La struttura dell'Universo

Frontiere della Vita (1998)

La struttura dell'Universo

Margherita Hack
(Dipartimento di Astronomia Università di Trieste, Trieste, Italia)

I mezzi attraverso cui si osserva l'Universo sono la radiazione elettromagnetica emessa dai corpi celesti e le particelle elementari (raggi cosmici e neutrini). L'Universo ha una struttura gerarchica: stelle singole, sistemi binari, ammassi aperti e globulari e materia interstellare costituiscono una galassia; le galassie sono membri di gruppi e ammassi di galassie; gli ammassi formano superammassi. Le osservazioni degli spettri stellari permettono di determinare massa, raggio e luminosità delle stelle, nonché la composizione chimica delle loro atmosfere. Da questi dati si risale alla struttura stellare e alle sue modifiche, causate dalle reazioni nucleari che avvengono nell'interno delle stelle. In questo saggio si tratteranno i processi che portano alla formazione di una stella e le fasi finali dell'evoluzione, nel corso delle quali si formano gli elementi presenti nell'Universo. Si descriveranno poi le caratteristiche generali delle galassie e degli ammassi di galassie e le osservazioni che indicano la presenza di materia oscura. Si discuteranno infine le osservazioni che permettono di arguire quale possa essere stata l'origine dell'Universo e di risalire alla sua evoluzione.

I messaggeri di informazioni sull'Universo

Per Universo si intende tutto ciò che rientra nel nostro raggio di osservazione, dal Sole e dal sistema solare fino alle più lontane galassie raggiungibili con i moderni telescopi. La quasi totalità delle informazioni sui corpi celesti è fornita dalla radiazione elettromagnetica che essi emettono. Poiché questa radiazione viaggia alla velocità di 300.000 km/s (velocità della luce), le galassie più lontane, distanti 10 o più miliardi di anni-luce, saranno viste com'erano 10 o più miliardi di anni fa. Perciò, quanto più lontano guardiamo nello spazio, tanto più indietro osserviamo nel tempo. Dall'antichità fino al 1930 circa le informazioni sui corpi celesti provenivano dalla ristretta banda dello spettro elettromagnetico a cui l'atmosfera terrestre è trasparente, che comprende le lunghezze d'onda da circa 3200 Å a 10.000 Å. Essa è detta finestra ottica perché include la banda a cui è sensibile l'occhio (da circa 3900 Å a circa 7000 Å), che provoca la sensazione di luce, dal violetto al rosso. Altre informazioni si avevano da qualche ristretta finestra nell'infrarosso, fra 1,6 e circa 20 /lm. Soltanto nel 1932 un ingegnere della BelI Telephone Company, K. Jansky, scoprì per caso che dalla direzione della costellazione del Sagittario provenivano radioonde aventi lunghezze d'onda metriche e decametriche. Era nata così la radio astronomia, che però ebbe un rapido sviluppo solo a partire dalla fine degli anni Quaranta. La banda compresa fra qualche millimetro e qualche decina di metri di lunghezza d'onda fu detta finestra radio. Tutte le altre bande dello spettro elettromagnetico - raggi gamma, raggi X, ultravioletti e infrarossi - sono assorbite dall'atmosfera terrestre. Esse sono divenute osservabili solo a partire dagli anni Sessanta, quando sono stati messi in orbita i primi satelliti astronomici. Le prime osservazioni dallo spazio sono avvenute con strumentazioni sensibili ai raggi ultravioletti, con piccoli telescopi montati su razzi e poi, a partire dal 1970, su satelliti. Anche le osservazioni di raggi X sono iniziate nel 1970, mentre quelle nell'infrarosso sono cominciate solo nel 1983 col satellite IRAS. Poiché un corpo emette tanta più radiazione di breve lunghezza d'onda quanto maggiore è la sua temperatura, i satelliti per raggi X e ultravioletti hanno permesso l'osservazione dei corpi più caldi ed energetici, mentre i satelliti per l'infrarosso hanno rivelato i corpi a temperature di poche centinaia di gradi, come le regioni di polveri, e le stelle ancora in formazione. La radioastronomia ha infine rivelato che le radio sorgenti celesti, per lo più identificabili in galassie e in resti di supernovae (residui delle ultime fasi esplosive di stelle di massa molto superiore a quella del Sole), emettono anche radiazione di origine diversa da quella legata alla temperatura, e dipendente invece dal moto di elettroni relativistici (aventi cioè velocità non trascurabili rispetto a quella della luce) in campi magnetici. Le tecnologie spaziali hanno dunque reso possibile l'osservazione dei corpi celesti tramite misure nell'intero spettro elettromagnetico. Un altro mezzo di osservazione consiste nella rivelazione di particelle elementari provenienti dai corpi celesti. L'osservazione dei raggi cosmici risale ai primi decenni del 20° secolo e, oltre alla presenza di elettroni, protoni e particelle α (nuclei di elio), ha rivelato la presenza di antimateria sotto forma di positroni e antiprotoni. lnfine, sono stati rivelati neutrini provenienti dal Sole e dalla supernova esplosa nella Grande Nube di Magellano nel 1987. Poiché i neutrini interagiscono in modo trascurabile con la materia, possono darci informazioni dirette sulla struttura interna del Sole. È probabile che nel 21° secolo l'astronomia dei neutrini affiancherà in modo consistente le classiche osservazioni dello spettro elettromagnetico. Infine, è possibile che si riescano a rivelare direttamente le onde gravitazionali. È questo uno dei principali progetti per il futuro.

La struttura gerarchica dell'Universo

Le stelle, con i loro eventuali sistemi planetari, sono aggregate in galassie di varie estensioni e forme, di cui costituiscono la principale componente. Fu soltanto verso la metà del Settecento che si cominciò a pensare che le stelle fossero simili a lontani 'soli', organizzati in enormi sistemi. Infatti nel 1750 Th. Wright, in un saggio intitolato Una teoria originale dell'Universo, propose che la Via Lattea fosse un insieme di stelle raccolte come in una lente appiattita, con il Sole nel suo centro. Cinque anni dopo I. Kant, nella sua Storia generale della natura e teoria del cielo, ipotizzò che la Via Lattea fosse un grande ammasso isolato di stelle, e immaginò (in parte a ragione) che le poche nebulose allora note fossero tutte altre galassie. Oggi sappiamo che il raggio medio di una stella varia da circa mezzo milione a un milione di chilometri e la distanza media fra stella e stella è di qualche anno-luce. Poiché un anno-luce è pari a circa 10.000 miliardi di chilometri, la distanza media fra una stella e l'altra è dell'ordine di 10 e più milioni di volte il raggio stellare medio. Negli spazi fra stella e stella c'è il mezzo interstellare, costituito da gas diffuso con densità inferiore a un atomo per centimetro cubo, e polveri sotto forma di minuscole particelle solide, soprattutto grafite, silicati e ghiaccio, di dimensioni inferiori al micron. Nelle galassie a forma di spirale, come la nostra, il mezzo interstellare costituisce poco più del 3% della massa totale della galassia, mentre nelle galassie ellittiche è addirittura trascurabile. Nelle galassie a spirale e in quelle irregolari il mezzo interstellare si trova anche aggregato in nubi la cui densità può raggiungere da 10.000 a 100.000 atomi per centimetro cubo. Si tratta comunque di densità molto basse rispetto anche agli strati più esterni e rarefatti delle stelle, che vanno da qualche miliardo a parecchie migliaia di miliardi di atomi per centimetro cubo.

fig. 1
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Oltre alle stelle singole, una buona metà delle stelle galattiche sono membri di sistemi di stelle doppie. Inoltre si contano un centinaio di ammassi globulari, contenenti ciascuno centinaia di migliaia di stelle (fig. 1) e più di cinquecento ammassi aperti, contenenti da qualche centinaio a qualche migliaio di stelle. Le galassie - ellittiche, spirali e irregolari, per accennare solo alla classificazione morfologica più generale - hanno diametri di parecchie decine di migliaia di anni-luce, mentre la separazione fra una galassia e l'altra è dell' ordine dei milioni di anni-luce. Le galassie fanno parte di gruppi di poche decine di membri, come il Gruppo locale a cui appartiene la Via Lattea, e di ammassi che contengono fino a qualche migliaio di membri e si estendono per molti milioni di anni-luce. Gli ammassi a loro volta si raggruppano in superammassi, ed è difficile stabilire i confini fra un superammasso e un altro. Con l'entrata in funzione, verso il 1915, del primo dei grandi telescopi moderni, quello del Monte Wilson da 2,50 m, è cominciato lo studio sistematico della distribuzione delle galassie sulla volta celeste. Le galassie apparivano distribuite in modo abbastanza uniforme, cosicché si poteva dedurre che la struttura su grande scala fosse la stessa in tutte le direzioni. Era comunque una distribuzione bidimensionale (fig. 4), in quanto è facile stabilire la direzione in cui si trova un oggetto celeste, ma molto più difficile determinarne la distanza. Per le galassie più lontane si sfrutta la relazione scoperta da E.P. Hubble nel 1929 fra la loro distanza e il redshift, che misura lo spostamento della radiazione stellare verso il colore rosso. Per determinare il redshift occorre ottenere lo spettro della galassia in questione e quindi disperdere la luce bianca nelle sue componenti monocromatiche. Trattandosi di oggetti a emissione molto debole, occorrevano grandi telescopi ed esposizioni molto lunghe. Solo a partire dagli anni Ottanta l'entrata in funzione di numerosi telescopi di diametro superiore ai tre metri, e soprattutto di rivelatori elettronici molto più sensibili delle lastre fotografiche, ha permesso di accumulare rapidamente un gran numero di misure di redshift. Si è così sostituita alle mappe bidimensionali una mappa tridimensionale (v. figura 4b) della popolazione di galassie (Geller e Huchra, 1988). Il risultato è stato sorprendente, perché si è scoperto che gli ammassi di galassie sono distribuiti, quasi come una rete, sulle superfici di enormi bolle, apparentemente vuote all'interno, e si è anche rivelata l'esistenza di strutture estendentisi per centinaia di milioni di anni-luce. Una di queste è la struttura chiamata La Grande Muraglia, estesa per più di 700 milioni di anni-luce, larga 200 milioni e spessa solo 20 milioni di anni-luce. Queste mappe tridimensionali si estendono fino a quasi un miliardo di anni-luce; non sappiamo se la struttura a bolle continui fino ai limiti dell'Universo osservabile.

La nostra galassia e la sua popolazione stellare

La nostra galassia

La nostra galassia (la Galassia) è una galassia spirale con un disco molto appiattito di diametro pari a circa 100.000 anni-luce; il gas interstellare è concentrato entro uno spessore di circa 600 anni-luce, mentre la maggior parte delle stelle è concentrata entro uno spessore di 2000 anni-luce. Il nucleo centrale della Galassia si estende per circa 3000 anni-luce dal centro. L'alone, di forma all'incirca sferica, inviluppa il disco, contiene un centinaio di ammassi globulari (da non confondere con gli ammassi aperti) ed è quasi completamente privo di materia interstellare. Gli ammassi globulari più lontani si trovano per lo più a 100.000 anni-luce dal centro galattico, anche se qualcuno è stato osservato a più di 300.000 anni-luce. Dalla curva di rotazione degli oggetti più periferici attorno al centro galattico si ricava che la massa della Galassia è costituita per il 90% da materia oscura distribuita nell' alone galattico, mentre la massa visibile contenuta nel disco e nel nucleo centrale è di poco superiore a 100 miliardi di masse solari. Poiché la maggioranza delle stelle ha massa inferiore a quella del Sole, si stima che il numero totale di stelle galattiche ammonti ad almeno 300 o 400 miliardi.

Le stelle: struttura e proprietà

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fig. 7
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Le stelle sono globi interamente gassosi dal centro fino agli strati più esterni, in equilibrio fra due forze opposte: la forza di gravitazione, che tenderebbe a far collassare la massa di gas sotto il proprio peso, e la pressione, causata dal moto casuale delle particelle di gas, che tenderebbe a farIa disperdere nello spazio interstellare. La stella è dunque in equilibrio idrostatico. Alle temperature centrali di parecchi milioni di gradi hanno luogo reazioni nucleari che sono la principale fonte dell' energia irradiata. Questa si propaga attraverso la stella ed esce sotto forma di radiazione elettromagnetica: tanta energia viene prodotta e tanta viene irradiata; la stella è dunque in equilibrio termico. Dalle osservazioni della popolazione galattica sappiamo che esistono vari tipi di stelle. L'osservazione più immediata e semplice è quella dello splendore apparente; la luce può essere poi analizzata tramite l'osservazione dello spettro stellare. Per le stelle relativamente vicine, che si trovano cioè a meno di 500 anni-luce, è possibile anche una determinazione diretta della distanza, utilizzando un metodo molto simile a quello della triangolazione impiegato dai geometri. Come base si prende il diametro dell'orbita terrestre (metodo delle parallassi trigonometriche). Dallo splendore apparente e dalla distanza si può quindi risalire allo splendore assoluto, che dipende dal raggio e dalla temperatura superficiale. Quest'ultima si ricava dalla distribuzione spettrale dell' energia: le stelle più calde irradiano di più nell'ultravioletto, quelle più fredde nel rosso e infrarosso. Dalla temperatura e dallo splendore assoluto si può risalire al raggio della stella. Un'altra grandezza fondamentale per la struttura fisica di una stella è la massa. Nel caso del Sole la si ricava uguagliando la forza centrifuga all'attrazione gravitazionale che il Sole esercita sui pianeti. Nel caso delle altre stelle è possibile determinarla solo per quelle coppie di stelle legate gravitazionalmente e che orbitano attorno al comune baricentro, utilizzando una semplice applicazione delle leggi di Keplero. Si sono ricavati in questo modo i parametri fondamentali come la massa, il raggio e lo splendore assoluto (o luminosità, che si può misurare in erg/s), per parecchie stelle relativamente vicine al Sole (tab. 1). È stata poi scoperta l'esistenza di due relazioni fra la luminosità e la temperatura superficiale e fra la luminosità e la massa. La prima relazione fu scoperta indipendentemente da E. Hertzsprung e H.N. Russell intorno al 1912. Essa mostra che non tutte le coppie di valori temperatura superficialeluminosità sono possibili. Questa relazione è illustrata in figura (fig. 5) mediante il diagramma denominato diagramma HR dalle iniziali dei due scopritori. La maggior parte delle stelle si trova su una retta che va dalle alte luminosità (circa diecimila volte la luminosità del Sole) e alte temperature (circa 30.000 K), verso le basse luminosità (circa 1/ 10.000 di quella solare) e basse temperature (circa 3000 K) e che è stata chiamata la sequenza principale. Ci sono poi la retta delle giganti e quella delle supergiganti, così dette perché a pari temperatura superficiale queste stelle sono da circa 100 a circa 100.000 volte più luminose delle corrispondenti stelle di sequenza principale, il che significa che la loro superficie raggiante deve essere da 100 a 100.000 volte più estesa. C'è infine un piccolo gruppo di stelle di alta temperatura e bassa luminosità chiamate nane bianche. Questo diagramma è stato fondamentale per ricostruire il cammino evolutivo di una stella. La seconda relazione, o legge massa-luminosità, predetta da A.S. Eddington grazie alla sua teoria della struttura stellare e ricavata sperimentalmente utilizzando le coppie di stelle doppie, mostra che la luminosità L cresce proporzionalmente alla massa M secondo la relazione empirica Lccif, dove α è uguale a circa 5 per le stelle di luminosità intermedia e a circa 3 per le più luminose e le più deboli (fig. 6). È compito delle teorie dell'evoluzione stellare spiegare perché le stelle obbediscano a queste due relazioni e come, evolvendo e modificando la loro struttura, si spostino in altre parti del diagramma HR. Lo spettro non dà soltanto informazioni sulla temperatura superficiale della stella. La presenza di righe di assorbimento, dovute agli strati più superficiali della stella, dipende dalla temperatura, dalla densità e dalla composizione chimica di tali strati, il che ci dà modo di ricavare queste grandezze e di ottenere informazioni quantitative sulla composizione delle atmosfere stellari (fig. 7). Inoltre, il diagramma HR e la relazione massa-luminosità permettono di determinare la densità media delle stelle. Si trova che le stelle della sequenza principale hanno una densità media e una densità atmosferica superiori a quelle delle giganti e delle supergiganti. Da un'analisi dello spettro è possibile risalire alla luminosità di una stella che si trovi troppo lontana per poterne misurare la parallasse trigonometrica (fig. 8). Essendo facilmente misurabile lo splendore apparente, da questo e dalla luminosità si può risalire alla distanza (metodo delle parallassi spettroscopiche).

Le stelle: nascita, evoluzione e morte

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fig. 11

Le stelle si formano dalla condensazione di gas e polveri presenti nelle nubi interstellari. Regioni un po' più dense di quelle circostanti attraggono gravitazionalmente altra materia e così il primo agglomerato comincia a crescere e quanto più cresce tanta più materia attrae. Collassando, l'agglomerato si riscalda e la pressione esercitata dal gas tende a rallentare il processo. Poiché le temperature delle nubi sono di poche decine di gradi Kelvin, il processo avviene nell'oscurità e solo le recenti osservazioni nelle bande del lontano infrarosso e delle microonde hanno permesso di capire più in dettaglio il suo svolgimento. Oltre alla formazione di un disco in rotazione e in contrazione, si è osservata la presenza di getti di gas lungo l'asse di rotazione, i quali forse contribuiscono a portare via l'eccesso di calore che rallenta il collasso. Al progredire del collasso, comunque, il gas diventa sempre più denso e intrappola la radiazione prodotta. Così la temperatura cresce fino a raggiungere valori di qualche milione di gradi, sufficienti per dare inizio alle reazioni nucleari. L'idrogeno è di gran lunga il costituente più abbondante dell'Universo, ed è anche quello che dà luogo a reazioni nucleari alle temperature più basse, trasformando 4 protoni in un nucleo di elio. La fase di formazione di una stella si può dire conclusa quando la produzione di energia nucleare è sufficiente a mantenere la temperatura centrale, e quindi la pressione esercitata dal gas è abbastanza alta da controbilanciare perfettamente la forza di gravitazione. Questa condizione di equilibrio idrostatico è raggiunta quando la temperatura centrale è circa 1500 volte il valore di quella superficiale: da circa 5 milioni di gradi per le stelle più deboli, dette anche nane rosse dal loro colore rossastro, a 40 milioni per quelle più calde. La relazione massa-luminosità si può capire intuitivamente: quanto maggiore è la massa, tanto maggiore dovrà essere la forza esercitata dalla pressione del gas per contrastare la forza di gravitazione. Quindi, poiché la pressione del gas è proporzionale alla temperatura, stelle di massa maggiore avranno temperature centrali più alte. L'energia prodotta dalle reazioni nucleari dipende fortemente dalla temperatura (elevata circa alla settima potenza per le stelle di massa pari a quella solare o più piccola, alla ventesima potenza per quelle di massa maggiore). Di conseguenza, quanto maggiore è l'energia prodotta, tanto maggiore dovrà essere la superficie di dissipazione affinché la stella resti in equilibrio termico (tanta energia produce, tanta ne irradia nello spazio interstellare). Da ciò derivano le relazioni massa-luminosità e raggio-luminosità; da quest'ultima si deriva il diagramma HR in quanto la luminosità L, il raggio R e la temperatura T sono legati dalla relazione Lcc4nR²y4 e il diagramma L-R si trasforma in un diagramma L- T, cioè il diagramma HR. Le teorie sulla formazione delle stelle presentano ancora molte difficoltà; per es., non si capisce come il collasso possa avvenire malgrado la rotazione della nube e la presenza di campi magnetici che tenderebbero a impedirlo. Però le osservazioni confermano che le stelle si formano proprio dalle nubi. Infatti in queste abbondano le stelle molto giovani, e le stelle di recente formazione, come quelle delle Pleiadi, appaiono ancora avvolte in nebulosità. Sembra probabile che le stelle si formino in gruppi (ammassi stellari) e che sia favorita la formazione di quelle di piccola massa, ma non sappiamo quale sia il rapporto fra stelle di grande massa e stelle di piccola massa che si vanno formando entro la nube. Le osservazioni di ammassi molto giovani suggeriscono un rapporto dell'ordine di uno a dieci. Una stella appena formata ha valori di raggio, luminosità e massa tali da porla sulla sequenza principale, tanto più in alto quanto maggiore è la sua massa. La fonte d'energia è la reazione nucleare con trasformazione di idrogeno in elio, mediante il processo protoneprotone per le stelle di tipo solare o più deboli, e mediante il ciclo CNO (carbonio-azoto-ossigeno) per quelle più luminose del Sole (tab. 2). Queste reazioni provocano dunque un lento mutamento nella struttura del nocciolo centrale della stella, perché i nuclei di elio vanno pian piano sostituendosi a quelli di idrogeno e dove prima c'erano quattro particelle ne rimane una sola, riducendo così la forza esercitata dalla pressione. Quando poi l'idrogeno del nocciolo si è quasi completamente trasformato in elio, quest'ultimo è inerte. La temperatura centrale comincia a diminuire e la forza di gravità prevale. La stella comincia a contrarsi, riscaldandosi: le reazioni nucleari con trasformazione di idrogeno in elio hanno inizio allora negli strati che circondano il nocciolo, rallentando il collasso, mentre il nocciolo resta inerte finché, grazie alla contrazione, raggiunge temperature di circa 100 milioni di gradi. Allora tre nuclei di elio possono dar luogo a un nucleo di carbonio 12. Questa reazione ha una fortissima dipendenza dalla temperatura (alla trentesima potenza). Di conseguenza, l'innesco dell'elio produce una quantità d'energia molto superiore (ma per tempi molto più brevi) a quella prodotta dalla stella nella fase di combustione dell'idrogeno. Per restare in equilibrio termico la stella aumenta la sua superficie di dissipazione: si ha un'espansione degli strati superficiali e il raggio diventa 100 e più volte quello iniziale. L'espansione provoca anche una diminuzione della temperatura superficiale: la stella è diventata una gigante rossa. Si possono avere varie fasi evolutive corrispondenti all' esaurimento di successivi combustibili nucleari, caratterizzate da una contrazione del nocciolo e da una espansione dell'inviluppo esterno. È chiaro che queste modifiche di raggio, temperatura superficiale e luminosità provocano vari spostamenti della stella nel diagramma HR, illustrati dalle cosiddette tracce evolutive (fig. 11).

fig. 12

Le varie fasi evolutive avvengono tanto più rapidamente quanto maggiore è la massa della stella, perché le reazioni nucleari sono tanto più rapide quanto maggiore è la temperatura del nocciolo. Si calcola, per es., che stelle di tipo solare restino sulla sequenza principale per tempi dell'ordine di 10 miliardi di anni, mentre stelle più luminose vi restano per meno di 10 milioni di anni. Le teorie sull'evoluzione stellare trovano una conferma nell'osservazione di quelle famiglie di stelle (ammassi aperti e globulari) di masse diverse ma formatesi tutte all'incirca in una stessa epoca da un'unica nube e quindi tutte con la stessa composizione chimica iniziale. Ne segue che il loro cammino evolutivo nel diagramma HR dipende da una sola variabile: la massa. Negli ammassi molto giovani le stelle più luminose non sono ancora evolute e giacciono sulla sequenza principale; le più deboli sono ancora nella fase pre-sequenza, in contrazione gravitazionale, e perciò più fredde di quando avranno raggiunto la sequenza. Negli ammassi più vecchi le stelle più luminose si saranno già trasformate in giganti o supergiganti rosse. La luminosità a cui termina la sequenza principale e a cui si estende il ramo delle giganti rosse dà dunque un modo per calcolare l'età di un ammasso. È stato così che W. Baade scoprì, alla fine degli anni Quaranta, che i diagrammi HR degli ammassi globulari differivano da quelli delle stelle vicine al Sole e della maggioranza degli ammassi aperti (Baade, 1952). La parte superiore della sequenza principale non c'era; mancavano dunque le stelle più calde e brillanti. In corrispondenza di una luminosità leggermente superiore a quella solare si notava un trattino di sequenza principale, mentre la parte inferiore non era generalmente osservabile, perché le stelle erano troppo deboli per gli strumenti dell'epoca. C'era però un esteso ramo delle giganti (fig. 12).

L'interpretazione di queste osservazioni conferma le teorie sulla struttura e l'evoluzione stellare. Gli ammassi globu1ari contengono una popolazione vecchia di 12 ÷14 miliardi di anni, formatasi da una galassia anch'essa in formazione. Questa era una enorme nube sferica in rotazione, costituita da gas e polveri. La rotazione portava gradualmente all'appiattimento del fluido interstellare, mentre gli ammassi che nel frattempo si erano formati mantenevano la distribuzione spaziale della nube originaria. Così si spiega che gli ammassi globulari occupino un volume approssimativamente sferico, mentre gli ammassi aperti più giovani sono per la maggior parte concentrati sull'equatore galattico.

È questo un disco spesso poco più di 2000 anni-luce e di raggio pari a circa 50.000 anni-luce. La rotazione ha trasformato l'iniziale nube pregalattica nel seguente modo: mentre gli ammassi globulari sono tutti molto vecchi, gli ammassi aperti hanno età comprese fra meno di mezzo milione di anni e più di 10 miliardi di anni; evidentemente, nell'alone sferico non c'è rimasto sufficiente mezzo interstellare per la formazione stellare perché la rotazione, appiattendo il sistema fluido, l'ha concentrato quasi tutto sul disco e solo lì si possono formare nuove stelle e nuovi ammassi. È stato anche trovato che gli ammassi globulari più lontani dal piano galattico e dal centro della Galassia contengono in misura minore gli elementi più pesanti di idrogeno ed elio; quelli cioè che nello slang astronomico vengono definiti con una sola parola, i 'metalli', includendovi anche carbonio, azoto, ossigeno, ecc. Il rapporto metalli/idrogeno può assumere un valore da 10-⁵ a 10-² volte il valore solare. Per gli ammassi globulari vicini al piano galattico e al nucleo centrale, tale rapporto ha un valore di poco inferiore a quello solare, mentre fra le stelle del disco e gli ammassi aperti i valori generalmente oscillano fra circa l e 2 volte il valore solare. Queste differenze di composizione chimica, correlate con l'età e la posizione nella Galassia, trovano una spiegazione nell'evoluzione chimica della Galassia nel suo insieme, che è determinata soprattutto dalle fasi di nucleosintesi esplosiva che hanno luogo nelle supernovae, e in misura minore in altri tipi di stelle soggette a cataclismi, come le novae.

Per quanto riguarda la fine delle stelle, si potrebbe dire che una stella 'muore' quando non è più in grado di utilizzare le proprie fonti di energia, sia nucleare sia gravitazionaIe. La morte avviene in modi e per ragioni diverse, a seconda che la massa sia superiore oppure inferiore a circa 4 masse solari. Una stella appena formata è costituita da una sfera di gas perfetto a composizione chimica omogenea. In un gas perfetto le dimensioni delle singole particelle sono trascurabili rispetto alla loro distanza media. In seguito alle successive fasi evolutive (contrazioni del nocciolo e espansioni degli inviluppi) non solo si creano strati con peso molecolare medio crescente verso l'interno, ma aumenta la densità del nocciolo. A densità sufficientemente alte, il gas non si comporta più come gas perfetto ma diventa degenere. La degenerazione avviene a densità tanto minore quanto minore è la temperatura centrale. Una nana rossa avrà un nocciolo degenere già nelle prime fasi di bruciamento dell'idrogeno, mentre una stella di massa superiore a 5 masse solari avrà sempre un nocciolo di gas perfetto.

Un gas perfetto esercita una pressione proporzionale alla sua temperatura; un gas degenere invece esercita una pressione che dipende poco dalla temperatura e molto dalla densità, fino al caso di completa degenerazione in cui la pressione dipende solo dalla densità; in pratica si comporta come un solido. Le conseguenze della degenerazione su1l'evoluzione sono drastiche. Se, per es., il nocciolo di una stella di piccola massa diventa completamente degenere, quando l'idrogeno sarà tutto trasformato in elio, il nocciolo comincerà a raffreddarsi, ma la pressione non diminuirà. Perciò la temperatura continuerà a diminuire e la stella non potrà innescare il combustibile nucleare elio, e nemmeno utilizzare l'energia gravitazionale, poiché resterà in condizioni di equilibrio idrostatico. L'ammasso di gas caldo andrà lentamente raffreddandosi. Nelle stelle di massa un po' maggiore, come il Sole, il nocciolo di gas degenere si forma quando è già iniziata la combustione dell'elio e la stella attraversa la fase di gigante rossa. In stelle di massa ancora maggiore del Sole si potranno innescare altre reazioni nucleari, e si avranno altre fasi di espansione e successive contrazioni, con perdita di gran parte della loro massa. La fase finale è quella di gigante rossa con un nocciolo centrale di massa non superiore a 1,4 masse solari (detto limite di Chandrasekhar, che è il limite che il gas degenere di elettroni è in grado di sopportare). Raggiunta questa fase, l'enorme atmosfera rarefatta si allontanerà dal nocciolo centrale formando una specie di guscio di gas che viene eccitato dal nocciolo caldissimo ormai messo a nudo e che forma quella nebulosità che è stata chiamata nebulosa planetaria. Il nocciolo piccolo e caldo di gas degenere è una nana bianca, una specie di cadavere caldo che non avendo fonti di energia andrà lentamente raffreddandosi nel giro di decine di miliardi di anni, fino a diventare una nana nera. La nebulosa planetaria si disperderà nello spazio interstellare.

Completamente diversa è la fine di una stella di grande massa, il cui nocciolo resterà sempre gas perfetto. A ogni esaurimento di un combustibile nucleare seguiranno una diminuzione di temperatura centrale e quindi di pressione, una contrazione e un successivo riscaldamento con innesco di un altro combustibile nucleare. Questi processi continuano fino a che nel nocciolo si ha produzione di ferro e nichel. A temperature di circa 10 miliardi di gradi e a densità di miliardi di volte la densità dell'acqua, un nucleo di ferro si trasforma in 13 nuclei di elio e 4 neutroni. Però a differenza delle precedenti reazioni, che sono esotermiche, cioè in grado di liberare energia, questa è endotermica, ossia richiede energia. L'energia necessaria viene fornita dall' energia termica della massa di gas caldo. Di conseguenza la trasformazione ferro-elio provoca una repentina diminuzione di temperatura e quindi di pressione, determinando il collasso della massa stellare verso il nocciolo. Il risultato è che il nocciolo sottoposto all'enorme pressione si trasforma in una stella di neutroni, una stella cioè composta di neutroni stabili (infatti a densità superiori a 400 miliardi di grammi per centimetro cubo protoni ed elettroni danno luogo a neutroni stabili e neutrini). Invece gli strati intorno al nocciolo, in cui si trovano ancora nuclei in grado di dar luogo a reazioni esotermiche, durante il collasso si riscaldano tanto da produrre una serie di reazioni nucleari che ne provocano l'esplosione. Lo splendore della stella può superare di miliardi di volte lo splendore del Sole e l'esplosione proietta il gas nello spazio interstellare a velocità di parecchie migliaia di km/s. L'ascesa al massimo di splendore avviene nel giro di decine di minuti, e poi diminuisce lentamente per molte settimane o mesi. Il residuo dell'esplosione resta osservabile anche per migliaia di anni sotto forma di una nube di gas in espansione, le cui emissioni radio indicano la presenza di campi magnetici ed elettroni di alta energia. Il fenomeno prende il nome di supernova di tipo II e la nube residua quello di resto di supernova.

Questa fase finale esplosiva delle stelle di grande massa è fondamentale per la formazione degli elementi. Infatti nel corso delle varie reazioni nucleari vengono formati tutti gli elementi che noi conosciamo sulla Terra. L'esplosione li diffonde nel mezzo interstellare arricchendolo progressivamente. Le stelle delle prime generazioni saranno più povere di elementi pesanti di quelle delle generazioni successive, una previsione confermata dalle osservazioni. Si parla perciò di evoluzione chimica della Galassia, dovuta soprattutto alle esplosioni delle supernovae.

Si osserva anche un altro fenomeno esplosivo di eguale o anche maggiore intensità nelle cosiddette supernovae di tipo I. In questo caso il meccanismo deve necessariamente essere diverso, perché si tratta di stelle di massa troppo piccola per produrre un nocciolo di nuclei di ferro. Uno dei modelli proposti consiste in un sistema binario composto da una stella di massa abbastanza grande e da una nana bianca di massa prossima a 1,4 masse solari (il già citato limite di Chandrasekhar). Quando la stella maggiore, evolvendo, si espande, deposita parte del suo gas ricco di idrogeno sulla superficie della nana bianca. Quando questa supera la massa critica collassa ed esplode, producendo effetti analoghi a quelli riscontrati per le supernovae di tipo II. Lo spettro è però diverso nei due casi: nelle supernovae di tipo II si osservano emissioni di idrogeno ed elio, che mancano invece in quelle di tipo I, poiché la nana bianca è composta di carbonio e ossigeno e ha bruciato idrogeno ed elio nelle sue precedenti fasi evolutive. Il nocciolo compatto della nana bianca produce 56Ni, che decade a 56CO e poi allo stabile 56Pe.

Le nane bianche rappresentano dunque ciò che resta dell' evoluzione di una stella di massa inferiore a circa 5 masse solari, mentre le stelle di neutroni rappresentano ciò che resta delle stelle di massa superiore. Tuttavia non è sempre detto che le supernovae lascino come residuo una stella di neutroni. Se la massa del nocciolo è superiore a circa 3 masse solari, nemmeno la pressione del gas degenere di neutroni è in grado di contrastare l'attrazione gravitazionale e si può avere il collasso a buco nero, una regione dello spazio così densa che la velocità di fuga supererebbe quella della luce, per cui nemmeno la luce può uscirne (da qui l'attributo di 'nero'). Il raggio effettivo di un buco nero di massa M è definito dalla distanza R a cui la velocità di fuga diventa eguale a quella della luce: R=2GM/c², detto raggio di Schwarzschild. La materia che cade all'interno di questo raggio non può più uscirne. Un buco nero può manifestare la sua presenza solo grazie all'attrazione gravitazionale che esercita su una stella sua compagna, nell' eventualità che faccia parte di un sistema binario.

fig. 16

Le pulsar, scoperte nel 1967 (Hewish et al., 1968) sono stelle di neutroni rotanti, sede di forti campi magnetici. Se l'asse di rotazione è inclinato rispetto all'asse magnetico, ogni volta che la rotazione rende visibile dalla Terra uno dei poli magnetici riceviamo un impulso di radiazione causato dagli elettroni che sfuggono lungo le linee di forza del campo, che sono aperte ai poli (fig. 16).

Le proprietà delle pulsar sono la conseguenza del collasso a cui sono state soggette. Le velocità di rotazione delle stelle (considerate alla loro superficie) possono essere, come nel caso del Sole, di 2 km/s o, come per molte stelle di grande massa, di 100 o più km/s. Perché una stella sia stabile, la sua velocità di rotazione non può superare un certo limite, raggiunto quando la forza centrifuga all'equatore supera la forza di attrazione gravitazionale. Durante il collasso, per la legge di conservazione del momento angolare, aumenta la velocità di rotazione. Ci si può quindi aspettare che le stelle di neutroni abbiano forti velocità di rotazione. Tutte le stelle hanno probabilmente dei campi magnetici. Nel caso del Sole il campo magnetico superficiale è circa l gauss. Un gruppo di stelle, dette appunto stelle magnetiche, ha campi di parecchie centinaia e in molti casi migliaia di gauss. Nel collasso di una supernova la superficie della stella si riduce di circa un miliardo di volte e il campo magnetico diventa altrettanto più intenso. Perciò ci aspettiamo che le stelle di neutroni abbiano campi magnetici di miliardi di gauss. I periodi di rotazione delle pulsar, che ricaviamo dalla periodicità (inferiore al secondo) con cui riceviamo i loro impulsi, indicano densità di decine o centinaia di miliardi di volte la densità dell' acqua. Solo a queste densità la stella è in grado di sopportare la forza centrifuga all'equatore senza spezzarsI. Il forte campo e la rapida rotazione fanno della stella di neutroni una gigantesca dinamo. Gli elettroni liberi alla superficie della stella sono incanalati lungo le linee di forza del campo. A causa della rotazione i fasci di elettroni lungo l'asse magnetico spazzano il cielo come il fascio luminoso di un faro. Ecco perché ogni volta che uno di questi fasci è diretto verso la Terra noi riceviamo un impulso di radiazione elettromagnetica. In generale si tratta di onde radio, ma in qualche raro caso in cui gli elettroni sono di maggiore energia e i campi magnetici particolarmente intensi, riceviamo anche impulsi ottici, ultravioletti e raggi X.

Prime osservazioni di pianeti extrasolari

Dalla conoscenza dei vari tipi di stelle abbiamo potuto ricostruire il modo in cui esse si formano, come si evolvono e come finiscono. Per quanto riguarda invece i sistemi planetari, finora se ne conosce soltanto uno: il nostro. Non sappiamo se tutte le stelle hanno sistemi analoghi, o quante di esse ne abbiano; non sappiamo se i sistemi planetari sono più o meno simili al nostro; non sappiamo se le caratteristiche di altri eventuali sistemi planetari siano o no correlate con le caratteristiche del loro sole. Facciamo intanto alcune ipotesi sul modo in cui si può essere formato il nostro sistema solare, che ne spieghino le caratteristiche generali, senza tuttavia sapere se queste siano applicabili anche agli altri eventuali sistemi. Si osserva che tutte le orbite dei pianeti giacciono quasi su uno stesso piano. Fanno eccezione i due pianeti estremi, Mercurio e Plutone, i cui piani orbitali sono inclinati rispetto all'eclittica rispettivamente di 7° e 17°. Inoltre tutti i pianeti orbitano attorno al Sole nello stesso senso, e i semiassi maggiori delle orbite obbediscono a una legge empirica notata da ID. Titius e lE. Bode verso la fine del Settecento. Infine i pianeti terrestri - Mercurio, Venere, Terra e Marte hanno composizione rocciosa, e densità medie fra circa 6 e circa 3,5 volte la densità dell'acqua, mentre i pianeti gassosi - Giove e Satumo - hanno densità eguali o inferiori a quella dell'acqua e masse di due ordini di grandezza superiori a quella terrestre, e i pianeti ghiacciati - Urano e Nettuno - hanno densità di circa 1,5 volte quella dell'acqua e masse di un ordine di grandezza superiori a quella terrestre. Plutone, che con Caronte (che ha un raggio di 596 km, circa la metà di quello di Plutone, che misura 1142 km) forma un pianeta doppio piuttosto che un pianeta col suo satellite, si inquadra male nello schema generale del sistema solare. Secondo alcune ipotesi il sistema Plutone-Caronte potrebbe essere stato un satellite di Nettuno che le perturbazioni gravitazionali avrebbero strappato all'attrazione del pianeta.

Da queste caratteristiche si risale alle teorie sull'origine del sistema solare, che hanno radici nelle ipotesi nebulari di I. Kant (1775) e P.-S. Laplace (1796). A rafforzare queste teorie hanno contribuito le osservazioni fatte con il satellite per l'infrarosso IRAS (infrared astronomical satellite), e da terra con radiotelescopi per microonde. Le osservazioni indicano che alcune stelle in formazione sarebbero circondate da un disco molto più esteso e più freddo, da cui si potrebbero formare i pianeti. In particolare, sono state ottenute da terra immagini della stella Beta Pictoris (Lecavalier des Etangs et al., 1993; Golimowski et al., 1993). Occultando con un microscopico dischetto la luce della stella, si ottiene l'immagine di un disco, esteso circa 400 volte la distanza Terra-Sole e avente uno spessore circa 50 volte la distanza Terra-Sole. Più recentemente, nel settembre 1995, due astro fisici svizzeri, M. Major e D. Queloz (1995), hanno rivelato la presenza di un grosso pianeta, di massa paragonabile a quella di Giove, in orbita attorno alla stella di tipo solare 51 Pegasi, posta a circa 50 anni-luce da noi. La presenza del pianeta è rivelata dalle perturbazioni che esso provoca al moto della stella. Dall'entità della perturbazione e dalla sua periodicità si ricavano la massa e la distanza del pianeta dalla stella. La massa è inferiore a 2/1 000 della massa del Sole, e questo indica che si tratta di un pianeta e non di una stella. Infatti una stella per diventare tale deve poter innescare le reazioni nucleari H → He, e perché questo avvenga la massa deve essere almeno 7 o 8 centesimi di quella solare. Quello che è sorprendente, almeno per chi si aspettava sistemi solari simili al nostro, è la grande vicinanza del pianeta alla sua stella: circa 8 milioni di chilometri, un ottavo della distanza che ha Mercurio dal Sole. Ne segue che 'l'anno' di questo pianeta è di soli 4,2 giorni.

tab. 3

Dopo questo primo pianeta extrasolare ne sono stati scoperti altri 10, tutti di massa circa uguale o superiore a quella di Giove e distanze dal loro sole comprese fra gli 8 milioni di chilometri di 51 Pegasi e poco più di 1,5 miliardi di chilometri (10 volte la distanza della Terra dal Sole) per Lalande 21185, che ha anche un secondo pianeta posto a una distanza pari a 2,5 volte la distanza della Terra dal Sole (tab. 3).

Il fatto che si siano rivelati solo pianeti di masse paragonabili o superiori a quella di Giove non esclude che vi siano altri pianeti, come la Terra o più piccoli, in orbita attorno a queste stelle. In questo caso tuttavia le perturbazioni gravitazionali che essi possono provocare al moto del loro sole sarebbero troppo piccole per poter essere rilevate con i nostri attuali strumenti. La scoperta di altri sistemi solari è di fondamentale importanza per conoscere la diffusione della vita nell'Universo. La presenza di pianeti è infatti condizione necessaria, ma non sufficiente, per lo sviluppo di forme di vita.

Le galassie e gli ammassi di galassie

Le galassie sono agglomerati di stelle e materia interstellare. Esse sono molto diverse, sia per la massa sia per la forma. Le più piccole contengono qualche decina di milioni di stelle, mentre le più grandi possono contenere qualche migliaio di miliardi di stelle. Come già accennato, le galassie si dividono, a seconda della loro morfologia, in spirali - sia normali sia sbarrate - ellittiche e irregolari. Il contenuto di materia interstellare può raggiungere il 20% della massa per le irregolari, qualche unità percentuale nelle spirali e meno dello 0,1 % nelle ellittiche.

Alle differenze morfologiche si accompagnano differenze di composizione chimica, indici di una diversa evoluzione. Le galassie ellittiche sono più ricche di elementi pesanti e mancano quasi completamente di gas e di stelle di recente formazione. Questo indica che in esse non ha avuto luogo una recente attività di formazione stellare. Le galassie spirali, come la nostra Galassia, sono caratterizzate dalla presenza di due popolazioni: la popolazione dell'alone, povera di elementi pesanti, dove manca o è trascurabile la materia interstellare, e mancano di conseguenza le stelle di recente formazione, e la popolazione del disco, che contiene stelle appena formate e stelle di varie età, fino a quelle di età paragonabile a quelle dell'alone. La composizione chimica è simile a quella del Sole, e le braccia sono ricche di nubi di materia interstellare. Oltre all'alone e al disco si nota un rigonfiamento centrale da cui partono le braccia (spirali normali). A volte esso è invece attraversato da una specie di sbarra, dalle cui estremità si dipartono le braccia (spirali sbarrate).

Le galassie irregolari non hanno né l'alone, né il rigonfiamento, né un disco ben definito; la materia interstellare è abbondante e il contenuto di elementi pesanti più scarso che nel Sole.

Queste differenze sono da attribuire alle proprietà della massa di gas costituente la protogalassia. Per esempio, in una nube avente bassa velocità di rotazione e bassa velocità di turbolenza del gas, la formazione di stelle avverrà rapidamente e queste manterranno la distribuzione sferica della nube da cui si sono formate. Il gas si esaurisce non solo per l'accelerata formazione stellare, ma anche perché l'esplosione di un gran numero di supernovae formatesi in breve tempo, oltre ad arricchire il mezzo interstellare di elementi pesanti da cui si formeranno le altre stelle, dà luogo a un vento galattico che espelle il gas dalla galassia.

Le galassie spirali, a giudicare dalla loro forma appiattita, si devono essere formate da una nube in rapida rotazione. Le stelle delle prime generazioni popolano l'alone sferico, mentre il gas residuo si dispone su un disco. La velocità di turbolenza o i campi magnetici, o ambedue le cause, devono rallentare la formazione di stelle sul disco, cosicché ancora biente ha effetto sulla evoluzione e sulla morfologia della galassia.

Ammassi di galassie

Gli ammassi di galassie sono sistemi legati gravitazionalmente. Le galassie appartenenti all'ammasso si muovono all'interno di questo con velocità diverse l'una dall'altra. Queste sono tipicamente dell'ordine di circa 1000 km/s. Dividendo la dimensione osservata dell'ammasso per la velocità di una galassia entro l'ammasso si trova che quest'ultima impiega qualcosa come un miliardo di anni ad attraversarlo. Ammesso che l'età dell'Universo sia compresa fra 10 e 20 miliardi di anni, una data galassia avrà attraversato l'ammasso più volte. Ciò indica che l'ammasso è un sistema dinamicamente stabile e che la gravità tiene le galassie legate insieme, altrimenti esse si sarebbero disperse già da molto tempo.

Mentre la probabilità di collisioni fra stelle è estremamente piccola, date le grandi distanze che le separano, la situazione è molto differente per le galassie di un ammasso. La separazione fra due membri è spesso di poco superiore al loro diametro. Quindi ci si aspetta che le collisioni siano frequenti. A riprova di ciò si osserva che negli ammassi sono molto più numerose le galassie ellittiche che non le spirali, il contrario di ciò che si osserva per le galassie fuori degli ammassi. Un'ipotesi per spiegare tale fenomeno è che nella collisione le due galassie spazzerebbero via reciprocamente il loro gas interstellare. Inoltre, si nota che al centro degli ammassi più ricchi c'è una galassia eccezionalmente grande e luminosa, estesa da 10 a 100 volte le galassie normali. Alcune galassie presentano più di un nucleo. Si ritiene che esse siano il risultato di una specie di 'cannibalismo'. Esse, cioè, sarebbero cresciute inglobando una o più galassie minori.

La massa di un ammasso può essere determinata semplicemente contando le galassie in esso contenute. Poiché si conosce abbastanza bene la massa di una tipica galassia di un dato tipo morfologico, sommando i contributi di tutte le galassie si ottiene una stima attendibile della massa visibile. Un altro metodo deriva la massa dalla legge di gravitazione. Maggiore è la massa, maggiore sarà la velocità con cui le galassie si muovono nelle loro orbite attorno al baricentro dell'ammasso. Già negli anni Quaranta F. Zwicky si accorse che la massa dell'ammasso della Coma, dedotta dalla legge di attrazione gravitazionale, superava di circa 400 volte la massa visibile. Misure più recenti hanno ridimensionato questo valore. Resta comunque accertato che la massa 'gravitazionale' in molti ammassi è di circa 10 volte superiore a quella visibile. È questo uno dei maggiori problemi irrisolti della moderna astrofisica: il 90% della materia negli ammassi, e forse in tutto l'Universo, non emette radiazione elettromagnetica. È la cosiddetta materia oscura, e non sappiamo di cosa sia costituita.

Galassie con nuclei attivi e oggetti quasi stellari (AGN e QSO)

Una classe di galassie, note dal nome del loro scopritore come galassie di Seyfert, è costituita da spirali con nuclei centrali molto compatti e brillanti; il loro spettro è caratterizzato da righe di emissione indicanti la presenza di abbondante gas eccitato e ionizzato. Vennero individuate, appunto, da C.K. Seyfert nel 1943. Paragonate alle spirali normali, sono deboli radio sorgenti e presentano un eccesso di radiazione X, ultravioletta e infrarossa. Gli oggetti quasi stellari (QSO, quasi stellar object) furono scoperti nel 1963 (Hazard et al., 1964; Schmidt, 1963). Sono regioni molto piccole (in qualche caso inferiori a qualche ora-luce) nel centro di galassie. La loro luminosità è tale da rendere difficile l'osservazione della galassia che li ospita. l QSO si dividono in due principali gruppi: i quasar o radiosorgenti quasi stellari, che emettono intensamente nella banda delle radioonde, e i QSO non radioemittenti, che sono la maggioranza. Non è chiaro quale sia il tipo di galassia che ospita i QSO. Dalle caratteristiche delle loro emissioni si ritiene che i QSO non radio emittenti rappresentino una fase più attiva delle galassie di Seyfert e siano pertanto al centro di galassie spirali, mentre i quasar sarebbero collegati alle radiogalassie. Quest'ultime hanno emissioni radio fino a un milione di volte più intense di quelle delle galassie normali e sono per lo più galassie ellittiche. Si ritiene perciò che i quasar si trovino al centro di galassie ellittiche. Galassie di Seyfert, radiogalassie e QSO costituiscono la classe di galassie con nuclei attivi (AGN, active galactic nuclei). L'origine dell'enorme potenza emessa soprattutto dai QSO, ma anche in misura minore dalle altre galassie AGN, si pensa sia da collegare alla presenza di un buco nero di massa pari a centinaia di milioni di masse solari al centro del sistema, il quale attrarrebbe il gas circostante e libererebbe l'energia gravitazionale sotto forma di radiazione. Poiché i QSO e i quasar sono quasi tutti molto lontani, con redshift compresi fra 0,5 e quasi 5, si ritiene rappresentino i pro genitori delle galassie Seyfert e delle radio galassie. La loro attività è troppo intensa per ritenere che possano rappresentare anche i pro genitori delle galassie normali.

La ricerca dei progenitori delle galassie normali

Il telescopio spaziale Hubble (HST, Hubble space telescope) ha iniziato un programma sistematico per la ricerca dei pro genitori delle galassie normali. La prima zona di cielo che è stata esplorata è una regione di circa 2,5 primi d'arco (circa 1/12 del diametro lunare) in prossimità dell'Orsa maggiore e apparentemente vuota. Grazie alla grande sensibilità e all'alto potere risolutivo di HST è stato possibile rivelare la presenza di circa 1500 galassie in quel pezzetto di cielo. Si tratta di oggetti molto deboli, di trentesima magnitudine (il che significa 4 miliardi di volte più deboli delle più deboli stelle visibili a occhio nudo). Il fatto che siano così deboli non implica necessariamente che siano anche molto distanti. Una misura del loro redshift richiederebbe strumenti ancora più potenti di quelli di cui disponiamo attualmente. Comunque, una stima del redshift può essere fatta, tenendo conto che l'idrogeno interstellare assorbe completamente la radiazione a lunghezze d'onda inferiori a 913 Å. Dall'osservazione di immagini in vari colori si può stabilire per quale colore l'immagine di una galassia sparisce, e quindi stimare il redshift. La conclusione è che quasi tutte le deboli galassie presenti nell'area studiata da HST hanno redshift fra 2,5 e 3, il che significa che si sarebbero formate quando l'Universo aveva un'età pari a circa un decimo dell'attuale. Oltre a questa regione affollata di galassie - che lascia prevedere l'esistenza di molte altre regioni simili, per cui si stima siano osservabili almeno 50 miliardi di galassie è stata scoperta anche una regione praticamente vuota. Che sia veramente vuota e non popolata di oggetti troppo deboli per i nostri strumenti, o addirittura di materia oscura, lo prova il fatto che non esercita alcuna attrazione gravitazionale sulle galassie e sugli ammassi di galassie confinanti.

Origine ed evoluzione dell'Universo

fig. 22

Dall'osservazione della distribuzione, dei moti e della composizione chimica delle galassie si cerca di risalire all'origine e all'evoluzione dell'Universo come un tutto. La parte dell'astronomia che si occupa di questi problemi è la cosmologia. Le prime osservazioni di importanza cosmologica furono effettuate da E. Hubble, il quale scoprì che tutte le galassie sembrano allontanarsi da noi con velocità tanto maggiore quanto maggiore è la loro distanza. Nel 1929 Hubble riassunse questo risultato nella legge v = Hd (fig. 22), dove v e d sono la velocità e la distanza, mentre H è una costante, nota come costante di Hubble. Dal valore di H dipende la rapidità dell' espansione. A causa della difficoltà nel determinare la distanza delle galassie, il valore di H è incerto di un fattore 2: 50 ≤ H ≤ 100 km/ s per me gaparsec (un megaparsec è la distanza che la luce percorre in 3,26 milioni di anni). Le più recenti determinazioni di Htendono a restringere questo intervallo fra 55 ± 10 e 70 ± 10 km/s per megaparsec. Queste osservazioni sono interpretate come la prova che lo spazio in cui sono immerse le galassie si sta espandendo. Le singole galassie e gli ammassi di galassie non si espandono, perché in esse prevale l'attrazione gravitazionale.

Il matematico russo A. Friedmann aveva predetto teoricamente nel 1922 che l'Universo non potesse essere statico (come si era sempre immaginato fino ad allora) ma dovesse essere o in espansione o in contrazione. Le conseguenze della scoperta di Hubble sono che, estrapolando all'indietro l'espansione dell'Universo, questo dovrebbe avere avuto inizio da un punto, in un'epoca tanto più remota quanto più lenta è la velocità d'espansione e quindi quanto più piccolo è il valore di H. Questa semplice estrapolazione indicherebbe che l'Universo ha avuto inizio con volume zero, temperatura e densità infrnite, e cioè da quella che in matematica viene definita una singolarità, ma che non ha senso fisico. Le teorie che accettano questa interpretazione delle osservazioni (denominate ironicamente da F. Hoyle teorie del big bang, il 'grande scoppio', un termine entrato largamente in uso) non tengono conto degli effetti quantistici che si ritiene divengano importanti a densità dell'ordine di 10⁹³ g cm-³ (tale valore è noto come densità di Planck ed è pari a c / hG², dove c è la velocità della luce, h la costante di Planck e G la costante di gravitazione), corrispondenti a un'epoca detta tempo di Planck dato da √Gh / c = 5 . 10-⁴⁴ secondi. Perciò la fisica che sperimentiamo negli acceleratori di particelle si può al massimo estrapolare a tempi successivi a quello di Planck.

Si definisce velocità critica all'inizio dell' espansione quella per cui le forze di espansione e di gravitazione si bilanciano esattamente. Questa condizione si verifica per una certa densità, detta densità critica. Si usa indicare con Ω il rapporto fra la densità osservata e la densità critica. Se la velocità è maggiore di quella critica, e quindi Ω < 1, la gravitazione non può arrestare l'espansione, se invece è minore, e quindi Ω > 1, l'espansione frnirà per arrestarsi e si avrà una fase di contrazione. Si può fare l'analogia con un razzo lanciato dalla terra a velocità superiore o inferiore alla velocità di fuga.

fig. 23

Le osservazioni indicano che la velocità d'espansione è molto vicina a quella critica, tanto che non sappiamo quale sarà il futuro del nostro Universo (fig. 23). La densità della materia visibile è solo qualche centesimo della densità critica, e anche tenendo conto della materia oscura presente nelle galassie e negli ammassi di galassie, la densità non supera qualche decimo della densità critica, per cui l'espansione dovrebbe durare all'infinito. Non si può escludere però che ci sia della materia intergalattica in quantità tale da portare la densità a valori molto prossimi alla densità critica, come postulato dalla teoria del! 'inflazione, proposta nel 1979 da A. Guth (Guth e Steinhardt, 1984) per spiegare certe difficoltà della teoria del big bang, come vedremo in seguito.

fig. 24

Se l'Universo ha avuto una fase ad altissima temperatura, doveva essere riempito di radiazione di alta energia (raggi gamma e X). Oggi, dopo 10 o 20 miliardi di anni, l'espansione deve avere abbassato la temperatura a valori di pochi gradi assoluti. Questa predizione fu fatta dal fisico G. Gamow nel 1948. Di conseguenza, l'Universo dovrebbe essere riempito di radiazione con un massimo nella banda delle microonde (la cui lunghezza va dall'ordine dei millimetri a quello dei centimetri). Questa radiazione, indicante una temperatura di circa 3 K (fig. 24), è stata scoperta per caso nel 1965 (Penzias e Wilson, 1965). La presenza della radiazione a 3 K è difficilmente spiegabile da teorie come quella proposta da H. Bondi, T. Gold e F. Hoyle, detta teoria dell'Universo stazionario, per la quale l'Universo non ha mai attraversato una fase ad altissima temperatura.

Dalle stime dei valori attuali della temperatura e della densità dell'Universo (rispettivamente 2,73 K e circa un atomo di idrogeno per metro cubo), è possibile calcolare temperatura e densità nel passato (poiché la temperatura cresce con l'inverso della scala dell'Universo e la densità con l'inverso della terza potenza). A età comprese grosso modo fra 3 e 7 minuti, temperatura e densità erano tali (rispettivamente circa 10⁹ K e circa la densità dell'acqua) da permettere reazioni nucleari con formazione di idrogeno pesante, dei due isotopi dell' elio e di una piccola quantità di litio da protoni e neutroni. In epoche anteriori l'energia delle particelle era troppo alta per permettere la formazione di nuclei più complessi del protone; dopo i primi 7 minuti l'energia era diventata troppo bassa per permettere altre reazioni nucleari con formazione degli altri elementi. Le quantità di deuterio ed elio che si calcola si siano formate durante tali reazioni primordiali sono in accordo con le abbondanze cosmiche osservate.

G. e M. Burbidge, W. Fowlere F. Hoyle (indicati con la sigla B²FH) nel 1957 (Burbidge et al., 1957) proposero una teoria per spiegare la formazione degli elementi tramite le reazioni nucleari che avvengono nell'interno delle stelle nel corso della loro evoluzione. L'accordo con le osservazioni è abbastanza buono e la teoria è ancora oggi valida, ma con un'eccezione: l'elio. L'abbondanza di elio osservata è più alta di quella predetta, e rappresenta circa il 27% di tutta la materia nell'Universo. Nell'interno delle stelle, durante tutta la vita della galassia, si potrebbe formare al massimo un 3 o 4% di elio. Invece, le reazioni primordiali producono un 23%, che sommato a quello prodotto nelle stelle dà il valore osservato.

Deuterio, litio, berillio e boro non possono formarsi nell'interno delle stelle, in quanto verrebbero distrutti già nella fase di contrazione a temperature comprese fra mezzo milione e circa 5 milioni di gradi. B²FH proposero che questi elementi si fossero formati per frammentazione di nuclei abbondanti nel gas interstellare, come carbonio e ossigeno, causata dai raggi cosmici. Questa teoria è ancora accettata per spiegare le abbondanze osservate di litio, berillio e boro, mentre il deuterio osservato (un atomo di deuterio ogni 100.000 atomi di idrogeno) potrebbe essere stato prodotto tutto nelle reazioni primordiali.

L'espansione dell'Universo, la scoperta della radiazione cosmica a 2,73 K e le abbondanze cosmiche di deuterio ed elio sono tre importanti colonne che sostengono la teoria del big bang. Però, come vedremo, essa presenta anche difficoltà, che hanno suggerito alcune ipotesi di modifica del semplice modello qui descritto.

Un problema che sembra aver trovato una soluzione in seguito alle osservazioni della radiazione a 2,73 K fatte dal satellite COBE (cosmic background explorer) è il seguente: la radiazione cosmica appare estremamente uniforme in tutte le direzioni. Essa ci mostra l'aspetto dell'Universo quando la sua età era di qualche centinaio di migliaia di anni, e la temperatura era scesa a valori di circa 3000 K. A temperature più alte il gas è completamente ionizzato, e ha la proprietà di essere molto assorbente. In altre parole, i fotoni vengono continuamente diffusi dalla materia e possono percorrere distanze molto brevi (lo stesso succede nelle stelle, di cui osserviamo direttamente solo gli strati più superficiali, pari, nel caso del Sole, a meno di 1/1000 del suo raggio). Quando il gas diventa neutro, diventa trasparente alla radiazione. Per questo possiamo ricevere i fotoni che ci mostrano l'aspetto dell'Universo all'età di circa 500.000 anni. E allora ci domandiamo: come è possibile che l'Universo primordiale fosse così uniforme come ce lo mostra la radiazione cosmica, mentre oggi l'Universo è caratterizzato dalla presenza di grandi agglomerati di materia - le galassie e gli ammassi di galassie - separati da grandi regioni praticamente vuote? l 'semi' delle attuali disuniformità avrebbero dovuto essere presenti già nella radiazione cosmica. Il satellite COBE ha in effetti mostrato (Smoot et al., 1992) che ci sono regioni un po' più calde e regioni un po' più fredde con differenze del valore medio di qualche centomillesimo di grado. Le regioni più fredde sono anche più dense e sarebbero i semi da cui si sono originati gli ammassi di galassie.

Le principali difficoltà del modello standard sono le seguenti: il problema dell'orizzonte; l'esistenza e la natura della materia oscura; per quale motivo l'Universo sembra fatto di sola materia e manca l'antimateria; infine, il modo in cui ha avuto inizio l'Universo. Si definisce orizzonte la distanza che la luce può percorrere in un tempo pari all'età dell'Universo.

Ammettiamo che l'età sia 15 miliardi di anni. Noi osserviamo le galassie più lontane a 13 miliardi di anni-luce da noi in tutte le direzioni: a grande scala troviamo ovunque la stessa distribuzione. Eppure due galassie diametralmente opposte rispetto a noi sono separate da 26 miliardi di anni-luce. Come è possibile questa distribuzione uniforme a grande scala se la luce non ha avuto il tempo di arrivare dall'una all'altra, e quindi esse non hanno alcuna reciproca informazione l'una dell'altra? Una risposta a questo problema fu data nel 1981 da A. Guth nell'ambito del suo modello inflazionario dell'Universo.

Si paragona l'Universo a un atomo, che può trovarsi in uno stato eccitato oppure nel suo stato fondamentale di minima energia. L'atomo eccitato ricade nello stato fondamentale emettendo energia, ma non possiamo predire quando questo avverrà; possiamo solo conoscere la probabilità che questa transizione avvenga. Così si ipotizza che l'Universo primordiale (e cioè a un'età di circa 10-³⁵ secondi) potesse trovarsi in uno stato eccitato chiamato falso vuoto. Si può immaginare che allora la gravità fosse repulsiva invece che attrattiva e avesse provocato una rapidissima espansione, durata fino all'età di 10-³² secondi, durante i quali l'Universo avrebbe accresciuto le sue dimensioni di 10⁵⁰ o più volte. Ricadendo allo stato fondamentale, chiamato vero vuoto, la gravità diventa attrattiva, come noi la conosciamo, e l'espansione avviene più o meno al tasso che osserviamo oggi.

Queste ipotesi possono sembrare per lo meno strane, ma si consideri che l'Universo di cui si parla aveva dimensioni subatomiche ed è ben noto a chi si occupa della natura della materia a livello subatomico che si possono trovare fenomeni contrari al senso comune. Invece, occorre chiedersi se questo Universo inflazionario spieghi i molti problemi posti dal modello standard. Intanto, esso risolve il problema dell'orizzonte: regioni che oggi sono a distanze superiori all'attuale diametro dell' orizzonte potevano comunicare tramite la luce prima che avvenisse l'inflazione. Inoltre, spiega perché l'Universo sia così vicino alla situazione di equilibrio fra espansione e gravitazione, che corrisponde a uno spazio piano. Infatti, più grande è il raggio di una sfera, più grandi porzioni della sua superficie si approssimano al piano.

Particelle di materia e antimateria sarebbero state create dall'energia disponibile durante l'inflazione. Un casuale, minimo eccesso di materia sull'antimateria avrebbe portato all'annichilimento di tutte le coppie, con liberazione di un'enorme quantità di energia, lasciando solo quel piccolo eccesso di materia da cui si sarebbe originato il nostro Universo. Il rapporto di circa 10⁹ che osserviamo oggi nell'Universo fra densità di fotoni e densità di materia (barioni) sarebbe un'indiretta conferma di questa ipotesi.

Malgrado questi successi, la teoria inflazionaria presenta un grosso problema: un Universo in cui ha luogo un'espansione inflazionaria deve avere una densità di materia vicinissima al valore critico. Un valore appena più alto farebbe collassare immediatamente l'Universo su se stesso, un valore appena più basso lo farebbe espandere rapidissimamente. In ambedue i casi non si potrebbero formare le galassie, le stelle e in ultima analisi noi stessi che stiamo studiando questo Universo. Quindi l'inflazione richiede che il rapporto Q fra la densità osservata e la densità critica sia eguale a 1. Invece le osservazioni, anche includendo la materia oscura, danno Q poco diverso da 0,1.

Infine, c'è il problema di cosa sia questa materia oscura. Se si trattasse di materia barionica (materia normale, di cui sono fatti gli atomi, protoni e neutroni), il deuterio prodotto durante le reazioni nucleari sarebbe decine di milioni di volte meno abbondante di quanto si osserva. Di conseguenza la materia oscura potrebbe non essere barionica, e le uniche particelle che potrebbero comporla e che sono state effettivamente osservate sono i neutrini; ma poiché non si conosce ancora la loro massa - si sa solo che è inferiore a un centomillesimo della massa dell'elettrone - non possiamo sapere se sono sufficienti a portare Q al fatidico valore di l. Perciò si ipotizzano vari tipi di particelle, mai osservate finora, che avrebbero potuto essere presenti nell'Universo primordiale. Un'altra possibilità è che si debba pensare che il deuterio non sia tutto di origine primordiale, ma sia stato prodotto per esempio per frammentazione. Infine c'è il problema dell'origine dell'Universo: perché è cominciato? Come è cominciato? Il modo più semplice di sfuggire a queste domande è immaginare un Universo che non abbia avuto un inizio. La prima ipotesi di questo tipo -la già citata teoria dell'Universo stazionario - fu proposta da H. Bondi, Th. Gold e F. Hoyle. Essi ipotizzavano uno spazio-tempo infinito, in cui l'energia di espansione si trasformava in energia di creazione di materia, per cui la densità restava costante malgrado l'espansione. Questa ipotesi ha goduto di largo credito fino agli inizi degli anni Sessanta. La scoperta e le caratteristiche della radiazione cosmica a 3 K ne hanno decretato la fine, in quanto tale teoria non poteva spiegare la presenza della radiazione cosmica e la conseguente abbondanza cosmica dell'elio. Tuttavia Hoyle, in collaborazione con H. Arp e G. Burbidge (Arp et al., 1990; Hoyle et al., 1993), ha proposto una nuova versione di questa ipotesi, spiegando la presenza della radiazione a 3 K con un' origine 'locale', dovuta a particelle metalliche che circonderebbero la nostra Galassia, e avrebbero la particolare proprietà di essere molto assorbenti a lunghezze d'onda millimetriche e centimetriche e trasparenti alle altre radiazioni. Questa spiegazione è abbastanza macchinosa e ad hoc, e non ha trovato molto credito nella comunità dei cosmologi. La teoria di un Universo senza principio né fine aggirerebbe però anche un'altra difficoltà del modello standard: se la costante di Hubble H risultasse davvero maggiore di circa 60 km/s per megaparsec, l'età dell'Universo sarebbe inferiore a quella degli ammassi stellari più vecchi, un risultato assurdo, a meno che non si reintroduca la costante cosmologica proposta da Einstein, che avrebbe l'effetto di opporsi alla gravitazione e accelerare l'espansione, facendo ritenere l'Universo più giovane di quello che è. Ma anche questa è una soluzione ad hoc, non troppo soddisfacente.

tab. 4

Un altro tentativo di aggirare il problema dell'inizio è stato suggerito da J. Hartle e S. Hawkings. Essi propongono che quando l'Universo aveva dimensioni subatomiche il tempo non possedeva le sue peculiari caratteristiche ed era una quarta dimensione spaziale. Perciò l'Universo non avrebbe avuto un inizio, perché andando abbastanza indietro troveremmo un Universo a quattro dimensioni spaziali. Per quanto strana possa sembrare questa idea, si può fare un paragone che mostra come - in condizioni molto diverse da quelle usuali - una grandezza fisica perda significato. Per esempio, un gas composto di miriadi di particelle esercita una pressione contro le pareti del contenitore. Se riduciamo il numero di particelle, anche la pressione si riduce. Immaginiamo di lasciare una sola particella nel contenitore: il termine pressione non ha più senso. Infine, gli ultimi sviluppi della teoria inflazionaria sono dovuti ad A. Linde. Se il nostro Universo è stato creato dall'energia liberata dall'inflazione, perché pensare che ci sia solo il nostro? La teoria dell'inflazione caotica postula che nuovi universi possano essere continuamente creati attraverso una specie di processo di 'germinazione'. Minuscole regioni di spazio-tempo possono apparire, evolvere inflazionandosi, alcune ricollassare su se stesse, altre evolvere troppo rapidamente per dar luogo alla formazione di galassie, altre evolvere in modo simile al nostro Universo (tab. 4). Quindi infiniti universi in un infmito spazio-tempo, il che ci riporta in un certo senso alla teoria dell'Universo stazionario. In conclusione, la fisica che sperimentiamo nei nostri laboratori e nella vita di ogni giorno spiega l'Universo dall'epoca indicata dalla radiazione a 3 K, un'età di circa 500.000 anni, fino a oggi. La fisica delle particelle elementari, che studiamo nei grandi acceleratori, spiega cosa avvenne nell'Universo primordiale a partire da un'età superiore al millesimo di miliardesimo di secondo, quando la forza elettrodebole si scisse nelle due che conosciamo oggi: interazione debole ed elettromagnetismo. Prima di un millesimo di miliardesimo di secondo abbiamo l'era speculativa, che ha bisogno di una nuova fisica.

Possiamo solo immaginare, per estrapolazione di quanto conosciamo, che alle altissime temperature e densità l'Universo fosse riempito di fotoni di altissima energia - raggi gamma e X - e particelle elementari, i quark (oggi imprigionati nei protoni e neutroni), i neutrini, gli elettroni e le loro antiparticelle. Il tutto governato da un'unica forza che si è poi scissa nelle quattro forze universali che conosciamo: gravitazione, interazione forte, interazione debole ed elettromagnetismo.

Bibliografia citata

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