La seconda rivoluzione scientifica: scienze biologiche e medicina. Dall'immunità al sistema immunitario

Storia della Scienza (2004)

La seconda rivoluzione scientifica: scienze biologiche e medicina. Dall'immunita al sistema immunitario

Gilberto Corbellini

Dall'immunità al sistema immunitario

Lo studio sperimentale dell'immunità prendeva forma, durante gli anni Ottanta dell'Ottocento, come branca della microbiologia medica che utilizzava gli strumenti tecnici e concettuali della chimica, e assumeva un profilo autonomo all'alba del XX secolo. L'evoluzione delle conoscenze dei meccanismi e dei processi immunitari, nonché del ruolo delle risposte immunitarie nella salute e nella malattia è passata attraverso quattro fasi distinte, caratterizzate da interessi e approcci metodologici differenti. Il periodo compreso tra il 1880 e le soglie della Prima guerra mondiale è stato definito come l'età d'oro dell'immunologia; esso ha visto la scoperta di una base fisiologica dell'immunità e l'emergere dell'immunologia come scienza fondamentale, attraverso gli studi batteriologici sugli agenti infettivi condotti in una prospettiva medico-applicativa. Dopo la Prima guerra mondiale l'interesse per gli aspetti medici dell'immunità è declinato e l'immunologia è entrata nell'era dell'immunochimica, in cui l'attenzione era concentrata sulle caratteristiche strutturali e chimico-fisiche degli antigeni e degli anticorpi, allo scopo di stabilire la natura e l'origine della specificità immunologica. Dalla fine degli anni Quaranta del XX sec. si è innescato un processo di biologizzazione dell'immunologia, caratterizzato dall'attenzione per le dinamiche fisiologiche dell'immunità e per le loro basi anatomo-funzionali e cellulari. Nel corso di questa fase si è realizzata la 'sintesi immunologica', stimolata dalla teoria della selezione clonale, dallo studio delle basi genetiche della diversità anticorpale e infine dalle ricerche sia su cooperazione cellulare e controllo genetico, sia sui mediatori delle risposte immunitarie. L'ultima fase, i cui contenuti storici esulano da questo saggio, è iniziata con la rivoluzione tecnologica introdotta dal DNA ricombinante; la frontiera della ricerca si è progressivamente spostata verso lo studio dei meccanismi di segnalazione che controllano i cambiamenti del comportamento delle cellule attraverso l'attivazione di un complesso e articolato insieme di eventi trascrizionali.

Dall'immunità all'immunologia

L'osservazione dei fenomeni di immunizzazione naturale e le pratiche empiriche di immunizzazione attiva, come la variolizzazione, cioè l'immunizzazione contro il vaiolo ottenuta inoculando materiale infettante proveniente dalle pustole del vaiolo umano, e la vaccinazione, in cui si utilizzava invece il vaiolo vaccino, avevano evidenziato la specificità della protezione assicurata dall'immunizzazione. Questo significa che, per esempio, l'immunizzazione naturale o artificiale contro il vaiolo immunizza soltanto da questa malattia infettiva. L'acquisizione dell'immunità era spiegata nella medicina prescientifica ipotizzando che il primo attacco della malattia provocasse l'espulsione dell'eccesso di qualche umore che predisponeva alla condizione patologica, oppure assumendo l'esaurimento di qualche substrato che poteva avvenire sia per infezione naturale sia come positiva conseguenza dell'inoculazione.

Nel 1879 Louis Pasteur dimostrò, lavorando con il virus del colera dei polli, la possibilità di attenuare artificialmente i germi patogeni e di utilizzare le forme attenuate per l'immunizzazione preventiva. Pasteur introdusse la distinzione tra immunità naturale e acquisita, riconducendo l'instaurarsi dell'immunità all'ipotesi che il microbo, sviluppandosi all'interno dell'ospite in una forma attenuata, provocherebbe l'esaurimento di qualche principio nutritivo essenziale, rendendo l'organismo inadatto per la crescita di quel particolare agente patogeno.

Il primo a concepire l'immunità come una risposta attiva a un agente invasivo fu Il´ja Il´jč Mečnikov, per il quale la risposta immunitaria si sarebbe evoluta per assicurare l'integrazione fra le parti dell'organismo. Sulla base di esperimenti sul potere digestivo delle cellule mesodermiche distribuite fra i diversi phila evolutivi e mediante l'osservazione delle reazioni infiammatorie, nel 1884 Mečnikov ipotizzava che l'immunità fosse il risultato dell'attività fagocitaria dei leucociti (teoria della fagocitosi).

Alla spiegazione 'cellulare' dell'immunità avanzata da Mečnikov fu contrapposta, da parte dei batteriologi tedeschi, un'interpretazione 'umorale', come conseguenza della scoperta ‒ grazie allo sviluppo delle tecniche batteriologiche ‒ di fattori solubili presenti nelle colture batteriche e nel siero sanguigno, i primi dotati di proprietà tossiche e i secondi in grado di reagire con gli agenti patogeni e le loro tossine.

Nel 1888 émile Roux e Alexandre-Jean-émile Yersin isolarono dai surnatanti di colture del bacillo difterico una tossina solubile in grado di provocare in animali i sintomi della difterite. L'anno successivo, il batteriologo tedesco Hans Buchner descrisse la proprietà battericida del complemento, che egli inizialmente attribuì a un insieme indefinito di sostanze albuminoidi che chiamò alessine. Nel 1890, lavorando nel laboratorio di Robert Koch a Berlino, Emil von Behring e Shibasaburo Kitasato scoprirono che l'organismo produce, in risposta all'inoculazione di esotossine batteriche, sostanze, denominate antitossine, in grado di neutralizzare e prevenire selettivamente l'azione dannosa dei veleni. Essi dimostrarono altresì che la resistenza all'infezione assicurata dalle antitossine poteva essere trasferita passivamente da un animale all'altro mediante il siero di un donatore immunizzato, che manifestava una proprietà antitossica specifica.

Fra il 1890 e il 1905 furono descritti i principali fenomeni immunologici, individuandone anche applicazioni diagnostiche e terapeutiche. Nel contesto delle ricerche sul colera, riapparso in Europa nel 1892, Richard Pfeiffer descrisse la batteriolisi specifica, che stabiliva definitivamente uno stretto rapporto fra la specie-specificità dei microbi e la proprietà del sangue immune. Pfeiffer dimostrò che, se si immunizzavano cavie con due microbi dello stesso genere ma di specie diverse (Vibrio cholerae e Vibrio metchnikovi), questi erano distinguibili immunologicamente, in quanto l'immunizzazione nei confronti di uno non proteggeva dall'altro. Nel 1894 egli pubblicò le osservazioni sull'immunità del coniglio alla peritonite colerica sperimentale, in cui descriveva l'agglutinazione e la lisi dei vibrioni inoculati nella cavità addominale a opera del 'liquido organico', senza il concorso dei fagociti. L'anno successivo Jules Bordet riuscì a riprodurre in vitro il 'fenomeno di Pfeiffer', dimostrando che la batteriolisi è dovuta all'effetto di due fattori concomitanti, l'uno aspecifico e termolabile (l'alessina di Buchner o complemento) e l'altro, specifico e termostabile, che si trova solo nel siero immune. Il fenomeno dell'agglutinazione dei batteri a contatto con l'antisiero specifico fu applicato nel 1896 da Georges-Fernand-Isidore Widal per diagnosticare la febbre tifoide. Rudolf Kraus ottenne nel 1897 la precipitazione flocculenta di un filtrato di vibrione colerico mediante l'antisiero, e la reazione trovò subito la sua utilizzazione nel campo forense e nella ricerca tassonomica e filogenetica.

Nel 1898 Bordet accomunò l'emolisi, osservata per la prima volta da Serafino Belfanti e Tito Carbone, alla batteriolisi e nel 1901, con Octave Gengou, definì la procedura di fissazione del complemento, in seguito (1906) utilizzata da August von Wasserman per la diagnosi della sifilide. Il componente del siero immune in grado di reagire in maniera specifica con le sostanze che ne provocavano la formazione fu denominato anticorpo da Paul Ehrlich nel 1891; il termine prevalse tra un insieme di sinonimi utilizzati da ricercatori di scuole diverse. Nel 1899 Lazlo Deutsch chiamò antigeni quelle che egli riteneva sostanze intermedie fra componenti batterici e anticorpi.

La disciplina dell'immunologia si affermò progressivamente nei trent'anni successivi al 1880 con la creazione dei primi istituti dedicati esclusivamente alla ricerca immunologica e con il crescente spazio che gli studi e i problemi immunologici acquisivano nei congressi di medicina o di igiene e nelle riviste mediche. Nel 1908 fu fondata la "Zeitschrift fur Immunitatforschung" e nel 1916 il "Journal of immunology". Il termine immunology fece la sua comparsa nella lingua inglese nel 1910; nel 1913 fu creata l'American Association of Immunologists e, nel 1921, Eugenio Centanni pubblicò il primo Trattato di immunologia.

L'anticorpo

L'esigenza di governare la fenomenologia delle reazioni fra anticorpo e antigene trasformò progressivamente l'orientamento medico-fisiologico delle prime ricerche sull'immunità in uno studio chimico o chimico-fisico dell'anticorpo, dell'antigene e dei parametri caratteristici delle reazioni antigene-anticorpo. I problemi principali dell'immunochimica ‒ come fu definito nel 1907 questo tipo di approccio all'immunità da Svante August Arrhenius, fisico-chimico e premio Nobel 1903 per la chimica ‒ riguardavano la natura dell'anticorpo e dell'antigene, le basi chimiche delle loro interazioni e l'origine della specificità anticorpale.

La natura dell'anticorpo

La natura proteica dell'anticorpo fu stabilita negli anni Venti del XX sec. dal biochimico statunitense Michael Heidelberger, mentre nel 1938 il chimico svedese Arne Tiselius e il microbiologo statunitense Elvin A. Kabat, mediante l'applicazione dell'analisi elettroforetica al siero, mostravano che gli anticorpi sono contenuti nella frazione che migra più lentamente lungo il gradiente di potenziale. Tale frazione fu denominata gamma, da cui il nome di gammaglobuline che fu utilizzato come sinonimo di anticorpi fino agli anni Sessanta del XX sec., quando l'ulteriore differenziazione isotipica indusse a sostituirlo con immunoglobuline. Le tecniche dell'ultracentrifugazione e dell'elettroforesi consentirono di differenziare gli anticorpi, a partire dalle loro caratteristiche fisiche (carica elettrica, coefficiente di sedimentazione, peso molecolare, ecc.), anche per quanto riguardava le funzioni biologiche (fissazione del complemento, passaggio attraverso la placenta, partecipazione alle manifestazioni allergiche). Un ulteriore impulso allo studio qualitativo e quantitativo dell'anticorpo venne dall'introduzione, nel 1948, della tecnica di immunoprecipitazione in gel, da parte del batteriologo svedese Örjan Ouchterlony e dell'immunochimico francese Jacques Oudin. Tale tecnica fu sviluppata, nel 1953, da Pierre Grabar e Curtis Williams in immunoelettroforesi su gel. Ciò consentì di verificare che il siero contiene diversi tipi di immunoglobuline o anticorpi (isotipi), successivamente caratterizzati sulla base di ulteriori differenze strutturali e funzionali (IgM, IgG, IgA, IgD e IgE).

La struttura dell'anticorpo

La specificità delle reazioni sierologiche aveva sollevato il problema del meccanismo responsabile della selettività delle interazioni fra antigene e anticorpo. Ehrlich suggerì che la specificità fosse una conseguenza del riconoscimento stereocomplementare fra le strutture molecolari chimicamente definite dell'antigene e dell'anticorpo. Secondo il ricercatore tedesco tale riconoscimento era di tipo irreversibile e dipendeva da legami chimici covalenti, mentre le successive indagini quantitative e strutturali dimostrarono che l'interazione antigene-anticorpo è reversibile e caratterizzata da legami di natura debole.

L'ipotesi della complementarità sterica fra i determinanti dell'antigene e dell'anticorpo fu dimostrata dal patologo sperimentale austriaco Karl Landsteiner che, a partire dal 1917, studiò la risposta immunitaria nei confronti di costituenti chimici prodotti coniugando alle proteine piccole molecole organiche sintetiche. Landsteiner stabilì che questi gruppi chimici artificiali, che denominò apteni, sono riconosciuti dall'anticorpo con una precisione tale da discriminare fra due isomeri otticamente attivi della stessa molecola, e che diventano immunogenici soltanto se agganciati a un vettore (effetto carrier). Negli anni Cinquanta del XX sec. il medico e biochimico britannico Rodney R. Porter iniziò a studiare la struttura dell'anticorpo utilizzando enzimi proteolitici per frammentare la macromolecola. Una serie di studi biochimici, che videro emergere la figura del medico e biochimico statunitense Gerald M. Edelman, portarono alla scoperta che l'immunoglobulina, o anticorpo, è costituita da due catene polipeptidiche leggere e da due pesanti, composte di regioni costanti (C) e di regioni variabili (V). Nel 1969 Edelman presentò la prima sequenza amminoacidica completa di un anticorpo e introdusse il concetto di dominio per indicare la regione globulare compatta di una catena pesante o leggera che presenta una struttura terziaria coerente.

L'analisi della struttura dell'anticorpo, nonché l'indagine sulle basi genetiche della diversità anticorpale, furono realizzate studiando le proteine mielomatose, prodotte da cellule anticorpopoietiche tumorali. Tali proteine manifestavano una specificità casuale, mentre per gli scopi sperimentali sarebbe stato essenziale disporre di molecole di cui era nota la specificità. Nel 1975 Georges J.F. Köhler e César Milstein misero a punto una tecnica che consentiva di sfruttare questa caratteristica dei plasmocitomi, fondendoli però con cellule della milza di un animale immunizzato con un antigene noto. Gli anticorpi monoclonali sono presto divenuti reagenti indispensabili nelle ricerche di base e nella clinica, con importanti ricadute commerciali.

Le basi genetiche della diversità anticorpale

La descrizione della struttura dell'anticorpo confermava che questa molecola, a differenza delle altre proteine, aveva come propria caratteristica funzionale essenziale una straordinaria variabilità biochimica. Si trattava a quel punto di individuare il meccanismo genetico che consentiva l'instaurarsi di un repertorio incredibilmente grande di molecole fra loro differenti. Già nel 1959 furono avanzate due ipotesi antitetiche per spiegare l'origine genetica del repertorio anticorpale. Il microbiologo statunitense Joshua Lederberg, che conseguì nel 1958 il premio Nobel per la scoperta della sessualità nei batteri, suggerì una teoria basata sulla mutazione somatica, nel corso del differenziamento, a livello dei segmenti polipeptidici dell'anticorpo, mentre il medico statunitense David Talmage pensava che tutto il repertorio fosse contenuto nel genoma.

Nel frattempo, abbandonando due presupposti teorici della biologia molecolare ‒ quello che prescriveva che a ogni proteina dovesse corrispondere un gene e quello che prevedeva la non modificabilità del genoma durante il differenziamento ‒ gli immunologi molecolari iniziarono a lavorare intorno all'ipotesi, suggerita nel 1964 dagli statunitensi William J. Dreyer e Joe Claude Bennet, che più geni partecipassero alla codificazione di una catena polipeptidica; tale ipotesi è stata confermata, a metà degli anni Settanta, dal biologo molecolare giapponese Susumu Tonegawa, che per queste ricerche fu insignito del premio Nobel nel 1987.

L'indicazione che il materiale ereditario, lungi dal mantenersi inalterato durante l'ontogenesi, è sede di complessi riarrangiamenti che amplificano enormemente l'informazione genetica utilizzabile epigeneticamente, rappresenta uno dei maggiori contributi dell'immunologia alle scienze biologiche.

Il problema della formazione dell'anticorpo

I primi immunologi riconoscevano nell'immunità un tratto adattativo, in senso sia evolutivo sia funzionale, della fisiologia cellulare. La risposta da parte dell'organismo a una sfida ambientale, cioè la produzione di una sostanza protettiva a fronte di un'aggressione infettiva o tossica, poteva ovviamente spiegarsi in due modi alternativi: ipotizzando una rielaborazione del materiale antigenico da parte dell'organismo stesso, come voleva la teoria, avanzata da Buchner nel 1893 e che fu presto sperimentalmente confutata, oppure immaginando, come sosteneva Ehrlich, che l'anticorpo preesistesse sotto forma di catene laterali presenti sul protoplasma della cellula e che l'incontro fra queste strutture molecolari, normalmente devolute alla fisiologia nutrizionale della cellula, e l'antigene determinasse una sovraproduzione di catene laterali poi immesse in circolo come anticorpi (teoria delle catene laterali). L'ipotesi di Ehrlich aveva il limite di fondarsi su un concetto di specificità assoluta dell'anticorpo rispetto all'antigene. In tal senso, sia la frequente osservazione di reazioni incrociate, che avvengono fra l'anticorpo e un antigene diverso da quello che ne ha provocato la sintesi, sia la scoperta nel 1906 da parte di Friedrich Obermayer, medico e chimico austriaco, ed Ernst P. Pick, patologo sperimentale cecoslovacco, che era possibile provocare una risposta specifica nei confronti di antigeni artificiali ‒ per cui diventava enorme il numero degli anticorpi-recettori di cui si sarebbe dovuto ammettere la preesistenza ‒ resero insostenibile la teoria delle catene laterali.

Di fronte ai dati sperimentali, che mostravano il carattere stereocomplementare del riconoscimento antigene-anticorpo e, insieme, l'eterogeneità degli anticorpi prodotti in risposta a un dato antigene, fu naturale ipotizzare un intervento informativo dell'antigene, che in questo caso non partecipava più materialmente alla costruzione dell'anticorpo specifico, ma soltanto cedendo la sua forma, così da determinare la struttura anticorpale di riconoscimento (teorie dello stampo antigenico). Negli anni 1930-1932 fu proposta una serie di ipotetici meccanismi attraverso cui l'antigene avrebbe potuto trasmettere all'anticorpo l'informazione sulle proprie caratteristiche strutturali. Nel 1940 Linus C. Pauling concepì un modello esplicativo della formazione dell'anticorpo che dominò il campo per circa vent'anni. Egli riteneva, in base alle sue ricerche sulla denaturazione e coagulazione delle proteine, che la presenza dell'antigene nell'ambiente di formazione dell'anticorpo funzionasse da stampo, nel senso che determinava la configurazione stereocomplementare della molecola. Questo modello istruttivo trovava difficoltà a spiegare quei fenomeni immunologici che manifestavano un substrato biologico piuttosto che chimico, come per esempio la maggiore efficacia della risposta secondaria, con il caratteristico incremento dell'affinità per l'antigene o il fenomeno della tolleranza immunitaria.

Fra il 1944 e il 1953 lo zoologo britannico Peter B. Medawar e il biologo cecoslovacco Milan Hašek scoprivano, in maniera indipendente, il fenomeno della tolleranza immunitaria: così come era possibile immunizzare attivamente un organismo nei confronti di un dato antigene, si realizzava anche l'inverso. Tale circostanza evidenziava ulteriormente il carattere adattativo della risposta immunitaria, ossia il fatto che, come prevedeva la spiegazione suggerita dal patologo e virologo australiano Frank Macfarlane Burnet per la tolleranza immunitaria, l'organismo, durante le fasi iniziali dell'ontogenesi, impara a distinguere le strutture molecolari caratteristiche della propria individualità (self) da quelle estranee (non self), a cui in seguito sarà in grado di reagire immunologicamente.

Il problema dell'origine e del mantenimento della tolleranza, al di là delle implicazioni pratiche come la nascita dell'immunologia dei trapianti, fu centrale per la teoria immunologica; esso favoriva l'emergere dell'organizzazione cellulare del sistema immunitario e dei meccanismi genetici che controllano la cooperazione fra le cellule partecipanti alla risposta immunitaria e collocava l'immunologia sullo stesso piano della genetica o dell'embriologia nell'indagine sui problemi biologici fondamentali.

Sulla base dei successi ottenuti dai genetisti negli anni Quaranta del XX sec., nel mostrare che i fenomeni di adattamento delle popolazioni batteriche al substrato non comportavano alcun passaggio di informazione dal substrato al sistema di produzione degli enzimi, ma che alla base vi era un normale meccanismo darwiniano di mutazione e selezione, fu riformulato anche il problema della formazione dell'anticorpo. Così, la diversità degli anticorpi fu interpretata dall'immunologo danese Niels Kaj Jerne, nel 1955, secondo un modello selettivo. Jerne tornò a ipotizzare, come aveva fatto Ehrlich, la preesistenza degli anticorpi con differenti specificità e quindi l'incontro con l'antigene come una selezione operata all'interno di un repertorio anticorpale attivamente prodotto dall'organismo. Questa volta, tuttavia, la dinamica adattativa della risposta immunitaria prevedeva un miglioramento qualitativo della specificità ‒ che per Ehrlich era invece stabilita a priori in modo assoluto ‒ attraverso il processo di 'amplificazione differenziale' degli anticorpi.

La teoria di Jerne sarà ulteriormente perfezionata nel 1957 da Burnet, che proporrà la teoria della selezione clonale. In essa il bersaglio della selezione, anziché dalle immunoglobuline circolanti, era costituito dalle stesse cellule anticorpopoietiche che, portando sulla loro superficie le strutture anticorpali, andavano incontro a una proliferazione clonale differenziale in seguito all'incontro con l'antigene. Con la dimostrazione che ogni cellula della linea midollare (cellule B, da bone marrow) secerne anticorpi di una specificità unica, come previsto dalla teoria della selezione clonale, questa diveniva, negli anni Sessanta, il punto di riferimento per l'unificazione delle conoscenze immunologiche in un sistema coerente di concetti e spiegazioni.

Le basi cellulari dell'immunità

Nel contesto dell'approccio cellulare di Mečnikov e nell'ambito microbiologico, i macrofagi erano ritenuti le cellule dell'immunità e, ancora nei primi anni Sessanta del XX sec., alcuni immunologi attribuivano a queste cellule del sistema reticoloendoteliale la capacità di formare anticorpi. Tale concetto errato poté mantenersi soprattutto perché lo studio sperimentale dell'immunità, nella prima metà del secolo, si concentrava sulle proprietà chimiche e fisico-chimiche dell'anticorpo e dell'antigene, trascurando le modificazioni istologiche dei tessuti che si verificano nel corso delle risposte immunitarie.

I linfociti, in relazione all'immunità, furono presi in considerazione dai patologi nei primi decenni del XX sec., a partire da una serie di studi sperimentali e istologici che andavano dalla constatazione che i raggi X, che danneggiano i linfociti, riducono anche la produzione di anticorpi, fino alle osservazioni dei cambiamenti nella composizione cellulare della milza e dei linfonodi durante le infezioni. Nel 1948 la batteriologa svedese Astrid Fagraeus dimostrò che le plasmacellule producono gli anticorpi. Alla stessa conclusione si giunse nel decennio seguente, studiando la concentrazione di acidi nucleici nei linfonodi in rapporto alla sintesi anticorpale e applicando la tecnica dell'immunofluorescenza ideata dall'immunochimico statunitense Albert H. Coons sin dal 1941. Tale tecnica consentiva la localizzazione delle molecole anticorpali, coniugandole con sostanze fluorescenti visualizzabili all'ultravioletto. Lo studio dettagliato del differenziamento dei linfociti in plasmacellule fu reso possibile dall'invenzione, da parte di Jerne e Albert A. Nordin nel 1963, della tecnica delle placche di emolisi, che consentiva di evidenziare e isolare le cellule secernenti anticorpi.

Fu soprattutto lo studio dei fenomeni patologici associati all'immunità che impose all'attenzione degli immmunologi la struttura anatomo-funzionale che sarà chiamata sistema immunitario. L'indagine sulle modificazioni istopatologiche associate all'iperattività della funzione immunitaria corroborava le diverse evidenze circa il ruolo delle plasmacellule e dei linfociti nella risposta immunitaria, e, nel 1942, Landsteiner e Merrill W. Chase dimostrarono che l'ipersensibilità ritardata può essere trasferita solo con le cellule e non con il siero. La scoperta delle patologie da deficit immunitario, a loro volta, mostrava che un danno al meccanismo di sintesi anticorpale può lasciare inalterata la capacità di rispondere ad antigeni di natura virale o di montare una reazione di ipersensibilità ritardata o il rigetto di un allotrapianto. La distinzione fra risposta umorale e mediata da cellule stabiliva quindi l'asse portante delle successive ricerche sull'architettura anatomo-funzionale del sistema immunitario.

Nel 1961 Robert Good, microbiologo e pediatra americano, e Jacques F.A.P. Miller, patologo australiano, dimostrarono in modo indipendente che il timo è un organo centrale per lo sviluppo della funzione immunitaria e che non controlla soltanto le risposte cellulo-mediate, ma risulta altresì implicato nella formazione degli anticorpi. Cinque anni più tardi Henry N. Claman realizzò, con alcuni collaboratori, un esperimento da cui risultava che la sintesi degli anticorpi dipende dai linfociti derivati dal midollo osseo (linfociti B), mentre i linfociti che si differenziano nel timo svolgono una funzione coadiuvante anche nelle risposte umorali (linfociti T helper). La cooperazione fra le cellule B e T nell'innesco delle risposte immunitarie umorali prevede, come mostrò lo zoologo e immunologo britannico Noan A. Mitchison nel 1970, due distinti sistemi di riconoscimento per altrettanti determinanti dell'antigene, quelli che Landsteiner aveva identificato nell'aptene e nel vettore.

Il controllo genetico delle risposte immunitarie

Prima degli anni Sessanta del XX sec. le conoscenze sulle basi genetiche delle risposte immunitarie si erano fondate sullo studio della genetica dei gruppi sanguigni, dei trapianti e della resistenza alle malattie e all'impianto di tumori negli animali da laboratorio. Agli inizi del secolo il trapianto di linee tumorali in animali da esperimento era praticato dai patologi, quale retaggio dell'illusione, coltivata da diversi immunologi, che fosse possibile risolvere il problema del cancro mediante l'immunizzazione. I risultati di queste esperienze furono riassunti nel 1912 dal patologo tedesco Georg Schöne in un volume intitolato Die Heteroplastische und Homoplastiche Transplantation (Il trapianto eteroplastico e omoplastico), in cui si trovano già espresse le leggi fondamentali del rigetto dei trapianti. Una di queste leggi asseriva che la probabilità di successo del trapianto è tanto maggiore quanto più stretto è il rapporto fra il sangue del donatore e quello del ricevente.

Nel 1916 gli statunitensi Ernest E. Tyzzer e Clarence C. Little ipotizzarono un controllo genetico dell'immunità ai trapianti di tumore. Tyzzer dimostrò che soltanto le cellule vive presensibilizzano al rigetto e che i linfociti sono prevalenti nel sito della reazione. Egli giunse altresì alla conclusione che l'incompatibilità al trapianto doveva essere sotto il controllo di un complesso di fattori genetici ereditati indipendentemente; per individuare questi fattori unitari il suo allievo Little sviluppò la selezione di animali geneticamente omogenei, fondando nel 1929 il Jackson Memorial Laboratory dove saranno prodotti, dal genetista statunitense George D. Snell, premio Nobel nel 1980, i ceppi di topi congenici utilizzati in quasi tutte le successive sperimentazioni immunogenetiche.

Peter B. Medawar, che riprese negli anni Quaranta e Cinquanta del XX sec. lo studio sperimentale della biologia dei trapianti, dimostrava definitivamente la natura immunitaria del fenomeno, stabilendo che il rigetto può essere trasferito con i linfociti e scoprendo il fenomeno della reazione del trapianto contro l'ospite. All'origine delle ricerche di Medawar vi erano le esperienze del patologo britannico Peter A. Gorer, che aveva cercato di stabilire se i geni che, secondo Tyzzer e Little, dovevano controllare l'istocompatibilità fossero collegati ai geni dei gruppi sanguigni. Nel 1937 Gorer identificò nel gene di un gruppo sanguigno (gruppo II) questo tipo di funzione. Lo studio dei geni di istocompatibilità nel topo (H-2), sarà portato avanti dallo stesso Gorer e da Snell, mostrando che gli antigeni che sono riconosciuti nel rigetto dei trapianti sono sotto il controllo genetico.

Il primo antigene di istocompatibilità nell'uomo fu descritto dall'ematologo e immunogenetista francese Jean Dausset nel 1958, che per tale scoperta ricevette il premio Nobel nel 1980. Dausset aveva osservato che il siero di alcuni pazienti affetti da anemia emolitica autoimmune e da altre malattie del sangue conteneva anticorpi capaci di agglutinare leucociti allogenici. Egli iniziò quindi a studiare individui normali sottoposti a trasfusioni multiple e scoprì che questi isoanticorpi erano indipendenti dal sistema di anticorpi naturali AB0. Durante la prima metà degli anni Sessanta le ricerche genetiche sull'istocompatibilità si svilupparono senza alcun controllo sui metodi, sulla nomenclatura da adottare e sull'interpretazione dei risultati. A partire dal 1964 una serie di simposi e un intenso lavoro diplomatico, che vide emergere a livello internazionale la figura dell'immunogenetista italiano Ruggero Ceppellini, mise ordine nello studio di quello che fu chiamato, a partire dal 1965, il complesso principale di istocompatibilità (MHC, major histocompatibility complex).

Nel 1963, nel corso di studi immunochimici sulle caratteristiche del vettore proteico nel consentire la formazione di anticorpi contro polipeptidi sintetici omogenei, Baruj Benacerraf, patologo e immunologo statunitense, scoprì che la risposta immunitaria nei confronti dell'antigene che stava utilizzando era controllata da un singolo gene autosomico dominante. Benacerraf, anch'egli insignito del premio Nobel nel 1980, ipotizzò successivamente che i geni della risposta immunitaria (Ir) fossero implicati nel riconoscimento del vettore e, di fatto, risulterà che essi codificano una classe di antigeni di istocompatibilità (classe II) e sono necessari alla cooperazione fra le cellule B e T nella risposta all'antigene esterno.

In tale contesto tematico si è sviluppato un approccio agli aspetti regolativi del sistema immunitario, che fa riferimento al ruolo delle molecole di istocompatibilità nel coordinare le interazioni cellulari. Nel 1974 Rolf M. Zinkernagel e Paul Doherty scoprirono che i linfociti T citotossici sono in grado di uccidere una cellula infettata da un virus solo se questa condivide l'antigene di istocompatibilità di classe I, mentre altri ricercatori stabilirono che le molecole di classe II sono necessarie per la cooperazione cellulare fra linfociti T e B. In particolare, l'antigene timo-dipendente deve essere presentato dalle cosiddette cellule accessorie insieme agli antigeni di classe II per essere riconosciuto dai linfociti T helper. In base a questo approccio centrato sul recettore dei linfociti T, gli antigeni esterni sono riconosciuti e quindi attivano una risposta immunitaria, in quanto modificano le molecole di istocompatibilità, che ovviamente devono appartenere allo stesso genotipo della cellula T. Vale a dire che l'antigene è rielaborato dalle cellule e presentato sulla superficie nel contesto delle molecole di istocompatibilità e, dunque, i linfociti T riconoscerebbero come estraneo questo 'self modificato'. Tale capacità di riconoscere le molecole di istocompatibilità autologhe è appresa dai linfociti T durante la loro maturazione nell'ambiente timico, attraverso un processo selettivo, positivo e negativo, che lascia sopravvivere solo quelle cellule che trasportano recettori con una propensione a riconoscere gli antigeni di istocompatibilità autologhi in congiunzione con peptidi estranei e che, però, sono tolleranti verso gli autocomponenti.

La scoperta delle citochine

Intorno alla metà degli anni Sessanta del Novecento si osservava che i surnatanti di colture leucocitarie miste contenevano fattori, prodotti dai linfociti, dotati di attività biologiche. Lo studio di diversi sistemi sperimentali mostrò che l'azione di tali fattori poteva essere sia di tipo inibitorio sia di tipo stimolatorio, e interessava sia le cellule dell'immunità specifica sia quelle dell'immunità aspecifica. Nel 1969 i fattori responsabili di tali fenomeni furono chiamati linfochine. L'anno successivo si riuscì a dimostrare l'attività biologica di un fattore derivante da cellule non linfocitarie e in grado di stimolare i linfociti, che fu chiamato LAF (lymphocite activating factor). La scoperta che i fattori umorali in grado di amplificare o modificare le risposte immunitarie potevano essere prodotti anche da cellule non linfoidi indusse l'immunologo britannico Stanley Cohen a proporre nel 1974 di denominare questi mediatori, nel loro insieme, citochine.

Intanto si moltiplicava sia il numero di presunti fattori dotati di attività biologica, osservati in diversi sistemi sperimentali, sia il numero di acronimi utilizzati per indicare tali attività, e iniziava a essere evidente che alcuni fattori conosciuti con nomi diversi corrispondevano alla stessa citochina, che agiva diversamente in contesti differenti. Nel 1976 si scoprì la possibilità di far proliferare le cellule T in coltura, qualora il terreno fosse stato precedentemente condizionato da cellule T attivate con un mitogeno. Questa osservazione fu spiegata da Kendall Smith, tra il 1979 e il 1981, come dovuta a un fattore che fu inizialmente chiamato fattore di crescita delle cellule T (TCGF, T cell growth factor) e che sarebbe quindi diventato la citochina più famosa, sia perché fu la prima a essere descritta biochimicamente, e di cui furono studiate con sistemi di ingegneria genetica le caratteristiche del recettore, sia perché intorno a essa si crearono nella seconda metà degli anni Ottanta diverse aspettative terapeutiche. Questa citochina è oggi conosciuta come interleuchina-2 (IL-2), mentre il LAF è divenuto IL-1.

I progressi nella comprensione della struttura delle citochine e dei loro meccanismi di segnalazione ha fatto luce su alcuni principî fondamentali che sono alla base della regolazione cellulare mediata dalle citochine. Per esempio, anche se non sono ancora chiari tutti gli aspetti del controllo della produzione delle citochine, si è visto che alcune funzioni cellulari sono caratterizzate dalla produzione di particolari associazioni di citochine. Più precisamente è stato dimostrato nel 1986 che i linfociti T helper, portatori del marcatore CD4, si differenziano, a seconda delle citochine che producono, in due diversi fenotipi, chiamati TH1 e TH2, che sono responsabili l'uno del controllo dell'attivazione delle cellule infiammatorie e l'altro dell'attivazione delle cellule B nella risposta anticorpale.

Dimensioni cliniche e patologiche dell'immunità

Il concetto per cui lo scopo dell'immunità è di proteggere l'organismo dall'aggressione di agenti patogeni e sostanze tossiche, che alla fine del XIX sec. si impose come spiegazione evolutiva del fenomeno, rappresentò un ostacolo alla comprensione di alcuni eventi dannosi per l'individuo, chiaramente prodotti dalle reazioni immunitarie. Le prime osservazioni riguardarono il cosiddetto fenomeno di Koch, cioè l'ipersensibilità alla tubercolina, e la sintomatologia che in alcuni casi compariva come conseguenza della sieroterapia antitetanica o antidifterica. Le analogie fra queste reazioni e quelle descritte dai fisiologi francesi Charles R. Richet e Paul Portier nel 1902 e dal fisiologo francese Maurice Arthus nel 1903 durante esperimenti di immunizzazione, vale a dire l'anafilassi ‒ ipersensibilità immediata dovuta a una successiva inoculazione sistemica dell'antigene ‒ e il fenomeno di Arthus ‒ una reazione infiammatoria caratterizzata da edema, emorragia e necrosi dovuti alla somministrazione di antigene in un animale già in possesso di anticorpi precipitanti verso quell'antigene ‒ condussero i pediatri Clemens von Pirquet e Bela Shick a definire, nel 1905, malattia da siero la reazione di ipersensibilità conseguente all'iniezione di dosi elevate di antigeni estranei, particolarmente degli antisieri utilizzati per l'immunizzazione passiva. Nel 1906 Pirquet introdusse il termine 'allergia' per indicare qualsiasi reattività anomala acquisita da un organismo verso un'infezione o nei riguardi di sostanze antigeniche. Nonostante l'importante ruolo svolto da Pirquet nella comprensione dei fenomeni di ipersensibilità, il solo Richet ricevette, nel 1913, il premio Nobel per la scoperta dell'anafilassi.

In realtà, Pirquet pensava che la malattia da siero e il fenomeno di Arthus avessero la medesima natura dell'anafilassi, mentre il meccanismo responsabile dell'anafilassi, come fu stabilito sperimentalmente dal fisiologo e farmacologo britannico Henry H. Dale nel 1911, è la produzione di istammina come conseguenza di un'interazione antigene-anticorpo. I dettagli divennero noti dopo che, nel 1953, James F. Riley dimostrò che l'istammina è contenuta prevalentemente nelle mast-cellule e, nel 1966, gli immunologi giapponesi Kimishige e Teruko Ishizaka, scoprirono che l'anticorpo omocitotropico (IgE) è responsabile, nelle forme di ipersensibilità immediata locale o sistemica, della liberazione dell'istammina come conseguenza dell'interazione con un allergene. Il fenomeno di Arthus e la malattia da siero sono, invece, dovuti alla formazione di complessi antigene-anticorpo (immunocomplessi), il cui ruolo in diversi processi patologici è stato attentamente studiato negli anni Cinquanta dai patologi e immunologi Frank Dixon e John Humphrey.

Le proprietà immunologiche dei fenomeni allergici furono descritte a partire dal trasferimento passivo dell'anafilassi cutanea, ottenuto da Carl Prausnitz-Giles e Heinz Küstner nel 1921, mostrando che la reazione poteva essere utilizzata come test diagnostico per rilevare l'ipersensibilità agli alimenti. L'anno successivo Arthur Coca e Robert Cooke, pionieri dell'allergologia e dell'immunologia negli Stati Uniti, proposero di classificare l'ipersensibilità in forme normali, dipendenti da variazioni quantitative all'interno delle specie (malattia da siero e dermatite da contatto), e forme anomale, che dipendono da differenze qualitative all'interno delle specie (anafilassi, atopia e allergia da infezione). Con il termine atopia veniva introdotta l'idea che una reazione immunitaria, in questo caso anomala, potesse essere geneticamente controllata.

Negli anni Cinquanta del XX sec. l'immunopatologia acquisì un nuovo insieme di processi morbosi, non dovuti a un'iperattività immunitaria, ma a carico della funzione immunitaria stessa: vale a dire i deficit immunitari, come l'agammaglobulinemia, descritta dal pediatra dell'esercito statunitense Ogden C. Bruton nel 1952. Negli stessi anni si accavallarono anche una serie di dati clinici e sperimentali che dimostravano l'eziologia autoimmune di patologie come l'orchite autoimmune, l'oftalmia simpatica e, soprattutto, la tiroide di Hashimoto che, nel 1955, Ernst Witebsky e Noel R. Rose riuscirono a riprodurre sperimentalmente iniettando estratti tiroidei in animali da laboratorio. Va detto che già agli inizi del secolo era stata riconosciuta l'esistenza di autoanticorpi responsabili dell'emoglobinuria parossistica da freddo e dell'oftalmia simpatica ed erano state ottenute sperimentalmente risposte autoimmuni contro le proteine del cristallino. Tuttavia il concetto di horror autotoxicus enunciato da Ehrlich nel 1901, che faceva riferimento a qualche ipotetico meccanismo di regolazione in grado di prevenire la formazione di autoanticorpi, fu interpretato dogmaticamente dagli altri immunologi. Tuttavia, la scoperta della tolleranza immunitaria, che dimostrava la possibilità di evitare il riconoscimento dell'antigene come estraneo, rese plausibile anche l'ipotesi che l'incapacità di rispondere ad autocomponenti potesse in qualche modo essere aggirata. L'autoimmunità, a partire dagli anni Sessanta, è divenuta un capitolo centrale della ricerca biomedica, e un numero sempre maggiore di patologie cronico-degenerative è stato associato a un'eziologia autoimmune.

Conclusioni

Gli aspetti che hanno maggiormente caratterizzato l'evoluzione scientifica dell'immunologia hanno riguardato sia la definizione e la descrizione delle proprietà adattative dell'immunità, sia il potenziale euristico delle strategie di ricerca sperimentale dispiegate per giungere alla descrizione dei processi fisiologici da cui tali proprietà adattative dipendono. Attraverso i successivi tentativi di definire la natura e l'origine delle caratteristiche adattative della funzione immunitaria, l'immunologia si è progressivamente affrancata dai vincoli concettuali e accademici che storicamente la legavano alla microbiologia medica e alla patologia sperimentale, divenendo negli anni Cinquanta e Sessanta del XX sec. una scienza biologica fondamentale a tutti gli effetti. Più recentemente, lo sviluppo di sofisticati sistemi di indagine fisica e biochimica delle cellule e dei fattori umorali dell'immunità e l'applicazione delle tecnologie biogenetiche hanno portato a scoperte le cui valenze conoscitive sarebbero risultate, in modo sempre più consistente, di interesse biologico generale.

Lo studio dell'immunità adattativa ha infatti prodotto sia acquisizioni concettuali ed empiriche, importanti dal punto di vista della genetica molecolare delle cellule somatiche e delle basi fisiologiche delle interazioni comunicative fra le cellule nel corso dello sviluppo, sia indicazioni euristiche circa i principî e i meccanismi che governano il funzionamento di altri sistemi fisiologici adattativi, come il sistema nervoso.

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