La tradizione francescana

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Luigi Catalani
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

È difficile individuare un’unica prospettiva teorica che si ponga come caratteristica distintiva del pensiero francescano. Dalla contrapposizione al pensiero tomista e aristotelico, alla riproposizione di Bonaventura e di un neoagostinismo, dall’esemplarismo di stampo platonico alla disputa sulla pluralità delle forme: queste sono le principali caratteristiche della gnoseologia, metafisica ed etica francescana.

Un’accesa lotta intellettuale: i Francescani contro Tommaso d’Aquino

Giovanni Pecham (John Peckham)

 Lettera 1 Giugno 1285  

Non riproviamo affatto gli studi filosofici in quanto essi servono ai misteri teologici; ciò che riproviamo sono le novità profane del linguaggio introdotte da vent’anni a questa parte nelle profondità della teologia a vantaggio della verità filosofica e a detrimento dei santi le cui posizioni sono disdegnate e apertamente disprezzate. Qual è la dottrina più solida e più sana? Quella dei figli di san Francesco (quella di frate Alessandro [di Hales] di santa memoria, di frate Bonaventura e altri simili che si fondano sui santi e sui filosofi tratti al riparo da ogni rimprovero) oppure questa dottrina recentissima e quasi tutta contraria, che riempie l’intero mondo di bisticci di parole, indebolendo e distruggendo con tutte le sue forze tutto ciò che insegna Agostino sulle regole eterne e la luce immutabile, le facoltà dell’anima, le ragioni seminali incluse nella materia e innumerevoli questioni dello stesso genere?

in F. X. Putallaz, Figure francescane alla fine del XIII secolo, Milano, Jaca Book, 1996

Pietro di Giovanni Olivi

Come leggere la filosofia

La lettura dei libri dei filosofi

Poiché questa filosofia è stolta, bisogna leggerla con cautela. Poiché sostenuta da qualche scintilla di verità, bisogna leggerla con discrezione. Poiché è vana, bisogna leggerla di passaggio o di corsa usandola come via, non come fine o termine. Poiché è poca e come puerile o pedagogica, bisogna leggerla da padrone e non da servo: dobbiamo esserne giudici piuttosto che seguaci.

Pietro di Giovanni Olivi, Scritti scelti, a cura di P. Vian, Roma, Città Nuova, 1989

Pietro di Giovanni Olivi

Atteggiamento critico

Lettera a Raimondo Gaufridi

Le opinioni umane escogitate dall’umana ragione le rispetto con umile e disponibile cuore se di persone grandi e degne di fede, ma non aderirei loro per tutto l’oro del mondo come alla fede cattolica o alla tradizione divina, cui non è permesso contraddire, dalla quale fino a un certo punto non si può dissentire, né di essa disputerei neppure lievemente, ciò che anzi per primo ritengo temerario, pericoloso nella fede, quasi eretico, come aderire a invenzioni umane; e questo posso dimostrarlo non solo con argomentazioni ma anche con molteplici autorità di santi, in particolare di Agostino. Farlo equivarrebbe a venerare i detti umani come idoli.

Pietro di Giovanni Olivi, Scritti scelti, a cura di P. Vian, Roma, Città Nuova, 1989

Il coinvolgimento (almeno indiretto) di Tommaso d’Aquino nella condanna parigina del 7 marzo 1277 provoca la dura reazione francescana contro il tomismo. Oltre che nel Sillabo di Tempier, alcune dottrine del domenicano vengono censurate in quello stesso anno anche a Oxford a opera di Robert Kilwardby. Forse nel 1278, verosimilmente a Oxford, Guglielmo de la Mare redige il Correctorium fratris Thomae, dove, con toni fortemente polemici, procede ad una confutazione sistematica del tomismo, bersagliando in sequenza 118 tesi tratte da diverse opere dell’Aquinate. Oltre a ispirare i 60 articoli delle anonime Declarationes, in occasione del Capitolo generale dell’ordine francescano, riunitosi a Strasburgo nel maggio del 1282, il Correctorium viene assunto come antidoto ufficiale contro gli “errori” di Tommaso: la diffusione della Summa theologiae è autorizzata soltanto se corredata dai chiarimenti di Guglielmo. Questo provvedimento scatena, quasi immediatamente, le ire dei confratelli di Tommaso, che intraprendono la redazione dei cosiddetti Correctoria corruptorii: cinque opere che, perseguendo un intento insieme polemico e apologetico, mirano a dimostrare come de la Mare abbia preteso di essere il “correttore” di Tommaso, ma in realtà, dando una lettura malevola dei suoi testi, non ne sia stato altro che il “corruttore” (corruptor veritatis). Già nel 1279 il Capitolo generale parigino dell’ordine domenicano aveva adottato una strategia difensiva nei confronti di Tommaso d’Aquino, minacciando severe punizioni per tutti i frati che parlassero dell’Aquinate in modo indecente o irriverente. Sulla scia di questo provvedimento e ancora una volta in occasione del Capitolo generale di Parigi, nel 1286 i Domenicani mettono in atto anche una politica positiva, impegnandosi a promuovere la memoria e l’insegnamento di Tommaso, candidato a maestro ufficiale dell’ordine.

La condanna decretata da Kilwardby nel 1277 viene confermata nel 1284, sempre a Oxford, a opera di Giovanni Pecham, che si attira con questo gesto le ire dei Domenicani. Nel 1285 comincia infatti a circolare un violento pamphlet anonimo che rimprovera Pecham di aborrire senza ragione gli studi filosofici. Nella sua lettera di risposta, datata 1 giugno 1285, Pecham prende chiaramente posizione a favore della dottrina agostiniano-bonaventuriana (più solida e più sana) contro quella tomista (distruttiva dell’insegnamento di Agostino). Il 30 aprile 1286, inoltre, egli condanna solennemente otto tesi di ispirazione tomista, che giudica eretiche, e decreta la scomunica del domenicano Richard Klapwell. Accanto a Pecham, uno dei maestri più critici nei confronti di Tommaso, soprattutto dopo il 1282, è certamente Roger Marston, che nelle Quaestiones de anima (1283-1284) colpisce con virulenza l’Aquinate, contestando la sua infedeltà nei confronti di Agostino, accusandolo di confiscarne e deformarne i testi a proprio vantaggio, enumerandolo nella schiera di quei detestabili “teologi filosofanti” che pensano di elaborare una teologia vera fondandosi su una filosofia falsa, parziale e infarcita di errori, e indebitandosi con “uomini infernali” come Aristotele e Averroè.

Questioni storiografiche: neoagostinismo e antitomismo?

Nel corso di un lungo dibattito relativo alla caratterizzazione del pensiero del XIII secolo, in passato, la storiografia ha più volte ribadito che una comune matrice filosofica antiaristotelica e neoagostiniana orienta il francescanesimo duecentesco.

Ephrem Longpré e Leon Veuthey, in particolare, hanno declinato l’orientamento dottrinale della scuola francescana in termini di “fedeltà rispettosa” a sant’Agostino e hanno distinto tre scuole agostiniane facenti capo al francescanesimo: quella dell’agostinismo neoplatonico di Bonaventura, quella dell’aristotelismo agostiniano di Duns Scoto e quella dell’agostinismo matematico-sperimentale di Guglielmo di Ockham.

Non occorre insistere sul fatto che queste affermazioni, pur cogliendo indiscutibilmente una parte di verità, finiscono però per sconfinare nei luoghi comuni e nelle facili generalizzazioni. È noto infatti che dal punto di vista dottrinale il pensiero francescano presenta una grande varietà di atteggiamenti (il francescanesimo più atipico è certamente quello di Ruggero Bacone, ed è ormai assodato che i Frati Minori del XIII e XIV secolo non costituiscono affatto una “scuola” unitaria, né prevedono alcuna forma di effettiva imposizione dottrinale, come accade invece per l’ordine domenicano. Nell’impossibilità di proporre una rigida ed univoca caratterizzazione del pensiero francescano della fine del XIII secolo, va notato che l’ispirazione agostiniana che lo pervade non implica comunque che le sue manifestazioni teologico-filosofiche siano da ridursi a semplici e ripetuti tentativi di contrapposizione al “sistema” aristotelico o grida di battaglia contro il dilagante e inarrestabile successo del peripatetismo. Come ben sottolinea François-Xavier Putallaz (F.-X. Putallaz, Figure francescane alla fine del XIII secolo, 1996), l’identificazione tout court della corrente agostiniana con la filosofia francescana è almeno per certi versi discutibile: “assolutizzando” la categoria di neoagostinismo, quasi fosse l’unico denominatore comune del francescanesimo medievale, si rischia di occultare la “costellazione” di centri di interesse che invece contraddistingue la speculazione dei Minori negli ultimi anni del XIII secolo.

Rivisitando criticamente la conclusione di Fernand Van Steenberghen, che collega la nascita del neoagostinismo francescano all’esigenza di reagire contro il tomismo nascente per tutelare l’ortodossia e lo spirito cristiano contro il pensiero dell’Aquinate, Putallaz chiarisce che non bisogna attribuire all’antitomismo neoagostiniano un carattere globalizzante: se il neoagostinismo si riducesse esclusivamente a una forma di palese antitomismo, molti autori francescani non potrebbero più essere considerati neoagostiniani.

Il caso di Guglielmo de la Mare è, inaspettatamente, il più emblematico per documentare quanto sia indebita questa lettura del neoagostinismo in chiave antitomista. Il Commento alle Sentenze (1262-1264? oppure 1268-1270?) di Guglielmo è un testo che consegna un’immagine forse inattesa del suo autore. Guglielmo de la Mare non appare affatto un erede intransigente di Agostino: piuttosto ne reinterpreta l’insegnamento senza scadere nel servilismo. Non è nemmeno un acritico ripetitore di Bonaventura: in merito a questioni storicamente rilevanti, gli rinnova infatti la sua fedeltà con qualche riserva, esprimendo a volte apertamente il proprio dissenso rispetto alle posizioni del maestro. Soprattutto, al contrario di quanto sostenuto sinora dalla critica e dalla storiografia, Guglielmo non è (sempre) un irriducibile avversario di Tommaso d’Aquino: infatti, quell’antitomismo, ampiamente e programmaticamente presente nel Correctorium fratris Thomae, salvo poche eccezioni, non trova invece rispondenze nel Commento alle Sentenze. Anzi, in questo scritto Tommaso è considerato una fonte alla quale attingere o da consultare, da trattare rispettosamente anche quando è oggetto di dissenso, in un saggio equilibrio tra prestiti e critiche. Tra le fonti domenicane di Guglielmo va segnalato anche Pietro di Tarantasia, commentatore delle Sentenze tra il 1256 e il 1258, spesso utilizzato per accreditare determinate critiche rivolte a Tommaso stesso, e solido e talora letterale riferimento per discussioni di varie problematiche cosmologiche o metafisico-teologiche. Molti fattori inducono quindi a negare che Guglielmo sia stato un convinto esponente di quel “neoagostinismo francescano” tradizionalista e conservatore che si opponeva alla diffusione della filosofia aristotelica e ispirava la censura del 1270: il debito nei confronti di Aristotele, il ricorso continuo ai testi di maestri appartenenti a ordini religiosi diversi dal suo (Pietro e Tommaso), e – dato assai significativo – l’uso, massiccio e costruttivo, della filosofia di Averroè.

Quello che vale per Guglielmo, con le dovute sfumature e precisazioni, si può dire anche di alcuni altri maestri dell’epoca. Negli ultimi 30 anni si è messo in discussione quel consolidato paradigma storiografico che faceva di Matteo d’Acquasparta il continuatore più fedele e coerente della linea di pensiero di Bonaventura: pur senza esserne stato allievo diretto, ne avrebbe colto appieno le istanze dottrinali valorizzandone l’ispirazione agostiniana e riproponendole metodicamente in chiave antiaristotelica. Numerose ricerche hanno contribuito a rendere più ricco e articolato il profilo speculativo di Matteo, evidenziando la sua originalità rispetto a Bonaventura e la complessità del suo rapporto dottrinale con la tradizione aristotelico-tomista, spesso sapientemente combinata con la lezione agostiniana.

Anche Riccardo di Mediavilla, i cui scritti sono stati spesso indebitamente inseriti in categorie storiografiche ormai superate (“agostinismo”, “scuola bonaventuriana”, “antitomismo”), si comporta analogamente nei confronti di Bonaventura e legge con altrettanta libertà il suo maestro Matteo d’Acquasparta e in generale tutte le sue fonti. Erede di teorie sulle quali si pronuncia con estrema cautela, Riccardo è certamente un equo osservatore dei dibattiti filosofico-teologici in corso e, pur senza brillare nei suoi giudizi personali, non scade mai nel servile letteralismo. Il suo Commento alle Sentenze (1285-1295) non va pertanto presentato come un semplice prolungamento della filosofia francescana che si autoalimenti delle istanze agostiniano-bonaventuriane: più che una concettualizzazione endogena, si apprezza infatti una speculazione flessibile e dinamica, esplicitamente aperta al confronto dottrinale con le sue diverse fonti. Il confronto (a volte critico) con le teorie altrui, tratto distintivo del modo di commentare riccardiano, riguarda significativamente maestri contemporanei o della generazione immediatamente precedente, filosofi e teologi come Enrico di Gand, Goffredo di Fontaines ed Egidio Romano. Riccardo si appella costantemente a questi autori, riserva loro un posto di rilievo – almeno paritario e talora anche superiore – a quello che spetta ai suoi confratelli, e (a volte) non disdegna di allinearsi alle loro teorie anche quando sono in contrasto con la tradizione agostiniana. Nel Commento alle Sentenze di Riccardo è inoltre attestabile l’influenza, autentica e profonda, esercitata da Tommaso d’Aquino, criticato su molte dottrine, ma seguito su altre, anche in contrasto con la “linea ufficiale” del suo ordine.

L’uso della ragione filosofica: Olivi e la “recitazione” dei filosofi

Le pagine del De perlegendis philosophorum libris di Pier di Giovanni Olivi (1248-1298) ben documentano come non si possa leggere la speculazione francescana come una semplice reazione contro l’insegnamento (innovativo e scomodo) di Aristotele e di Tommaso d’Aquino.

Olivi prende di mira il culto idolatrico di Aristotele, evidenzia gli errori della filosofia (ne denuncia la stoltezza), riconosce che è pur sempre una forma di sapienza (ha una qualche scintilla di verità), mette però in guardia contro la vanità di ciò che essa insegna (è solo una sapienza del mondo) e rileva l’insignificanza dei suoi risultati (limitata ai dati della sensazione, si condanna a restare una sapienza terrena). Contro quanto sottolineato da certa parte della storiografia, ostinata a presentare i francescani come “grandi lottatori contro l’averroismo”, queste affermazioni di Olivi non costituiscono affatto un esempio lampante del suo antiaristotelismo. Il De perlegendis non costituisce un attacco contro Aristotele e la tradizione aristotelica in quanto tali, ma attesta una sovrana indifferenza nei confronti della filosofia più in generale. Secondo Olivi, infatti, se volessero imporre le loro teorie come una verità di fede, anche gli antiaristotelici sarebbero dei “teologi filosofanti”; avere a cuore l’agostinismo filosofico contro l’aristotelismo significherebbe comunque cadere nell’idolatria, quando invece la fede è indifferente a ogni forma di filosofia. La miglior strategia per occuparsi di filosofia è dunque quella di “recitare i filosofi”: enunciare e confrontare i loro argomenti razionali, nella consapevolezza che hanno solo valore probabile, che sono un’opinione di cui l’autore fa menzione senza necessariamente condividerla, senza assumerla come propria, senza giudicarla.

Metafisica, teologia e ontologia

A causa della molteplicità degli argomenti trattati, del diverso stile delle opere dei vari autori e della peculiarità dei loro atteggiamenti speculativi è difficile individuare un’unica prospettiva teorica che si ponga come caratteristica distintiva del pensiero francescano. Si possono tuttavia indicare alcuni temi, frequentati da quasi tutti i maestri, che illustrano bene la “sensibilità francescana” tra XIII e XIV secolo.

Negli anni compresi tra il 1279 e il 1290 viene sistematicamente discusso il problema della scientificità della teologia e della sua natura pratica piuttosto che speculativa. Su questo tema i maestri francescani risentono dell’eco della lezione di Bonaventura, ma non esitano a sfumarla e/o a precisarla. Giovanni Pecham, aderendo senza scarti all’insegnamento bonaventuriano, considera la teologia una forma di sapienza dalle connotazioni contemporaneamente pratiche e speculative, perché guida la facoltà affettiva all’amore di Dio e insieme illumina l’intelletto. Matteo d’Acquasparta, pur accordandosi con Bonaventura e Pecham nel sottolineare la dimensione sapienziale della teologia, accentua anche l’importanza della sua componente speculativa. Riccardo di Mediavilla, al contrario, insiste sulla praticità della teologia rivelata, individuandovi il tratto che la distingue dalla teologia dei filosofi (la metafisica). Guglielmo de la Mare divulga una posizione originale, secondo la quale la teologia è scienza solo in senso lato ed è anzitutto legge con finalità pratiche: prescrive infatti quello che occorre fare per onorare Dio, credere e sperare in lui. Guglielmo di Ware introduce una sottile distinzione tra speculazione e contemplazione e afferma che la teologia è scienza contemplativa che mira all’amore eterno di Dio. Guglielmo di Ockham, presupposta la netta separazione tra ragione e fede in nome della gratuità della seconda e a garanzia della libertà divina, giunge invece a negare la scientificità della teologia. Anche Pietro Aureolo la considera un sapere argomentativo, un discursus che si sviluppa come insieme di proposizioni ordinatamente collegate fra loro, ma che non può vantare uno statuto epistemologico scientifico. Nonostante le divergenze, queste concezioni teoriche sono però tutte accomunate dall’idea che il sapere sia radicalmente ordinato alla carità e che l’amore per Dio prevalga sempre su qualunque scienza speculativa.

Quanto all’ontologia, si segnalano le teorie molto originali di Duns Scoto e di Guglielmo di Ockham. Reagendo contro la soluzione di Enrico di Gand, Scoto propone la dottrina dell’univocità del concetto di essere, che, di per sé indifferente alla qualificazione di finito o di infinito, si può predicare univocamente di Dio e delle creature. Il superamento della tradizionale analogia dell’essere in favore dell’univocità dell’essere si presenta come la condizione di possibilità di una metafisica in quanto scienza e inaugura una nuova concezione della metafisica, non più incentrata primariamente sul problema di Dio, ma sulla rappresentazione concettuale dell’essere e sulle sue proprietà trascendentali. Guglielmo di Ockham trasforma l’ontologia scotista dell’ente univoco in ontologia dell’ente singolare, sostenendo che il mondo non è essenza bensì presenza: insieme di esseri singolari irripetibili che non hanno essenza ma che sono essenza. In questa ontologia del concreto, la singolarità è immediata, evidente, non derivabile e non dimostrabile: è il modo di essere dell’ente, il suo modo di essere più radicale. Gli altri modi di essere della metafisica tradizionale (essere per sé e per accidente, in potenza e in atto) non sono altro che modi di significare (segni).

Teoria della conoscenza

Presupposto indispensabile per spiegare la teoria della conoscenza secondo la lettura dei francescani, l’esemplarismo (frutto della rilettura del platonismo in chiave cristiana) è basato sulla rappresentazione di Dio come principio di intelligibilità del reale e fonte della nostra scienza: l’autoriflessione di Dio è il logosche produce la realtà.

Le idee non sono più concepite come essenze separate dalle cose sensibili, com’erano in Platone, ma diventano oggetti eterni del pensiero di Dio: coincidendo con la sua intelligenza, non sono più localizzate nell’Iperuranio ma vengono collocate in mente Dei. L’esemplarismo ha forti ricadute sulla gnoseologia francescana, per lo più fondata sulla convinzione che il raggiungimento della verità sia garantito solo in virtù di un intervento diretto di Dio sull’anima umana e che l’accesso alle idee sia mediato dall’illuminazione divina. A una prima fase del XIII secolo in cui si registra una consapevole assunzione di questo “paradigma” agostiniano, fa seguito, in un secondo momento, la presa di coscienza delle difficoltà legate a questa sintesi cognitiva e la conseguente ricerca di un nuovo standard di pensiero che non tradisca però totalmente quello di cui è erede. Bonaventura può essere considerato l’ispiratore della sistematizzazione, Enrico di Gand il barometro della crisi e contemporaneamente la porta sulla nuova via e Duns Scoto l’architetto della risoluzione finale. Bonaventura e Pecham credono che la conoscenza della verità sia pienamente fondata soltanto se deriva dalle ragioni eterne.

Nel suo Commento alle Sentenze Riccardo di Mediavilla prende invece le distanze dalla lezione agostiniano-bonaventuriana e, rifiutata la dottrina dell’illuminazione (conoscitiva), tenta di superare la dualità fra assolutezza della conoscenza divina e relatività del sapere umano, sostenendo l’autonomia di quest’ultimo. La difesa dell’attivismo conoscitivo accomuna Riccardo di Mediavilla a Pietro di Giovanni Olivi, le cui pagine sono contrassegnate dallo sforzo incessante di dimostrare che gli atti intellettivi sorgono dall’intimo delle nostre facoltà, senza alcun bisogno di soccorsi soprannaturali. Come Riccardo, anche Matteo d’Acquasparta afferma che la luce increata produce su di noi, quale sua impronta, un lume creato che è la vera ragione del nostro conoscere (naturale) – e quindi la causa formale, ma se Matteo (come Pecham) ragiona nell’ottica della dualità immanenza-trascendenza e pertanto riserva alla luce dell’intelletto soltanto il ruolo di agente strumentale (secondario rispetto al lume eterno con cui coopera), Riccardo privilegia la sola immediatezza ed esclude quindi a priori l’ipotesi stessa del concorso. Come il Mediavilla, anche Guglielmo di Ware legge criticamente i testi di Agostino e conclude che coloro che hanno inteso l’intervento divino sul conoscere umano come un aiuto speciale e soprannaturale sono stati cattivi esegeti del Vescovo di Ippona. La teoria dell’intellezione del vero dalla Verità Prima per il tramite della luce che ne deriva è oggetto di contestazione polemica in Roger Marston, che critica apertamente Matteo d’Acquasparta e Riccardo di Mediavila e il retroterra tomista della loro posizione. In Duns Scoto, convinto che l’uomo attinga alla verità affidandosi alle sole forze del proprio intelletto, il rifiuto della dottrina dell’illuminazione si fa categorico.

La riflessione sulle condizioni, i limiti e le finalità della conoscenza umana appare cruciale per molti maestri francescani: nel riflettere sullo sviluppo del processo conoscitivo umano, accade loro di imbattersi nella spinosa questione dell’astrazione, del rapporto tra intelletto agente e intelletto possibile, tra soggetto e oggetto del conoscere. Duns Scoto polemizza contemporaneamente contro gli agostiniani, che sminuiscono l’importanza dell’esperienza, e contro gli aristotelici, che non colgono l’importanza primordiale della soggettività, e propone la teoria delle cause efficienti parziali, affermando che l’intelletto passa dalla potenza all’atto dell’intendere mediante un impulso interno e uno stimolo esterno che si integrano reciprocamente. Nonostante la reciproca interdipendenza con l’oggetto, l’efficacia dell’intelletto nel produrre l’atto conoscitivo è tuttavia maggiore di quella dell’oggetto. Guglielmo di Ockham riprende la distinzione di Scoto tra la conoscenza intuitiva e la conoscenza astrattiva, interpretando la prima in linea con l’empirismo e concependola come un’intuizione dell’intelletto (oltre che dei sensi) attraverso la quale questo entra in contatto con la realtà, la individualizza, la conosce nella sua immediatezza, al punto tale da formulare un giudizio di esistenza sull’oggetto conosciuto intuitivamente. Anche Pietro Aureolo si concentra sulla formazione dei concetti, che considera realtà puramente mentali, presenze intenzionali di una cosa rappresentata nella mente: la cosiddetta forma specularis. Oltre a rifiutare l’astrazione e la mediazione delle specie intelligibili, Pietro distingue significativamente tra l’atto psicologico che genera la conoscenza (essere soggettivo) e il contenuto di questo atto (essere oggettivo o apparente).

Un altro problema cardine della gnoseologia francescana è quello dell’intelligibilità del singolare. Spesso polemizzando contro Tommaso d’Aquino, ne discutono approfonditamente tutti i maestri della generazione post-bonaventuriana, giungendo talvolta a esiti molto significativi. Ockham afferma il carattere immediato e diretto dell’intellezione del singolare, intelligibile nella sua fattualità (come esistente) e nella sua specificità concreta (come essenza). L’intuizione naturale ed evidente del singolare si sviluppa in una dinamica vincolante tra l’atto conoscitivo e l’oggetto, che provoca un passaggio necessario e articolato dall’esperienza empirica all’elaborazione dei concetti (astrazione). Se la conoscenza intuitiva e la sua derivazione astrattiva colgono immediatamente le cose singolari, materiali o spirituali, la conoscenza astrattiva propriamente detta apprende il concetto universale, quell’unità mentale universale che sussume molti individui particolari e che “significa” la realtà. Pietro Aureolo sviluppa un’originalissima ontologia del singolare, che considera principio ermeneutico fondamentale per la comprensione metafisica e noetica della realtà; afferma inoltre il primato della conoscenza intuitiva del singolare sulla conoscenza astratta, e confuta sia il realismo moderato (di stampo tomista), sia la teoria scotista delle formalità.

Antropologia ed etica

Il rapporto tra l’anima e le sue potenze, il rapporto anima-corpo, la struttura del composto umano, la distinzione essenza-esistenza, il problema dell’individuazione sono alcuni dei nuclei tematici tipici dell’antropologia francescana. Circa il rapporto anima-corpo merita almeno un cenno la tesi (censurata al concilio di Vienne nel 1312) di Olivi, secondo cui l’anima intellettiva, in quanto tale, non è forma del corpo. Quanto al principio di individuazione, è noto che i francescani sono per lo più concordi nel negare la teoria tomista dell’individuazione ad opera della materia.

La soluzione di Duns Scoto spicca per la sua particolare originalità. In polemica contro Enrico di Gand e Tommaso d’Aquino, egli introduce il concetto di natura communis: un’essenza specifica reale, di per sé né universale né singolare, ma che diventa tale quando è pensata dalla mente (universale logico) o attuata nella realtà (individuo concreto). Una volta individuata, la natura communis viene portata alla sua massima completezza nell’essere e acquista una sussistenza ontologica unica: è infatti un’entità positiva (haecceitas) che individualizza e perfeziona la natura specifica di una determinata forma.

L’argomento più dibattuto nella seconda metà del XIII secolo, fonte di profonda discordia tra i Francescani e Tommaso d’Aquino, è però certamente quello della pluralità delle forme, che ha visto contrapporsi i pluralisti ai difensori dell’unicità della forma (Tommaso d’Aquino in primis). Questi ultimi, avvalendosi di svariati argomenti metafisici, fisici, psicologici, logici e teologici, tentano di dimostrare che in ogni essere c’è una sola forma sostanziale che qualifica l’essere come tale e lo distingue come quel determinato essere: è dunque in virtù di un unico principio formale (l’anima razionale) che l’essere appartiene a un certo genere (universale) e a una data specie (particolare). I pluralisti (fra i quali si annoverano Guglielmo di Falegar, Guglielmo de la Mare, Giovanni Pecham, Matteo d’Acquasparta, Riccardo di Mediavilla, Roger Marston, Pietro di Giovanni Olivi, Guglielmo di Ockham) sono invece convinti che per spiegare l’unità sostanziale del composto umano (unità di composizione ordinata) occorrano più forme: a ogni perfezione essenziale (operazione) dell’essere corrispondono infatti forme sostanziali distinte, gerarchicamente ordinate alla ricezione della forma superiore (completiva), che determina il composto, conferendogli la sua perfezione specifica. Una simile concezione della struttura dell’essere creato è strettamente connessa con la teoria della composizione ilemorfica delle sostanze spirituali (anima umana e angeli), che i Francescani ritengono composti di materia (spirituale) e forma. Giovanni Duns Scoto non affronta direttamente il problema della pluralità delle forme. Nel commento al IV Libro delle Sentenze, dovendo chiarire il miracolo della transustanziazione, Scoto si confronta tuttavia con gli argomenti di Enrico di Gand e Tommaso d’Aquino. Contestando entrambi questi autori, egli sostiene che nell’uomo e in tutti gli esseri viventi è indispensabile ammettere almeno due forme sostanziali: la forma mixtionis o forma corporeitatis e l’anima. La forma corporeitatis è quel principio che conferisce al corpo di ogni singolo vivente la sua attualità di composto fisico vivificabile da quella determinata anima e non da un’altra: è in virtù di questa forma che il corpo di ogni vivente riceve e conserva, per un certo lasso di tempo anche dopo la morte, le caratteristiche somatiche che gli sono proprie. Essa è una disposizione permanente che non deve scomparire nemmeno al sopraggiungere dell’anima. La forma intellettiva, in quanto è la forma vitae più perfetta, può contenere virtualmente il principio della vita vegetativa e di quella sensitiva, ma non può dare al corpo l’attualità che gli è propria.

Tra le questioni etiche più dibattute, oltre alla trattazione della beatitudine, declinata da tutti i maestri francescani in termini di amore caritatevole di Dio, figura certamente il problema della libertà: Olivi ne è il massimo assertore e la esalta come cifra distintiva della dignità e della volontà umana. Più in là nel tempo, anche Ockham insiste sulla libertà come tratto valorizzante della persona umana: libera non solo perché ha facoltà di scelta tra più alternative ma per la capacità radicale della sua volontà ad autodeterminarsi.

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