La tutela giurisdizionale. Licenziamenti e sindacato giudiziale

Libro dell'anno del Diritto 2012

La tutela giurisdizionale. Licenziamenti e sindacato giudiziale

Stefano Visonà

La tutela giurisdizionale
Licenziamenti e sindacato giudiziale

L’art. 30 della legge 4.11.2010 n. 183 (cd. collegato lavoro) contiene tre disposizioni destinate ad incidere sul sindacato giudiziale dei licenziamenti, le quali, risolvendosi nella codificazione di principi già comunemente accettati, non innovano in modo significativo l’ordinamento positivo, dando, tuttavia, il segno di una direttrice di marcia orientata a realizzare l’obiettivo di riduzione del contenzioso attraverso l’erosione dei margini di discrezionalità del sindacato giudiziale e a valorizzare la volontà delle parti collettive ed individuali rispetto alle disposizioni inderogabili.

La ricognizione. «Collegato lavoro» e sindacato giudiziale sui licenziamenti

La l. 4.11.2010, n. 183, nota come «collegato lavoro», ha introdotto almeno tre disposizioni destinate ad incidere sul sindacato giudiziale dei licenziamenti. La prima è contenuta nel co. 1 dell’art. 30 e impone al giudice di interpretare le clausole generali delle disposizioni in tema di recesso, limitandosi a riscontrare la sussistenza dei presupposti di legittimità in esse previsti, senza sindacare il merito delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive del datore di lavoro. La seconda è contenuta nel co. 2 e prevede che il giudice non possa discostarsi nella qualificazione del contratto e nell’interpretazione delle relative clausole dalle valutazioni espresse dalle parti all’atto della certificazione del rapporto di lavoro. La terza è contenuta nel co. 3 e impone al giudice di tenere conto delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo presenti nei contratti collettivi e nei contratti individuati stipulati con l’assistenza e la consulenza delle Commissioni di certificazione; nonché di tenere conto degli elementi e parametri fissati dai predetti contratti nel definire l’entità concreta dell’indennizzo risarcitorio spettante nell’area della cd. tutela obbligatoria per il licenziamento ingiustificato (art. 8 l. 15.7.1966, n. 604). Tali disposizioni sono dichiaratamente finalizzate a garantire una situazione di maggior certezza del diritto e la conseguente deflazione del contenzioso e per contenuto e formulazione danno il segno dell’idea di fondo secondo la quale la crisi della certezza del diritto ha molto a che fare anche con l’esuberanza interpretativa. Nelle disposizioni sulla certificazione e sulla tipizzazione delle causali di licenziamento, che richiamano il giudice al dovere di attenersi e tenere conto della volontà delle parti, emerge, peraltro, l’intento del legislatore di valorizzare tale volontà al cospetto delle disposizioni di legge che regolano la materia, nell’ottica, ancor oggi irrealizzata, di transitare dal regime della norma inderogabile, che segna la nascita e caratterizza il patrimonio genetico del diritto del lavoro rispetto al diritto comune dei contratti1, ad un nuovo regime di «derogabilità assistita». Secondo l’opinione, quasi unanime, dei commentatori, tuttavia, le tre disposizioni, per la loro formulazione e per il contesto normativo generale in cui si collocano, non hanno particolare carica innovativa, e lasciano sostanzialmente intatto il potere di interpretazione e valutazione del giudice ed immutato l’assetto delle fonti, dandosi a tutt’oggi la superiorità e la prevalenza in materia delle disposizioni inderogabili di legge.

La focalizzazione. Divieto di sindacare le scelte datoriali

L’art. 30, co. 1, del «collegato» dispone, testualmente, che «in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile e all’articolo 63, co. 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente». La disposizione ribadisce in termini generali, e in ciò risiede il suo tratto di novità, un principio di fonte costituzionale (art. 41 Cost.) cui la giurisprudenza ha sempre manifestato di aderire e che il legislatore ha già richiamato in precedenza nella disciplina di due istituti introdotti ex novo nell’ordinamento, la somministrazione di lavoro ed il contratto a progetto (artt. 27, co. 3, e 69, co. 3, d.lgs. 10.9.2003, n. 276), riguardo ai quali si era evidentemente prefigurato il rischio di uno sconfinamento di campo del sindacato giudiziale. Rispetto agli artt. 27 e 69, l’art. 30 del «collegato» è caratterizzato da una formulazione più involuta nella quale echeggia l’assimilazione delle «clausole generali» alle norme aperte o elastiche2, che ha fatto pensare ad una potenzialità effettivamente limitativa della disposizione sul sindacato giudiziale. Nel lessico della dottrina e della giurisprudenza le nozioni di «clausole generali » e norme aperte o elastiche vengono usate spesso come perfettamente o parzialmente sinonimiche. Ciò nonostante, secondo l’idea che pare a tutt’oggi prevalente, le «clausole generali » presentano rispetto alle norme aperte o elastiche una loro specificità, consistente nel fatto che mentre queste ultime sono norme complete, che si caratterizzano perché la fattispecie descrive una generalità di casi definiti mediante una categoria riassuntiva, le «clausole generali» tratteggiano una fattispecie incompleta, demandando all’interprete il proprio completamento tramite la rilevazione di dati esterni all’ordinamento, standard sociali o regole sociali di condotta. Non sembra che le disposizioni in tema di instaurazione del rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso di corrente applicazione, richiamate dall’art. 30, co. 1, pur caratterizzate da fattispecie aperte, riferibili ad una serie indeterminata di casi cui si tratta di dare concretezza attingendo a modelli di comportamento e a valutazioni vigenti nell’ambito sociale, deleghino al giudice una tale attività di creazione o integrazione di norme e possano perciò qualificarsi «clausole generali» in senso proprio. Secondo l’orientamento dei giudici di legittimità, invero, nella determinazione del significato delle nozioni di giusta causa o giustificato motivo il giudice è tenuto ad attenersi ai principi costituzionali, ai principi generali dell’ordinamento, alle precise norme suscettibili – in ragione degli interessi tutelati – di applicazione in via estensiva o analogica, e, infine, anche alle regole che si configurano – per la costante e pacifica applicazione giurisprudenziale e per il carattere di generalità assunta – come vero e proprio diritto vivente3. D’altro canto, che il riferimento del legislatore vada, piuttosto che alle «clausole generali», alle norme aperte o elastiche si ricava dalla relazione di accompagnamento al «collegato» ove si precisa che «per clausole generali si intendono quelle disposizioni legislative che, al fine di definire l’ambito di legittimità del ricorso a particolari tipologie di lavoro o a decisioni delle parti non hanno riferimento a specifiche causali tipizzate, bensì stabiliscono requisiti di carattere generale e quindi flessibili, seppur effettivi e verificabili». Se questo è il significato dell’art. 30, co. 1 – e questo è il senso che letteralmente spicca –, la nuova previsione normativa, al di là della valenza di generico richiamo alla continenza dell’attività interpretativa, non appare idonea ad incidere sui contenuti del sindacato giudiziale come concretamente praticato4. Non sembrano, pertanto, del tutto giustificate le preoccupazioni, pur autorevolmente espresse, secondo le quali, ad esempio, in base alla disposizione dell’art. 30, co. 1, nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, individuale o collettivo, non sarà più consentito «valutare la consistenza, credibilità e serietà della scelta adottata e tanto meno la sua tollerabilità sociale in relazione all’interesse antagonista a conservare il posto di lavoro»5, e dovrebbe darsi, pertanto, il definitivo superamento di quella giurisprudenza che, in assenza di situazioni sfavorevoli non contingenti, considera ingiustificato il licenziamento meramente strumentale ad un incremento del profitto, ad un generico contenimento dei costi o ad una più economica gestione dell’impresa. E così, parimenti, l’opinione di chi afferma che tale disposizione è destinata ad incidere significativamente sulla questione dell’obbligo di répechage, perché determinerebbe almeno uno spostamento del punto di equilibrio in senso favorevole alle esigenze della produzione, dopo che attraverso l’imposizione dell’obbligo di répechage la giurisprudenza si è arrogata il potere/ dovere di realizzare quel bilanciamento tra gli interessi del lavoratore e dell’impresa, che è compito assegnato alla disciplina legislativa ed all’azione sindacale, ingerendosi, così, più o meno surrettiziamente nel merito delle scelte datoriali6. Invero, secondo l’orientamento interpretativo assestato da tempo, il controllo giudiziale sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento non verte sulla necessità od opportunità della scelta organizzativa del datore di lavoro, ma sulla sua effettività e sul nesso di causalità tra la scelta e la soppressione del posto di lavoro. Quanto al répechage, poi, è stato chiarito che non si tratta di un onere non previsto dall’ordinamento che viene imposto al datore di lavoro sulla scorta di valutazioni del tutto discrezionali, ma di un limite insito nell’art. 3 Cost., seppure esterno, nel senso che la possibilità di continuare ad occupare il lavoratore non consente neppure di prospettare la riconducibilità delle ragioni di un eventuale licenziamento alle evenienze richiamate dalla legge7. O, altrimenti, di uno strumento di verifica ulteriore del nesso di causalità tra modifica organizzativa e decisione di licenziare, nel senso che se una collocazione alternativa del lavoratore è possibile viene a mancare la prova che la scelta di licenziare sia stata determinata proprio dalla modifica organizzativa8. In ogni caso, dunque, il sindacato sul giustificato motivo oggettivo vale a controllare la sussistenza in concreto della causa dell’atto di licenziamento, secondo i presupposti che la legge richiede, e integra, pertanto, un controllo di legittimità, che non sconfina nel merito9. Sembra così potersi confermare il giudizio secondo il quale la previsione dell’art. 30, co. 1, non incide sui confini del sindacato giudiziale del licenziamento e si risolve, nella sostanza, nel richiamo di un principio consolidato e comunemente accolto.

2.1 Le clausole contrattuali di tipizzazione nel «collegato lavoro»

L’art. 30, co. 3, dispone che nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contatti individuali di lavoro stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione. Anche questa disposizione, come ricordato in apertura, muove dall’intento di ridurre i margini di incertezza connaturati al giudizio di idoneità della condotta del lavoratore e della scelta organizzativa del datore a giustificare il licenziamento e, al contempo, dall’intento di valorizzare la volontà delle parti, dando risalto agli interessi che queste hanno manifestato di tenere in particolare conto in sede di stipula del contratto. Il riferimento al «giustificato motivo», senza ulteriori specificazioni, consente di ritenere inclusa nella categoria anche il giustificato motivo oggettivo10, anche se, di norma, nei contratti collettivi non si rinvengono clausole che individuino situazioni o parametri idonei a fungere da riscontro della sussistenza di motivi oggettivi di licenziamento. Parimenti, non si rinvengono ostacoli insormontabili a ritenere che il giudice debba tenere conto anche della tipizzazione delle causali che rendono «giustificato» il licenziamento nel rapporto di lavoro dirigenziale, che, spesso più di altri, implica interessi tali da rendere ragionevole la previsione di specifiche causali di licenziamento. Nonostante la disposizione nel suo tenore letterale copra l’intero ambito dei motivi di licenziamento, consentendo una tipizzazione a tutto campo, essa sconta, in termini di efficacia, l’impiego della formula «tiene conto», che alla lettera importa che il giudice, nel valutare la sussistenza di una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento, deve considerare e non può prescindere da quanto le parti hanno pattuito, ma non è finalmente vincolato alla volontà che esse hanno espresso. In altri termini, l’espressione «tiene conto», che nella versione definitiva dell’art. 30, co. 3, ha sostituito l’espressione, forse più impegnativa, «fa riferimento», contenuta nel testo originario del disegno di legge, non può valere, da sola, a consentire alle parti deroghe al regime legale delle causali di licenziamento. I parametri ultimi per valutare la legittimità del licenziamento restano a tutt’oggi, dunque, le nozioni di giusta causa e giustificato motivo fissate dagli artt. 2119 c.c. e 3 l. n. 604/1966. Intesa in questi termini la scelta del legislatore appare condivisibile. Da un canto, infatti, nonostante il confine tra legittimità e illegittimità del licenziamento presenti una certa mobilità, indubbiamente condizionata anche dalla sensibilità dell’interprete, è diffusa e riscontrabile l’idea che i percorsi argomentativi delle decisioni in materia presentino una sostanziale linearità ed una diffusa coerenza di fondo11. Dall’altro, non può trascurarsi che la realtà supera di molto la fantasia, così che non sembra azzardato affermare che una certa variabilità delle decisioni in materia di licenziamento, tenuto conto della rilevanza degli interessi in gioco, costituisca il prezzo da pagare per un sistema che nel complesso possa assicurare giudizi dagli esiti più corretti. Un elemento di novità della disposizione del co. 3 dell’art. 30 può individuarsi nel fatto che, essendo il dovere di «tenere conto» delle clausole di tipizzazione destinato a risaltare dalla motivazione dei giudizi di legittimità del licenziamento, risulta introdotto a carico del giudice un obbligo di motivazione espresso, da intendersi come obbligo di giustificare, quando sia contestata, l’applicazione o la disapplicazione dei parametri di legittimità posti dalle parti12. Oltre a questo effetto diretto, la disposizione potrebbe produrre effetti indiretti di indubbia rilevanza, che presuppongono, tuttavia, che le organizzazioni sindacali ritengano di intervenire sulla materia e che le commissioni di certificazione svolgano l’attività di assistenza e consulenza loro demandata con la necessaria professionalità. La pratica dimostra, infatti, che in un campo in cui la fonte del potere datoriale risiede in norme aperte o elastiche come sono le disposizioni sulla giusta causa ed il giustificato motivo, le pattuizioni collettive sulle causali di licenziamento hanno un valore di orientamento determinante, sin dal momento in cui viene assunta la decisione di licenziare. Anche la Suprema Corte, del resto, sembra evocare nella sua giurisprudenza sulla necessaria, previa pubblicità del codice disciplinare la sussistenza di una duplice categoria di cause di licenziamento, allorquando afferma che possono esser sanzionati con il licenziamento comportamenti che non sarebbero – di per sé – riconducibili alle nozioni legali di giusta causa o giustificato motivo, ma – in relazione alle peculiarità della attività e/o dell’organizzazione dell’impresa – integrano, tuttavia, specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo soggettivo in forza di previsioni – da inserire, appunto, nel codice disciplinare – della normativa collettiva o di quella validamente posta dal datore di lavoro (così, ex plurimis, Cass., 25.9.2004, n. 19306; conformemente Cass., 10.5.2010, n. 11250). Il fatto che le parti sociali prevedano per certe condotte la sanzione espulsiva costituisce, invero, indizio significativo, per le parti individuali e per il giudice, che secondo il qualificato apprezzamento corrente quella condotta possa rendere intollerabile la prosecuzione anche provvisoria del rapporto o integri gli estremi dell’inadempimento notevole. Quanto alle pattuizioni individuali, quasi ignote alla pratica, la moltiplicazione delle attività produttive e delle professionalità, il carattere spiccatamente fiduciario di alcuni rapporti, comporta che in diversi casi emergano o assumano particolare risalto specifici interessi meritevoli di tutela, dei quali, attraverso la tipizzazione, le parti dimostrano di avere chiara consapevolezza. Una consapevolezza che può esercitare notevole influenza sulla valutazione oggettiva e soggettiva della gravità dell’inadempimento. Se, dunque, le parti collettive ed individuali, preso atto della volontà legislativa di promuoverne la volontà in materia di individuazione delle causali di licenziamento, ritenessero di utilizzare lo strumento a loro disposizione, prevedendo causali di licenziamento ulteriori, anche di carattere oggettivo, e dettagliandole in modo adeguato, esprimessero, così, se non una volontà pienamente efficace, una valutazione qualificata, i margini della valutazione giudiziale potrebbero subire una indiretta riduzione e si realizzerebbe, seppur parzialmente, l’effetto voluto dalla norma. Rispetto alla prima versione del «collegato», licenziata il 3.3.2010, e nonostante il messaggio di rinvio alle Camere del Presidente della Repubblica del 31.3.2010 non toccasse questa parte del testo legislativo, la versione finale ha soppresso l’inciso secondo il quale nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento il giudice avrebbe dovuto tenere conto delle «fondamentali regole del vivere civile e dell’oggettivo interesse dell’organizzazione ». La modifica sembra opportuna. Da un canto, con riferimento alle «fondamentali regole del vivere civile», perché elimina una ridondanza del testo normativo. È già acquisito e pacifico in giurisprudenza, infatti, che il giudice debba tenere conto delle «fondamentali regole del vivere civile», alle quali, peraltro, si assegna una specifica rilevanza, non solo ai fini del giudizio di gravità dell’inadempimento, ma anche ai fini della valutazione di adempimento degli oneri disciplinari, ritenendo che in caso di loro violazione non sia necessaria la pubblicazione del codice disciplinare. Dall’altro, con riferimento all’«oggettivo interesse dell’organizzazione», perché tale previsione avrebbe potuto aprire le porte ad un sindacato giudiziale che ha più a che fare con il merito delle scelte imprenditoriali che con la loro legittimità, in contraddizione con il generale divieto di sindacato di merito posto dal co. 1 dell’art. 3013.

I profili problematici. Validità ed efficacia delle clausole di tipizzazione

L’art. 30, co. 3, del «collegato» impone di tenere conto delle tipizzazioni «presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi», senza specificazione di livello. Ne deriva, stando alla lettera della legge, che può disporre in tema di tipizzazione non solo il contratto collettivo nazionale, ma anche il contratto collettivo di livello decentrato, territoriale o aziendale, con i conseguenti, possibili problemi della fonte preminente14. Come già anticipato, l’utilizzo dell’espressione «tiene conto» ed il contesto in cui la norma è inserita non consentono di ritenere che sia stata demandata in via esclusiva alle parti sociali l’individuazione delle causali di licenziamento, eventualmente derogando alle nozioni di giusta causa e giustificato motivo fissate dalla legge. Per valutare, dunque, la legittimità di un licenziamento il riferimento primo ed ultimo restano le norme inderogabili degli artt. 2119 c.c. e 3. l. n. 604/1966. Ne deriva che i consolidati principi formulati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine al rapporto tra le disposizioni inderogabili anzidette e le clausole contrattuali collettive di tipizzazione della giusta causa e del giustificato motivo sono destinati a mantenere intatto il loro valore. Il giudice, dunque, potrà ritenere legittimo il licenziamento anche per condotte che non siano contemplate dai contratti collettivi, sempre che integrino gli estremi del grave inadempimento o del grave comportamento contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, idonei a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (Cass., 8.6.2001, n. 7819; Cass., 16.3.2004, n. 5372; Cass., 18.2.2011, n. 4060). E, ancora, ritenere che una condotta che il contratto collettivo preveda come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento non meriti in concreto tale sanzione per la ricorrenza di elementi tali da ridurne la gravità oggettiva o soggettiva (Cass., 14.2.2005, n. 2906). Considerato, poi, che le previsioni contrattuali configuranti determinate condotte quali giusta causa di recesso sono espressive di criteri di normalità, il giudice non potrà in linea di principio, in assenza, cioè, di puntuali controindicazioni in punto di proporzionalità, ritenere sussistente una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento quando per quei fatti il contratto collettivo preveda una sanzione meno grave (Cass., 29.9.2005, n. 19053; Cass., 22.6.2009, n. 14586), almeno senza aver prima accertato che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva (Cass., 14.12.1989, n. 5627; Cass., 15.2.1993, n. 1176). Il riferimento del co. 3 ai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi pone il problema del valore da assegnare alle previsioni dei contratti collettivi stipulati da sindacati che non presentino tale caratteristica; la cui efficacia, tuttavia, quando siano di miglior favore, dovrebbe trovare fonte nell’art. 12 l. n. 604/1966. Quanto alle clausole di tipizzazione contenute nei contratti individuali, l’art. 30, co. 3, impone di tener conto delle clausole presenti nei contratti stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione. Ciò, tuttavia, non significa, secondo i principi, che le clausole di miglior favore dei contratti individuali, anche se non stipulate con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione, non trovino comunque applicazione nel caso in cui dispongano in melius rispetto alla legge ed al contratto collettivo: in tal caso, invero, non si tratta solo di «tenere conto» di tali clausole, ma di farne senz’altro applicazione in deroga alle previsioni di legge e di contratto collettivo. Anche con riguardo al rapporto tra le clausole presenti nei contratti individuali e le disposizioni di legge vale quanto già detto con riguardo alle clausole collettive. Le clausole individuali, dunque, potranno trovare applicazione quando non contengano deroghe in peius rispetto alle previsioni di legge, in particolare, quando non prevedano quale giusta causa o giustificato motivo di licenziamento fatti o condotte che, secondo la corrente interpretazione delle disposizioni dell’art. 2119 c.c. e 3 l. n. 604/1966, non siano idonee a ledere irrimediabilmente la fiducia cui è improntato il rapporto di lavoro o non integrino gli estremi dell’inadempimento notevole. Qualche dubbio interpretativo può porsi con riguardo al diverso problema del rapporto tra clausole di tipizzazione individuali e collettive, nonostante autorevole dottrina concluda senz’altro nel senso dell’inderogabilità15. L’art. 30, co. 3, infatti, pone le clausole collettive e le clausole individuali sullo stesso piano, quasi ad evocare una parità di rango, che legittimerebbe, dunque, una deroga in peius delle prime alle seconde, sempre, ovviamente, nel rispetto delle disposizioni inderogabili degli artt. 2119 c.c. e 3 l. n. 604/1966. La lettera della legge in questo caso non consente di addivenire a conclusioni univoche. Non dovrebbero, comunque, sorgere dubbi circa la possibilità del contratto individuale di prevedere causali di licenziamento diverse e ulteriori rispetto a quelle del contratto collettivo, essendo entrambe le fonti parimenti abilitate alla negoziazione, e non trattandosi in tal caso di una vera e propria deroga in peius. Di deroga in peius dovrebbe invece parlarsi nel caso in cui il contratto individuale preveda cause o motivi di licenziamento cui il contratto collettivo ricollega sanzioni conservative; fors’anche quando ciò avvenga a fronte di specificazioni dei fatti e delle condotte utili a farne risaltare la gravità oggettiva o soggettiva. Come già anticipato, la circostanza che la legge abiliti alla tipizzazione sia il contratto collettivo sia il contratto individuale, purché stipulato con modalità che dovrebbero garantire libertà e consapevolezza del consenso, senza accennare ad una relazione gerarchica tra le fonti, lascia aperto l’interrogativo circa la facoltà di deroga in peius del contratto individuale. Senza la pretesa di offrire un’adeguata soluzione, vale la pena di osservare, da un canto, che il presidio garantito dalle nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo sdrammatizza il problema delle possibili ricadute negative della deroga in termini di tutela del lavoratore; dall’altro, che la deroga consentirebbe di dare pieno risalto a quelle peculiari esigenze dell’azienda che secondo la giurisprudenza di legittimità sono destinate a rilevare ai fini del licenziamento purché espressamente previste e pubblicizzate. Resta da dire che quando la causale di licenziamento sia tipizzata nel contratto individuale stipulato avanti le commissioni di certificazione non dovrebbe porsi un problema di pubblicità, anche se la clausola di tipizzazione del contratto individuale coincida con la clausola di tipizzazione del contratto collettivo, atteso che l’assistenza e la consulenza della commissione ne garantisce, non la conoscibilità, ma l’effettiva conoscenza della clausola.

3.1 Certificazione e sindacato giudiziale sui licenziamenti

Con l’art. 30, co. 2, il «collegato» è intervenuto per rinforzare gli effetti della certificazione, disponendo che nella qualificazione del contratto di lavoro e nell’interpretazione delle relative clausole il giudice deve attenersi alle valutazioni espresse dalle parti e può discostarsi dalle stesse solo nel caso di «erronea qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione ». La lettera della legge è un po’ oscura. Le «relative clausole» potrebbero intendersi come relative alla qualificazione del contratto, con la conseguenza che l’ambito di efficacia della certificazione non sarebbe mutato, riguardando a tutt’oggi solo la qualificazione. Ma potrebbero intendersi, e sono per lo più intese, come «relative» al contratto, con la conseguenza che l’ambito di efficacia della certificazione sembra essersi ampliato, riguardando ora tutte le clausole contrattuali; dunque, anche le clausole di tipizzazione delle cause e dei motivi di licenziamento. Può darsi che l’intenzione originaria del legislatore fosse quella di legittimare e promuovere la pratica della derogabilità assistita, ma sembra potersi concludere che l’intenzione non si sia tradotta in atto. Né il tenore letterale dell’art. 30, co. 2, poco chiaro, né la sua collocazione, per nulla in risalto, rendono plausibile che con la previsione dell’art. 30, co. 2, si sia voluto procedere ad una modifica di tale portata. Pertanto, quand’anche si voglia ritenere che l’affermazione secondo la quale il giudice «nella qualificazione del contratto, di lavoro e nell’interpretazione delle relative clausole ... non può discostarsi dalle valutazioni delle parti, espresse in sede di certificazione dei contratti di lavoro», sia riferita non solo alle clausole concernenti la qualificazione del contratto ma a tutte le clausole del contratto, anche a quelle che non attengano alla qualificazione, deve senz’altro escludersi che le «valutazioni delle parti» abbiano l’effetto di impedire al giudice di valutare la conformità della previsione contrattuale certificata alle disposizioni inderogabili16. Un indizio di tale conclusione sembra ricavarsi proprio dal disposto dell’art. 30, co. 3, la disposizione sulle clausole contrattuali di tipizzazione della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, secondo cui il giudice «tiene conto» delle clausole contrattuali presenti nei contratti stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione; vale a dire, come già detto sopra, che il giudice non è vincolato dalle stesse. A tutt’oggi, dunque, l’effetto della certificazione, anche sulle clausole di tipizzazione delle causali di licenziamento è l’effetto provvisorio sancito dall’art. 79 d.lgs. n. 276/2003, per cui gli effetti dell’accertamento dell’organo preposto alla certificazione del contratto di lavoro permangono, anche verso i terzi, fino al momento in cui non vengano accertati con sentenza di merito l’erronea qualificazione del contratto – e delle sue clausole, secondo l’interpretazione corrente dell’art. 30, co. 2 –, la difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione, o vizi del consenso. Tale effetto provvisorio in materia di licenziamento sembra destinato ad avere scarsa o alcuna rilevanza, non essendo facilmente ravvisabili situazioni in cui i terzi possono essere condizionati dagli effetti della certificazione delle causali di licenziamento e rimanendo comunque salva, anche tra le parti, la possibilità di esperire i procedimenti cautelari (art. 79 d.lgs. n. 276/2003).

3.2 Nuovi contenuti della tutela obbligatoria

Secondo l’art. 30, co. 3, le pattuizioni contrattuali, collettive o individuali stipulate con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione assumono rilevanza, non solo al fine di individuare le condotte idonee ad integrare gli estremi della giusta causa e del giustificato motivo, ma anche ai fini della determinazione delle conseguenze da riconnettere al licenziamento illegittimo ex art. 8 l. n. 604/1966. Modificando i contenuti dell’art. 8 l. n. 604/1966, il legislatore ha previsto che, al fine di stabilire la misura dell’indennità risarcitoria dovuta in ambito di «tutela obbligatoria» in caso di licenziamento illegittimo, il giudice «tiene conto» degli «elementi e parametri » fissati dai contratti collettivi e dai contratti individuali con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione e, comunque, «considera» le dimensioni e le condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro locale, l’anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima del licenziamento. A parte la rilevanza assegnata agli «elementi» e «parametri» di contratto ed alla «situazione del mercato del lavoro locale», il testo dell’art. 8 che riesce all’esito della sostituzione/interpolazione ad opera dell’art. 30, co. 3, non presenta profili di particolare novità. Nel testo previgente, infatti, l’art. 8 disponeva che il giudice dovesse tenere conto del numero dei dipendenti occupati e delle dimensioni dell’impresa (nel che sembrano compendiarsi le «dimensioni» e le «condizioni dell’attività esercitata dal datore» del nuovo testo; con il dubbio che nelle condizioni dell’impresa possano essere ora incluse anche le condizioni economiche), dell’anzianità di servizio del prestatore e del comportamento e delle condizioni delle parti (nel che sembrano compendiarsi «l’anzianità» e «le condizioni del lavoratore » ed il «comportamento delle parti» del nuovo testo»). Quanto agli «elementi» ed ai «parametri» fissati dai contratti vale quanto già detto circa l’obbligo del giudice di tenere conto delle tipizzazioni contrattuali di giusta causa e di giustificato motivo; cioè che anche ai fini della determinazione dell’indennità risarcitoria gli elementi ed i parametri fissati dalle parti in contratto possiedono valore orientativo, non esclusivo, posto che il giudice deve «comunque» considerare gli altri elementi indicati dalla disposizione inderogabile dell’art. 8. Tra questi è utilizzabile oggi anche l’elemento della «situazione del mercato del lavoro locale», che, a prima vista, vale ad assegnare rilevanza alle maggiori o minori possibilità per il lavoratore licenziato di reperire una nuova occupazione e così di ridurre il danno che il licenziamento gli provoca. La «situazione del mercato locale» è un fatto che per rilevare effettivamente in giudizio dev’essere rappresentato, secondo l’interesse di ciascuna parte, con la necessaria precisione, nei limiti di quanto consente il regime processuale delle preclusioni e decadenze. Non è facilmente prevedibile, e non è auspicabile in termini di deflazione del contenzioso, che in un’area di scarsa conflittualità e di scarsa rilevanza del compendio economico in gioco qual è quella della «tutela obbligatoria», il nuovo elemento di valutazione della «situazione del mercato locale» sia destinato a spiccare. Il nuovo elemento di valutazione17 dovrebbe valere, comunque, in termini di presunzione relativa, vale a dire, salva la prova che per specifici motivi la mancata occupazione non possa dirsi conseguente ad una condotta colpevole del lavoratore; così come avviene nel più generoso ambito della «tutela reale». Nessun elemento testuale consente di ritenere che ai sensi dell’art. 30, co. 3, le parti possano derogare in peius alla misura dell’indennizzo fissata dall’art. 8 l. n. 604/1966 e così concordare un indennizzo inferiore al minimo di legge (2,5 mensilità), ovvero escludere gli aumenti dell’indennizzo che l’art. 8 prevede per il caso in cui il lavoratore abbia una certa anzianità di servizio e dipenda da datori di lavoro di una certa consistenza occupazionale. Secondo la lettera della legge, invero, le «conseguenze da riconnettere al licenziamento» restano quelle già stabilite dall’art. 8 l. n. 604/1966, di tal che ciò su cui le parti possono incidere con la fissazione di elementi e parametri di computo è solo la quantificazione tra il minimo ed il massimo che l’art. 8 prevede.

Note

1 Cester, La norma inderogabile fondamento e problema del diritto del lavoro, in Dir. lav. rel. ind., 2008, 341.

2 Pellacani, Il cosiddetto «Collegato lavoro » e la disciplina dei licenziamenti: un quadro in chiaroscuro, in Riv. it. dir. lav., 2010, I, 215 ss. afferma che il legislatore, «senza preoccuparsi troppo dell’esistenza ... di una siffatta distinzione né tantomeno, conseguentemente, di chiarire che cosa intenda per clausole generali, utilizzi il termine in senso ampio o generico per individuare, più che le clausole generali propriamente dette, le numerose norme aperte o vaghe che connotano vasti settori dell’ordinamento giuslavoristico».

3 Anche di recente Cass., 13.12.2010, n. 25144, ha ribadito che secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità la giusta causa di licenziamento è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama; e che tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici.

4 Secondo Nogler, Opinioni sul Collegato lavoro, in Dir. lav. rel. ind., 2011, 126, in termini più drastici, «così come è stato scritto l’art. 30, c. 3, è inutile perché inapplicabile per la semplice ragione che se correttamente applicate, le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso e le altre che si intendono aggiungere all’elenco, non contengono clausole generali che legittimano il giudice ad attingere criteri alternativi di giudizio posti al di fuori della concretizzazione della trama normativa presa in considerazione in tutta la sua complessità sistematica».

5 Così Ferraro, Poteri imprenditoriali e clausole generali, in Dir. lav. rel. ind., 2009, 39 ss., secondo il quale non è condivisibile l’opinione minimizzante di sostanziale neutralità della disposizione, come formula di stile inidonea ad incidere in maniera significativa vuoi nella ricostruzione dei singoli istituti, vuoi nei processi interpretativi dei giudici; la disposizione, a suo avviso, vuole costituire un vero e proprio manifesto ideologico alla luce del quale andrebbe rivista e in qualche modo reinterpretata, parte significativa della legislazione del lavoro.

6 Così Pellacani, Il cosiddetto «Collegato lavoro», cit., 215 ss., secondo il quale mediante l’esplicitazione della regola secondo la quale il giudice non può ingerirsi nelle scelte datoriali, si è «solo inteso ribadire, sulla scorta delle tesi espresse da autorevole dottrina, che il bilanciamento tra gli interessi del lavoratore e dell’impresa, all’interno dell’organizzazione produttiva, è compito assegnato alla disciplina legislativa ed all’azione sindacale, non al giudice, e che questi non può, attraverso l’uso della clausole generali, individuare dei limiti interni all’esercizio dei poteri dell’imprenditore in aggiunta a quelli esterni previsti dalla legge. L’obiettivo primario della previsione consisterebbe, dunque, non tanto nel ridisegnare la geometria dei rapporti tra i predetti interessi, riposizionando la frontiera mobile fra libertà economica e tutela del lavoro, quanto, piuttosto, nel chiarire una volta per tutte il ruolo dei diversi attori coinvolti nella loro definizione». Secondo Ferraro, Poteri imprenditoriali, cit., 46, sembra abbastanza difficile che possa sopravvivere la figura, al momento diffusamente accreditata, del licenziamento come extrema ratio, che implica un analitico approfondimento di merito, non solo della causale giustificativa, ma anche delle scelte contestuali di gestione aziendale.

7 Nogler, La disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del bilanciamento tra i «principi» costituzionali, in Dir. lav. rel. ind., 2007, 593 ss.

8 Carinci, Clausole generali, certificazione e limiti al sindacato del giudice. A proposito dell’art. 30, l. n. 183 del 2010, in Il Diritto del Lavoro dopo il Collegato, in Quaderni di Questione Lavoro, 2010, I, 19.

9 Nogler, La disciplina , cit., 593 ss. afferma che l’analisi giurisprudenziale dimostra che la giusta causa e il giustificato motivo rappresentano parametri certamente elastici e malleabili, ma grazie al modo in cui sono enunciati e al contesto sistematico (dogmatico) in cui devono essere inseriti, essi non possono e non vengono intesi alla stregua di pure formule procedurali che rinviano al giudice il bilanciamento in concreto degli interessi contrapposti.

10 Ponterio, Le motivazioni poste a base del licenziamento, in Questione giust., 2010, 6, 64; Del Punta,3.2.1 Le causali del licenziamento alla luce della l. n.183/2010,Relazione all’incontro di studi organizzato dal CSM a Roma, 11/13.7.2011, dal titolo Prospettive interpretative della legge 183 del 2010 – c.d. Collegato Lavoro. In senso contrario, Tiraboschi, Dalla legge Biagi al Collegato lavoro. Il significato di un intervento di riforma della giustizia del lavoro in Italia, in Collegato Lavoro: sì definitivo del Parlamento,in Bollettino Speciale Adapt del 22.10.2010, n. 34, in www.adapt.it; Vallebona,Una buona svolta del diritto del lavoro: il «Collegato» 2010, in Mass. giur. lav., 2010, 212.

11 Pellacani, Il cosiddetto «Collegato lavoro », cit., 238.

12 Secondo Costantino, La deroga alla giurisdizione: certificazione e arbitrato nel collegato lavoro. Il controllo del giudice sulle clausole certificate, relazione all’incontro di studi organizzato dal CSM a Roma, 11/13.7.2011, dal titolo Prospettive interpretative della legge 183 del 2010 – cd. Collegato Lavoro, «il giudice, vuoi nel caso in cui ritenga applicabili, perché conformi alle previsioni legali e non lesive di prerogative inderogabili, le regole contrattuali, vuoi in quello in cui le ritenga viziate e, quindi, bisognose di integrazione con le previsioni legali, è tenuto a motivare specificatamente sulla questione». La mancanza di motivazione sul punto, quindi, vizia il provvedimento ed appare deducibile, in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., mentre la motivazione è comunque sindacabile dalla corte, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c.

13 Ichino, A rischio non è l’art. 18, in Corriere della sera, 7.3.2010, aveva messo criticamente in risalto che tale ultima previsione, consentendo al giudice di ergersi a interprete unico dell’interesse aziendale, rischiava di espropriare delle loro prerogative, non soltanto gli imprenditori, ma anche l’intero sistema delle relazioni industriali. A tale critica si è replicato che il riferimento all’interesse dell’organizzazione non avrebbe potuto voler dire che il giudice dovesse verificare la legittimità del licenziamento sindacando nel merito la conformità del licenziamento all’interesse produttivo: la norma, piuttosto, nel fare riferimento all’interesse dell’organizzazione, richiamava la disposizione codicistica (art. 2104 c.c.) in materia di diligenza del prestatore di lavoro, secondo la quale il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta e, appunto, dall’«interesse dell’impresa»: così, Tiraboschi, Dalla legge Biagi, cit.

14 Secondo Nogler, Opinioni, cit., 132, il rinvio ai contratti conclusi, non da, ma dai (e, quindi, tutti i) sindacati comparativamente più rappresentativi esclude che possano avere rilievo i cd. accordi separati.

15 Del Punta, Le causali del licenziamento, cit.

16 Cfr. Speziale, La riforma della certificazione e dell’arbitrato nel «collegato lavoro», in Diritti lavori mercati, 2010; De Angelis, Collegato lavoro e diritto processuale: considerazioni di primo momento, WP C.S.D.L.E. «Massimo D’Antona», 2010, 111; Vallebona, Una buona svolta, cit.

17 Secondo Ghera e Valente, Un primo commento al Collegato lavoro, in Mass. giur. lav., 2010, 867, la valutazione della «situazione del mercato locale » introduce una sorta di «federalismo risarcitorio» del licenziamento illegittimo. Una ulteriore fonte di differenziazione delle conseguenze risarcitorie del recesso datoriale potrebbe, del resto, su altro piano, potenzialmente derivare dalla attuazione della previsione da ultimo introdotta con l’art. 8 d.l. 13.8.2011, n. 138, in particolare laddove si attribuisce alla contrattazione collettiva aziendale o territoriale, in presenza di determinati presupposti, un potere di modulazione degli effetti del licenziamento illegittimo (peraltro con esclusione delle ipotesi di licenziamento discriminatorio, sempre assoggettate alla tutela reale del posto di lavoro). Per una diffusa analisi generale di tale discussa previsione si rinvia al commento di Treu 5.1.2.

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