione (prima, seconda, terza). Furono le formulazioni cassiodoree delle scienze pratiche a imporsi nel Medioevo fino al recupero delle relative opere di Aristotele; tuttavia, se le classificazioni trasmesse da Boezio e da Cassiodoro erano riconducibili a una matrice aristotelica, è da riconoscere che, accanto alle scienze teoretiche e a quelle pratiche, non compariva il terzo membro della classificazione aristotelica, cioè quello delle scienze 'poietiche' o produttive, peraltro non molto sviluppato da Aristotele (Topica, VI, 6, 145a 15-16; VIII, 1, 157a 10-11; Metaphysica, VI, 1, 1025b 25).

L'enciclopedia del sapere: Marziano Capella

La più diffusa classificazione della filosofia era senza dubbio quella triadica in fisica, etica e logica. In questo schema la logica era per la prima volta riconosciuta come parte della filosofia a pieno titolo, e comprendeva in sé la retorica e la dialettica. Questa 'dialettica' non era la platonica scienza delle forme e neppure la dialettica aristotelica, intesa come tecnica argomentativa che si muove nell'ambito del probabile, ma una scienza che si proponeva di raggiungere la conoscenza della verità e di distinguere il giudizio vero da quello falso. La fisica, a sua volta, come 'filosofia della Natura' concentrava su di sé tutta l'attività teoretica e assorbiva la teologia; la nozione di 'Natura' risultava così molto ampliata, designando non più (o non soltanto) un ambito particolare, oggetto di una certa scienza, ma la totalità dell'Universo, con i suoi principî e le sue cause. Le due accezioni di 'Natura' convissero a lungo nel Medioevo.

Confrontando questa classificazione con quella aristotelica, si nota che ne restavano fuori le matematiche, il cui studio, insieme con lo studio delle altre arti liberali, veniva a configurarsi come propedeutico a quello della filosofia, e quindi esterno a quest'ultima. Il rapporto tra funzione propedeutica delle arti liberali e filosofia era un tema comune, ampiamente discusso nelle scuole di filosofia dell'Antichità. Il sistema delle sette arti liberali comprendeva le arti del linguaggio (grammatica, dialettica e retorica) e le quattro arti matematiche (aritmetica, musica, geometria, astronomia); queste ultime furono designate, come si è detto, con il nome complessivo di 'quadrivio' da Boezio in poi e, per analogia, le prime tre furono designate più tardi (pare in epoca carolingia) con il nome complessivo di 'trivio'.

Oggetto già nell'Antichità di esposizione in appositi trattati (con oscillazioni circa il loro numero; v. anche cap. II), le arti trovarono una fortunata sistemazione nell'opera di Marziano Capella (attivo nella prima metà del V sec.) De nuptiis Philologiae et Mercurii, articolata in 9 libri. Nei primi due l'autore forniva una favolosa cornice, costituita dal racconto del matrimonio di Mercurio (simbolo dell'eloquenza) con Filologia (simbolo della sapienza) e della preparazione di esso, a partire dalla ricerca di una moglie degna di Mercurio; questi consulta Apollo e apprende che Filologia è idonea per le nozze; il progetto nuziale riceve l'approvazione degli dèi; quindi, con un complesso rituale che ricorda i riti di iniziazione, Filologia si prepara per l'ascesa al cielo, salutata dalle Muse e dalle quattro virtù cardinali; la vergine Filologia riceve poi la visita di una donna dall'aspetto grave (simbolo della filosofia), alla quale Giove ha affidato il privilegio di permettere ai mortali di salire al cielo, e a lei Filologia si affida con slancio. Prima di salire sulla lettiga che la porterà in cielo, Filologia è invitata da Immortalità a liberarsi di tutto ciò che la opprime, e allora la vergine vomita un'intera biblioteca, composta di libri diversi per materiali, dimensioni e lingue impiegate; Immortalità individua i testi sacri e dispone che questi siano incisi su cippi e conservati nelle caverne dell'Egitto; numerose fanciulle, alcune dette Arti e altre Discipline, e perfino le Muse, in particolare Calliope e Urania, raccolgono in grembo molti volumi, mentre Apoteosi, madre di Immortalità, toccando con la mano e contando i libri rigurgitati dalla bocca di Filologia, li consacra (la cultura umana di cui Filologia si libera non è disprezzata se è conservata, raccolta e consacrata, ma è solamente abbandonata e superata in favore del punto di vista degli immortali e della visione del vero; Lenaz 1975). Giunta nel senato degli dèi, Mercurio assegna a Filologia come ancelle le sette arti liberali. Nei libri successivi, dal terzo in poi, ciascuna ancella espone la propria dottrina.

L'opera di Marziano Capella ebbe un'enorme fortuna; assunta come libro di testo in età carolingia, divenne oggetto di commento anche da parte di personaggi illustri, come Giovanni Scoto Eriugena (v. oltre). In realtà, non disponendo più delle opere prodotte dall'Antichità, i maestri dell'Alto Medioevo dovevano accontentarsi del sapere trasmesso da questa compilazione, che forniva i rudimenti delle varie discipline. Anche quando si avevano a disposizione opere appartenenti al corpo dei testi fondamentali dell'Antichità ‒ come per la logica o dialettica (i due termini erano frequentemente usati come sinonimi), di cui il Medioevo latino da Boezio in poi ha conosciuto l'Isagoge di Porfirio e le Categorie e il De interpretatione di Aristotele ‒ continuava a essere usato il quarto trattato dell'opera di Marziano (De arte dialectica), che circolava anche autonomo dal resto dell'opera.

Altro trattato fortunato di Marziano fu l'ottavo (De astronomia), che restò in uso fino a quando non furono disponibili scritti più adeguati da assumere come base per l'insegnamento, provenienti dall'Antichità (Tolomeo) o composti nel Medioevo (la Sfera di Giovanni di Sacrobosco); il trattato sull'astronomia nel corso del XIII sec. fu usato accanto ai manuali appena introdotti nelle scuole. Gli altri libri dell'enciclopedia di Marziano, invece, a mano a mano furono sostituiti grazie al recupero di opere antiche; la grammatica da Donato e Prisciano (quest'ultimo rimesso in circolazione dall'VIII sec., e stabilmente dall'XI), l'aritmetica e la musica dalla traduzione ampliata dell'opera sull'aritmetica di Nicomaco di Gerasa (e, meno, dal trattato musicale, entrambi dovuti a Boezio e recuperati a partire dal IX sec.), la retorica dal De inventione di Cicerone e dalla Rhetorica ad Herennium, la geometria dalle geometrie I e II attribuite a Boezio e, soltanto dal XII sec., dagli Elementi di Euclide.

Cristianesimo e classificazione delle conoscenze

Se gli strumenti fondamentali per la classificazione delle conoscenze erano ricavati dalle divisioni della filosofia e da quelle delle arti liberali, le une e le altre ereditate dall'Antichità, un elemento che caratterizzò fortemente la cultura medievale rispetto a quella precedente e che pervenne a rivoluzionare anche i criteri di classificazione delle conoscenze fu il cristianesimo. La nuova religione offriva un ideale di vita capace di assicurare la salvezza e si poneva in alternativa agli ideali filosofici e culturali dominanti ("Predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e follia per i Gentili", Paolo, II Corinzi, 1, 23). Ben presto il cristianesimo fu identificato con la 'vera filosofia' e divenne la filosofia per eccellenza; vestendo infatti i panni della filosofia, ne assunse concetti e metodi (provenienti soprattutto dalla scuola stoica e da quella platonica).

Nel II sec. gli apologisti, nell'intento di presentare il cristianesimo in modo da renderlo intelligibile agli interlocutori pagani, utilizzavano il concetto di lógos (che nella filosofia stoica era forza razionale presente nel mondo e negli individui) per identificarlo con Gesù Cristo, il Lógos o Verbo fatto carne del vangelo di Giovanni (1, 1-14); secondo gli apologisti, i sapienti e i filosofi antichi non avevano conosciuto che scintille e frammenti del Lógos di cui il cristianesimo aveva la piena rivelazione nel Cristo. Se vivere secondo filosofia era vivere secondo ragione (lógos equivale sia a 'verbo', o parola, sia a 'ragione'), i cristiani erano filosofi perché vivevano secondo il Lógos divino o Ragione divina. Perciò stesso, però, il cristianesimo si poneva come superiore alle altre filosofie e religioni; poiché l'indagine filosofica ormai consisteva nell'esegesi dei testi dei filosofi del passato, anche il discorso cristiano si poneva come esegesi di un testo, quello rivelato, per interpretare il quale erano messe a frutto, per quanto possibile, tutte le conoscenze profane.

Questo atteggiamento faceva propria la posizione del giudaismo alessandrino rappresentato da Filone di Alessandria (commento a Genesi, 16, 1-6), il quale, recuperando il tema tradizionale della funzione preparatoria delle arti rispetto alla filosofia, interpretava la vicenda di Abramo (che, non riuscendo ad avere figli da sua moglie Sara, su invito della stessa si congiunse con la schiava egizia Agar, simbolo degli studi preparatori, e poi generò anche dalla moglie, simbolo della filosofia) come un processo grazie al quale per raggiungere la virtù-filosofia era necessario prepararsi con il ciclo degli studi preliminari. Così, la cultura acquisita per mezzo delle discipline del ciclo delle arti era 'schiava' della filosofia (Filone, De congressu eruditionis gratia, 12-24). Del resto, la filosofia era alla base di tutte le arti perché aveva fornito loro i semi da cui erano sbocciate le diverse dottrine (ibidem, 146; secondo il racconto biblico, fu Sara a dare ad Abramo la schiava Agar). Filone affermava: "Come le scienze propedeutiche aiutano a raggiungere la filosofia, così la filosofia aiuta ad acquisire la sapienza, giacché la filosofia è lo studio della sapienza, e la sapienza è la scienza delle cose divine e umane e delle loro cause; dunque, come la cultura ottenuta mediante le scienze propedeutiche è schiava della filosofia, così questa è schiava della sapienza" (ibidem, 79). La sapienza, in ultima analisi, era per Filone la rivelazione mosaica. Del resto, per lui, come per altri Giudei, i filosofi e i legislatori antichi dipendevano dall'insegnamento di Mosè (Legum allegoriae, I, 108; De specialibus legibus, IV, 61).

Gli scrittori ecclesiastici assimilarono questa concezione del rapporto tra la cultura delle arti preparatorie e la filosofia greca, e tra filosofia e rivelazione; poiché la rivelazione nella sua pienezza era quella di Cristo, finalizzarono all'assimilazione della dottrina e all'esplicazione del testo rivelato gli studi preparatori delle arti e della filosofia, sicché lo studio della dottrina cristiana si poneva al culmine di un'acquisizione graduale del sapere, al sommo di una scala che aveva i suoi gradini nelle sette arti liberali e nella filosofia.

Particolarmente importante per intendere l'elaborazione di questa concezione dei rapporti tra cultura profana e dottrina cristiana è il ruolo giocato da Origene. Nel prologo al commento sul Cantico dei cantici egli affermava che Salomone, istruito dallo spirito di Dio, aveva composto i tre libri Proverbi, Ecclesiaste e Cantico dei cantici; a questi libri corrispondevano le tre discipline generali che i Greci avevano ripreso da Salomone spacciandole per proprie invenzioni e chiamandole etica, fisica ed epoptica (nel latino del traduttore Rufino, le tre discipline erano dette filosofia morale, filosofia naturale e filosofia ispettiva). Secondo Origene, l'etica serviva di preparazione alle altre e permetteva di acquisire un modo virtuoso di vivere. La fisica era lo studio di ciascuna cosa e, per di più, aveva una portata morale: non bisognava distogliere le cose dall'uso cui erano destinate. L'epoptica era la contemplazione delle cose divine resa possibile dal superamento delle realtà visibili.

I libri salomonici e le discipline greche delineavano un progetto ascensionale e fissavano le tappe del progresso spirituale grazie al quale l'anima passava dalla purificazione all'indagine sulla natura delle cose, che ne rivelava la caducità, per poi innalzarsi verso l'invisibile e l'eterno. In questa posizione di Origene, il Cantico corrispondeva alla dialettica platonica, che era contemplazione delle idee o forme ideali. Nello schema triadico della filosofia (etica, fisica e logica), l'epoptica prendeva il posto della logica (o parte 'razionale' della filosofia); infatti, Origene informava che secondo alcuni autori la logica, intesa come tecnica del discorso, costituiva una quarta parte della filosofia, mentre egli concordava con chi riteneva che essa andasse integrata nelle altre tre parti (in quanto da esse usata), ma riconosceva l'opportunità d'insegnarla ai fanciulli (Commentarium in Canticum canticorum, prol. 3, 1-10).

Lo schema origeniano riprendeva di fatto quello neoplatonico, che distingueva tra dialettica platonica (la parte più alta della filosofia) e logica aristotelico-stoica (l'arte degli aspetti formali del discorso e in particolare del ragionamento); quest'ultima era strumentale e propedeutica alla filosofia. La prima, la dialettica platonica, non era un sistema di regole formali ma possedeva le realtà stesse e applicava spontaneamente le regole logiche, lasciandone all'arte della logica la trattazione formale (Hadot 1990). D'altra parte, Girolamo (Epistula XXX ad Paulam, 1) tramandava un'altra versione di questo accostamento tra libri biblici e parti della filosofia, riconducendo la considerazione della Natura alla Genesi, oltre che all'Ecclesiaste, la considerazione della morale a tutti i libri, oltre che ai Proverbi, e spiegando che, in corrispondenza della logica, i cristiani ponevano la 'teologica', cioè il Cantico dei cantici e i vangeli.

Quello che maggiormente importa è che in Origene vi era un'insistita ripresa del tema della preparazione fornita dalle discipline profane per l'acquisizione della dottrina sacra (per l'origine delle discipline profane, cioè delle scienze o arti necessarie all'uomo, Origene, Homiliae in Numeros, XVIII, 3, in: PG, v. XII, coll. 714 C-715 B, a proposito di Ecclesiastico, 1, 1: "Tutta la sapienza viene da Dio"). Per illustrarlo, Origene usava due riferimenti biblici e ne proponeva interpretazioni destinate a notevole fortuna nella cultura del Medioevo latino. Nelle Homiliae in Leviticum (VII, 6), Origene utilizzava il passo del Deuteronomio (21, 10-14), nel quale si dettavano le norme da seguire nel caso in cui un israelita, invaghitosi di una prigioniera di guerra, volesse prenderla in sposa (il rito di purificazione comprendeva rasatura del capo, taglio delle unghie, abbandono dell'abito indossato e, infine, dimora in casa per un mese). Nella lettera a Gregorio Taumaturgo (Epistola ad Gregorium), poi, utilizzava l'episodio dell'Esodo (3, 22; 11, 2; 12, 35-36) secondo il quale gli Ebrei in fuga dall'Egitto ricevettero da Dio l'ordine di spogliare gli Egiziani di vasi d'oro e d'argento e di vesti, chiedendoli in prestito ai vicini, al fine di raccogliere materiale da utilizzare per l'organizzazione del culto divino.

L'interpretazione del Deuteronomio era preferita da Girolamo per significare che era lecito impossessarsi della sapienza secolare, attratti dalla bellezza dell'eloquio, come era lecito sposare una bella schiava di guerra e farne un'israelita madre di molti figli legittimi (de Lubac 1959). L'immagine delle ricchezze sottratte dagli Israeliti agli Egiziani, come a ingiusti possessori, era invece preferita da Agostino, il quale nel De doctrina christiana (II, 40, 60-61) illustrava l'utilità della cultura delle discipline liberali, soprattutto della dialettica, e anche della filosofia platonica, se messe al servizio della verità e della predicazione del Vangelo, e restituite all'ossequio di Cristo (con riferimento a Paolo: "facendo prigioniero ogni intelletto per ridurlo all'ossequio di Cristo", II Corinzi, 10, 5).

Il programma agostiniano di riduzione delle arti (e della filosofia) alla Sacra Scrittura si precisò nel lungo periodo in cui Agostino fu vescovo di Ippona; peraltro, già nel periodo milanese egli aveva concepito il progetto di scrivere trattati per l'insegnamento delle arti liberali e ne aveva iniziato la composizione, giungendo a completare ‒ come narrò nelle Retractationes, I, VI ‒ quello di grammatica e sei libri sulla musica, mentre gli scritti su altre discipline (dialettica, retorica, geometria, aritmetica) furono lasciati appena all'inizio. Aveva intrapreso pure la stesura di un manuale di filosofia; l'intento di Agostino era infatti quello di mostrare in quale modo si potesse passare gradualmente dal corporeo all'incorporeo e come le discipline potessero giovare alla filosofia. Questo programma di riduzione delle arti alla filosofia aveva la sua base nella concezione esposta nel De ordine (386), secondo la quale la conoscenza delle arti non doveva essere cercata per sé stessa, ma doveva essere preparatoria alla filosofia; se l'ideale era la saggezza, le scienze erano vie alla verità che dava la beatitudine. L'ordine degli studi in funzione della sapienza rendeva idoneo ciascuno a intendere l'ordine delle cose.

Qualche anno dopo Agostino scrisse il De vera religione (389), in cui riconosceva che filosofia platonica e cristianesimo coincidevano quanto ai punti capitali; entrambi insegnavano, infatti, a superare il mondo sensibile e a contemplare con animo puro la verità divina; l'anima razionale, una volta purificata, era capace di contemplare eternamente Dio. La filosofia (platonica), cioè l'amore della verità, e la religione erano per Agostino la stessa cosa; ciò che differenziava platonismo e cristianesimo era la dottrina dell'incarnazione: a suo avviso, l'orgoglio filosofico rifiutava di accettarne la lezione di umiltà.

Il sapere enciclopedico altomedievale

La riflessione in merito ai rapporti tra filosofia e discipline liberali propedeutiche, e tra cultura profana ‒ enciclopedica e filosofica ‒ e religione cristiana, produsse nuovi criteri di classificazione delle conoscenze, che furono tramandati dalle opere enciclopediche prodotte nel periodo tra la Tarda Antichità e l'Alto Medioevo.

Le Institutiones di Cassiodoro intendevano fornire una guida allo studio della Bibbia e delle arti liberali; queste ultime si erano sviluppate a partire dal seme dato dalla sapienza divina, che le ha impiegate nella Scrittura per esprimere la verità; di qui poi le avevano riprese i dottori delle lettere secolari (Institutiones, I, praef., 6).

Il primo libro, dedicato alle lettere divine, si collocava sulla scia del programma agostiniano, operando l'inserimento delle scienze sacre nell'enciclopedia del sapere; si trattava di una guida bibliografica allo studio delle Scritture, contenente l'indicazione dei commenti accessibili all'autore, dei quali egli lasciò copia nella biblioteca della fondazione del Vivarium.

Il secondo libro, dedicato alle lettere umane, passava in rassegna le sette arti liberali, ricordando anche i manuali che servivano al loro studio e indicandone sommariamente il contenuto. Cassiodoro distingueva tra arte e disciplina, richiamandosi a Platone e ad Aristotele, nel senso che l''arte' era un abito conoscitivo che operava nel contingente, cioè sulle cose che possono mutare, mentre la 'disciplina' trattava di ciò che non può stare diversamente da come sta (ibidem, II, 3, 20). Del resto, Cassiodoro ‒ come si è detto ‒ considerava le discipline del quadrivio come un'articolazione della matematica, che era la parte dottrinale della filosofia ispettiva o teoretica (le altre parti dell'ispettiva erano quella naturale e quella divina).

Isidoro di Siviglia dedicava molto spazio nelle sue opere alla classificazione delle scienze e delle arti e, poiché dipendeva, come gli altri compilatori, dalle fonti a sua disposizione, forniva classificazioni difficili da ricondurre a unità. Nei suoi Etymologiarum sive originum libri XX egli presentava le sette arti liberali (Libro I, 2), e identificava la dialettica con quella parte della filosofia che era detta logica (II, 22, 1). Isidoro adottava infatti la divisione triadica della filosofia in naturale o fisica, morale o etica, e razionale o logica, e presentava le discipline del quadrivio come articolazioni della fisica, attribuendone a Platone la divisione in quattro ambiti; l'etica, istituita da Socrate, si articolava secondo Isidoro nelle quattro virtù della prudenza, fortezza, temperanza e giustizia; egli affermava, poi, che la logica era stata aggiunta da Platone, il quale aveva discusso le cause delle cose e dei costumi, e ne aveva scrutato la natura proprio grazie alla logica, dividendola in dialettica e retorica; infine, Isidoro riprendeva da Girolamo l'accostamento fra tripartizione della filosofia e libri biblici (24, 3-8).

Nella concezione di Isidoro dell'articolazione della filosofia rientravano dunque le arti liberali; non è menzionata la grammatica, ma essa è considerata origine e fondamento delle lettere liberali (I, 5, 1). Inoltre, Isidoro ricordava anche la partizione della filosofia in ispettiva e attuale con le articolazioni di entrambe le parti (II, 24, 10), che riprendeva da Cassiodoro (nelle Differentiae, egli dava conto di un'altra divisione della fisica nella quale collocava la meccanica; v. oltre, par. 2). Nella sua vasta enciclopedia in venti libri, Isidoro dedicava ampio spazio per un verso alle scienze sacre (Libri VI-VIII), per un altro a quelle che furono dette 'arti meccaniche' (Libri XVII-XX).

Fedele alla tradizione della cultura cristiana, Alcuino nei suoi opuscoli didattici considerava le arti liberali come propedeutiche alla Sapienza, e per dar conto di questo introduceva la forte immagine delle sette colonne della casa della Sapienza (Proverbi, 9, 1); senza queste colonne delle "lettere liberali", o sette gradini della filosofia, non era possibile pervenire alla scienza perfetta, ai vertici della scienza speculativa. Allo studio di queste discipline si dedicavano i filosofi, e grazie a esse i santi e i dottori cattolici erano risultati sempre superiori agli eretici nelle discussioni pubbliche. Alcuino esortava i suoi allievi a consacrare a queste "vie" l'adolescenza, in modo che con l'età matura potessero pervenire al sommo della Sacra Scrittura. Le arti costituivano perciò l'introduzione necessaria alla scienza sacra (Alcuino, Grammatica).

Nell'introduzione all'opuscolo dedicato alla dialettica, poi, l'autore (come già Isidoro) presentava la divisione della filosofia in tre parti (fisica, etica e logica; la fisica era suddivisa nel quadrivio, l'etica nelle quattro virtù, la logica in dialettica e retorica); procedendo, come avevano fatto Girolamo e Isidoro, all'identificazione dei libri della Bibbia corrispondenti alle tre parti della filosofia, affermava che alla logica "i nostri" sostituivano la "teologica", che in latino si chiama 'ispettiva' (Alcuino, De dialectica). Anche in Alcuino la filosofia includeva almeno sei delle arti liberali, ma tutte le arti sono per lui ciò a cui i filosofi dedicano impegno costante (Grammatica, in: PL, v. CI, col. 854 A: Per hos enim philosophi sua contriverunt otia atque negotia).

Sistematore della tradizione culturale in funzione della preparazione di coloro i quali volevano accedere agli ordini sacri, Rabano Mauro nel De clericorum institutione si rifaceva al programma agostiniano del De doctrina christiana, recuperando le "sette arti liberali dei filosofi" che erano utili ai credenti e includevano grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, musica, astronomia. Rabano aggiunse un capitolo sui 'libri dei filosofi', con la ripresa del tema agostiniano di spogliare i platonici, che ne erano ingiusti possessori, degli insegnamenti veri per metterli a profitto della dottrina cristiana (De clericorum institutione, III, 26). Nel più tardo De universo (XV, 1), Rabano fece poi riferimento alla tripartizione della filosofia in fisica, etica e logica, ritrovandone l'articolazione nella Sacra Scrittura, con formulazioni che richiamano quelle di Alcuino. Appena prima egli aveva riproposto la tripartizione della filosofia, presentandone l'articolazione di ciascuna parte alla maniera delle Differentiae di Isidoro (v. oltre, par. 2).

Giovanni Scoto Eriugena

Un notevole impulso alla speculazione carolingia sul rapporto tra arti, filosofia e insegnamento biblico fu dato da Giovanni Scoto Eriugena, che nel IX sec. prima si dedicò al De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, poi partecipò alla disputa sulla predestinazione e diede il suo capolavoro con il Periphyseon (De divisione naturae). Giovanni era convinto che filosofia e insegnamento biblico fossero profondamente identici e presentava la Sacra Scrittura come un mondo intelligibile organizzato a somiglianza di quello sensibile. Il mondo sensibile ha al centro la Terra, e intorno a essa le sfere dell'acqua, dell'aria e del fuoco; il mondo della Scrittura ha al centro il senso letterale e tutt'intorno il senso morale o etica, la scienza naturale o fisica, e infine la teologia, la contemplazione suprema della natura divina (Giovanni Scoto, Omelia sul prologo di Giovanni). Questa volta la tripartizione della filosofia (etica, fisica e teologia) ‒ le cui tracce sono state seguite da Origene e Girolamo a Isidoro, Alcuino e Rabano ‒ era messa a confronto con i sensi della Scrittura. Le parti della filosofia erano disposte a formare una scala, al sommo della quale stava la teologia, ma tutta la filosofia articolava i sensi delle Scritture (altrove, in Periphyseon, III, 29, Giovanni aveva fornito l'articolazione della filosofia in quattro parti: pratica o attiva, fisica o naturale, teologia, logica o razionale; v. sopra, riguardo a Origene sul Cantico dei cantici).

Non sorprende allora che Giovanni, commentando Marziano, identificasse la filosofia con la donna dall'aspetto grave alla quale si affidava Filologia e che affermasse che nessuno entra in cielo se non per mezzo della filosofia (Giovanni Scoto, Annotationes in Marcianum). Del resto, nel De divina praedestinatione (I, 1), Giovanni ‒ seguendo Agostino ‒ poneva l'equivalenza tra la filosofia e la vera religione, sicché la ricerca intellettuale di Dio doveva sottomettersi alle regole della filosofia; questa a sua volta si risolveva integralmente nella dialettica, che non ne era soltanto (platonicamente) la parte più nobile, ma ne costituiva la totalità. Infatti la filosofia si articolava in quattro vie, necessarie alla soluzione di ogni questione; esse erano note a Scoto grazie alle sue fonti greche ed erano rese con i nomi di 'divisiva', 'definitiva', 'dimostrativa' e 'resolutiva' (analitica).

La dialettica impiegata nel De divina praedestinatione era prevalentemente quella della definizione e della dimostrazione; i procedimenti dialettici della divisione e della 'resoluzione' erano invece adottati nel Periphyseon; la divisione presiedeva alla discesa dall'unità alla molteplicità e la resoluzione al ritorno del molteplice all'uno. Si è detto che le quattro vie della dialettica erano ritrovate da Giovanni Scoto nelle sue fonti greche; prima di lui Agostino, scrivendo della dialettica, ricordava soltanto due vie, la definizione e la divisione (De doctrina christiana, II, 35, 53, e 37, 55), mentre Porfirio e con lui Boezio presentavano, come si è visto, le tre operazioni del definire, dividere e argomentare.

Dal punto di vista di Giovanni Scoto, dunque, il sistema delle conoscenze aveva una profonda unità; se più immediatamente emergeva l'equivalenza tra religione e filosofia da una parte, filosofia e dialettica dall'altra, in realtà tutto il sapere aveva pari dignità. Le stesse arti erano indicate come 'liberali' in quanto apprese per sé stesse e percepite dall'anima che le ha naturalmente in sé a mo' di disposizioni prima che diventino abiti della mente; esse non vengono dall'esterno, ma sono innate nell'uomo (Giovanni Scoto, Annotationes in Marcianum). Poiché l'uomo, creato a immagine e somiglianza del Creatore, grazie agli 'studi' della sapienza riconosce la dignità della sua natura, pur offuscata dalla nebbia dell'ignoranza conseguente al peccato originale, la favola dell'ascensione al cielo di Filologia può essere intesa come ritorno dell'anima alla sua origine (del resto, le arti e gli studi della sapienza insiti nell'anima la rendono immortale; v. Mathon 1969). Un altro commento a Marziano del IX sec. presenta in questo modo il nesso tra possesso naturale delle arti, ignoranza dovuta al peccato originale e apprendimento: "Ogni arte naturale è posta nella natura umana e immanente in essa. Ne consegue che tutti gli uomini hanno naturalmente le arti naturali; ma poiché per la condanna del peccato del primo uomo "esse sono oscurate" nelle anime degli uomini e sono precipitate in una profonda ignoranza, quando impariamo non facciamo altro che richiamarle dal profondo della memoria in cui sono riposte" (Dunchad, Glossae in Martianum, p. 23).

Giovanni torna più volte sul tema delle arti liberali. Nel Periphyseon (V, 4), egli illustra il ritorno del molteplice all'uno facendo ricorso a esempi tratti dalle discipline liberali: dialettica, aritmetica, geometria, musica e astronomia. Il maestro non fornisce esempi di grammatica e retorica (l'elenco delle sette arti liberali è in I, 27, in: PL, v. CXXII, coll. 474 C-475 A), e il discepolo gliene chiede ragione; questi risponde che le ha omesse perché entrambe sono articolazioni della dialettica e perché trattano non della natura delle cose, come le altre arti, ma di invenzioni umane (argumenta [...] ex humanis inventionibus excogitata; secundum humana machinamenta). Se grammatica e retorica sono incluse tra le discipline liberali è perché esse 'aderiscono' alla dialettica, madre delle arti; esse, infatti, ne emanano come bracci secondari da un fiume, o "sono gli strumenti per mezzo dei quali la dialettica manifesta secondo l'uso umano le sue invenzioni intelligibili" (ibidem, col. 870 C).

Le arti meccaniche

La riflessione sulle arti meccaniche fiorì soprattutto nel XII sec., mentre appare frammentaria e sparsa nell'Alto Medioevo, quando si disponeva di spunti vari provenienti da diverse tradizioni tardo-antiche. Nella divisione della filosofia di origine aristotelica era assente, come si è detto, la collocazione delle conoscenze produttive accanto a quelle speculative e a quelle pratiche ('poietica' o produttiva è detta la conoscenza che produce un risultato concreto), era presente invece il rifiuto tradizionale per le arti banausiche (vale a dire quelle basate sul solo lavoro manuale), meccaniche o illiberali, e cioè per le arti che avevano a che fare con ciò che è mortale e terrestre, assolutamente diverso dal mondo celeste. Per questa ragione Marziano Capella narrava che Apollo respinse la medicina e l'architettura dalla compagnia delle arti liberali (De nuptiis Philologiae et Mercurii, 891; rispetto ai Disciplinarum libri IX di Varrone, in cui sono illustrate nove arti liberali, Marziano ritiene le prime sette ed esclude medicina e architettura); intanto erano utilizzati altri spunti di riflessione.

Nel De civitate Dei (XXII, 24) Agostino attribuiva tutte le arti all'intelligenza umana, le distingueva in necessarie e voluttuarie, ma metteva in luce che la mente poteva applicarsi anche a cose perniciose e pericolose. La distinzione in arti necessarie e voluttuarie richiama quella ciceroniana in arti ricreative (dipingere, modellare o suonare) e arti necessarie alla vita dell'uomo (agricoltura, edilizia, tessitura e così via; Cicerone, De natura deorum, II, 60, 150-152). Altrove (De doctrina christiana, II, 30, 47) il vescovo d'Ippona ricordava le arti che producono un utensile (ossia ciò che rimane a seguito dell'operazione dell'artefice), quelle che prestano un servizio all'opera di Dio (la medicina, l'agricoltura e la navigazione), e quelle il cui effetto si esaurisce nell'azione (danza, corsa, lotta) e la cui conoscenza serve soltanto per la comprensione della Sacra Scrittura. Nell'uno e nell'altro testo Agostino introduceva criteri di giudizio e proponeva una gerarchia di arti, considerandole in rapporto agli ideali morali e religiosi da lui sostenuti. Il risultato era la valutazione positiva delle arti produttive.

Per parte sua Girolamo di Stridone nella Epistula LIII ad Paulinum presbyterum, dopo aver menzionato le arti la cui conoscenza era necessaria per penetrare nella Sacra Scrittura (accanto a grammatica, retorica, geometria, dialettica, musica, astrologia, enumerava filosofia e medicina), giungeva a parlare delle "arti minori", che "non si servono tanto della ragione quanto della mano" (quae non tam lógō quam manu administrantur); l'opera di "agricoltori, muratori, fabbri, tagliatori di legno e di metalli, lanaioli e folloni e di altri che producono suppellettili e oggetti vili". Le arti minori non escludevano la ragione, tuttavia non si esaurivano in essa, anzi erano caratterizzate dall'intervento della mano. Il riferimento all'esecuzione manuale richiama l'elogio delle mani nel passo già ricordato del De natura deorum, nel quale Cicerone elencava e descriveva le arti di cui le mani sono strumenti, sostenendo che i risultati delle arti possono essere conseguiti applicando le mani degli artigiani a ciò che la mente scopre e che i sensi percepiscono, e per tale motivo si può dire che con le mani l'uomo cerchi di produrre una seconda natura nella natura delle cose.

Da ultimo, è da tenere presente Cassiodoro, che nelle Institutiones menzionava l'agricoltura (con relativa bibliografia consultabile nella biblioteca da lui organizzata), la coltura delle api, l'allevamento di colombi, la pesca (I, 28, 6). Egli mostrava di essersi interessato di "lucerne meccaniche" capaci di conservare la fiamma, e di orologi solari e ad acqua (I, 30, 4-5); raccomandava poi lo studio della medicina (I, 31), e indicava le principali applicazioni dell'astronomia (II, 7, 4). Inoltre, nella lettera, scritta per Teodorico, con la quale si chiedeva a Boezio di approntare due orologi per il re dei Burgundi, una meridiana e una clessidra ad acqua, Cassiodoro celebrava le competenze di Boezio ricordando che egli aveva appreso bevendo alla fonte delle discipline quelle arti che il volgo esercita senza sapere, e che con le sue traduzioni aveva reso accessibili la musica di Pitagora, l'astronomia di Tolomeo, l'aritmetica di Nicomaco di Gerasa, la geometria di Euclide, la teologia di Platone, la logica di Aristotele e la meccanica di Archimede. Concludeva facendo l'elogio del 'meccanico', considerato quasi socius naturae poiché scopre i segreti della Natura, ne muta le manifestazioni e gioca con i miracoli simulando in modo tale da dare l'impressione della verità (Cassiodoro, Variarum libri XII, I, 45; Della Corte 1981).

Questi spunti di riflessione furono più tardi recuperati sulla base di una divisione della fisica tramandata da Isidoro nei Differentiarum, sive de proprietate sermonum libri duo (II, 39). Distinte (con Cicerone, De inventione, I, 1) eloquenza (o scienza delle parole) e sapienza (o conoscenza delle cose e intelligenza delle cause), e identificata la sapienza con la filosofia, Isidoro riproponeva la tripartizione della filosofia in fisica, logica ed etica, presentando questa volta l'articolazione della fisica non in quattro ma in sette parti, cosicché astrologia, meccanica e medicina comparivano accanto alle quattro discipline del quadrivio; nel Liber numerorum qui in sanctis Scripturis occurrunt (8, 44, in: PL, v. LXXXIII, col. 188 B) questo stesso settenario era presentato come costituito dai "sette generi della filosofia"; le divisioni dell'etica e della logica erano quelle note. Isidoro forniva una definizione della meccanica (quaedam peritia vel doctrina ad quam subtiliter fabricas omnium rerum concurrere dicunt, "una perizia o dottrina alla quale ricorrono in modo sottile le produzioni di tutte le cose", Differentiae, col. 94 B) dalla quale essa risultava intesa come un concetto astratto, come il principio razionale di ogni produzione di oggetti, più che come insieme di concrete conoscenze e dottrine (Sternagel 1966).

Quanto alla presenza della medicina in questo contesto, è da ricordare che Isidoro le riservava un posto d'onore negli Etymologiarum sive originum libri XX (IV, 13, 1-5), dove si chiedeva perché la medicina non fosse posta tra le arti liberali e si rispondeva che le arti indicavano le cause di ciascuna cosa, mentre la medicina le abbracciava tutte e di tutte aveva bisogno, e perciò era chiamata 'seconda filosofia': medicina e filosofia infatti rivendicano entrambe tutto l'uomo; l'una ne cura il corpo, l'altra l'anima. A spiegare la presenza dell'astrologia (accanto all'astronomia) in questa classificazione sono state invocate varie ragioni, da quella delle fonti (Fulgenzio, nelle Mitologiae, III, 10, elencava le arti liberali includendovi medicina, astrologia e divinazione) a quelle pastorali (Díaz y Díaz 1969; Whitney 1990).

Lo schema di Isidoro di Siviglia, nel quale la meccanica era considerata parte della fisica (o filosofia naturale) e messa in connessione con il quadrivio, ebbe notevole fortuna. Fra gli altri, Adelmo di Malmesbury (m. 709) riprese più volte il settenario tramandato da Isidoro, presentandolo come l'insieme delle 'discipline dei filosofi' e distinguendolo dagli 'studi grammaticali', che raggruppavano grammatica, dialettica e retorica (Díaz y Díaz 1969; Whitney 1990). Un autore importante come Rabano Mauro (De universo, XV, 1) richiamava la classificazione isidorea della fisica in sette parti, riportandola ancora nel contesto della tripartizione della filosofia in fisica, etica e logica (con, naturalmente, le divisioni di queste ultime). Le definizioni delle sette parti della fisica, però, non erano più quelle date da Isidoro; Rabano Mauro utilizzava un'altra fonte (v. gli schemi di discipline editi in appendice al Dialogus de rhetorica et virtutibus di Alcuino), come si può chiaramente vedere nella definizione della meccanica quale "perizia della produzione dell'arte nei metalli, nel legno e nelle pietre" (peritia fabricae artis in metallis et in lignis et in lapidibus), segnando un passaggio dalla concezione isidoriana della meccanica come principio generale e astratto a quella che la considerava come conoscenza concreta delle arti produttrici di manufatti (Sternagel 1966). Nello stesso senso sembrano andare due testimonianze del IX sec., attribuite a Clemente Scoto e a Martino di Laon (819-875), le quali documentano che nel settenario di Isidoro le 'arti minori' di Girolamo erano menzionate al posto della meccanica (Whitney 1990); in realtà le arti minori erano già da tempo incluse nella 'fisica' accanto al settenario (Anonymus ad Cuimnanum, I, 7).

In queste testimonianze manca il sintagma 'arti meccaniche', che invece è documentato in Giovanni Scoto; nelle note sul De nuptiis di Marziano, egli parlava infatti delle 'sette arti meccaniche' che Filologia aveva dato in dote a Mercurio (Giovanni Scoto, Annotationes in Marcianum, pp. 59 e 74). Le arti meccaniche si differenziavano da quelle liberali perché queste ultime erano insite naturalmente nell'anima, mentre le arti meccaniche erano nell'anima non naturalmente, ma per invenzione umana (quadam excogitatione humana, imitatione quadam vel excogitatione humana fiunt; ibidem, pp. 86 e 96). Giovanni non si dilungava a spiegare la nuova formula, il che fa pensare che essa fosse già nota nelle scuole, ma è importante che egli presentasse le sette arti meccaniche come parallele alle sette arti liberali e insieme distinte da esse; le arti liberali avevano origine e fine nell'anima, mentre quelle meccaniche erano un prodotto umano con fine fuori dall'anima (Sternagel 1966); esse perciò non erano assimilabili alle prime. Si configurava così una nuova categoria del sapere alla quale Giovanni faceva posto tra il tradizionale rifiuto rappresentato da Marziano e l'inclusione della meccanica fra le arti liberali per il tramite del settenario isidoriano. La posizione di Eriugena è stata ripresa da Remigio di Auxerre, il cui commento a Marziano ha esercitato una notevole influenza.

È da notare infine che nella tradizione medievale il termine 'meccanico' era anche associato all'astrologia e alla magia, e talora era sostituito da 'matematico' (per Agostino i matematici erano gli astrologi, De doctrina christiana, II, 21, 32); si parlava perciò talora delle 'sette arti matematiche'. Inoltre, all'arte meccanica si attribuiva la proprietà di operare in segreto, e già alla fine del IX sec. era fornita l'etimologia del termine 'meccanico' come derivante da moechus, adultero (l'adultero agisce di nascosto; l'arte meccanica si sviluppa in segreto ed è invisibile); di qui più tardi derivò la qualifica di 'adulterine' per le arti meccaniche, le quali in effetti, paragonate alle arti liberali, risultavano essere 'non pure' (Sternagel 1966). In qualche caso, le arti meccaniche erano dette artes leviores; tra di esse erano enumerate arti che conservavano l'articolazione carolingia (metalli, legno, pietre), ma vi erano incluse anche abilità come la calligrafia e la pittura.

I generi letterari

I generi letterari in uso nell'Alto Medioevo riprendevano forme tradizionali dell'esposizione dottrinale e controversistica, come il trattato, l'epistola (intesa, quest'ultima, come strumento non soltanto di comunicazione, di istruzione e di discussione, ma anche di esposizione sistematica) e il dialogo. Ereditata da opere di grandi maestri quali Agostino e Boezio (la Consolazione della filosofia), la forma dialogica fu rilanciata da Alcuino nei suoi opuscoli didattici, articolati in domande e risposte, nonché utilizzata da Giovanni Scoto per la sua grande opera, cioè il Periphyseon. Il genere letterario del dialogo restò in uso fino al XII sec., scomparve praticamente nel XIII (ma è usato nel Soliloquium di s. Bonaventura e da Raimondo Lullo) e fu recuperato nel XIV sec. almeno a partire da Guglielmo di Ockham (Dialogus de potestate papae, 1334-1340).

Le opere di questo periodo ‒ fossero esse esegetiche oppure intese alla trasmissione della dottrina ‒ erano di frequente compilazioni che si giovavano di due termini, convenientemente illustrati dai dotti che se ne servivano: quello di defloratio e quello di excerptio. L'idea di defloratio è illustrata nell'Epistula ad Gislam et Richtrudam di Alcuino; come i medici sono soliti raccogliere molte erbe di specie diverse allo scopo precipuo di ottenere un farmaco valido a giovare al paziente, senza tuttavia attribuirsi il merito di aver creato le erbe e gli altri elementi la cui composizione produce la salute dei malati, ma riconoscendosi soltanto come ministri nella raccolta e nella preparazione, così lo stesso Alcuino si proponeva di operare nel raccogliere flores dai prati fioriti di molti Padri. Di altri 'padri' si propone di fornire poi 'interpretazioni', servendosi più delle loro stesse parole che delle proprie, e badando a non porre qualcosa che risultasse contraria alle intenzioni degli autori. Si trattava in ultima analisi di una procedura che era mirata a condensare gli insegnamenti dei Padri per chi avesse bisogno di strumenti che lo aiutassero nella ricerca della verità.

Quanto all'excerptio, che consisteva nel selezionare passi riportati alla lettera da una o più opere, Ermerico di Ellwangen (m. 871) ne dava una giustificazione pedagogica: si trattava di presentare ai giovani in modo adeguato estratti letterali di testi concernenti una certa disciplina, in modo che essi potessero raggiungere un'adeguata comprensione di essa, per poi attingere direttamente alla fonte da cui era stata dedotta l'acqua loro fornita (Epistula ad Grimaldum abbatem).

La terminologia usata era distinta, ma excerptio e defloratio andavano nella stessa direzione. Nacque in tal modo il genere letterario del florilegio, una raccolta di estratti in cui non c'era intervento da parte del curatore, se non minimo (per compendiare o per rendere più comprensibile il testo). I florilegi sono classificati badando ad alcuni parametri, come, per esempio, la scelta delle opere degne di essere deflorate o l'organizzazione degli estratti (secondo l'ordine dei testi su cui si operava, in puro ordine alfabetico, oppure in modo sistematico secondo i temi considerati). Il compilatore aggiungeva talora titoli o sottotitoli allo scopo di riassumere il contenuto degli estratti, e premetteva una prefazione o prologo. In breve, il florilegio riuniva in forma comoda ciò che meritava di essere conservato e che poteva essere sempre consultato, come un vademecum.

Questo genere letterario conobbe un'evoluzione nel passaggio dall'Alto al Basso Medioevo; nell'Alto Medioevo serviva principalmente a raccogliere i testi indispensabili all'insegnamento, come testimonia Ermerico, ma con l'aumento dei libri disponibili a partire dal XII sec. ‒ soprattutto in seguito alle traduzioni di opere filosofiche e scientifiche dal greco e dall'arabo ‒ i florilegi aiutarono a dominare e a filtrare una massa enorme di informazioni, a renderla facilmente fruibile, e insieme costituirono anche un repertorio di citazioni (Gibson 1969; Munk Olsen 1982; Rouse 1982; Hamesse 1993).

Quanto ai commenti a libri di testo (fra i quali sono state ricordate le Annotationes di Giovanni Scoto su Marziano Capella), si trattava per lo più di brevissimi interventi su singole parole del testo esaminato (di cui si fornivano i sinonimi, o s'introducevano elementi indispensabili alla comprensione di esse o del contesto); soltanto talora l'intervento del maestro si allargava a una più ampia disamina del contenuto dottrinale, per il quale forniva gli elementi indispensabili di comprensione. Le forme più comuni di intervento sui testi erano quelle della glossa e del commento, sulle quali si leggono interessanti precisazioni nelle Derivationes di Uguccione da Pisa (sotto la voce glossa) e in altre opere. In ogni testo commentato si distingueva la 'lettera', con le sue articolazioni, e il 'senso' o 'sentenza', il contenuto dottrinale di esso.

La differenza tra commento e glossa era così stabilita: commento in senso proprio era l'esposizione delle parole, che non prendeva in esame la lettera e la sua articolazione, ma considerava il senso e serviva all'esposizione della sentenza di un libro, mentre, in senso ampio, commento era qualsiasi libro, e cioè la raccolta di più conoscenze condotta con studio o dottrina. Per contro, la glossa era insieme l'esposizione della sentenza e della lettera, di cui si mostravano le articolazioni e le connessioni; perciò si diceva che la glossa era come la lingua, cioè come se la lingua del docente fosse presente ed esponesse, insistendo sulla lettera ed enucleandone il senso. Glossa era perciò il risultato della lezione sul testo e glossare era l'attività che si svolgeva nella lezione. Queste distinzioni valevano nella pratica d'insegnamento di tutte le discipline, dalla filosofia al diritto (Jeauneau 1982; Fransen 1982).

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