La scienza presso le civiltà precolombiane. Pratiche di calcolo nell'antica Mesoamerica

Storia della Scienza (2001)

La scienza presso le civilta precolombiane. Pratiche di calcolo nell'antica Mesoamerica

John S. Justeson

Pratiche di calcolo nell'antica Mesoamerica

La matematica mesoamericana si è sviluppata al di fuori del percorso storico che ha condotto alla matematica occidentale moderna; sarebbe dunque del tutto fuorviante cercare di analizzare il suo sviluppo nel quadro delle teorie matematiche astratte del moderno pensiero matematico europeo e americano, in quanto ciò equivarrebbe a presupporre che certe caratteristiche siano inerenti a ciascuna matematica soltanto in virtù del fatto di essere delle caratteristiche matematiche, e che esista uno schema comune che possa essere usato come chiave d'accesso per qualsiasi matematica antica. Al massimo, ciò è vero in quanto il numero e la numerazione sono elementi essenziali di ogni sistema di pensiero matematico, o perlomeno delle sue prime fasi di sviluppo, come dire, in altri termini, che la loro presenza ci porta a etichettare un sistema come 'sistema matematico'. Condurre studi comparativi con riferimento a una particolare tradizione matematica porterebbe pregiudizio su ciò che si potrebbe scoprire riguardo ad altri sistemi indipendenti di conoscenza e di pratica, e ridurrebbe la nostra capacità di scoprire, empiricamente, che cosa vi sia di universale nei sistemi matematici e nell'evoluzione del sapere matematico, come pure di riconoscere strutture che non abbiano mai fatto parte, o che non facciano più parte, della nostra matematica.

L'approccio qui seguito consiste nell'interpretare la matematica mesoamericana come il mezzo con cui gli antichi Mesoamericani concepivano i numeri e la numerazione, cioè a partire dalla loro 'cognizione numerica'. Questo approccio si situa nell'ambito dello studio dei modi di vedere e di procedere dei Mesoamericani, con la conseguenza di vedere la matematica mesoamericana da un punto di vista etnologico, interessata cioè ai punti di vista e alle usanze dei popoli; una via diretta per indirizzarsi verso altre matematiche e ciò che i praticanti di esse avevano creato nel loro ambito, sebbene si siano compiuti soltanto passi molto limitati nello sviluppo in tale direzione.

La 'cognizione' in generale è costituita dalla rappresentazione delle conoscenze e dai processi che operano su quelle rappresentazioni. A causa delle sollecitazioni selettive cui sono soggetti l'intelligenza e il modo di comportarsi degli uomini, la cognizione in generale si è evoluta in modo che, a livello del sistema nervoso centrale, i processi che operano sulle rappresentazioni di date conoscenze tendono a dare luogo a rappresentazioni di altre appropriate conoscenze, e ciò ha importanti conseguenze per i sistemi d'inferenza simbolica, quali sono quelli della matematica. Per esempio, ciò significa che un procedimento additivo che operi su rappresentazioni di numeri di certe entità porta normalmente alla rappresentazione del numero totale di queste entità, come nell'aritmetica commutativa elementare. Passando alla 'cognizione numerica', quello che è fondamentale in essa è la rappresentazione delle conoscenze relative al numero e alla numerazione, nonché alle operazioni che sono effettuate su tali rappresentazioni. In questa sede l'analisi si focalizzerà in particolare sulla comprensione del significato del numero così come si presenta nelle strutture e nei significati alternativi dei termini numerici nelle lingue mesoamericane nonché nelle loro rappresentazioni visuali, e sull'analisi della numerazione utilizzata nei procedimenti di conteggio e di calcolo. Tale atteggiamento mentale vale in particolare nell'esaminare lo sviluppo del concetto di 'zero matematico' nella Mesoamerica antica. In questo caso, il livello di concretezza o di astrazione delle rappresentazioni o delle operazioni non è in discussione, e per la natura stessa dell'argomento trattato ‒ un sistema matematico antico ‒ l'analisi si concentrerà sulle testimonianze scritte che ci consentono l'accesso alla maggior parte degli aspetti visivi delle rappresentazioni simboliche e alle pratiche di queste civiltà; esse sono sostanzialmente le uniche fonti a nostra disposizione sugli algoritmi o sulle procedure matematiche, anche se gli elementi fondamentali sono in qualche modo tuttora presenti nelle lingue e nelle pratiche culturali contemporanee.

I numeri e il conteggio

Gli elementi di base dei sistemi matematici includono sempre i numeri e il contare è sempre una delle operazioni fondamentali. Nell'assiomatizzazione occidentale dell'aritmetica questi fattori sono collegati attraverso il concetto di 'numero successore' ‒ cioè di ente di una successione che differisce dal precedente e dal successivo per l'unità di conto ‒, ma sono anche interrelati dalla concezione intuitiva di numero che si ha in tutto il mondo. Uno dei modi per comprendere come sia concepito il numero passa attraverso la sua rappresentazione nel linguaggio (Hurford 1987). In tutto il mondo, i sistemi linguistici per la rappresentazione dei numeri mostrano grandi somiglianze nella loro struttura di base. Tutte le lingue hanno uno o più termini numerici ‒ cosiddetti 'numerali' ‒ che non sono composti da due o più termini numerici e sono detti 'numerali di base'; alcune lingue hanno soltanto numerali di base e non hanno alcuna espressione convenzionale per numeri più grandi; tra esse, la lingua sudamericana Botocudo ‒ stando a quel che si dice ‒ ha soltanto i termini 'uno' e 'molti' e nessuna ha parole per designare numeri maggiori di 'quattro'. Altre lingue posseggono numerali composti per numeri modestamente grandi, ottenuti componendo additivamente i pochi numerali di base.

La maggior parte delle lingue possiede, tuttavia, espressioni convenzionali per i numeri sostanzialmente più grandi e la loro struttura essenziale è simile a quella di un'espressione algebrica polinomiale. Ricordiamo che ogni numero positivo intero n può essere rappresentato in maniera univoca da un insieme di 'coefficienti' ci (0≤cib−1) e da una 'base' intera b>1, in maniera tale che, se bmnbm+1, allora esiste un solo insieme di valori per questi coefficienti per cui si ha n=cmbm+cm-1bm-1++c1b1+c0b0. In quasi tutte le lingue si usano espressioni che hanno una struttura essenzialmente simile; esse sono per lo più additive, implicando somme di multipli di potenze di una qualche base costante b (10 nei sistemi di numerazione decimali, 12 in quelli duodecimali oppure 20 in quelli vigesimali). Vi sono parole convenzionali per l'insieme di cifre da 1 a (b−1), usate in luogo dei coefficienti ci, e per alcune delle prime potenze della base (per es., dieci, cento, mille), usate al posto delle bi. I termini di tali espressioni sono in ordine decrescente delle potenze della base, cosicché il primo termine stabilisce l'ordine di grandezza del numero. Tali strutture furono usate in tutte le lingue mesoamericane precolombiane, con l'aggiuntiva peculiarità comune della base b=20; come è stato accennato, questa è la cosiddetta numerazione 'vigesimale'. Quasi tutti questi linguaggi possedevano parole indipendenti, cioè non formate da altre parole indicanti numeri, per 20, 400 e 8000. Nel corso del XVI sec., immediatamente dopo lspagnola della Mesoamerica, fra le popolazioni parlanti la lingua maya dello Yucatan furono documentati termini fondamentali per le potenze di 20 fino a 206 (64 milioni). Molti termini usati per alcune delle prime potenze di 20 erano parole che denotavano contenitori; per esempio, un sacco per il cacao si diceva che potesse contenere 8000 (203) semi, e molte lingue mesoamericane basavano la loro parola per '8000' su questa immagine: pik nella lingua dei Maya delle pianure derivava infatti da *pe:q ('cacao') e xikipilli ('sacco') nella lingua nahuatl. Per la maggior parte, i moltiplicatori in queste espressioni algebriche corrispondono esplicitamente a termini linguistici per i numeri da 1 a (b−1).

L'unico elemento del formalismo algebrico che non è presente in alcuna di queste lingue è l'uso dello zero come moltiplicatore di una delle potenze della base; se nell'espressione algebrica uno dei coefficienti ci associati alla corrispondente potenza bi fosse stato uno zero, allora le parole per quella potenza e per il suo fattore sarebbero semplicemente assenti dall'espressione linguistica. Ma anche il termine per 'uno' spesso non è usato come moltiplicatore.

D'altra parte, un aspetto che distingue le espressioni linguistiche per i numeri grandi dalle corrispondenti rappresentazioni algebriche formali è che le prime incorporano di rado le operazioni aritmetiche, che sono invece presenti nelle seconde. Le forme del linguaggio corrispondenti ai termini bi non includono mai direttamente un termine esponenziale e quasi mai contengono termini corrispondenti sia alla base sia all'esponente; piuttosto, le potenze basse della base sono rappresentate da opportuni numerali semplici. Raramente la moltiplicazione è espressa direttamente e solitamente anche l'addizione non è esplicita. La moltiplicazione ha il suo modello linguistico nell'enumerazione; per esempio, nel linguaggio si parla di 3 decine come di 3 mele, e tali espressioni esemplificano i sistemi di numerazione linguistici. Infatti, in queste espressioni le potenze della base sono trattate come se fossero unità di misura (per es., pinte, quarti e galloni, oppure sacchi, come ricordato poco sopra) e possono essere enumerate come qualsiasi altra entità.

Una tale caratterizzazione diviene ovvia in quelle lingue nelle quali la struttura grammaticale è sensibile alla differenza tra enumeratori e unità di misura; per esempio, nelle lingue 'a classificatori e numerali' ‒ come quelle parlate nelle pianure abitate dai Maya ‒ ogni elemento enumerato ha un classificatore che accompagna il numerale; nei numerali di ordine superiore, le potenze della base fungono da classificatore (Greenberg 1972). Una deviazione comune dal trattare le potenze della base come unità enumerate si presenta quando i termini per le unità non sono pluralizzati; ciò risulta naturale nelle lingue a classificatori e numerali, dove l'indicatore del plurale è facoltativo e non si ritrova mai sui classificatori. Una siffatta configurazione si trova pure in italiano ('duecento' e non 'duecenti') e in altre lingue, quale l'inglese (two hundred e non two hundreds), in cui i suffissi per il plurale sulle entità enumerate sono richiesti grammaticalmente, ma si tratta di un risultato accidentale della modificazione storica dei suffissi grammaticali.

Il linguaggio e il contare

Se il numero è il soggetto fondamentale della matematica, allora il conteggio rappresenta uno dei suoi fondamenti operazionali più essenziali. Contare significa assegnare un elemento di una successione ordinata di numerali a ciascun membro di un gruppo di individui, essendo il numero finale del conteggio uguale al numero totale di individui del gruppo. La pratica del contare è presumibilmente il substrato del concetto di numero, perlomeno nei sistemi che possiedono espressioni convenzionali per indicare quantità dell'ordine delle centinaia e maggiori, come mostrano le numerose tracce dell'ordine seriale che si ritrovano nel lessico dei numeri e della numerazione.

La maggior parte delle lingue possiede un insieme di numerali 'ordinali', cioè parole che si riferiscono alle posizioni dei numeri all'interno di una serie ordinata. Solitamente, questi numerali hanno una relazione grammaticale regolare con i numerali cardinali in quanto, in genere, l'ordinale è derivato dal cardinale. Nelle lingue maya, come pure in molte altre, un numero ordinale è una forma possessiva del cardinale; per esempio, nella lingua maya dello Yucatan ka' vuol dire 'due', e u-ka' 'secondo'. Nelle lingue zapoteche, invece, la forma fondamentale per le parole che designano i numeri è l'ordinale, e i numeri cardinali sono derivati da essi; per esempio, nella lingua protozapoteca si ha *tyoppa per 'secondo' e *k-tyoppa per 'due'.

Nelle lingue che hanno termini convenzionali per i numeri più grandi, la struttura interna di questi termini contiene sempre un riflesso diretto del concetto di 'successore' e quindi del 'contare'. Molti di essi hanno una struttura additiva, consistente in parole per i numeri da addizionare sino a ottenere il numero rappresentato dal termine composto, e in molti casi queste parole sono multipli del numero di base del sistema; così, nella numerazione vigesimale della maggior parte delle lingue mesoamericane, i termini per i numeri da 21 a 39 sono ottenuti combinando la parola usata per indicare 20 con l'appropriato termine per i numeri da 1 a 19. Strutture di questo genere inducono successive serie di numeri, e serie con serie, che riproducono analogicamente la serie di base dei successori da 1 a 19. Caratteristico delle lingue mesoamericane è invece il fatto piuttosto raro che i numeri minori della base siano anche composti additivamente, combinando numerali più piccoli con i termini per metà (10) o un quarto (5) della base 20. Nella maggior parte delle lingue maya, per esempio, i nomi dei numeri da 1 a 10 sono parole fondamentali, cioè non sono ulteriormente analizzabili come composte da parti, ma quelle che designano i numeri da 11 a 19 hanno una struttura del tipo n+10; altre lingue maya rappresentavano 11 e 12 come balunh-ka' e lajunh-ka', rispettivamente 9+2 e 10+2.

La struttura dei numerali nelle lingue mixe-zoque (parlate nel Messico centromeridionale) è notevolmente più complicata. Per i numeri da 1 a 5, così come per 10, 20, 400 e 8000, si hanno numerali semplici. I numerali da 6 fino a 9 hanno essenzialmente una struttura 5+n, anche se l'elemento che corrisponde a 5 in queste parole non è una parola per 'cinque'; i numerali da 11 a 19 sono tutti del tipo 10+n. L'antenato comune di tutte queste lingue era una lingua parlata dagli Olmechi; tale sistema trae dunque la sua origine dalla prima civiltà che ebbe una profonda influenza su tutta l'area geografica mesoamericana. I numerali in nahuatl, la lingua degli Aztechi, avevano la stessa struttura, con l'eccezione del 15, per il quale vi era una parola speciale, e dei numerali da 16 a 19, che avevano la forma 15+n.

La lingua protozapoteca era parlata nella valle di Oaxaca intorno al 500 a.C., quando la civiltà di quella regione cominciava a divenire una potenza internazionale. In tale lingua, i numerali da 1 a 10 erano parole non scomponibili, come nella lingua dei Maya, mentre gli altri erano simili a quelli mixe-zoque: i numerali da 11 fino a 14 avevano la struttura 10+n; 15 era formato in maniera analoga, con l'eccezione che l'elemento corrispondente a 5 non era una parola per il 5 (di nuovo un richiamo al sistema n+'5' della lingua mixe-zoque); infine, i numeri da 16 a 19 erano del tipo 15+n.

Il concetto di 'successore' talvolta ha un ruolo anche nelle espressioni sottrattive, nelle quali i numeri vicini alla base del sistema, o a un suo multiplo, sono espressi in termini della differenza rispetto alla base o a quel multiplo. Nell'etrusco e nel latino, per esempio, 18 e 19 erano intesi come, rispettivamente, '20 mancante di 2' e '20 mancante di 1', una terminologia che condusse alla rappresentazione numerica dei Romani di IX per 'nove' (e in una prima fase di IIX per 'otto'). Numerali sottrattivi sono peraltro poco frequenti nella Mesoamerica; i Pokomani esprimevano effettivamente i numeri da 391 a 399 come '400 meno n', con n da 9 a 1. Dal punto di vista linguistico-comparativo un unico schema tipizza le lingue maya, nelle quali i numeri oltre 20 erano espressi nei termini dello scorrere delle unità piuttosto che in riferimento a gruppi completi; pertanto, 46 è rappresentato come un 6 nella terza ventina piuttosto che come un 6 oltre la seconda ventina.

Una peculiarità dei linguaggi mesoamericani è quella di non avere alcun vocabolo numerico convenzionale per le frazioni; non è mai stata riscontrata, infatti, alcuna rappresentazione di frazioni, nemmeno nei testi geroglifici mesoamericani. Alcune tabelle numeriche maya mostrano che gli specialisti del calendario avevano sviluppato particolari tecniche di calcolo atte a trattare i casi che nella tradizione occidentale erano rappresentati per mezzo della matematica dei numeri non interi.

Il corpo e il conteggio

In molte culture, la numerazione è simbolizzata dalla metafora del dito e le operazioni basilari sui numeri sono isomorfe alle operazioni del contare con le dita. Il vocabolario numerico di molte lingue trae origine da un sistema per contare in cui le parole che indicano i numeri più piccoli fanno riferimento più o meno esplicito alla mano o al dito; per esempio, esistono espressioni quali 3='dito medio', 5='mano', 6='l'altra mano', 10='completo', e così via. Nella Mesoamerica è dunque assai improbabile che la corrispondenza della struttura dei numerali alle dita del corpo (le cinque dita della mano, le dieci dita delle mani e le venti dita di mani e piedi) sia una semplice coincidenza. Questa relazione esiste anche dove manchi una giustificazione etimologica; così, nelle lingue maya dei Lacandoni e dei Chontal una nuova parola per '5' fu fatta derivare dal termine per 'mano'.

fig. 2a-d

I sistemi di conteggio basati sulle dita ‒ ampiamente sviluppati anche in altri ambiti, come le regioni bagnate dal Mediterraneo, dove sono noti come sistemi di 'indigitazione' ‒, tutt'oggi in uso presso gli indigeni mesoamericani, erano assai diffusi in epoca precolombiana. I testi classici zapotechi forniscono la migliore evidenza al riguardo: i segni per 1 fino a 4 (fig. 2a-d) rappresentavano il palmo di una mano destra con le dita rivolte verso sinistra; il conteggio partiva dall'indice e proseguiva verso il basso. Il modo in cui erano rappresentati i numeri maggiori di 4 non è certo, e la fig. 2e-j presenta un'ipotesi in proposito: una mano chiusa (fig. 2j) avrebbe potuto rappresentare il 10. Nei geroglifici vi sono anche tracce meno esplicite del contare con dita in immagini che non rappresentano la mano; per esempio, nei più antichi testi zapotechi sono usati un dito o due dita per rappresentare 1 o 2, mentre nei testi epi-olmechi e maya è usato un pollice per il numero 1, ed evidentemente si contava dal pollice in giù e non si usava mai più di un simbolo di pollice, presumibilmente perché ciò non sarebbe stato possibile nel conteggio sulle dita, nel quale il pollice aveva la funzione di cursore per le altre dita; tali differenze suggeriscono l'esistenza di sistemi diversi di conteggio. Solitamente, per rappresentare i numeri era usato un sistema più astratto 'barra-punto', in cui ciascun punto rappresentava un 1 e ciascuna barra rappresentava un 5, entrambi in maniera additiva. Nei testi mesoamericani più antichi non si trovano mai più di tre barre e di quattro punti, quindi soltanto i numeri da 1 a 19 erano rappresentati in tale modo. La struttura di questo sistema di numerazione ‒ che contrasta con la maggior parte degli antichi sistemi nel vecchio mondo, che usavano l'incisione di tacche per la visualizzazione dei numeri, quasi tutti basati sul 10 ‒ corrisponde direttamente a quella delle lingue mixe-zoque e potrebbe essersi modellata su queste ultime; esso potrebbe essere stato concepito dunque tra gli Olmechi, almeno tra quelli che parlavano una lingua mixe-zoque. Sebbene il ricorso alle dita costituisca un mezzo ampiamente utilizzato per rappresentare numeri e per contare, cifre numeriche possono essere rappresentate mediante un'arbitraria corrispondenza con qualcosa di diverso; basta pensare, per esempio, al sistema di contrassegni in uso nella Mesopotamia. Tra i Mesoamericani, i Maya delle pianure potrebbero avere usato un sistema simile, rappresentando le cifre da 1 a 12 mediante i volti di certi dèi; in pochi di questi casi, tuttavia, è possibile trovare una base linguistica per rappresentazioni di questo tipo.

Algoritmi

Tipico del pensiero matematico avanzato è lo sviluppo degli algoritmi, cioè di procedure formalizzate o di routine per operare su rappresentazioni di dati allo scopo di produrre rappresentazioni di soluzioni di problemi numerici. Gran parte della storia delle teorie matematiche occidentali ha riguardato lo sviluppo e l'assiomatizzazione di tali formalismi e dei concetti intuitivi che essi presuppongono, permettendo in questo modo alla matematica di allontanarsi da un dominio puramente numerico.

Contrariamente alle più antiche tradizioni intellettuali documentate del vecchio mondo, le civiltà mesoamericane non ci hanno lasciato né descrizioni esplicite di teorie matematiche, né testi riguardanti esercitazioni che possano illustrare le tecniche di calcolo che s'imparavano nelle scuole. Abbiamo a disposizione soltanto insiemi di dati le cui strutture riflettono in maniera parziale tali tecniche; per esempio, i manoscritti geroglifici maya contengono alcune tavole costituite da multipli selezionati di vari numeri interi e da alcuni numerali usati per adattare siffatte tabelle allo scopo di maneggiare quantità ricorrenti con valori medi non interi. La struttura di queste tavole ci fornisce una base per ricostruire parte della conoscenza matematica e delle tecniche in uso negli ultimi secoli precedenti l'invasione spagnola della Mesoamerica. Inoltre, alcune particolari raccolte di dati forniscono ulteriori evidenze relative allo sviluppo del concetto matematico di zero presso gli antichi popoli mesoamericani.

La matematica del tempo

La numerazione che compare nelle iscrizioni e nei manoscritti mesoamericani è in larghissima misura di tipo cronologico. Alcuni antichi manoscritti del Messico centrale usano numeri per registrare tributi dovuti all'Impero azteco, ma le tavole numeriche strutturate sono esclusivamente di natura temporale e sono spesso associate a conoscenze astronomiche, fungendo da modelli per calcolare i tempi di occorrenza di fenomeni quali eclissi lunari e solari e, per quanto riguarda i pianeti, il sorgere e il tramontare, nonché il loro moto retrogrado. Quasi tutta la nostra conoscenza della matematica mesoamericana proviene da dati di tipo cronologico.

I Mesoamericani raggiunsero un elevato grado di sofisticatezza nella previsione di questi fenomeni naturali, per la quale utilizzavano come risorse le strutture dei loro sistemi per il calendario. Due di tali sistemi ‒ il 'calendario rituale' (detto anche 'calendario sacro') e il calendario dell''anno vago' ‒ pare che fossero in uso in tutta la Mesoamerica all'inizio del XVI sec. e probabilmente lo erano stati nei precedenti 2000 anni; un terzo sistema assai importante, il 'computo lungo' (long count), era in uso nel Sud-est della Mesoamerica, tra gli Epi-olmechi e i Maya.

Il calendario rituale

Questo calendario, noto come il 'conta giorni', era quello maggiormente usato nella vita quotidiana dei Mesoamericani. Esso era utilizzato dagli indovini per determinare quanto potesse essere fortunato un dato giorno per compiere certe attività, e sulla sua base erano programmati alcuni riti sacri, come i famosi roghi cerimoniali dei Maya dello Yucatan.

Il calendario rituale comprendeva 260 giorni ed era composto da due cicli indipendenti e concorrenti, uno di 13 giorni e l'altro di 20 giorni; a causa di questa struttura, non è plausibile che la sua lunghezza rappresentasse un'approssimazione di vari cicli naturali, come talvolta è stato suggerito. Dei due cicli, quello più importante era forse il ciclo di 20 giorni, a ciascuno dei quali era assegnato un nome. Presumibilmente, questo ciclo era un'applicazione alla misura del tempo del fondamentale sistema di numerazione vigesimale dei Mesoamericani, in analogia con la consuetudine dei pellirosse del Nordamerica di formare gruppi di 10 per contare i giorni all'interno del mese lunare; del resto, la numerazione vigesimale era alla base anche dell'anno vago, di cui diremo più avanti. Sembra che i 20 giorni del ciclo avessero nomi che in origine erano quelli di piante, animali e forze della Natura; in alcune culture mesoamericane, tale circostanza è stata talvolta oscurata per via dei nomi mutuati da altre lingue, dei cambiamenti linguistici, e probabilmente di qualche sostituzione. Questi 20 giorni erano posti in una sequenza fissa, quasi sempre la stessa nelle differenti culture. In questa sede, essi saranno denotati da un numero romano con deponente il numero dei giorni del ciclo annuale cui ci si riferisce: per esempio, I260, II260, …, XX260 per il calendario rituale. In ogni caso, qualunque sia stata la sequenza particolare, un dato giorno si ripeteva soltanto se erano trascorsi venti giorni, o un multiplo di venti giorni; ancora oggi gli indovini attribuiscono a ciascuno di questi giorni una diversa fortuna.

L'altro ciclo che costituiva il calendario rituale era composto, come detto, da 13 giorni; a ciascuno di essi era assegnato un numerale, da 1 a 13 in sequenza, cosicché un dato giorno si ripeteva soltanto dopo che erano trascorsi 13 giorni o un multiplo di 13. Questi numerali modificavano, linguisticamente, senza avere un valore enumerativo, il nome del giorno. Ogni numerale possedeva una distinta identità nel rituale sacro e ogni gruppo di 13 giorni, o trecena (che possiamo rendere in italiano con 'tredicina', in analogia con 'quindicina'), era governato da una di 20 divinità, associata in particolare con il primo dei 13 giorni della serie e, quindi, anche a uno specifico giorno del ciclo di 20.

I due cicli procedevano indipendentemente, cosicché la sequenza dei giorni era 1 I260, 2 II260, 3 III260, …, 12 XII260, 13 XIII260, 1 XIV260, 2 XV260, …, e così via sino ad avere, alla fine della ventesima tredicina, 11 XVIII260, 12 XIX260, 13 XX260; essendo 13×20=260, dopo 260 giorni si ripeteva la stessa combinazione di numerali e di nomi dei giorni, e ciò giustificava l'adozione di questo numero di giorni per la lunghezza dell'anno. Gli indovini facevano uso di questo sistema finito di possibilità per controllare e influenzare sia i cicli della Natura sia i destini di ciascun essere umano. In gran parte della Mesoamerica, alle persone era assegnato il nome del giorno in cui erano nate, e presso alcune popolazioni si usava la stessa parola per indicare 'giorno' e 'nome'.

Il calendario rituale ha origini assai remote, e ciò si può dedurre dai vocaboli usati dai Maya per indicare i nomi dei giorni; il nome del giorno tinhax, per esempio, non ha alcun significato nel vocabolario ordinario ed è stato soggetto, in varie lingue maya, a cambiamenti che ci permettono di farne risalire l'origine almeno al 1000 a.C. ca., ossia a molto tempo prima che i Maya esercitassero un'influenza significativa sui popoli rivali della Mesoamerica, in un'era prossima all'inizio del dominio degli Olmechi. Probabilmente fu proprio a partire dagli Olmechi che il calendario si diffuse attraverso tutta la Mesoamerica. Essi furono i primi a estendere la propria influenza su una vasta area geografica e a raggiungere un livello di organizzazione politica tale da permettere loro di erigere architetture pubbliche particolarmente importanti e d'intraprendere grandiosi lavori di arte monumentale per glorificare i propri governanti. Gli Olmechi erano un popolo delle pianure e molti nomi da loro attribuiti ai giorni erano relativi a creature della pianura; quando il calendario fu poi adottato dai popoli degli altipiani, molti di questi nomi continuarono a essere usati, mentre nessun calendario dei popoli della pianura conteneva nomi di creature degli altipiani; questo probabilmente poteva rientrare in una strategia dei gruppi elitari delle culture degli altipiani per emulare la civiltà olmeca al fine di aumentare il loro potere e prestigio locale.

Un'altra caratteristica che potrebbe essere stata mutuata dagli Olmechi era l'usanza, ricordata prima e ampiamente diffusa, di chiamare i bambini con il nome del giorno della loro nascita secondo il calendario rituale. Senza dubbio, a tale usanza era attribuito un significato sacro per il fatto che il bambino nasceva usualmente entro una tredicina dalla data del primo ciclo mestruale mancante della madre, dopo un ciclo del calendario. La metafora della ricapitolazione ciclica della vita della madre nel figlio, che da qui derivava quasi necessariamente, forniva un buon motivo per guardare al calendario come a un mezzo sacro e divinatorio per fare fronte a tutte le preoccupazioni tipiche delle donne incinte, per esempio nei confronti di malattie e incantesimi. La pratica di assegnare al neonato il nome del giorno di nascita è ben documentata per i 2000 anni precedenti la descrizione che di essa diedero gli Spagnoli nel XVI sec.; essa aveva pure riflessi nei vocabolari di alcuni gruppi mesoamericani: per esempio, nel proto-mixe-zoque ‒ una lingua parlata dai primi Olmechi ‒ essa si rifletteva nell'uso della parola sūw, che significava 'giorno', come vocabolo per 'nome'.

L'anno vago

Questo secondo sistema della calendaristica mesoamericana, di 365 giorni, era il campo d'azione dell'autorità civile, ed era sulla base di esso che erano programmate le cerimonie civiche nell'ambito di una data comunità, specialmente al termine di un anno e all'inizio dell'anno seguente.

Mentre la struttura del calendario rituale è assolutamente estranea alla cronologia europea (originariamente, romana), quella dell'anno vago le è strettamente vicina. L'anno vago era però suddiviso in 18 unità a ciascuna delle quali era assegnato un nome, analogamente ai 12 mesi dell'anno di molti calendari del vecchio mondo, e il numero dei giorni in ciascuno di questi 18 'mesi' era sempre uguale a 20; quest'ultima circostanza rappresentava un'altra applicazione del sistema numerico vigesimale alla misura del tempo. Dopo 18 di questi mesi, cioè dopo 360 giorni, vi era un gruppo di 5 giorni che erano generalmente considerati nefasti, e ai quali, presso taluni gruppi, non era assegnato alcun nome. La durata di 365 giorni dell'anno vago non fu mai modificata con l'introduzione di giorni aggiuntivi allo scopo di mantenere una relazione fissa tra l'anno civile e quello solare, ossia tra il calendario e le stagioni; per i popoli mesoamericani la struttura formale del tempo era infatti considerata inviolabile e i cicli naturali dovevano essere compresi mediante questa struttura formale, che peraltro non poteva in alcun modo essere modificata.

I due calendari, rituale e dell'anno vago, erano collegati dal fatto che nell'anno vago c'era un giorno 'cardinale', il cui nome nel calendario rituale era il nome dell'anno; quel giorno, sempre il primo o il 360-esimo, era in vario modo visto come il portatore o il signore dell'anno (va notato che il 360-esimo giorno era considerato l'ultimo giorno dell'ultimo dei mesi di 20 giorni, piuttosto che l'ultimo giorno dell'anno). I calendari erano collegati anche da un punto di vista strutturale, come conseguenza del sistema di numerazione vigesimale che stava alla base di entrambi. Questo significa che ogni primo giorno di un mese dell'anno vago corrispondeva allo stesso giorno del ciclo di 20 giorni del calendario rituale e ‒ in generale ‒ l'n-esimo giorno del mese cadeva sempre nello stesso giorno del calendario rituale. Ogni anno l'n-esimo giorno del mese slittava in avanti di cinque giorni nel calendario rituale, per via dei cinque giorni senza nome, ma dopo quattro anni si ritrovava nella sua posizione iniziale, essendo slittato di venti giorni. Il sistematico ritornare di questi giorni è un esempio di commensurabilità: due cicli indipendenti tornano a una stessa loro posizione dopo un piccolo numero di passaggi attraverso uno di essi.

Nei legami strutturali fra i due sistemi, risultava evidente anche una relazione matematica di successione. Solamente quattro dei giorni che avevano un nome potevano essere i 'portatori' dell'anno vago, poiché l'avanzamento attraverso i giorni del calendario rituale di cinque giorni ad anno vago implicava la ripetizione del ciclo dopo soli quattro anni; tutti i numerali della tredicina potevano cadere sul portatore dell'anno, ed essendo 365 maggiore soltanto di un'unità rispetto a un multiplo di 13, il numerale avanzava soltanto di un giorno all'anno; risultò così assai semplice sviluppare algoritmi per il trascorrere del tempo costruiti sull'addizione di 1. In generale, i piccoli scarti da una commensurabilità perfetta, rispetto alle lunghezze dei cicli interessati, potevano essere utilizzati in certi calcoli; per esempio, il settimo ritorno in un dato giorno del calendario rituale avrebbe corrisposto a un giorno esattamente cinque giorni prima della stessa data nell'anno vago, essendo, infatti, 7×260=(5×365)−5. Alcune relazioni di questo genere erano abbastanza importanti da riflettersi nelle tavole numeriche per dare multipli dei cicli costituenti, o anche di loro sottodivisioni, sino a multipli di cicli commensurati con quelli, e proseguendo con multipli di questi ultimi; per esempio, una tavola dà multipli di 65 (un quarto del calendario rituale) sino a 28×65 (=7×260), poi multipli di 7×260 sino a 5×(7×260), poi multipli di quest'ultima quantità sino a 20×(5×(7×260)).

Entrambe queste relazioni fra le strutture dei due calendari mesoamericani fondamentali, ossia la commensurabilità e la successione, erano esplorate in maniera sistematica per mettere in relazione il tempo sacro e il tempo civile con i cicli celesti. Soprattutto la commensurabilità era un aspetto fondamentale delle tabelle strutturate matematicamente, e quasi tutti gli 'almanacchi' contenuti nei manoscritti geroglifici sono commensurabili al calendario rituale.

Il computo lungo

Nella Mesoamerica sudorientale (Maya) fu sviluppato un ulteriore sistema di misura del tempo assai importante, il 'computo lungo'; esso non soltanto si basava sul computo vigesimale del tempo, similmente al calendario rituale o all'anno vago, ma lo sviluppava in maniera assai più sistematica, incorporando non soltanto computi di venti giorni ma pure cicli che implicavano grandi potenze di 20 (rispecchiando le forme linguistiche dei numerali). Questo era inevitabile, poiché il computo lungo non abbracciava periodi brevi come alcuni giorni nell'arco di alcuni mesi, ma piuttosto le migliaia di anni che si supponeva fossero trascorsi a partire dall'inizio mitologico del computo; molti studiosi riconducono questo inizio al giorno 11 o 13 agosto del calendario gregoriano del 3114 a.C. per i Maya e, invece, al 24 luglio dello stesso anno per gli Epi-olmechi (Justeson 1992).

I computi lunghi dei Maya erano nella maggior parte dei casi espressioni linguistiche dirette per il trascorrere del tempo a partire dalla base mitologica e fino a una data di riferimento. In ogni caso, essi non usavano espressioni del tipo 'tre migliaia, sei centinaia, otto decine, e cinque anni' per '3685', basate sulle potenze astratte della base, ma usavano termini specifici per la descrizione di intervalli temporali dati, come ‒ nelle nostre unità cronologiche ‒ 'tre millenni, sei secoli, otto decadi, cinque anni, due mesi e diciassette giorni' per 3685 anni, 2 mesi e 17 giorni; nel caso dei Maya le unità di misura del tempo erano periodi di 400 anni, 20 anni, 1 anno, 20 giorni e 1 giorno. Gli anni specificati nei computi lunghi erano composti di 360 giorni piuttosto che di 365; ciò probabilmente ebbe origine come un'approssimazione vigesimale dell'anno ‒ verificatasi prima o dopo l'introduzione dell'anno vago ‒ oppure come un computo di tipo vigesimale nell'ambito di un anno. La stessa parola 'anno' era comunque applicata sia per il periodo di 360 giorni sia per quello di 365 (ha'b' in maya, 'ame' in epi-olmeco). Ciascun anno e ciascun periodo di 20 anni erano governati dal giorno del calendario rituale in cui avevano termine, e le conclusioni degli anni ‒ cioè le date per cui nel computo lungo si contavano numeri interi di anni ‒ erano occasioni di cerimonie civili celebrate dai governanti e commemorate mediante l'erezione di monumenti di pietra per glorificare i detentori del potere. Fra i Maya tale usanza condusse all'uso della parola 'pietra' per significare 'fine anno', sia in riferimento alla fine degli anni del calendario formale del computo lungo sia in relazione ad anniversari di eventi umani.

Ritornando al discorso riguardante i nomi dei numeri, è interessante osservare che le espressioni maya relative alle date del computo lungo si allontanano dalla struttura delle espressioni linguistiche usate per misurare il tempo, avvicinandosi alle espressioni algebriche; esse includono esplicitamente lo zero come coefficiente di una certa unità di tempo piuttosto che omettere di menzionare quell'unità. Non risulta che si sia fatto uso dello zero nelle date più antiche registrate in questo sistema maya per la cronologia del computo lungo; l'uso dello zero, tuttavia, è stato riscontrato in registrazioni di poco posteriori. Pare quindi che un simbolo specifico per lo zero abbia avuto origine proprio dall'adozione del sistema del computo lungo. Un tale uso dello zero, indicativo di un rigido formato posizionale/algebrico per i numerali più grandi, appare estraneo in un'espressione altrimenti strutturata linguisticamente. Il sistema del conteggio lungo è infatti antecedente perlomeno di tre secoli alle espressioni linguistiche esplicite dei Maya, espressioni di cui il più antico esempio risale al 297 d.C., mentre i conteggi lunghi nel sistema epi-olmeco risalgono almeno al 36 a.C. e si protrassero fino al 533. In questi ultimi non si usava alcuna unità di tempo o alcuna potenza di 20 ed era invece adoperata una notazione puramente posizionale. Tale sistema a notazione posizionale è stato indicato come uno dei più grandi successi intellettuali della civiltà dei popoli nativo-americani; non è chiaro entro quale gruppo etnico esso abbia avuto origine, tuttavia vi si farà riferimento come al sistema epi-olmeco, poiché esso differiva dal successivo sistema di notazione maya.

Tra il computo lungo e gli altri due calendari esisteva un'intima relazione strutturale e ancora una volta il computo vigesimale dei giorni ne era l'origine. Poiché l'ultima cifra del computo lungo varia da 0 a 19, una data cifra si ripete ogni 20 giorni. Conseguentemente, i nomi dei giorni del calendario rituale variano in stretta connessione con la cifra finale del computo lungo, e una data cifra finale coincide sempre con lo stesso nome del giorno del calendario rituale. Poiché gli anni avevano una durata di 360 giorni, essi finivano sempre con lo stesso nome del giorno, XX260, ma potevano concludersi con un numero qualsiasi nella tredicina; pertanto i due calendari erano commensurabili in 13 anni di 360 giorni. Nello stesso modo, il computo vigesimale implicava che, durante un dato anno vago, una certa cifra finale del computo lungo coincidesse sempre con lo stesso giorno del mese. Rispetto all'anno vago, naturalmente, la relazione è particolarmente stretta; infatti, le ultime due cifre del computo lungo su una certa data dell'anno vago cadranno proprio 5 giorni in anticipo nel successivo anno vago, e ciò è analogo all'errore di un giorno dell'anno vago rispetto alla tredicina.

Nei testi della Mesoamerica sudorientale è presente un'ulteriore struttura di calendario, accanto al computo lungo, che non si trova altrove; precisamente, si tratta di computi espliciti del tempo tra due eventi o tra due date che erano registrati in un formato che ricorda il computo lungo dei Maya. Le espressioni di questi computi, che si trovano in testi di La Mojarra, Kaminaljuiu, Chalchuapa e nei testi delle pianure maya in generale, erano indicati come 'numeri di distanza'; il loro formato era espresso linguisticamente allo stesso modo dei computi lunghi maya, combinando cioè coefficienti con periodi temporali dati. I numeri di distanza erano collegati ai computi lunghi anche per il fatto che definivano anni di 360 giorni piuttosto che di 365; sembra dunque che fossero correlati direttamente, essendo l'uno la conseguenza dell'altro. Visto che i numeri di distanza si trovano in quattro degli otto testi geroglifici preclassici conservati provenienti dal Sud-est che contengono dati, e precedono di almeno quattro secoli i primi esempi di formato maya per il computo lungo, è probabile che quest'ultimo sia derivato per analogia da quei numeri di distanza; non è chiaro se i numeri di distanza precedano il formato 'posizionale' del computo lungo.

V'è un aspetto in cui il formato maya per i numeri di distanza è diverso da quello di altre aree. I numeri di distanza dei Maya di pianura differiscono dalla pratica linguistica, come il computo lungo degli stessi Maya, nel munire di coefficienti zero unità di tempo anziché ometterle semplicemente. Sebbene numeri di distanza siano attestati altrove soltanto in tre testi, tutti e tre preclassici, almeno due esemplificano l'utilizzazione di calcoli che nell'uso maya includono un segno di periodo con un coefficiente zero; in queste altre tradizioni, tuttavia, il segno di periodo è semplicemente omesso, il che corrisponde direttamente all'uso nella lingua.

Tavole numeriche e cicli delle eclissi

Le tavole contenute nei manoscritti maya esprimono date nel calendario rituale di 260 giorni; la grande maggioranza di esse accumula giorni per un totale di 260, cioè un singolo ciclo completo di tale calendario, sebbene il punto di partenza possa essere in varie posizioni all'interno di esso; vi sono pure tavole di multipli di 260 giorni, e altre che occasionalmente prevedono intervalli temporali diversi di rilevante importanza per il calendario.

Tav. I
Tav. II

Una prima e importante questione riguarda la commensurabilità del calendario rituale. I sistemi di base del calendario mesoamericano mostravano alcuni esempi di commensurabilità strutturale che sarebbero apparsi ovvi a tutti coloro che li applicavano alla misura del tempo. La commensurabilità con il calendario rituale sembra aver rappresentato la base dei modelli mesoamericani per la determinazione cronologica dei fenomeni astronomici, perlomeno stando a quanto ci è dato di sapere dalle tavole astronomiche maya. Tali modelli avevano, in effetti, un buon successo, e ciò potrebbe aver rinforzato, se non addirittura stabilito, il ruolo fondamentale del tempo rituale. Gli esempi di commensurabilità e dei conseguenti cicli cronologici che sono riportati nella Tav. I si riferiscono alla determinazione cronologica delle eclissi lunari e solari, e degli eventi relativi ai movimenti dei pianeti. Cicli di una tale spettacolarità non possono essere sfuggiti all'attenzione dei sacerdoti del calendario. Sappiamo che gli Epi-olmechi erano interessati, in particolar modo, alla commensurabilità dei cicli dei fenomeni di Venere e dei cicli delle eclissi; sei delle otto date del computo lungo che sono leggibili sui loro monumenti corrispondono infatti alla stessa parte del ciclo di Venere in prossimità del punto nodale; altri cicli celesti sono commensurabili al calendario rituale in un modo anche più diretto. Il ciclo delle eclissi è forse il più impressionante per gli osservatori (Tav. II).

La predicibilità dei cicli lunari e planetari nei termini del calendario sacro probabilmente alimentò l'immaginazione dei sacerdoti dell'antico calendario mesoamericano; il tempo sacro rappresentava un modello valido per calcolare le date degli eventi celesti, e ciò deve aver convalidato e rafforzato la convinzione che esso rappresentasse l'ordine fondamentale della Natura. Risultati simili a quelli sopra citati furono usati per creare tavole contenenti i modelli per la cronologia delle eclissi e delle fasi più significative del moto e della visibilità dei pianeti.Il ciclo di Marte, per esempio, è di 779,94 giorni, ossia leggermente più breve di tre passaggi attraverso il calendario rituale, e la tavola maya dei passaggi di Marte, basata sul calendario sacro, fu abbastanza efficace per un lungo periodo di tempo. L'elaborazione di modelli per la previsione delle eclissi fu alquanto più complessa. Solitamente un'eclisse lunare segue la precedente dopo 6 lunazioni ‒ circa 177 giorni ‒, e tale periodo è assai prossimo a 173 giorni più 1/3 di giorno tra i nodi dell'eclisse; in ogni caso, la differenza si accumula e gradualmente l'eclisse si verifica con un ritardo sempre maggiore rispetto ai nodi. Quando le eclissi si verificano a metà della lunazione (14 giorni più 3/4 di giorno) dopo il tempo dei nodi, la quinta Luna piena è più vicina al nodo che precede di quanto non lo sia la sesta Luna piena che segue il nodo, e l'eclisse si verifica dopo soli cinque mesi; successivamente, ricomincia il ciclo semestrale.

Anche se i periodi di 5 e di 6 mesi non combaciavano immediatamente con i rapporti di commensurabilità rispetto al calendario rituale, lo schema poteva essere identificato senza difficoltà; è possibile infatti costruire una tavola abbastanza completa per la previsione delle eclissi semplicemente applicando le commensurabilità del ciclo sacro alle eclissi visibili. Contando 10, 26, 36 e 46 cicli sacri in avanti e indietro rispetto alle eclissi lunari visibili in circa 25 anni di osservazioni locali, i sacerdoti del calendario mesoamericano sarebbero stati in grado di prevedere le date di quasi tutte le eclissi in un secolo (sia quelle visibili sia quelle non visibili nella Mesoamerica). Le previsioni, in avanti e indietro nel tempo, a partire da un'eclissi non visibile, avrebbero condotto alla previsione di altre eclissi visibili allo stesso modo delle previsioni fatte a partire da un'eclisse osservabile. Il risultato di tali previsioni sarebbe stato una tavola di date del ciclo sacro in grado di prevedere infallibilmente tutte le date in cui si sarebbe verificata un'eclissi, sia che fosse visibile sia che non lo fosse. Il Codice di Dresda (Dresda, Sächsische Landesbibliothek, Codex Dresdensis, R.310), un manoscritto geroglifico maya, contiene proprio una tabella di questo tipo, che copre un periodo di 46 calendari rituali, anticipando di solo 1/9 di giorno, mediamente, il ciclo dell'eclissi. Le collocazioni di periodi da 148 giorni sono abbastanza irregolari da presupporre che si basassero su una serie di osservazioni storiche di eclissi, e non erano quindi un modello del tutto astratto che rispecchiava delle medie a lungo periodo.

La tavola per il pianeta Venere ha una struttura cronologica anche più complessa di quelle per le eclissi e illustra l'approccio dei Maya a ciò che i matematici occidentali trattano come misure non intere in Natura.

Tali quantità erano commensurate con alcuni cicli formali, soprattutto il calendario rituale, ed erano corrette periodicamente quando si allontanavano leggermente dal comportamento reale medio del pianeta; queste modifiche erano effettuate in maniera tale da mantenere la struttura della relazione con il tempo sacro. Le modificazioni erano fatte in modo che un numero intero di cicli del calendario rituale approssimasse un determinato multiplo di un ciclo naturale e che quest'ultimo potesse essere a sua volta modellato in una relazione stabile col tempo sacro rappresentato nel precedente modello. Il principio di base era sempre l'invarianza della struttura commensurata. Gli algoritmi, o le procedure utilizzate, sono espressi mediante tavole, e gli elementi cruciali sono le tavole formate dai multipli dei periodi di tempo più rilevanti. I multipli più grandi sono sempre anche multipli di 260 giorni e pertanto commensurano i modelli formali con il tempo sacro. Tali tavole codificano un semplice schema computazionale/concettuale per la struttura temporale del ciclo di Venere. Esse contengono tutte le informazioni necessarie per collocare le date contemporanee usando soltanto la sottrazione e per prevedere le date sia degli eventi prossimi sia di quelli lontani nel tempo facendo uso soltanto dell'addizione.

Questo modello è dotato di completezza concettuale e di coerenza interna, e usi analoghi del tempo sacro hanno prodotto modelli assai accurati anche per la descrizione della cronologia delle eclissi e per il ciclo vitale di Marte. Tuttavia, il modello dei Maya non è in grado di fornire una descrizione unitaria del moto di tutti i pianeti; infatti, non sono mai state scoperte tabelle riguardanti Giove e Saturno, ed è stato inoltre anche dimostrato che i loro periodi sinodici non potevano essere modellati commensurandoli con il calendario sacro. Per i sacerdoti del calendario maya questo fatto probabilmente era di grande disturbo, dal punto di vista sia teorico sia teologico; tuttavia, dato il successo sbalorditivo da essi ottenuto per la Luna e per i pianeti interni, è difficile immaginare che ciò possa averne intaccato la fiducia nelle intuizioni essenziali che la loro concezione del tempo sacro aveva prodotto. Può darsi che siano stati tentati di sviluppare nuovi modelli sulla base di altri cicli rituali, ma i manoscritti che ci sono pervenuti non contengono alcuna evidenza di uno slittamento di paradigma nei pochi secoli successivi allo sviluppo dei modelli del ciclo di Venere (presumibilmente tra il X e il XII sec.). L'approccio dei Maya, basato sull'idea di ricalibrare modelli commensurabili invarianti, si distingue pertanto dagli approcci più comuni nel pensiero occidentale, che implicano l'elaborazione di modelli diretti della variazione dei cicli e la matematica frazionaria.

È possibile costruire un modello per la variazione di lunghezza dell'anno venusiano in una maniera assai semplice; l'anno venusiano segue infatti un percorso che si ripete regolarmente dopo cinque anni venusiani: 587, 583, 580, 583, 587 giorni, con una media di 584. Sarebbe possibile tracciare una sequenza di cinque anni venusiani attraverso le cinque pagine della tavola che includesse questa variazione nella lunghezza dell'anno. Tuttavia, se tale tavola fosse riscritta pochi giorni prima della fine tabulare del 61-esimo anno, la pagina scritta per il nuovo primo anno prevederebbe un anno di 587 giorni, piuttosto che di 583; la stessa cosa accadrebbe per uno spostamento prossimo alla fine del 57-esimo anno, per il quale occorrerebbero 580 giorni. La sola maniera per conservare la struttura di una tale tavola durante la ricalibrazione è quella di effettuare lo spostamento alla fine della quinta pagina, cioè in prossimità di un multiplo di 2920 giorni. Ricalibrare la tavola vuol dire ridurre di una quantità piccola l'intervallo di tempo dalla data tabulare della levata eliaca, allo scopo di allinearne le date canoniche (mediamente in ritardo) con le date vere. Per far ritornare la tavola alla propria collocazione fissa delle date del calendario rituale, la modifica deve continuare a porre tutti gli eventi relativi alla levata eliaca tabulare alla fine del quinto anno venusiano in un giorno XX260 e l'aggiustamento deve essere di un multiplo di venti invece che di quattro-otto giorni. Affinché, poi, un tale aggiustamento possa ricalibrare la tavola alla stessa data di base, cioè 1 XX260, è necessario che la data 8 XX260 coincida con la data tabulare della levata eliaca per l'anno dell'aggiustamento; ciò può avvenire soltanto alla fine del 45-esimo anno. Tale calibrazione sarebbe però di una entità opportuna soltanto dopo 240 anni venusiani (ossia 384 anni vaghi), e tutta la procedura sarebbe essenzialmente priva di utilità, poiché un tale aggiustamento porrebbe la levata eliaca canonica ben al di fuori dell'intervallo di variabilità di questo evento, oppure dovrebbe essere applicato solo dopo molto tempo dal momento in cui la collocazione canonica è uscita dall'intervallo di variabilità. Pertanto non esiste alcuna maniera pratica per mantenere una relazione fissa tra l'anno venusiano e il calendario rituale, o anche con l'anno vago, quando siano prese in considerazione le variazioni reali della lunghezza dell'anno venusiano. L'anno canonico immutabile rese possibile una struttura della tavola di Venere che incorporava entrambi questi cicli formali. Esso forniva una struttura concettuale convincente per inquadrare gli eventi del ciclo del pianeta nell'ambito del tempo sacro, oltre a un semplice schema di calcolo per determinare le date di quegli eventi.

La tavola di Venere illustra bene la strategia generale seguita dagli specialisti del calendario maya per adattare i cicli temporali di lunghezza media non intera, usando cicli di lunghezza intera. Tale strategia consisteva nel mantenere la durata media canonica per un numero intero n di cicli e nell'aggiungere alla fine un ulteriore ciclo che differiva lievemente in lunghezza rispetto ai precedenti. È possibile riconoscere questo tipo di strategia negli almanacchi rituali, quasi tutti relativi a un periodo di 260 giorni esatti, che concernevano rituali e pronostici relativi a varie attività. L'arco temporale di 260 giorni coperto da questi almanacchi era suddiviso esattamente in quarti (65 giorni) e in quinti (52 giorni), e meno spesso in decimi (26 giorni) e ventesimi (13 giorni); proprio come i 37.960 giorni di lunghezza della tavola di Venere erano suddivisi in 13 passaggi uguali di 2920 giorni ciascuno, si dovevano prendere 4, 5, 10 o 20 passaggi attraverso la tavola per completare il periodo di 260 giorni. Ancora come nella tavola di Venere, varie stazioni erano registrate per ciascun passaggio attraverso un almanacco, indicate sia mediante il tempo trascorso tra le stazioni sia mediante la data parziale. A differenza invece della tavola di Venere, le suddivisioni erano quasi sempre lunghe un multiplo di 13 giorni ‒ equivalentemente, il numero delle suddivisioni non era quasi mai un multiplo di 13 ‒ in modo che a ciascun ritorno alla medesima stazione la posizione nella tredicina fosse sempre la medesima e quella nella ventina fosse sempre differente; la data era riportata mediante la posizione invariabile della stazione nella tredicina, con un numero rosso.

Gli intervalli di tempo che separavano le stazioni erano registrati mediante numeri neri. Per lo più, tutti gli intervalli relativi a un intero passaggio erano approssimativamente uguali; poiché la lunghezza di un intero passaggio era un multiplo di 13 giorni, questi intervalli erano assai spesso di 13 giorni esatti ciascuno. Quando il numero delle suddivisioni non divideva in modo uniforme l'intervallo di un singolo passaggio nell'almanacco, era adottata una lunghezza uguale per tutte le suddivisioni, salvo una o due. Per esempio, l'intervallo di 26 giorni citato a p. 21b del Codice di Dresda è diviso in quattro parti lunghe, nell'ordine, 7, 7, 7 e 5 giorni. Questo modo di procedere rappresentava una semplice soluzione del problema della divisione di gruppi in parti uguali; gli Inca usavano divisioni analoghe nei loro quipu.

La scoperta dello zero

Una delle scoperte più importanti dell'antica civiltà mesoamericana è l''invenzione' di uno zero esplicito ‒ probabilmente più una scoperta che un'invenzione. Gli unici altri popoli in cui ebbe origine, indipendentemente, il concetto di zero furono i Babilonesi e forse gli Hindu, ma la scoperta da parte dei Mesoamericani potrebbe essere stata la prima nella storia; questa eventualità non è d'importanza primaria, poiché accertare la priorità di pratiche culturali relativamente recenti, tra culture che si svilupparono indipendentemente a partire da economie di tipo neolitico, ha un interesse assai marginale. Tuttavia, è significativo paragonare queste scoperte nei termini del percorso intellettuale dal quale sono scaturite.

È ampiamente accettato che l'esistenza di una notazione numerica di tipo posizionale presuppone l'esistenza del concetto di un numerale per lo zero e di un simbolo grafico esplicito per rappresentarlo. Di fatto, tuttavia, sembra essere vera la relazione inversa. Per quanto possa essere sembrato paradossale ad alcuni, un sistema a notazione posizionale è proprio necessario allo sviluppo di un'idea di zero come quantità che possa essere manipolata in maniera aritmetica; infatti, un simbolo grafico per lo zero è un sottoprodotto dell'uso di un sistema a notazione posizionale, piuttosto che un suo requisito indispensabile.

Se si esaminano gli algoritmi antecedenti l'introduzione di un simbolo per lo zero, la presenza di un sistema a notazione posizionale sembra una condizione necessaria per lo sviluppo del concetto di zero come quantità che possa o debba essere manipolata aritmeticamente. I problemi che si presentavano naturalmente alla matematica primitiva ‒ cioè, in sistemi matematici non basati su equazioni astratte con variabili, bensì su schemi per manipolare numeri specifici ‒ non richiedevano esplicitamente l'uso di uno zero numerico. È difficile, entro uno schema siffatto, porre un problema che richieda l'addizione o la sottrazione di zero, o la moltiplicazione per zero; un problema di questo tipo, o un tale stadio nella risoluzione di problemi, verrebbe a essere affrontato prima dell'inizio di qualsiasi tipo di operazione aritmetica. Per esempio, supponiamo che il problema da risolvere, nell'epoca antecedente la scoperta dello zero, fosse stato il calcolo delle tasse da imporre sulla produzione di grano di quattro campi. Supponiamo che si dovesse consegnare alle autorità del tempio il 10% di tutta la produzione. Se uno dei campi fosse rimasto incolto, i contabili avrebbero notato il fatto, ma non avrebbero sentito alcuna necessità di calcolare il 10 % di nulla, né di aggiungere questo risultato all'imposta derivante dagli altri campi per determinare l'ammontare totale della tassa. Il campo improduttivo sarebbe stato tralasciato nella procedura di calcolo poiché le informazioni relative a esso sarebbero state irrilevanti dal punto di vista matematico.

Viceversa, le operazioni di tipo algoritmico su numeri in notazione posizionale possono favorire facilmente la creazione di un formato con l'equivalente di un simbolo grafico per lo zero, sia nella forma di un simbolo mancante in una certa posizione, come nell'abaco o nel quipu, sia mediante un qualche segno esplicito. Alcuni di questi modi operazionali di manipolare numeri in un sistema a valore posizionale, nel caso dei Maya, sono stati suggeriti dall'uso, nei manoscritti di era postclassica, della rappresentazione di una conchiglia come simbolo per lo zero; si è congetturato che ciò si riferisse all'uso delle conchiglie come 'segna posto' nelle operazioni di calcolo sulla sabbia in un formato a valore posizionale. Ciò ora appare improbabile; lo svilupparsi del simbolo per lo zero sarebbe piuttosto connesso a pratiche specializzate per trattare i numeri grandi in notazione posizionale.

Empiricamente, la notazione posizionale può esistere, e in effetti esiste, a prescindere dalla disponibilità di un simbolo esplicito per lo zero; tutto ciò che si richiede è l'assenza di una cifra. L'accorgersi di tale assenza è immediato nel caso del formato tabulare, vale a dire in una disposizione di serie allineate di numeri adiacenti in notazione posizionale. I quipu testimoniano l'esistenza di questo tipo di formato, in quanto le cordicelle che li costituiscono hanno disposizioni spaziali parallele per i numeri; pertanto, in quel sistema non si presentò mai alcun segno esplicito per lo zero. I formati tabulari di numeri posizionali erano caratteristici dei registri matematici e astronomici dei Babilonesi e, come si è visto, erano usati anche per i dati astronomici dei Maya. L'ambiguità si verificava soltanto nel caso della rappresentazione di numeri isolati all'interno dei testi.

Sotto questo profilo, la notazione posizionale babilonese rimase ambigua per secoli prima dell'adozione di un simbolo esplicito per lo zero. Nei documenti matematici più antichi (1800-1600 a.C.) quest'ambiguità era semplicemente tollerata, oppure fra le cifre scritte era lasciato un piccolo spazio; all'incirca dal 300 a.C., nel gruppo successivo di testi matematici documentati, il fatto che qualcosa di intangibile intervenisse fra cifre registrate fu segnalato in maniera esplicita mediante l'uso del simbolo per la separazione delle parole e delle frasi. Che un tale segno per lo zero fosse in origine semplicemente un separatore di parole, attesta l'origine di quest'usanza come una pratica non numerica collegata direttamente al formato della notazione e non alla creazione di un concetto numerico fondamentale di zero. Ciò è sottolineato da una lacuna del sistema, costituita dal fatto che i separatori di parola dividevano l'una dall'altra le cifre numeriche espresse, ma non erano mai usati dopo l'ultima cifra diversa da zero di un numerale posizionale. L'uso numerico di separatori di parole differiva dal loro uso generico per il fatto che erano separate anche le posizioni numeriche 'vuote' adiacenti e si usava uno zero iniziale per le frazioni; è difficile ricostruire come sia avvenuto questo cambiamento per via di un vuoto di 1300 anni nella documentazione sulla notazione posizionale di Babilonia. Per via della mancanza di zeri come traccia la notazione babilonese era sempre ambigua; i Babilonesi in realtà non possedevano la nostra formulazione attuale del concetto di zero.

In India si verificò uno sviluppo parallelo. Verso la fine del V sec. d.C. era in uso un sistema a notazione posizionale che faceva uso soltanto delle cifre da 1 a 9, forse costruito sulla base fornita dalle pratiche matematiche babilonesi ma, a quanto pare, anche sulla base di radici linguistiche locali. Durante il secolo successivo cominciarono a essere usati un simbolo e un vocabolo per lo zero, evidentemente derivanti da un modello visivo, scritto o non scritto, come quello di un abaco. Varie parole sanscrite furono usate per indicare questo zero, come, per esempio, śūnya ('vuoto'), termine che rifletteva direttamente lo spazio vuoto di una posizione in un formato posizionale a griglia per la rappresentazione dei numeri.

Sembra che anche la notazione posizionale mesoamericana sia esistita per qualche secolo prima dell'uso di un simbolo grafico per lo zero, e ciò può essere sostenuto su basi statistiche in quanto un simile simbolo è noto infatti soltanto fra i Maya dell'era classica e postclassica. Si conoscono alcune date espresse nel computo lungo e antecedenti l'era classica, ma nessuna di queste usa il segno per lo zero, mentre due delle tre date di questa era che non usano il formato del computo lungo avrebbero richiesto zeri se avessero usato quel formato. Questa selezione delle posizioni dello zero è difficile da spiegare, a meno che vi fosse qualcosa riguardante la rappresentazione dello zero che portasse a evitare la notazione posizionale.

Un indizio ancor più rivelatore è fornito in proposito dalla Stele 5 di Abaj Takalik; questo monumento riporta due date espresse prima nel computo lungo in notazione posizionale e di seguito nel calendario rituale. Nel computo lungo le date hanno soltanto quattro delle attese cinque cifre: 8.4.5.17 e 8.3.2.10; ciò suggerisce che ciascuna delle date abbia uno spazio vuoto per lo zero. L'assenza di ogni zero esplicito concorda con gli schemi delle espressioni linguistiche e con l'uso antico dei Babilonesi e degli Indiani, poi venuto meno con l'adozione della notazione posizionale; in senso linguistico, non ci sono cifre mancanti. Si possono interpretare queste date nel seguente modo (tra parentesi quadrate le date dell'anno vago): 8.4.5.(0).17 come 11 XVII260 [0 I365] e 8.3.2.(0).10 come 5 X260 [VI365]. In modo del tutto eccezionale per i primi numeri posizionali, le cifre corrispondenti in questi computi lunghi sono allineate; normalmente, l'allineamento delle cifre rende facilmente individuabile lo spazio vuoto per lo zero. In questo monumento i posti per lo zero di ogni computo lungo sono meno immediati da riconoscere perché allineati fra di loro, ma i posti loro corrispondenti hanno visibilmente, se non sostanzialmente, più spazio di quelli che separano tra loro cifre diverse da zero. A posteriori, tendiamo a pensare che tale situazione ponesse dei problemi risolubili mediante l'introduzione di strumenti, come uno zero numerico, che oggi fanno parte del nostro bagaglio concettuale. Tuttavia, i Mesoamericani di quell'epoca, più plausibilmente, vedevano questo sistema di notazione posizionale privo di zero, non come un sistema imperfetto o come un problema, ma come una risorsa che rendeva possibile una comprensione intuitiva di numeri molto grandi, a imitazione di un modello che si avvicinava molto a quello del linguaggio parlato nella Mesoamerica meridionale. Nelle situazioni in cui tale risorsa non poteva essere facilmente sfruttata ‒ le situazioni che retrospettivamente sembra che richiedessero l'invenzione di uno zero numerico ‒ i Mesoamericani attinsero semplicemente ad altre risorse: forse a volte usarono uno spazio più grande facilmente individuabile, e in altre occasioni usarono dei formati diversi dalla notazione posizionale per la rappresentazione delle date. L'inadeguatezza della notazione posizionale per rappresentare alcuni numeri o alcune date non deve essere vista come più problematica per i Mesoamericani di quanto non lo sia l'assenza di un approccio universale per il calcolo degli integrali per gli studenti dei nostri giorni.

Vedendo le cose sotto questa luce, non c'è da meravigliarsi del fatto che nella Mesoamerica, come pure nel vecchio mondo, siano dovuti trascorrere molti secoli prima che fosse sviluppato uno zero come parte di un sistema puramente posizionale. Questo sviluppo non può essere ancora documentato in tutti i suoi dettagli, ma alcuni aspetti di esso sono ipotizzati sulla base delle testimonianze giunte fino a noi.

Le date più difficili da registrare introducendo opportuni spazi chiaramente individuabili sono quelle in cui sono richiesti due o più zeri consecutivi, e quelle in cui gli zeri sono alla fine della data. Il primo tipo di problema non fu trattato sistematicamente dai Babilonesi fino all'introduzione del separatore di parole e il secondo tipo non fu mai posto. L'ultimo giorno dell'anno possiede entrambe queste caratteristiche. Le occasioni per registrare le date dei giorni di fine anno erano frequenti nel periodo precedente l'introduzione di un simbolo per lo zero presso i Maya, poiché queste date rappresentavano l'occasione per l'erezione di monumen-ti. I giorni di fine anno erano registrati, fin dall'Antichità, come date di 'collegamento'; è proprio per le date dei giorni di fine anno che è attestato l'uso, per la prima volta, del simbolo dello zero da parte dei Maya, piuttosto presto nel Periodo Classico.

Il più antico simbolo per lo zero a noi noto ‒ usato in seguito per la sillaba mi ‒ non è tuttavia quello usato nelle notazioni posizionali nella tradizione scritta; con una sola eccezione, è una forma che appare sempre in combinazione con geroglifici che indicano periodi temporali. Questa restrizione contestuale suggerisce che il simbolo rappresentasse un'espressione linguistica che richiedeva la definizione di un periodo temporale; la sua origine sarebbe da collegare pertanto a conteggi cronologici in termini di periodi di tempo espressi esplicitamente, piuttosto che in notazione posizionale. Questa conclusione è confermata da un'evidenza linguistica sull'esistenza di un termine maya antico che si pronunciava ‒ a quanto pare ‒ mi (per es., nel maya dello Yucatan esiste min'an) e che si usava per predicati negativi ('non ci sono [giorni, mesi, anni, …]'). Il solo uso attestato del segno nella notazione posizionale ‒ sulla Stele 1 di Pestac, nell'unico conteggio lungo maya del Periodo Classico ‒ fu quindi probabilmente un'estensione per analogia dal formato maya generale a uno puramente posizionale.

Visto che il formato sintetico dei manoscritti postclassici di tavole numeriche spiega il loro uso del formato posizionale nel computo lungo, il caso Pestac potrebbe spiegare la pratica dei manoscritti del Periodo Classico; sfortunatamente, ciò che rimane di tali manoscritti non è ancora stato decifrato. Tuttavia, l'uso di un simbolo a forma di conchiglia nei manoscritti postclassici invece del segno mi sembra essere un'estensione di questa pratica; la conchiglia come zero è stata trovata una volta nel Codice di Dresda con accanto la forma più tarda del simbolo mi, suggerendo che i segni delle conchiglie che rappresentano lo zero corrispondano alla stessa parola rappresentata dal simbolo di zero nel Periodo Classico. Quindi, nel suo contesto originale, il presunto 'zero' dei Maya non rappresentava un sostantivo, e non poteva perciò avere un'interpretazione numerica; poteva acquistare tale interpretazione una volta introdotto nel contesto strettamente posizionale, dove non era espressa l'entità del predicato negativo.

Qualcuno dei simboli maya per lo zero ha mai avuto un'interpretazione numerica? Nei contesti di date di computo lungo o nei numeri di distanza linguisticamente espliciti, il simbolo zero era leggibile nel suo senso ordinario di 'non ci sono ...'. In una data di computo lungo espressa con una notazione puramente posizionale ciò è meno chiaro.

Una nuova interpretazione numerica del simbolo zero può richiedere un'integrazione con altri numerali, non soltanto nella rappresentazione di numerali ma anche per gli algoritmi che richiedono operazioni sullo zero e altre cifre. I manoscritti geroglifici maya del periodo postclassico forniscono i primi contesti nei quali numerali di tipo posizionale sono sommati per arrivare a un altro numerale posizionale. Così, nelle cinque pagine del testo nella tavola di Venere del Codice di Dresda si trovano i numerali posizionali 236, 90, 250 e 8, messi in una riga su ogni pagina; su un'altra linea separata ci sono i totali parziali cumulativi dentro il periodo di 2920 giorni di un singolo passaggio attraverso quelle pagine. Tra queste 20 somme ce ne sono diverse che contengono lo zero, per lo più come parte sia di totali sia di addendi. Per esempio, alla prima stazione sulla seconda pagina della tavola vera e propria, il numero 2.5.0 (ossia 820) è dato come numero cumulativo dei giorni in quella stazione, risultato dell'addizione di 11.16 (236) al totale cumulativo precedente di 1.11.4 (584) giorni; poi 4.10 è sommato a 2.5.0 per arrivare a 2.9.10 (910) giorni.

Questi contesti di addizioni dimostrano che i simboli per zero erano manipolati nell'addizione e probabilmente anche nella sottrazione, coerentemente con l'interpretazione numerica. Non ci sono prove dirette che suggeriscano un'interpretazione non numerica di questi simboli in numerali posizionali, e il caso maya di uno zero numerico non è meno chiaro di quello babilonese, universalmente accettato. Comunque non sappiamo se i simboli maya per lo zero fossero interpretati veramente come numerali, perché ignoriamo in qual modo questi problemi di addizione fossero effettivamente espressi nella lingua maya parlata. Ipotizzando alcune pratiche (del tipo di quelle che usano un termine esplicito per il 'sommare'), una nuova interpretazione numerica del simbolo per lo zero sarebbe quasi inevitabile; negli altri casi si potrebbe mantenere un'interpretazione dello zero come predicato negativo.

Come in Babilonia e in India, un sistema già esistente di notazione posizionale fu essenziale per lo sviluppo maya di un concetto numerico di zero, sempre che il concetto maya fosse di tipo numerico. Come in India, il vocabolario usato indica l'assenza o il niente in una posizione che era espressamente rappresentata dal periodo temporale a essa associato, e l'uso di lasciare uno spazio vuoto si riscontra prima della pratica di ricorrere a un simbolo particolare per questi vuoti. Come nel caso babilonese, l'uso del simbolo maya che poi divenne lo zero non emerse all'interno del sistema di notazione posizionale senza zero (per es., per eliminare ambiguità dal formato), anche se nella lingua maya, e non nella babilonese, ciò era vero anche per il contesto matematico in cui era usato. Invece, gli sviluppi maya e babilonesi furono il risultato di processi più drastici di nuova analisi simbolica. Nel caso maya, il contesto originale è il resoconto formale di date di computo lungo che includeva i periodi temporali. Questa rappresentazione non avrebbe presentato ambiguità per quanto riguarda le posizioni numeriche se lo zero fosse stato tralasciato; quindi forse è la formalizzazione e la struttura a 5 parti parallele di questa rappresentazione che rese necessari predicati negativi sui periodi temporali. In questo contesto, il segno rudimentale per lo zero non era grammaticalmente suscettibile di una nuova interpretazione come numerale. Per via della continua associazione tra la rappresentazione linguisticamente esplicita di numeri più grandi e la 'grafia rapida' della notazione posizionale per la stessa rappresentazione linguistica, l'uso del simbolo fu esteso al formato posizionale. Ciò fu cruciale per una nuova interpretazione del simbolo come numero, e quindi per un concetto numerico di zero. Analogamente, l'introduzione del segnatore di parole babilonese all'interno di un contesto di notazione posizionale fu essenziale alla sua nuova interpretazione come simbolo numerico di zero.

La stretta dipendenza del concetto numerico di zero da rappresentazioni grafiche specifiche usate soltanto dalla classe elitaria degli specialisti del calendario presenta una chiara analogia con l'uso dello zero presso i Babilonesi, che era limitato ai soli astronomi e matematici. Ciò spiega pure un apparente capovolgimento di ciò che talvolta è stato considerato come un percorso cognitivo inesorabile nei sistemi matematici verso un'astrazione e una formalizzazione crescenti. Sebbene, in epoca antica, un concetto numerico di zero abbia ricevuto un'espressione grafica nei testi geroglifici maya per più di mille anni, questa formulazione indigena si estinse e non lasciò traccia in alcuna lingua e pratica culturale mesoamericana. Dopo l'invasione spagnola della Mesoamerica, le pratiche degli specialisti del calendario furono attivamente represse, in quanto considerate strumenti e simboli dell'identità locale e modi di resistere all'autorità civile e religiosa spagnola, e questa soppressione fu molto efficace in gran parte della Mesoamerica; in particolare, scomparve il computo lungo in tutti i luoghi dove era conosciuto e con esso, evidentemente, si perse anche il concetto numerico di zero.

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