La seconda rivoluzione scientifica: fisica e chimica. Criogenia, superconduttività e superfluidità

Storia della Scienza (2004)

La seconda rivoluzione scientifica: fisica e chimica. Criogenia, superconduttivita e superfluidita

Theodore Arabatzis
Kostas Gavroglu

Criogenia, superconduttività e superfluidità

Criogenia

Molti fenomeni attribuiti alle forze a breve raggio d'azione avevano trovato posto nella teoria atomico-molecolare sviluppata nell'ultimo quarto del XIX sec., ma la natura esatta di tali forze sfuggiva ancora alla comprensione, come nel caso dei fenomeni di capillarità. La tesi di dottorato pubblicata nel 1873 da Johannes Diderik van der Waals (1837-1923) diede nuovo impulso allo studio dei fenomeni riguardanti i fluidi e, soprattutto, segnò la nascita della criogenia.

Nella sua tesi ‒ cui aveva dato lo stesso titolo di una celebre Bakerian lecture tenuta alla Royal Society di Londra da Thomas Andrews (1813-1885) nel 1869, The continuity of the gaseous and liquid states ‒ van der Waals indicava una soluzione aggiornata del problema della capillarità e al contempo proponeva, sulla base di affermazioni piuttosto generiche e della teoria cinetica dei gas, un'equazione di stato che inglobava alcune correzioni alla legge del gas ideale esposta da Robert Boyle. I risultati sperimentali ottenuti da Andrews, che dimostravano in modo convincente la continuità della transizione dallo stato gassoso a quello liquido, potevano essere ricavati con precisione sorprendente dall'equazione di stato di van der Waals. Malgrado quest'ultimo nutrisse una profonda fiducia nelle ragioni addotte a sostegno della continuità della transizione dallo stato gassoso a quello liquido, il problema riguardante l'identità dei due stati fu risolto soltanto nel 1880, con la formulazione della legge degli stati corrispondenti. Uno dei principali meriti dell'equazione di van der Waals consistette nella possibilità di calcolare le espressioni per la temperatura, la pressione e il volume critici in base ai parametri variabili dell'equazione originale. Con l'introduzione dei rapporti riguardanti la temperatura, la pressione e il volume ai loro rispettivi valori critici, l'equazione di stato assumeva una forma valida per tutti i gas e i liquidi, indipendentemente dalla natura delle diverse sostanze. In effetti, secondo la legge degli stati corrispondenti, gas con gli stessi valori dei parametri ridotti pr (pari a p/pc, dove p è la pressione e pc la pressione critica) e Tr (pari a T/Tc, dove T è la temperatura assoluta e Tc la temperatura critica) mostrano un identico scostamento dalle condizioni di gas perfetto.

Van der Waals non avanzò alcuna ipotesi sulle caratteristiche delle forze intermolecolari; egli descrisse le molecole come entità dotate di forma e di dimensioni finite e prese in considerazione le forze coesive, sia quelle repulsive a breve raggio sia quelle attrattive a lungo raggio. Le basi teoriche della sua equazione vanno ricercate nella teoria cinetica dei gas e, in particolare, nel teorema viriale di Rudolf Clausius. Allo studio delle proprietà dei fluidi a bassissime temperature contribuì notevolmente, fornendo una forte motivazione, una serie di circostanze: (1) il lavoro di Clausius Über die Art der Bewegung welche wir Wärme nennen (Sul genere di moto che chiamiamo calore), pubblicato su "Annalen der Physik" nel 1857, che descriveva il calore come risultato del moto molecolare; (2) gli esperimenti condotti da James P. Joule e William Thomson (lord Kelvin), che dimostravano il repentino abbassamento di temperatura di un gas sottoposto a un'espansione molto rapida; (3) gli esperimenti di Andrews per la determinazione del punto critico e del suo rapporto con la liquefazione; (4) l'analisi della continuità dello stato liquido e di quello gassoso, condotta da van der Waals.

Negli anni intorno al 1825 Michael Faraday (1791-1867) era riuscito a liquefare la maggior parte dei gas allora noti ‒ salvo i più importanti, l'ossigeno, l'azoto e l'idrogeno ‒ mentre alla fine del secolo erano stati liquefatti tutti, eccetto l'elio: Raoul Pictet e Louis-Paul Cailletet ottennero le prime piccole gocce di ossigeno e azoto nel 1877 a Parigi; Zygmunt Wróblewski e Karol Stanislaw Olszewski produssero ossigeno liquido in quantità apprezzabile nel 1883. Karl Paul Gottfried von Linde e William Hampson apportarono notevoli miglioramenti all'apparecchiatura per il raggiungimento delle basse temperature e nel 1898 James Dewar riuscì a liquefare l'idrogeno nel laboratorio della Royal Institution di Londra. L'elio, identificato inizialmente attraverso l'analisi delle righe spettrali dell'atmosfera solare, nel 1895 fu scoperto anche sulla Terra e nel 1908 Heike Kamerlingh Onnes riuscì a liquefarlo nel laboratorio di fisica dell'Università di Leida. Utilizzando il metodo rigenerativo e partendo dalla temperatura dell'idrogeno liquido, nel corso dell'esperimento egli stabilì il punto di ebollizione (4,25 °K) e la temperatura critica (5 °K) dell'elio.

La liquefazione dell'idrogeno

Dopo la liquefazione dell'ossigeno e dell'azoto, il traguardo più importante divenne quella dell'idrogeno (e, dopo il 1895, dell'elio). Il suo punto critico, stimato intorno ai −240 °C, era 40 °C ca. al di sotto delle temperature più basse ottenute fino ad allora. Il successo arrise finalmente a Dewar, il quale raggiunse il suo scopo grazie a un'ingegnosa combinazione di strumenti meccanici e di manipolazione. Sin dall'inizio egli si servì di una miscela di idrogeno e azoto fortemente compressa a una temperatura di −200 °C ca. che, sottoposta a una rapida espansione, gli consentì di raggiungere una temperatura inferiore, ossia il punto di partenza del ciclo di raffreddamento dell'idrogeno. La miscela toccò la più bassa temperatura allora ottenibile, trasformandosi in una gelatina di azoto solido che emetteva un gas facilmente identificabile come idrogeno, poiché bruciava con una violenta fiammata.

Quando Dewar iniziò i suoi esperimenti, le ipotesi circa la possibilità di liquefare l'idrogeno erano ancora in discussione. Nel gennaio del 1884 Wróblewski aveva scoperto che l'idrogeno, raffreddato fino al punto di ebollizione dell'ossigeno e sottoposto a una rapida espansione da 100 atm a 1 atm, manifestava gli stessi segni di ebollizione improvvisa osservati anche da Cailletet; subito dopo Olszewski diede il via a una serie di esperimenti con idrogeno a 190 atm raffreddato insieme a una miscela di ossigeno e azoto; espandendo il gas a 40 atm, egli notò la presenza di gocce incolori sulle pareti dell'ampolla; poiché tuttavia Wróblewski non fu in grado di confermare questo risultato, definì il suo idrogeno un liquide dynamique.

Dewar iniziò le sue prove di liquefazione dell'idrogeno il 25 febbraio 1898. Nelle prime esperienze con una nuova apparecchiatura, egli accumulò aria liquida in un contenitore interno per tre ore circa e, durante il raffreddamento ‒ come risulta dai registri di laboratorio depositati presso la Royal Institution ‒, l'idrogeno rimase sotto pressione, con una leggera fuga attraverso la serpentina di rigenerazione; tutto sembrava andare per il meglio fino al momento in cui l'aria liquida non fu scaricata del tutto, ossia "quando, tentando di aprire la valvola dell'H [idrogeno], non uscì fuori nulla". Dewar, pensando che la valvola fosse ostruita da aria solidificata, aprì la valvola dell'aria e permise all'idrogeno pressurizzato di espandersi nella serpentina dell'aria liquida. Questa improvvisa espansione adiabatica produsse un misto di aria solida e di impurità solide mescolate a gocce di liquido apparse sulle pareti di vetro. L'espansione si verificò in un tubo a vuoto a forma di V e aperto sul fondo; durante l'afflusso del gas, Dewar osservò due intense scariche elettriche attraversare l'idrogeno contenuto nel tubo a vuoto e suppose che lo scintillamento fosse stato causato da particelle solide di lega per saldature trasportate dall'idrogeno e provenienti dalla serpentina.

Nella successiva serie di esperienze Dewar decise di cominciare con aria a 200 atm a temperatura ambiente, ricavandone soltanto il 5 % di aria liquida; le ampolle a V con apertura sul fondo per la raccolta dell'aria liquida si rivelarono però inadeguate. Quando egli ripeté la prova con idrogeno gassoso espanso alla velocità di 12 piedi cubici al minuto, una minuscola quantità di liquido si raccolse nello specchio delle due ampolle a vuoto nel punto in cui entrava l'idrogeno proveniente dal rigeneratore. La prosecuzione degli esperimenti fu però messa in forse da un nuovo ostacolo, ossia l'intasamento delle ampolle a causa delle impurità congelate contenute nell'idrogeno gassoso.

Il 10 maggio 1898 Dewar rimosse finalmente l'intasamento e ottenne l'idrogeno liquido, che si presentava come un liquido chiaro e trasparente, con un menisco ben definito (perfino più visibile di quello dell'aria liquida), privo di spettro di assorbimento e con un tempo di evaporazione molto lento, fino a quando le pareti del contenitore non iniziavano a scaldarsi. Quando immerse una fiala sigillata piena di elio nell'idrogeno, Dewar osservò la formazione di un liquido, che non si verificava immergendo la fiala nell'aria liquida; due giorni dopo ripeté l'esperimento, osservando che l'idrogeno liquido appariva più brillante dell'aria liquida. Egli cercò di effettuare altre prove con l'idrogeno liquido e di misurarne la densità. Dewar presentò i risultati delle sue ricerche alla Royal Society il 12 maggio ‒ e, una settimana più tardi, anche alla Chemical Society ‒ asserendo di essere riuscito a liquefare sia l'idrogeno sia l'elio ma, alla metà di giugno, egli comprese che il liquido che aveva ritenuto fosse elio proveniva, in realtà, dalla liquefazione di impurità gassose contenute nell'elio.

La liquefazione dell'elio

Le prime indagini condotte da Kamerlingh Onnes tra il conseguimento del dottorato e l'assegnazione della cattedra di fisica sperimentale presso l'Università di Leida definiscono il programma delle sue ricerche nel campo della fisica delle basse temperature. La sua tesi di dottorato, intitolata New proofs for the axial rotation of the earth, conteneva la prima trattazione matematica rigorosa del pendolo di Foucault e nel 1881 pubblicò General theory of the fluid state, un lavoro puramente teorico in cui si chiarivano varie questioni sollevate da van der Waals. Kamerlingh Onnes riformulò inoltre la legge degli stati corrispondenti, enunciata da van der Waals, dimostrando che i moti delle molecole di tutte le sostanze che si trovano in uno stato corrispondente sono simili dal punto di vista dinamico, e chiarì l'importanza di questo teorema per le sue ricerche nel 1894, quando nel rapporto sul nuovo laboratorio criogenico dell'Università di Leida affermò di essere stato spinto a lavorare con i gas condensati dallo studio della legge degli stati corrispondenti di van der Waals, ritenendo estremamente importante analizzare le linee isotermiche dei gas permanenti, in particolare dell'idrogeno, a temperature molto basse.

Kamerlingh Onnes avviò così un programma di ricerca finalizzato a determinare i diversi parametri dell'equazione di stato e a verificare alcune implicazioni delle teorie di van der Waals, da lui riformulate, per una varietà di sostanze e una gamma di temperature le più ampie possibili. I test eseguiti a bassissime temperature presentavano il vantaggio dell'assenza quasi assoluta di reazioni chimiche. L'elio allo stato puro era stato ottenuto per la prima volta tra il 1895 e il 1896; dopo tredici anni di inutili tentativi per ottenerne la liquefazione, che impegnarono diversi scienziati (Olszewski nel 1896, Dewar nel 1901, Morris W. Travers nel 1903, Olszewski nel 1905), il 10 luglio 1908 Kamerlingh Onnes portò finalmente a termine l'impresa. L'avvio non era stato tuttavia molto promettente, in quanto negli anni 1896 e 1897 il municipio cittadino gli aveva proibito di effettuare esperimenti che prevedessero l'impiego di gas ad alta pressione; il consiglio comunale ‒ memore della distruzione di cinquecento abitazioni provocata nel 1807 dall'esplosione di una chiatta carica di polvere da sparo ‒ permise tuttavia la prosecuzione delle ricerche dopo un intervento dello stesso Dewar.

L'apparecchiatura di Kamerlingh Onnes era una versione migliorata di quella utilizzata da Pictet per liquefare l'ossigeno e da Linde per liquefare grandi volumi di aria e il suo procedimento richiedeva quantità rilevanti di elio (ricavate dalla sabbia di criptolite proveniente dal Nord Carolina). L'idea fondamentale di Pictet era quella di comprimere l'ossigeno ad alta pressione in un tubo a contatto con una sostanza molto fredda, mentre Linde escogitò un sistema per cui l'aria pressurizzata era rilasciata improvvisamente in un contenitore, con il conseguente abbassamento della sua temperatura, e quindi riutilizzata per raffreddare i tubi contenenti altra aria pressurizzata in attesa dell'espansione, in un procedimento circolare che proseguiva fino alla liquefazione dell'aria.

Stimato il punto critico dell'elio intorno ai 5 K, Kamerlingh Onnes tentò di ottenerne la liquefazione per espansione. Nel contenitore apparve una densa nuvola, mescolata a masse solide, galleggianti nell'elio gassoso e simili a batuffoli di cotone "in un liquido sciropposo che aderiva alle pareti di vetro e scivolava verso il fondo". Il tempo di evaporazione era molto rapido ed egli pensò si trattasse di elio liquido ma, ben presto, comprese di essersi sbagliato. Il gas utilizzato conteneva tracce di idrogeno ‒ tra lo 0,47 e lo 0,37% del volume ‒, una quantità minima, naturalmente, ma sufficiente a falsare l'esperimento. Ripetendo l'esperienza con lo stesso gas ma con una velocità di espansione più elevata, Kamerlingh Onnes osservò l'apparizione di una nuvola sottile, che scomparve in un secondo, e suppose si trattasse di particelle di idrogeno solido disperse nel gas di elio, pur senza scartare la possibilità che la nube contenesse elio liquido. Se così fosse stato, il punto critico avrebbe coinciso con i risultati dei suoi calcoli basati sulle isoterme, dimostrando che anche l'elio obbediva sostanzialmente alle leggi formulate da van der Waals.

La prima liquefazione dell'elio ebbe inizio alle 5,30 e proseguì fino alle 21,30; l'elio liquido cominciò a formarsi nel pomeriggio, senza poter essere però osservato mentre fluiva nel contenitore a causa della sua estrema trasparenza; la sua presenza fu confermata solamente quando colmò il vaso e la superficie apparve "contro la parete del vaso, affilata come la lama di un coltello". Kamerlingh Onnes stabilì che il punto di ebollizione equivaleva a 4,25 K sopra lo zero assoluto e la temperatura critica a 5 K ma non riuscì a solidificare l'elio, neppure abbassando la temperatura; la solidificazione fu raggiunta soltanto nel 1926, riducendo la temperatura e aumentando la pressione a 26 atm.

La resistenza elettrica alle basse temperature

I primi studi sistematici sulla dipendenza della resistenza elettrica dalla temperatura furono intrapresi da Cailletet, Edmond-Marie-Léopold Bouty (1885) e Wróblewski (1885). Cailletet e Bouty avevano proposto l'adozione di una formula fenomenologica che sembrava in grado di fornire le misure della resistenza elettrica di diversi metalli fino a una temperatura di −100 °C. Nel 1892 Dewar, in collaborazione con John A. Fleming (1849-1945), effettuò alcuni esperimenti per misurare la resistenza elettrica di vari metalli e leghe alle basse temperature; essi decisero di utilizzare una gamma di temperature compresa tra i 100 °C e i −200 °C, servendosi di ossigeno liquido come sostanza refrigerante, e di rilevare i valori della resistenza specifica di platino, oro, argento, rame, ferro, alluminio, nichel, stagno fosforo-bronzo e di diverse leghe di platino. Nel 1892 essi osservarono che i valori misurati disegnavano una serie di linee più o meno incurvate che tendevano verso il basso ‒ in modo tale da indicare che, se prolungate oltre i −200 °C, sarebbero probabilmente passate in prossimità dello zero assoluto ‒ e constatarono sia l'enorme decremento della resistenza nei metalli puri sia che la minima impurità influiva molto su tale diminuzione. Misurazioni successive sembrarono avvalorare la conclusione che la resistenza elettrica specifica di tutti i metalli puri si sarebbe annullata a una temperatura vicina allo zero assoluto; le rilevazioni effettuate a temperature intorno a quella dell'idrogeno liquido servendosi di un termometro di platino mostrarono invece ‒ al contrario ‒ che, dopo aver raggiunto una soglia minima, la resistenza riprendeva a crescere. La resistenza di un metallo puro continuava a diminuire con la temperatura, avvicinandosi sempre più a un preciso valore asintotico oltre il quale nessun abbassamento ulteriore della temperatura stessa sembrava più influire sulla resistenza.

Nel 1904 Kamerlingh Onnes pensava che le ricerche di Dewar sulla resistenza dei metalli a temperature intorno a quella dell'idrogeno liquido confermassero l'ipotesi di Thomson secondo la quale, superata una certa soglia minima, un ulteriore abbassamento della temperatura avrebbe provocato un enorme aumento della resistenza, a causa della 'condensazione' degli elettroni. Egli abbandonò tuttavia questa idea dopo le prime misurazioni della resistenza del mercurio a temperature intorno a quella dell'elio liquido.

Nel febbraio 1911 Kamerlingh Onnes misurò alla temperatura dell'elio liquido la resistenza del platino e, ad aprile, quella del mercurio puro: a 3 K quest'ultima cadde a un decimillesimo della resistenza del mercurio solido a 0 °C, come estrapolato dal punto di fusione, tornando su valori rilevabili a partire da 4,2 K. Negli anni 1912-1913 i ricercatori del centro criogenico di Leida ripeterono tali misurazioni a temperature intorno a quella dell'elio liquido, confermando l'improvvisa caduta della resistenza e l'incapacità delle impurità (almeno nel caso del mercurio) di mascherare la scomparsa della resistenza ordinaria. Si cominciò a parlare allora di superconduttività.

Superconduttività e superfluidità

Kamerlingh Onnes propose una spiegazione della superconduttività basata sulla teoria dell'elettrone di Lorentz. Egli assunse che la resistenza fosse causata dalle vibrazioni quantizzate degli atomi (vibrazioni di Planck, secondo la terminologia dello stesso Kamerlingh Onnes): gli elettroni si muovono liberamente attraverso gli atomi fino a che non collidono con tali vibrazioni e sono riflessi alla superficie del conduttore come fossero corpi perfettamente elastici. Se la distanza percorsa dagli elettroni tra due collisioni era delle dimensioni del conduttore e la loro velocità di deriva non era trascurabile rispetto alla velocità del 'movimento termico', si potevano spiegare le deviazioni dalla legge di Ohm a basse temperature. Egli fornì anche spiegazioni della peculiare proprietà del ripristino della resistenza quando una corrente elettrica relativamente alta attraversa il superconduttore. Secondo la sua interpretazione la causa ovvia del fenomeno doveva essere la generazione di calore. Tuttavia, dal momento che la comparsa di tale calore non veniva rilevata dagli esperimenti, egli fu portato a ipotizzare che alcune particelle 'meno conduttive' si separassero dal mercurio durante il raffreddamento o venissero a trovarsi in qualche altro modo tra i cristalli di mercurio, così da determinare una resistenza nel percorso della corrente. Stabilendo al contempo che il mercurio poteva essere superconduttore persino in uno stato impuro, Kamerlingh Onnes concluse che 'fili' di mercurio possedevano una microresistenza 'residuale' distinta dalla resistenza della 'miscela additiva' attribuita alle impurezze, e che questa resistenza creava una distribuzione lievemente disomogenea di 'localizzazioni' di Peltier in questi 'fili'.

Secondo la prima teoria quantistica di successo per la conduzione elettrica, proposta da Felix Bloch (1905-1983) nel 1928, era impossibile che si verificasse un fenomeno come quello della superconduttività. Questa teoria considerava ciascun elettrone in un metallo come un'entità indipendente, che si muove, però, in un campo effettivo calcolato mediante un processo di media esteso a tutti gli altri elettroni (ossia il cosiddetto 'campo medio'). Poiché il reticolo cristallino di un sistema metallico origina un potenziale elettrostatico di natura periodica per il movimento degli elettroni, se il metallo si venisse a trovare allo zero assoluto, la resistenza elettrica data dal reticolo completamente immobile risulterebbe esattamente pari a zero. Bloch utilizzava un'analogia con il fenomeno del ferromagnetismo per affrontare il problema della superconduttività. Egli aveva dimostrato che lo stato più stabile di un conduttore, in assenza di un campo magnetico esterno applicato, era caratterizzato dall'assenza di correnti ma, dal momento che il fenomeno della superconduttività era contraddistinto proprio da uno stato stabile ‒ nel quale le correnti elettriche continuavano a sopravvivere anche in assenza di campi esterni (correnti persistenti) ‒ era molto difficile comprendere come potesse aver luogo la nascita di una fase superconduttiva.

All'inizio di novembre del 1933 su "Naturwissenschaften" apparve una breve lettera di Walther Meissner (1882-1974) e Robert Ochsenfeld (1901-1993), nella quale venivano presentate prove convincenti a favore del fatto che, contrariamente a tutte le convinzioni del ventennio precedente, in un superconduttore il campo magnetico veniva completamente espulso non appena la temperatura scendeva al di sotto della temperatura di transizione (effetto Meissner), e il flusso magnetico diventava esattamente nullo. Si scoprì in questo modo che il comportamento di un superconduttore era diamagnetico e, quindi, che la superconduttività era un fenomeno reversibile, fatto che rendeva possibile l'applicazione della termodinamica.

Nel 1934 i fratelli Fritz (1900-1954) e Heinz (1907-1970) London avanzarono l'ipotesi che il diamagnetismo fosse in realtà una proprietà intrinseca di un superconduttore ideale e non una pura conseguenza dell'assenza di resistività nel materiale. I due fisici collegarono la presenza della corrente elettrica in un superconduttore non al campo elettrico ma a quello magnetico. Quest'idea si poteva tradurre matematicamente integrando un'equazione ‒ proposta precedentemente dallo stesso Heinz ‒ che rappresentava essenzialmente una relazione tra le derivate temporali della corrente e il campo magnetico e ponendo successivamente la costante di integrazione esattamente uguale a zero. I fratelli London riuscirono a derivare in questo modo una forma di elettrodinamica valida per i superconduttori, nell'ambito della quale era possibile dar conto sia dell'effetto Meissner sia della resistenza nulla.

Fu proprio Fritz London, d'altra parte, a introdurre per la prima volta il concetto di fenomeno quantistico macroscopico in una sua discussione della superconduttività nel 1936.

Per quello che riguardava masse ioniche, dal momento che queste erano molto maggiori di quelle elettroniche, la convinzione generale era che non giocassero un ruolo rilevante nel fenomeno della superconduttività. Tuttavia nel 1950 Herbert Frohlich (1905-1991) iniziò a sostenere la tesi opposta e, facendo uso della teoria dei campi, dimostrò che l'interazione degli elettroni in un metallo con le vibrazioni del reticolo generava effettivamente una forza attrattiva tra gli elettroni stessi. Questa sua proposta teorica trovò una rapida conferma negli esperimenti e, nel momento in cui il movimento degli ioni veniva incluso nella spiegazione della superconduttività, la massa ionica diveniva un parametro importante, suggerendo l'idea che il fenomeno superconduttivo potesse essere originato dall'interazione tra gli elettroni e il moto di punto zero del reticolo.

Venuto a conoscenza di questi risultati, in breve tempo John Bardeen (1908-1991) riuscì effettivamente a dimostrare che la superconduttività poteva essere originata da un nuovo tipo di interazione attrattiva tra gli elettroni e le vibrazioni quantizzate del reticolo ionico ('fononi'), aprendo in questo modo la strada alla teoria delle coppie elettroniche. Nel 1956 Leon N. Cooper mise in evidenza come questo tipo di interazione potesse, in effetti, portare alla formazione di uno stato legato costituito da una coppia di quasi-particelle al di sopra del mare di Fermi, indipendentemente da quanto fosse debole l'intensità di questa attrazione. A partire da tali idee, nel 1957, Bardeen e Cooper, insieme a J. Robert Schrieffer, riuscirono a definire i dettagli della spiegazione microscopica della superconduttività, nella teoria BCS (dalle iniziali dei loro cognomi), che valse loro il premio Nobel nel 1972.

Superfluidità

Quando, nel 1911, Kamerlingh Onnes scoprì che la densità dell'elio raggiungeva il suo valore massimo a 2 K ca. sopra lo zero assoluto, erano già molte le indicazioni che 'qualcosa accadeva all'elio a quella temperatura'. Sino alla conclusione degli anni Trenta, però, tutti i tentativi di utilizzare le nozioni dell'idrodinamica classica per spiegare la fenomenologia dell'elio liquido al di sotto della temperatura di 2,19 K risultarono un completo insuccesso.

Nel 1930 Willem Hendrik Keesom (1876-1956) e J.N. van der Ende osservarono quasi casualmente che l'elio II (ossia la fase liquida dell'elio a una temperatura inferiore a 2,19 K) riusciva a passare con una straordinaria facilità attraverso fori di diametro estremamente piccolo. Questa strana proprietà scompariva completamente a temperature più alte, persino per la fase aeriforme dell'elio.

Da una tale fenomenologia si poteva dedurre un enorme calo nella viscosità dell'elio non appena la temperatura scendeva al di sotto della soglia di 2,19 K.

Quando la viscosità dell'elio fu misurata con il metodo del disco rotante da J.O. Wilhelm, A.D. Misener e A.R. Clark a Toronto, nel 1935, e da Keesom e G.E. MacWood a Leida, nel 1938, non si riscontrarono tuttavia variazioni brusche nell'andamento di questa grandezza fisica; persino nel caso in cui la temperatura veniva ridotta in modo considerevole il valore della viscosità non risultava particolarmente diverso da quello osservato nell'elio al di sopra di 2,19 K. D'altro canto, nel momento in cui si confrontarono questi risultati con quelli ottenuti con il metodo del capillare, si rilevò un assoluto disaccordo: il valore della viscosità misurato con questa tecnica al di sotto di 2,19 K era addirittura un milione di volte più piccolo.

Una tale discrepanza nella determinazione della viscosità dell'elio mediante queste due diverse tecniche (che, però, almeno in teoria sarebbero dovute risultare del tutto equivalenti) non poteva essere in alcun modo spiegata nell'ambito dell'idrodinamica classica. A ogni modo, questi risultati vennero in seguito confermati da misure molto accurate della viscosità eseguite nel 1940 da Pëtr Leonidovič Kapitsa (1894-1984), che fu anche il primo a utilizzare il termine 'superfluidità' per caratterizzare lo strano comportamento dell'elio a queste temperature.

La proprietà forse più strana di tutte fu osservata nel febbraio del 1938 da John F. Allen e Harry Jones, che misurarono la conducibilità termica nell'elio liquido a temperature molto basse utilizzando un serbatoio dotato di un capillare: i due scienziati osservarono che, quando veniva fornito calore a un recipiente posto al suo interno (e collegato al serbatoio stesso mediante il capillare), il livello dell'elio, invece di tendere ad abbassarsi, sembrava salire al di sopra del livello del serbatoio. L'innalzamento del livello dell'elio che veniva osservato nel recipiente interno aumentava all'aumentare della quantità di calore fornita e, tenendo fissa quest'ultima, al diminuire della temperatura. Questo era il cosiddetto effetto 'termomeccanico', vale a dire un flusso di materia che si muove in direzione opposta al flusso della corrente di calore. In un altro esperimento di questo tipo Allen e Jones utilizzarono un bulbo riempito di polvere aperto sul fondo e con un piccolo orifizio sulla sommità. Se si riscaldava la polvere illuminandola con la luce, si poteva osservare uno zampillo di elio liquido che fuoriusciva dall'estremità superiore fino a un'altezza di svariati centimetri, realizzando quello che venne chiamato 'effetto fontana'. Erano sufficienti differenze di temperatura veramente piccole per produrre un fenomeno di convezione di considerevole entità e risultava perciò impossibile trattare indipendentemente le proprietà idrodinamiche e del trasporto di calore nell'elio II liquido.

Nel 1939 John G. Daunt e Kurt Mendelssohn a Oxford e Isaak Konstantinovič Kikoin e B.G. Lasarew a Cracovia scoprirono che il fluire dell'elio liquido da un serbatoio a un recipiente posto al suo interno (o al suo esterno a seconda dell'altezza relativa delle superfici dell'elio liquido) avveniva in uno strato sottilissimo, il cui 'spessore' era di 100 atomi ca., che si formava lungo le pareti. Il valore della viscosità di un liquido ordinario è tale che questo strato sottilissimo riesce a bagnare soltanto molto lentamente le forme delle varie superfici su cui dovrebbe scorrere il liquido stesso e quindi, in pratica, non si osserva alcun movimento. L'elio II è il solo fluido che, grazie alle proprietà della sua fase superfluida, riesce a formare sulle pareti dei recipienti una pellicola sottilissima di liquido in grado di muoversi rapidamente.

Nel novembre del 1937 fu organizzata ad Amsterdam una conferenza per commemorare il centenario della nascita di van der Waals. Max Born (1882-1970) presentò uno studio sulla meccanica statistica di sistemi che condensavano, nel quale aveva sviluppato alcuni dei risultati da poco ottenuti da Joseph Edward Mayer, che lo stesso Born considerava come "uno dei contributi più importanti allo sviluppo della teoria di van der Waals". Mayer aveva tentato di spiegare il fenomeno della condensazione nell'ambito della meccanica statistica classica, provando ad affrontare la risoluzione del caso molto generale di una legge di forza centrale tra le molecole. Il lavoro di Mayer fu discusso da B. Kahn e George E. Uhlenbeck, i quali mostrarono come i suoi calcoli fossero formalmente analoghi alle equazioni elaborate da Albert Einstein relative a un gas di bosoni ideale, per il quale egli aveva effettivamente previsto un fenomeno di condensazione. Questo lavoro di Mayer spinse Fritz London a interessarsi all'articolo di Einstein sulla condensazione di un gas di Bose. In una breve comunicazione, apparsa sul numero di "Nature" pubblicato il 9 aprile 1938, London prometteva appunto che avrebbe rivolto in seguito la sua attenzione a un'interpretazione completamente diversa di questo strano fenomeno.

In un gas ideale di Bose-Einstein il fenomeno di condensazione è rappresentato da una discontinuità nella derivata del calore specifico; gli esperimenti sull'elio liquido mostrarono l'esistenza di una tale discontinuità. In una nota su "Nature" London affrontò l'analisi di questo fenomeno detto anche transizione 'lambda' (poiché l'andamento in temperatura del calore specifico ricordava appunto la lettera greca), cui aggiunse solamente l'auspicio che il meccanismo proposto potesse, in seguito, fornire una valida spiegazione anche per il comportamento straordinario del trasporto di carica e di materia dell'elio II. Al di sotto di una certa temperatura, che dipende dalla massa e dalla densità delle particelle in questione, una frazione significativa di esse comincia a raccogliersi o ‒ in gergo più tecnico ‒ a condensarsi nello stato a energia più bassa: questo vuol dire che un numero significativo di particelle si viene a trovare in uno stato con impulso nullo. Le particelle rimanenti invece presentano una distribuzione di velocità simile a quelle di un gas classico, comportandosi come entità distinte. Poiché entrambe le componenti del gas ‒ sia quella 'condensata' sia quella 'eccitata' ‒ occupano il volume totale del recipiente proprio come se l'una fosse dissolta nell'altra, non vi è alcun fenomeno di condensazione nel senso ordinario del termine. In altre parole non si osserva nel sistema alcuna separazione spaziale tra due zone caratterizzate da due diversi valori della densità. L'idea di London, infatti, era che la condensazione avvenisse nello spazio degli impulsi, piuttosto che in quello ordinario. In quest'ottica il sistema risulta dunque suddiviso in una fase di particelle con impulso nullo (che occupa un volume nullo nello spazio degli impulsi) e in una fase in cui sono presenti particelle con una distribuzione di impulsi tipica di temperature maggiori della temperatura di transizione. In questo caso nello spazio ordinario non può essere osservata nessuna separazione tra le due fasi.

Le particelle della fase condensata non possono formare pacchetti d'onda di dimensioni molecolari con l'usuale meccanismo di sovrapposizione di funzioni d'onda di particelle vicine, dal momento che le loro funzioni d'onda sono in realtà costanti sull'intero volume occupato dal sistema. Di conseguenza viene meno la possibilità di applicare il teorema di Ehrenfest ‒ che garantisce, entro certi limiti, la validità della meccanica classica per la descrizione del movimento di pacchetti d'onda di piccola estensione spaziale ‒ allo studio del moto di queste particelle in presenza di campi esterni. Questa limitazione costituiva un problema estremamente serio, considerato che il teorema di Ehrenfest era lo strumento fondamentale con cui si affrontava lo studio quantistico a livello microscopico dei fenomeni di trasporto. Tuttavia furono proprio queste differenze rispetto allo studio di sistemi più convenzionali a spingere London a mettere in evidenza l'esistenza di una somiglianza fondamentale tra la superfluidità e la superconduttività, una somiglianza che evidentemente trascendeva la statistica delle particelle coinvolte (bosoni nel primo caso, fermioni nel secondo) ed era collegata invece alla natura quantistica su scala macroscopica che caratterizzava entrambi i fenomeni. Infatti anche i pacchetti d'onda delle particelle del condensato di Bose-Einstein formano pacchetti d'onda di piccolissima estensione nello spazio degli impulsi che ‒ per contro ‒ sono estremamente estesi nello spazio ordinario, tanto da occupare regioni di dimensioni confrontabili con le scale di lunghezza delle disomogeneità dei campi macroscopici.

László Tisza si concentrò sulla difficoltà maggiore costituita dal fatto che i risultati delle due misurazioni della viscosità dell'elio liquido erano assolutamente inconciliabili. Egli esaminò il concetto di viscosità nei liquidi e nei gas, arrivando alla conclusione che le discrepanze osservate nel caso dell'elio liquido riflettevano un fallimento del concetto stesso di viscosità: per l'elio II liquido non esisteva alcuna equazione di Navier-Stokes con un parametro di viscosità! Egli ne dedusse che doveva esistere un miscuglio di una componente superfluida con una viscosa, o normale. Un capillare molto sottile era permeabile soltanto al flusso superfluido, ma non al fluido normale. Una divisione in due entità compenetrantesi ma distinte poteva essere in effetti spiegata nell'ambito della condensazione di Bose-Einstein, ma la pressione del gas andava interpretata in questo caso come una pressione osmotica. In una prima lettera apparsa su "Nature" del 21 maggio 1938, Tisza considera l'elio II costituito da due componenti completamente compenetrantesi, la normale e la superfluida; queste due componenti, o 'fluidi', sono contraddistinte da differenti comportamenti idrodinamici e dal diverso contenuto di calore. Il fluido normale non condensato mantiene le proprietà di un liquido ordinario (esso è identico all'elio I), mentre la frazione superfluida condensata dell'elio II non può prendere parte ai processi di dissipazione. In questo schema, allo zero assoluto il liquido diventa un superfluido, interamente composto da atomi condensati, mentre alla temperatura di transizione la componente superfluida svanisce. Le proprietà idrodinamiche di un tale miscuglio permettono effettivamente di spiegare fenomeni che sembravano paradossali nell'idrodinamica ordinaria; per esempio, un disco oscillante nell'elio II sperimenta un attrito da parte del fluido normale, mentre un capillare sottile permette al superfluido di passare senza provocare attrito. Tisza fornisce un'interpretazione simile dell'effetto termomeccanico. Pochi mesi dopo, in un'altra piccola nota presentata all'Académie des Sciences di Parigi, egli riconobbe che il suo modello implicava una caratteristica molto strana: nell'elio II liquido la temperatura avrebbe obbedito a un'equazione d'onda. Il fenomeno dell'esistenza di queste 'onde di temperatura' sarebbe divenuto noto in seguito con il nome di 'secondo suono' e la dipendenza della loro velocità dalla temperatura rappresentò in effetti un test decisivo per la validità del modello a due fluidi.

Un'osservazione del tutto casuale portò Kapitsa in una direzione totalmente nuova. Egli trovò che le oscillazioni di pressione trasmesse dalle condutture dell'elio del suo laboratorio all'elio presente nel capillare provocavano variazioni sostanziali nella sua conducibilità termica. Per studiare tale fenomeno il più a fondo possibile, Kapitsa progettò nuovi esperimenti, i quali provarono come il modo con cui avveniva il movimento dell'elio liquido nel tubo capillare fosse determinato dalla corrente termica. La spiegazione da lui proposta non adottava il modello a due fluidi: egli avanzò l'ipotesi dell'esistenza di due correnti di materia, spazialmente separate, che scorrevano rispettivamente una nello strato superficiale in prossimità della parete interna del bulbo e l'altra, in senso opposto, nella zona centrale del bulbo stesso. Per spiegare l'alta conducibilità termica dell'elio II sulla base di questo schema di movimento all'interno del capillare, Kapitsa formulò l'ulteriore ipotesi di una differenza della distribuzione di calore dell'elio dello strato superficiale, rispetto a quella che si poteva osservare per l'elio nello stato libero: dando ragione della differenza del contenuto di calore tra le due correnti di materia come conseguenza delle forze di van der Waals che la parete del capillare esercitava sullo strato superficiale del liquido. La spiegazione proposta da Kapitsa si rivelò di grande utilità: a partire da questa si riuscì a dedurre che la conducibilità termica dell'elio non avrebbe mostrato alcuna anomalia in assenza di fenomeni di superficie. Alcuni esperimenti effettuati in seguito dimostrarono che l'entropia dell'elio che fluiva attraverso tubi di piccolissima sezione era esattamente pari a zero. Questa proprietà in effetti era già prevista precedentemente sia da Tisza sia da London, ma Kapitsa era convinto che le loro interpretazioni non fossero in grado di fornire "una rigida base teorica" per la spiegazione delle sue osservazioni. Egli preferì considerare invece la teoria dell'elio liquido di Lev Davidovič Landau (1908-1968), che era stata appena pubblicata. Landau aveva cercato di formulare una teoria quantistica dei liquidi, eseguendo il procedimento di quantizzazione direttamente sulle variabili idrodinamiche come la densità, la corrente e la velocità, senza far ricorso a una trattazione esplicita delle forze interatomiche. In sostanza egli considerava gli stati quantizzati dell'intero liquido invece di quelli dei singoli atomi: la sua analisi partiva dallo studio dello stato fondamentale del liquido allo zero assoluto, e le deviazioni da tale stato del sistema allora erano rappresentate per esempio dalle eccitazioni di vorticità. Altre deviazioni possibili erano originate naturalmente dall'eccitazione di uno o più quanti di energia delle onde sonore, ossia dai cosiddetti 'fononi', i quali determinavano un andamento di tipo Debye per il calore specifico ma non riuscivano a spiegare il comportamento di questa grandezza fisica per temperature superiori a 1 K.

In questo modo Landau aveva ricavato lo spettro energetico di un liquido a partire da due tipi diversi di eccitazioni: egli aveva aggiunto uno spettro di 'rotoni', definiti come le eccitazioni elementari dello spettro dei vortici, all'usuale spettro fononico di un corpo solido. Gli stati con energie simili a quella dello stato fondamentale, quindi, potevano essere caratterizzati semplicemente considerando il numero e l'energia delle eccitazioni fononiche e rotoniche presenti.

Nella teoria di Landau l'elio veniva descritto come un liquido sullo sfondo del quale si muovevano le diverse eccitazioni. Le particelle nello stato fondamentale e le eccitazioni giocavano rispettivamente il ruolo dello stato superfluido e di quello normale. Le eccitazioni venivano identificate con lo stato normale, perché potevano essere sia diffuse sia riflesse e, di conseguenza, rappresentavano una sorgente per la viscosità.

Il fluido associato con lo stato fondamentale si comportava invece come un superfluido perché non era in grado di assorbire un'eccitazione fononica o rotonica dalle pareti del tubo, almeno finché la sua velocità di scorrimento non superava rispettivamente o la velocità del suono nel particolare sistema considerato o un altro valore di 'velocità critica' (che dipendeva dalla forma esatta dello spettro rotonico). Per velocità inferiori al più piccolo di questi due valori di soglia la corrente di elio non avrebbe interagito con le pareti e, quindi, avrebbe mostrato un comportamento di tipo superfluido, a meno che ‒ come osservava lo stesso Landau ‒ qualche altro meccanismo, al di fuori di questo schema, non intervenisse a limitare il flusso dell'elio liquido. Il formalismo di Landau si traduceva in due differenti equazioni per la propagazione del suono e quindi nella definizione di due velocità. La prima si riferiva all'usuale velocità di compressione, mentre l'altra risultava dipendere in modo considerevole dalla temperatura: era in sostanza lo stesso fenomeno delle onde termiche o di temperatura scoperto da Tisza, per il quale Landau coniò il nome di 'secondo suono'.

Aleksandr Iosifovič Šalnikov (1905-1986) e N.D. Sokolov si cimentarono nel primo tentativo di generare e rivelare il secondo suono mediante un apparato acustico, ma il loro tentativo non fu coronato da successo. L'impossibilità di osservare il secondo suono con apparecchiature acustiche fu spiegata nel 1944 da Evgenij Mikhajlovič Lifshitz (1915-1985), il quale dimostrò come, negli esperimenti in cui si faceva uso di apparecchiature meccaniche per la generazione del suono, il fenomeno del secondo suono venisse mascherato dal suono ordinario. Al contrario, una piastra la cui temperatura subisse una variazione periodica avrebbe generato esclusivamente oscillazioni di secondo suono. Utilizzando questo tipo di 'radiatore', V. Peshkov riuscì a provare nel 1944 per la prima volta l'esistenza di onde termiche stazionarie. Nel 1956 Richard P. Feynman (1918-1988) dimostrò che alcune delle assunzioni empiriche di Landau potevano venire giustificate rigorosamente a livello della meccanica quantistica e che i rotoni erano in effetti una sorta di analogo quantistico di un anello di vortici microscopici.

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