Lattanzio ideologo della svolta costantiniana

Enciclopedia Costantiniana (2013)

Lattanzio ideologo della svolta costantiniana

Gaetano Lettieri

Intellettuale alla corte di Diocleziano, convertitosi al cristianesimo a ridosso delle persecuzioni tetrarchiche, primo, seppure approssimativo teologo sistematico latino, infine influente consigliere di Costantino, Lattanzio è fonte e protagonista fondamentale per valutare documentazione, genesi ideologica e prima giustificazione teologica della svolta costantiniana. Combatte la sua battaglia culturale e religiosa nel cuore del potere imperiale, confrontandosi e interloquendo con i protagonisti del tentativo di annientamento del cristianesimo e con quelli che contribuiranno alla sua miracolosa vittoria, potendo quindi mettere a punto un’aggiornata strategia di resistenza, riscatto culturale e politico della «religio nova», certamente influente su Costantino. Il suo ambizioso progetto di apologetica fondazione di cultura e società romano-cristiane, forgiato dal fuoco delle persecuzioni, può pertanto consentire di congetturare quale fosse la linea di confine tra sacralizzazione di tradizione e potenza politica, garanzia di giusto ordine pacifico, sincretistiche aspirazioni religiose e monoteistiche in ambito pagano; richiesta di tolleranza, strategie proselitistiche di adattamento culturale, confessione di fede in ambito cristiano; tensioni rispetto alle quali Costantino, con tutte le sue ambiguità, sarà destinato a rappresentare il supremo punto di mediazione. Nel suo oscillare tra apocalittica demonizzazione dell’impero politeistico e auspicio di reviviscenza dell’età dell’oro classica grazie a un futuro imperatore monoteista e giusto, il capolavoro teologico-politico delle Divinae institutiones è opera epocale: ponendosi all’incrocio tra diverse teologie politiche, mediando tra ideali romani di giustizia e fede cristiana in un Dio onnipotente e provvidente (persino con la sua ira), Lattanzio immagina, prepara e infine saluta il passaggio dall’impero persecutore dei divinizzati tetrarchi a quello ‘secolarizzato’ e tollerante, quindi sempre più apertamente filocristiano di Costantino: storia culturale di una scommessa azzardata, ma vinta, perché fatta propria e rilanciata da un genio politico, che forse proprio a contatto con Lattanzio ne venne valutando la portata.

Conversione, eclissi, vittoria di un intellettuale di corte

Di origine africana, indicato da Girolamo1 come allievo di Arnobio di Sicca, definito «Cicerone cristiano» da Pico ed Erasmo, Lucius Cae(ci)lius Firmianus Lactantius (255 circa-325 circa) si trasferì a Nicomedia di Bitinia tra il 290 e il 300, chiamatovi da Diocleziano come professore di retorica e lingua latina2; a questo periodo datano le sue prime opere letterarie, di argomento classico o scolastico: Symposium, Hodoeporicon, Grammaticus. L’insuccesso del suo insegnamento a Nicomedia (ove scarsa era la conoscenza del latino) e la sua conversione al cristianesimo in prossimità delle persecuzioni tetrarchiche3, provocarono la sua emarginazione a corte, forse il suo allontanamento da Nicomedia, riscattato dalla chiamata a Treviri (tra il 310 e il 316) come precettore del giovanissimo figlio Crispo da parte di Costantino4, conosciuto alla corte di Diocleziano5; anche se non può essere escluso un suo precedente ritorno in auge in Oriente presso la corte di Licinio. Durante lo scatenarsi delle persecuzioni anticristiane, compone il De opificio Dei, quindi il De ira Dei, ove, in polemica con epicurei e stoici, celebra la provvidenza dell’Onnipotente, che si rivela nella perfezione del corpo umano, come nell’affermarsi di una giustizia storica, per la quale è necessario riconoscere un Dio personale, non imperturbabile, ma capace anche di ira. Parallelamente, redige i sette libri delle Divinae institutiones (304-311), conclusi prima della fine della persecuzione6; la tradizione manoscritta presenta alcune importanti aggiunte al testo, molto probabilmente dello stesso Lattanzio, di discussa datazione, tra le quali due encomi rivolti a Costantino7, di cui Lattanzio era divenuto consigliere e influente guida teologico-politica. Oltre all’Epitome delle Divinae Institutiones – sintesi aggiornata contemporanea a revisione e aggiunte dell’opera –, fondamentale per lo studio della svolta costantiniana è il De mortibus persecutorum, di poco successivo al 313, di cui non pare più possibile mettere in dubbio la paternità lattanziana.

Rispetto alla sua poliedrica cultura classica, piuttosto modeste risultano conoscenza biblica8, capacità di aggiornamento e approfondimento teologici9: Lattanzio conosce Cipriano e Tertulliano10, ma ancora dipende da arcaiche tradizioni giudeocristiane.

Merito principale dell’opera maggiore è la riconfigurazione della tradizionale apologia del cristianesimo a partire da una prospettiva teologico-politica eminentemente romana (strategico è il ruolo di Varrone e Cicerone): l’interesse per storia e natura di religione e culto pubblici, lo studio del rapporto tra diritto, retorica e formazione civile, insomma la storia delle institutiones teologico-politiche11 prevalgono rispetto all’interesse dottrinale, filosofico e persino teologico-dogmatico. Svalutata la filosofia12, la cui influenza positiva si riduce a superficiale eclettismo, la tradizionale rivendicazione di maggiore antichità e razionalità della religione giudaica rispetto all’insensato, immorale politeismo pagano13 può sposarsi al recupero di disseminati elementi teologici di gnosi oracolare-sapienziale, testimoni dell’arcaica, universale rivelazione monoteistica inscritta nella natura umana, desumibile da testi poetici come da sentenze pitagoriche, dagli Oracoli sibillini come dal Corpus hermeticum, che assumono nell’apologetica lattanziana un ruolo centrale14. Comunque, la ricerca della verità monoteistica universalmente diffusa si compie, romanamente, nella definizione dell’autentica religio capace di rendere grande e giusta la civitas: «Volui sapientiam cum religione coniungere»15. Realizzando ‘miracolosamente’ questa coniunctio, Costantino convertirà l’una nell’altra Roma e Gerusalemme.

Una teologia della storia romano-cristiana: le Divinae Institutiones

L’urgenza storico-religiosa che genera le Divinae institutiones coincide con l’esigenza di rispondere culturalmente alle violente denunce di Ierocle e Porfirio16, pubblici inquisitori del cristianesimo come sedizioso spregiatore di potere imperiale, sacra tradizione romana, autorità della legge, razionalità filosofica: accuse fatali, manifesto ideologico della persecuzione tetrarchica17. La strategia di riforma, rafforzamento e pacificazione dell’Impero condotta da Diocleziano si compiva in una strategia di compattamento ideologico-religioso, che non poteva non confliggere con la nova religio, politicamente eversiva nella sua folle pretesa di cittadinanza carismatico-escatologica irriducibile a quella secolare. L’identificazione sacrale di Diocleziano e Massimiano come appartenenti alla stirpe di Giove e di Ercole, garanti del ritorno dell’aureum saeculum18, testimonia una volontà di rifondazione cultuale della potenza romana, incentrata sugli arconti divinizzati di un impero personalmente garantito19. Gli Augusti condividevano una natura divina, partecipando di virtutes e numina dei due dei; in quanto dotati di anima caelestis, gli imperatori venivano proclamati «aeterni come persone», formando una «famiglia divina» generata da un «vero e proprio Adoptivkaisertum»20 (i Cesari sono veri e propri figli di dei) e caratterizzata da indissolubile «concordia», propugnando una teologia della ‘incarnazione’ inevitabilmente in radicale conflitto con quella cristiana21. In velata, ma sistematica polemica contro l’ideologia tetrarchica, a Porfirio che aveva denunciato l’empia pretesa dei cristiani di «disprezzare qualsiasi tipo di sacrificio, iniziazione, mistero e di abbandonare, nel nome di una presunta teologia, tutti i sovrani, i legislatori e i filosofi»22, Lattanzio controbatte che soltanto il monoteismo cristiano è in grado di garantire legittimo esercizio del potere imperiale, giustizia della legge e arcaica verità della religione pubblica: la damnatio che Costantino pronuncerà contro Porfirio e le sue opere anticristiane23 segnerà pertanto il trionfo dell’apologia di Lattanzio.

Contro la tesi della novità asociale del cristianesimo e la dioclezianea sacralizzazione della tradizione romana, le Divinae institutiones cercano di dimostrare in termini storico-religiosi l’arcaicità, in termini filosofici l’ontologica predominanza del monoteismo rispetto al politeismo. Infatti, argomentata programmaticamente la dipendenza dell’ordine del mondo dalla provvidenza divina, la questione di fondo che governa l’intera struttura dell’opera è «se il mondo sia retto dalla potenza di un unico Dio o da quella di molti»24 (influente la polemica antidualista di Tertulliano). La dimostrazione razionale della superiorità del monoteismo e della sua economia – chi è costretto a ricorrere a una molteplicità di poteri, rivela forza e potenza minori, quindi fragilità e mortalità – è anche una radicale accusa politica25, in linea con la violenta condanna che il de mortibus persecutorum rivolge al politeista Diocleziano colpevole di avere diviso e avvilito l’Impero26. Come l’onnipotenza teologica, il vero potere politico è unico, assoluto, capace di autonoma stabilità27. Potestates e virtutes sono tanto più inferiori, quanto più molteplici, quindi il trionfo della molteplicità a livello teologico-politico è traccia di un’azione demoniaca che lavora per la distruzione del regno umano28. Il politeismo è allora razionalisticamente ricondotto a evemeristica divinizzazione abusiva di sovrani politici (si pensi a Diocleziano e Massimiano)29, culminante nella tradizione greco-romana nel culto di Giove e di suo ‘figlio’ Ercole30, assi portanti della sacralizzazione del potere imperiale tetrarchico: nel corpo sano della romanità è stata infatti introdotta un’irrazionalità divisiva, rivelata da conflittualità politica, corruzione, disumana violenza, potere oppressivo che contraddice l’uguaglianza tra tutti gli uomini. Figura dell’Impero tetrarchico è il saeculum idolatra31, pervertito, violento di Giove, usurpatore e quasi parricida32, dominato da una brutale cupiditas regnandi, eppure costretto a dividere il regno del quale si era impadronito33. Con questi presupposti teologico-politici, risulta pertanto comprensibile l’apocalittico grido di giubilo che conclude il de mortibus persecutorum: «Dove sono quei soprannomi fino a ieri magnifici e illustri tra i pagani – di Gioviniano, di Ercoliano – che prima si attribuirono con arroganza Diocleziano e Massimiano, poi passarono ai loro successori rimanendo in vigore? Il Signore li ha distrutti e cancellati dalla terra»34.

Al saeculum tirannico di Giove/Diocleziano e del perverso figlio Ercole/Massimiano, Lattanzio contrappone l’aureum saeculum del padre Saturno, caratterizzato da pace, ordine e culto monoteistico35. Maschera di Ottaviano, Saturno è indicato come colui che era riuscito a trasformare, grazie a potenza e ricchezze accumulate, la predominanza politica (principatus) del ‘padre’ Urano (Cesare) in regno vero e proprio36: citando versi e ideologia virgiliani37, risalendo all’archetipo virtuoso dell’impero, l’aureo «rex terrenus» Saturno/Augusto è presentato come monarca assoluto, giusto, pacifico, tollerante, persino umile, nel suo capitale rifiuto dell’autodivinizzazione38. Lattanzio lo intravede redivivo: dichiarata è la speranza di potere presto salutare, per grazia di Dio, l’avvento di un futuro Saturno/Augusto monoteista e tollerante, capace di riportare Roma alla sua antica, pacifica, prospera perfezione39. L’indagine storico-religiosa sull’origine dei culti pagani ubbidisce pertanto a una precisa strategia di piena integrazione tra la religione cristiana e gli autentici ideali della romanitas, concordi nella ‘secolarizzazione’ del potere, cioè nel rifiuto della sacralizzazione personale dei sovrani. Se il modello teologico-politico determina sanità o corruzione di tutto il popolo, in quanto la religione è imitazione del divino attraverso il culto40, atto provvidenziale dell’unico vero Dio sarà abbattere la poliarchia, restaurando una monarchia fondata sul monoteismo41, che Cristo, «princeps angelorum», è venuto a rivendicare42. Tramite la sua raffinata tipologia demitizzante, Lattanzio offre la giustificazione ideologica capace di preparare il futuro: il provvidenziale Impero di Costantino.

Per meglio apprezzare l’‘oracolare’ teologia-politica di Lattanzio, significativa è una variante ‘dualistica’ del II libro43: Dio onnipotente crea il mondo facendolo dipendere dall’opposizione tra la sua mano destra e la sua mano sinistra, che sono i «duo fontes […] duo spiritus, rectus atque pravus […] duo contraria» apocalitticamente in guerra per il dominio della creazione, che pure è provvidenzialmente governata dalla «divina dispositio» (8,5) che ‘retoricamente’ o ‘esteticamente’ fa risaltare, provare e trionfare il bene soltanto attraverso l’opposizione attiva del male44. Mentre il principio malvagio è identificato con il demoniaco angelo delle tenebre, il principio buono è identificato con il «bonus filius», Cristo interpretato a partire da un modello giudeocristiano45 di cristologia angelica, malgrado Lattanzio presenti, mediata o piuttosto confusa con questa sorta di protoarianesimo46, anche una teologia trinitaria tertullianea incentrata sul Verbum, Dio divenuto caro47. Il dualismo dei duo spiritus, presentato come opposizione apocalittica tra luce/Oriente e tenebra/Occidente, è ancora funzionale a un abbozzo di teologia politica48: la notte, che invade l’Occidente con il tramonto del sole, e la molteplicità fioca di stelle che da essa scaturisce sono immagini della tenebra dell’idolatria e della poliarchia tetrarchica, mentre il giorno, nel suo primo sorgere a Oriente (improbabile, allora, che qui Lattanzio potesse alludere a Costantino)49, è immagine della vera religione, il cui unico Dio è rappresentato dal sole (con Cicerone etimologicamente connesso a solus), l’astro singolare che brilla nel cielo nascondendo le stelle notturne50. Seppure il testo è anteriore alla svolta costantiniana, esso risulta significativo per il suo potenziale teologico-politico, considerata la rilevanza monoteistica della teologia solare da Aureliano a Costanzo Cloro, allo stesso Costantino: probabilmente Lattanzio sta qui operando un tentativo di mediazione tra il suo monoteismo cristiano e prospettive teologico-politiche monoteistiche (latentemente monocratiche?) già attestate presso alcuni esponenti imperiali (forse dallo stesso Licinio, a giudicare dalle testimonianze del de mortibus persecutorum).

Questo ingenuo dualismo analogico risulta assai rilevante per valutare l’impalcatura ideologica del de mortibus persecutorum: la creazione è scissa dall’opposizione tenebra/luce, morte/vita, corpo/anima, trionfo nefasto del Nemico/gloria liberatrice di Dio51, ove evidente risulta la dipendenza dall’Apocalisse di Giovanni e da categorie apocalittiche giudaico-cristiane, per le quali il principale criterio di senso della storia coincide con il provvidenziale, ultimo trionfo mondano del più forte, quindi dell’Onnipotente, capace di infliggere eterni supplizi all’«Antitheus»52. All’interno di una teologia politica di tipo analogico, se Dio è definito come «imperator»53, l’«Antitheus» è «hostis», «adversarius», chiamato da Dio stesso a insidiare e perseguitare l’uomo, perché questi combatta una continua, mortale, ma meritoria battaglia54. Cristo-Messia è invece salutato – a partire dalle testimonianze veterotestamentarie55 – unico «rex» universale, rappresentante di Dio nel saeculum: seppure si precisa che l’autentico regno di Cristo è «caeleste ac sempiternum»56, d’altra parte è apertamente affermato il suo escatologico governo in terra – «tunc vere totius terrae regimen obtinebit». Lo stesso millennio apocalittico dai forti tratti materialistici57 viene così identificato con il classico «aureum saeculum iustum ac pacificum»58 saturnino, che Cristo è venuto a inverare, realizzando in terra il diretto governo di Dio sugli uomini59: ove rivelativa è la sovrapposizione, sino quasi all’indistinzione, tra il saeculum del nuovo Augusto politico e il millennio di Cristo. Eppure, l’età aurea di Cristo non sarà accessibile a tutta l’umanità, ma – ancora apocalitticamente – sarà ristretta ai soli eletti/virtuosi; e questo per volontà della provvidenza di Dio, proprio perché soltanto l’esistenza del male può rivelare, provare, esaltare l’affermarsi del bene60.

Questa precoce, visionaria teologia-politica romano-cristiana propone pertanto, soprattutto nei fondamentali libri V e VI delle Divinae institutiones, l’inveramento e la retractatio dei valori supremi della classicità – gli ideali di «iustitia» universale, «humanitas», equità61 – nella «religio nova»62 cristiana. Cicerone è chiamato come testimone privilegiato di un’aspirazione altissima di civiltà umana, ma al tempo stesso del fallimento storico della classicità, che soltanto la rivelazione divina può riscattare e compiere. La stessa filosofia si è rivelata incapace di innalzarsi alla vera sapienza della religione: Platone e Aristotele, privi di rivelazione, non hanno potuto che prospettare una «giustizia immaginaria»63. Soltanto Cristo è il maestro, la «viva lex»64, capace di riconciliare Platone, Aristotele e Cicerone, Varrone, verità ed eloquenza, sapienza e religione, legge divina autenticamente universale ed esempio vivente di uomo capace di realizzare la perfetta virtù65. Esaltando i valori cristiani di autentica umanità, universale giustizia, altruistica «caritas»66 pacificamente affermati dal cristianesimo, Lattanzio – precursore di Agostino – demitizza i valori romani e universalmente terreni della patria, delle «gentis suae leges»67, colpevoli di trasformare in «ius» una logica del tutto parziale e privata dell’appropriazione, della discordia, della violenza imperialistica68; questa infrange l’universale «Dei lex sancta caelestis», intuita da Cicerone69, che pure si è dovuto rassegnare, nel De republica, alla non coincidenza tra «iustitia civilis» e «iustitia naturalis», che soltanto il cristianesimo sarebbe in grado di garantire70.

Grande rilevanza storica assume l’appello alla tolleranza religiosa delle Divinae institutiones, sorretta da un’appassionata, originale apologia della libertà di coscienza71 (pure fondata sull’identificazione tra cristianesimo e vera religione) e dall’argomentazione dell’inutilità, anzi dell’empietà del rito religioso esteriore, se estorto72: «Nihil est enim tam voluntarium quam religio, in qua si animus sacrificantis aversum est, iam sublata, iam nulla est»73. Condotta «per un’intima esigenza di assoluta verità (veritatis ipsius conscientia74, la confutazione dell’ideologia persecutoria è condotta in nome dei profondi valori umani di razionalità e religiosità (monoteistica!) naturalmente inscritta nei cuori degli uomini75. Con il V libro delle Divinae institutiones, definito un manifesto per la libertà religiosa76, Lattanzio lancia così una sfida di civiltà e persino di romanità contro gli ideologi della persecuzione, appellandosi a un tollerante, civile confronto razionale, che sostituisca brutale violenza e disumana ingiustizia che corrodono, anziché rafforzare, il legame tra popolo e res publica77. Si potrebbero pertanto interpretare gli editti imperiali di tolleranza, da Galerio a Costantino/Licinio, come l’accoglimento imperiale dell’appassionata argomentazione razionale lattanziana: evidentemente, la presenza di Lattanzio alla corte di Diocleziano prima e di Licinio(?)/Costantino poi, il suo appello all’humanitas romana, persino i suoi argomenti teologici e filosofici sull’esistenza dell’ira vendicatrice di Dio, potrebbero avere influenzato, se certo non determinato, queste decisioni, affermando la connessione – di straordinaria efficacia teologico-politica – tra monoteismo, onnipotenza, pace, salus e successo mondani.

Per riassumere la teologia politica lattanziana, è preziosa la tarda variante manoscritta attestata all’inizio del I libro delle Divinae institutiones78: si tratta di una dedica all’imperatore Costantino, certamente redatta in Occidente, probabilmente a ridosso dello scontro finale tra Costantino e Licinio (324). Si ritrovano in questo passo tutte le linee guida della teologia politica lattanziana: Costantino regna perché è stato il primo imperatore a rigettare il politeismo; la storia è nelle mani di Dio, che fa prosperare il principe virtuoso e il suo impero, mentre prima o poi abbatte, con la violenza rovinosa della sua ira, quello perverso; la vera religione permette di mantenersi fedeli ai valori di humanitas della civiltà romana, a quella iustitia, negata dal demoniaco potere persecutorio pagano; garanzia di saldezza e durata del potere monarchico è quindi la sua sottomissione alla provvidenza dell’unico Dio, della quale è chiamato a essere strumento. Seppure mai si faccia cenno a Cristo, e il monoteismo cui l’imperatore si è meritoriamente convertito conservi tratti piuttosto generici, Costantino pare essere il punto di miracolosa torsione dell’apocalittica disdetta dell’idolatria tetrarchica in celebrazione teologico-politica dell’«aureum saeculum» romano-cattolico. Rispetto a questa strabiliante conversione romana, religiosa, pubblica, universale, persino l’analisi dei moti della coscienza credente tende a regredire come questione se non oziosa, comunque fuori luogo79. Piuttosto, l’avvento dell’unico imperatore cristiano compie perfettamente il pensiero cristiano-romano di Lattanzio persino da un punto di vista escatologico. Le Divinae institutiones apertamente identificavano l’incolumità di Roma («incolumis urbs Roma»), «caput illut orbis», con la salvezza e la durata del mondo, che essa sostiene come vero e proprio fondamento ontologico provvidenzialmente voluto da Dio: «Illa est civitas quae adhuc sustentat omnia […] lumen illud, cuius interitu mundus ipse lapsurus est»80. In linea con quanto affermato da Tertulliano, il crollo di Roma-katechon coinciderà con l’avvento dell’Anticristo, «tyrannus ille abominabilis», la battaglia finale, la fine del mondo. Ormai soltanto la profezia apocalittica separa, quasi a fatica, la Roma cristianizzata di Costantino dal millennio, quindi dalla stessa beatitudine escatologica81.

Apocalittica e romanitas: il De mortibus persecutorum

Nel tentativo di ricostruzione dell’ideologia costantiniana di Lattanzio, rispetto al ristretto fondamento testuale offertoci dalle tarde integrazioni delle Divinae institutiones, assume ovviamente un ruolo del tutto centrale il de mortibus persecutorum, della cui attribuzione ormai pare difficile dubitare82. Composto tra il 313 (anno del trionfo di Licinio su Massimino Daia, con il quale si conclude l’opera) e il 316 (anno del bellum cibalense, la prima guerra tra Costantino e Licinio, cui non si fa cenno)83, è il primo trattato storiografico cristiano84, che testimonia l’accesso di Lattanzio agli archivi imperiali e/o forse la dipendenza da una oggi perduta Kaisergeschichte, di tendenza filosenatoria85. Vi sono infatti documentati non soltanto i provvedimenti imperiali di tolleranza da Galerio a Licinio, ma gli stessi racconti dei sogni/visioni di Costantino e di Licinio. Ma Lattanzio dove lo ha composto? A Treviri, alla corte di Costantino o ancora in Oriente, presso Licinio86? Pare impossibile risolvere questo rompicapo.

Interpretazioni radicali del de mortibus persecutorum lo vogliono composto nell’ombra di Costantino87, ideologicamente dipendente dalla sua cristianizzazione della tradizionale teologia della vittoria romana88. In effetti, Costantino è lodato come imperatore giusto e pio lungo tutta l’opera, che è l’unico documento che anticipi il mutamento della sua politica religiosa al 30689. Eppure, colpisce nel de mortibus persecutorum.– soprattutto se confrontato con la descrizione degli analoghi eventi nell’eusebiane Historia ecclesiastica e Vita Constantini90 – l’asciuttezza della descrizione della vittoria contro Massenzio, ove ridotti al minimo risultano intervento di Dio e religiosa, riconoscente pietà dell’imperatore vittorioso91: niente di più della rapidissima notizia sul sogno, in particolare sul (l’ambiguo?) segno fatto «notare» sugli scudi dei soldati92 e della descrizione dell’inizialmente incerta, infine provvidenziale93 vittoria. Il testo non registra pubblici rendimenti di grazie a Dio di Costantino (né il de mortibus persecutorum.nota che Costantino non accettò di celebrare il suo trionfo secondo le modalità pagane tradizionalmente prescritte), che piuttosto riceve da popolo romano e Senato entusiasmo, tributi d’onore, titolo di Augusto94. Rispetto alla lucida restituzione delle circostanze politiche capaci di determinare il prevalere di Costantino – la decisiva sollevazione romana contro Massenzio e l’‘oracolo’ sull’invincibilità di Costantino levatosi al circo, non presentato come miracolo di Dio –95, come alla descrizione molto tecnica della battaglia, ove quasi del tutto assente risulta il filtro teologico-provvidenziale96, molto più articolata e teologicamente ispirata risulta la descrizione del ‘corrispondente’ sogno di Licinio – divino vendicatore di Massimino Daia, l’ultimo persecutore –, quindi l’esaltazione della pietà sua e del suo esercito97, concretizzatasi non soltanto nell’angelica dettatura di una preghiera a Dio fatta stenografare dall’imperatore98, quindi in pubblici atti di preghiera subito prima99 e dopo100 lo scontro finale, ma soprattutto nella promulgazione trionfale a Nicomedia dell’editto di Milano, ‘concordato’ con Costantino101 e perfezionato da provvedimenti capaci di restaurare la Chiesa dopo il suo abbattimento102. La stessa crudeltà di Licinio103 dimostrata nello sterminio di vari membri delle famiglie imperiali, donne e bambini compresi, freddamente descritto in de mortibus persecutorum 50,1-51,2, viene a essere senza imbarazzo alcuno salutata come strumento provvidenziale dell’ira di Dio104. Insomma, considerando che il de mortibus persecutorum attribuisce a Licinio la pubblicazione, a Nicomedia, della lettera di tolleranza religiosa (che riecheggia alcuni temi lattanziani), pure attribuita nell’ordine a Costantino e a Licinio, e che non la vittoria di Costantino sull’usurpatore Massenzio, ma la vittoria finale di Licinio sull’imperatore Massimino è esaltata come l’apoteosi del trionfo di Dio sui suoi nemici, non sarebbe azzardato ipotizzare una stesura del de mortibus persecutorum (poco dopo il 313) a Nicomedia, nell’orbita di Licinio, piuttosto che nella Treviri costantiniana. A meno che non si preferisca pensare che Lattanzio fosse stato persino incaricato – forse da Costantino, da Licinio o da entrambi gli imperatori, che ne conoscevano resistenza ai vecchi tetrarchi, fede monoteistica e lotta per la tolleranza religiosa – di celebrare l’alleanza strategica e provvidenziale tra i due nuovi Augusti, suggellata dall’incontro di Milano e dal matrimonio tra Licinio e Costanza. Certo, in tal caso, l’opera di Lattanzio non risulterebbe molto riuscita – cosa strana, trattandosi di oratore e letterato esperto, oltre che provato dalle persecuzioni –, perché comunque troppo sbilanciata a favore del ruolo provvidenziale di Licinio105.

Proprio il modesto livello teologico del de mortibus persecutorum – il cui titolo è citazione di 2 Maccabei 1,17106 – accresce il suo valore storico, mettendo in rilievo la stupita portata del miracolo divino della svolta filocristiana operata dai due tetrarchi vincenti, «principes» che Dio ha voluto «excitare» per abbattere il governo tirannico anticristiano e donare all’umanità una lietificante «pax iucunda et serena»107. Miracolo certo tardo, eppure proprio per questo più severo nella punizione degli empi108 ed eclatante nell’operare la miracolosa resurrezione della Chiesa perseguitata e crocifissa109. Quest’ingenua teodicea – che si nutre non soltanto dei libri maccabaici, ma anche del genere storiografico pagano della «mors tyranni»110 – prospetta una teologia della potenza, del giudizio, della violenza gloriosa che legittimamente il sovrano universale impone, annientando il nemico per esaltare i suoi martiri; le orrende, giuste morti dei persecutori sono, pertanto, vere e proprie teofanie, «magna et mirabilia exempla», capaci di dimostrare l’unicità di Dio111.

Il breve excursus sulla storia delle persecuzioni da Nerone a Decio è pertanto dominato da una prospettiva apocalittica: gli imperatori sono – come indicato dal libro di Daniele e dall’Apocalisse giovannea – bestie demoniache112. Nerone, «execrabilis ac nocens tyrannus […] mala bestia»113, prende il tradizionale posto di Simon Mago come avversario di Pietro: dopo avere ucciso Pietro e Paolo, Dio lo precipita dalla sommità del suo potere114, annientandolo; così si riferisce del rapporto strutturale tra Nerone (primo e ultimo persecutore) e l’Anticristo, identificato con l’araldo del diavolo nell’ultima battaglia escatologica115. Analogamente Domiziano, dopo aver perseguitato vanamente la chiesa, rendendola anzi più fiorente e universale di prima, è cancellato dall’ira di Dio, come testimonia la damnatio memoriae pronunciatane dal Senato di Roma116. La fedeltà dell’autore ai valori romani controbilancia l’apocalittica denuncia di Roma come bestia demoniaca: il diffondersi universale del cristianesimo dopo l’uccisione di Domiziano tende a coincidere con l’estendersi della pacifica civiltà romana e la diffusione degli «iustitiae opera» tra i più lontani popoli selvaggi117. Ma il persecutore Decio, «execrabile animal»118, interrompe la concordia tra legge e vera religione, replicando la parabola apocalittica del perverso innalzato alla sommità del potere, insuperbitosi ed esaltatosi come dio, infine precipitato dal vero Dio nell’abisso119; la stessa descrizione del cadavere nudo di Decio dato in pasto agli uccelli rapaci120 ubbidisce a un evidente topos apocalittico121, come conferma Apocalisse 19,17,21. In Galerio, la consueta accusa di brutale ferinità si accompagna alla denuncia delle origini barbare, per via della madre transdanubiana: «Inerat huic bestiae naturalis barbaries, efferitas a romano sanguine aliena»122; condanna biblica e ideologia della romanitas si armonizzano per affermare l’identità tra cristianità e autentici, eppure traditi valori classici dell’humanitas123. In quest’ottica, un eroico contestatore pagano delle persecuzioni le definisce «victoriae Gothorum et Sarmatorum propositae»124, denunciando il regime tetrarchico come dominio ignobile dei barbari sui romani125. Infine, le terribili descrizioni della morte di Galerio e Massimino, che mescolano testimonianze storiche con suggestioni bibliche, colpiscono per la totale mancanza di pietà evangelica nei confronti di coloro che comunque muoiono invocando il perdono di Cristo126; attestazione di una teologia della potenza ultrice di Dio, culminante nell’orrenda descrizione del massacro sacrificale dell’esercito quasi inerme di Massimino Daia a opera di Licinio127, quindi nella chiusura dell’opera, ove la celebrazione del trionfo millenaristico di Dio nel saeculum è provata tramite l’annientamento dei suoi nemici128.

Una teologia della storia, dimentica della misericordia cristiana come dell’humanitas romana, pare consumare la tensione escatologica unicamente nella celebrazione del trionfo terreno della plebs di Dio, finalmente protetta dal riunificarsi tra apocalittica ira divina e potenza spietata degli eserciti romani. D’altra parte, forse la carta vincente della partita lattanziana è stata proprio la retractatio dell’esangue monoteismo pagano – storicamente astratto con il suo dio remoto, enigmatico, inoperante – nella tremenda rivelazione biblica di un Dio onnipotente, signore della storia, imperator di bene e male, vittoria e rovina, prodigo con i fedeli e terribilmente vendicativo nei confronti dei nemici. Un unico difetto pare turbare, tra le righe, la semplice, ma coerente ideologia del trattato, rispetto alle prospettive delle Divinae institutiones: la provvidenza del Dio cristiano si impone tramite un trionfo binato – Costantino in Occidente, Licinio in Oriente –, quasi a riperpetuare il difetto della divisione tetrarchica dell’unico potere teologicamente fondato. La contingenza storica impedisce la quadratura del cerchio monoteistico-politico: alle bestie apocalittiche non si può ancora sostituire l’immagine di un unico imperatore, analogo al Figlio dell’uomo di Daniele, figura messianica del nuovo Israele universalizzato.

Echi lattanziani nei documenti teologico-politici di Costantino?

Rinunciando a un’analisi rigorosa di lettere e documenti costantiniani, trattata in altre voci, ci si limita qui a segnalare qualche punto di convergenza tra la sua concreta azione teologico-politica, dominata da esigenze di ordine e opportunità politica, e le linee fondamentali dell’apologetica lattanziana, predisposta a divenire ideologia del cristianesimo trionfante129.

Prossima alla prospettiva ancora tollerante delle Divinae institutiones, che condannava qualsiasi culto esteriore imposto, risulta la lettera congiunta di Costantino e Licinio, pubblicata da Licinio a Nicomedia di ritorno dall’incontro in Italia, nota come l’editto di Milano, riportata nel de mortibus persecutorum e con varianti nella Historia ecclesiastica: documento eminentemente politico, concede «sia ai cristiani che a tutti la libera possibilità (libera potestas) di seguire la religione che ognuno si è scelta […] Non si dovrà più negare questa libertà a nessuno che abbia aderito in coscienza (mentem suam dederet) alla religione dei cristiani o a quella che abbia ritenuto la più adatta a sé»130; l’ideale proclamato da Lattanzio, evidentemente condiviso da alcuni ambienti imperiali, pare qui provvidenzialmente proclamato come legge dell’Impero.

Nella più tarda Lettera ai provinciali di Palestina (successiva al 324), riportata in traduzione greca nella Vita Constantini131, l’ingiustizia commessa dagli uomini, in particolare quella dei violenti persecutori che combattono il nomos dell’Onnipotente (27,2), viene duramente colpita da Dio su questa terra, mentre i virtuosi – e Costantino per primo, che deve tutto a Dio (28,2-29,1) – vengono premiati e sostenuti dalla provvidenza (24,2-25; 26,2); opporsi alla potenza eterna di Dio significa danneggiare l’intera res publica (28,1).

Così, l’importante Lettera ai provinciali d’Oriente, coeva alla precedente e riportata in traduzione greca nella Vita Constantini132, è talmente lattanziana da potere essere definita come epitome dell’Epitome delle Divinae institutiones, mostrando la connessione tra l’opera maggiore e de opificio dei, de ira dei, de mortibus persecutorum. Essa esordisce con la consueta argomentazione di teodicea: l’onnipotente provvidenza di Dio, evidente nel meraviglioso ordine del creato (48,1), fa sussistere il male nel mondo (comunque contenuto e infine punito) per far risaltare il bene: «La grazia della virtù rimarrebbe nascosta e incomprensibile se, di contro, la malvagità non proponesse un tipo di vita traviato dalla follia» (48,2). In linea con il de mortibus persecutorum, gli imperatori precedenti, tutti malvagi persecutori, (con l’eccezione di Costanzo Cloro, che avrebbe sempre invocato «il Dio salvatore»), sono definiti «insani di mente», incapaci di mantenere la pace (49,1-2), responsabili della rovina della civiltà romana, superata dai barbari in umanità (53) e comunque puniti con morte infame e damnatio memoriae dall’Onnipotente (54), garante della vittoria e del trionfo dell’imperatore giusto e pio (55,1-2). Il ruolo rivelativo-restaurativo del monoteismo, più antico del politeismo (57), e della giustizia è affidato a Cristo, di cui non si approfondisce minimamente la natura teologica (57), malgrado venga definito «Logos divino» (59), garante del provvidenziale ordine del mondo, nel quale l’unico Dio compone e armonizza la naturale «pluralità delle pulsioni» degli elementi (58,1-59); fondamentale è poi la proclamazione dell’ideale di tolleranza religiosa (da esercitare nei confronti degli stessi pagani resistenti all’affermazione della verità), fondato sull’affermazione della libertà di coscienza, che non può e non deve essere coartata dal potere con la violenza (60,1-2).

Analogamente, la più tarda lettera (di discussa autenticità) di Costantino al re persiano Shabur II133 insiste sulla connessione tra religione monoteistica, pacifica potenza dell’Impero romano e trionfo dell’imperatore pio (9; 10,4), garantito dall’ira di Dio con la morte degli empi e dei persecutori (10,3; 11,1-2, con il riferimento alla morte di Valeriano). La sovrapposizione tra monoteistica rivelazione di Dio e potenza diffusiva di legge e giustizia romane, spinge Costantino a predire il diffondersi universale dell’Impero cristiano: «Dio deciderà di riunire a sé l’umanità intera nella concordia della religione comune» (IV, 12), ove pare riecheggiata la convinzione lattanziana di un monoteismo originario, universalmente attestato dalla natura umana.

Un ultimo indizio della probabilmente diretta influenza di Lattanzio sui documenti ufficiali di Costantino è il Discorso all’assemblea dei santi134, menzionato da Eusebio nella Vita Constantini e riportatoci in traduzione greca da alcuni manoscritti in appendice all’opera; oggi si tende a attribuire allo stesso (entourage di) Costantino quest’importante documento, che dimostra una profonda affinità con le Divinae institutiones di Lattanzio, piuttosto che con le prospettive teologiche eusebiane. In particolare, si è constatata la massiccia utilizzazione dei libri/carmina sibillini cristiani, che sono del tutto assenti o marginali in Eusebio e nella tradizione origeniana. Essi, invece, rivestono un ruolo apologetico rilevante nell’opera di Lattanzio, che presenta ben 57 citazioni di questo falso cristiano; ebbene, nei capitoli 18-19 del Discorso come in Divinae institutiones VII 24,1-12, torna il collegamento tra oracoli sibillini e la IV ecloga virgiliana135, testo del quale si è sopra messa in rilievo la centralità in Lattanzio.

Queste precise, sistematiche, persino raffinate corrispondenze testuali spingono a ipotizzare una profonda influenza teologico-politica di Lattanzio su Costantino, certo favorita dalla condivisione di ideali romani. Proprio la lattanziana ricerca apologetica di mediazione tra religione/cultura/diritto tradizionali romani e rivelazione cristiana, nella postulazione dell’esistenza di valori comuni quali monoteismo, tolleranza religiosa, dibattito intellettuale, ricerca di autentica giustizia politica, può forse illuminare la faticosa ricerca costantiniana di ridurre l’immane frattura che aveva comunque deciso, da cristiano, di introdurre nell’idea e nella politica dell’Impero. Un atto rivoluzionario che, comunque, dovette essere a lungo meditato, a partire da una prospettiva nella quale politica e religione erano inseparabili: promuovere la pace, incrementare il dialogo culturale e religioso favorendo prospettive monoteistiche, rafforzare il governo universale di Roma sostenuto dalla provvidenza, non rompere radicalmente con le tradizioni religiose romane (almeno fino al 324), ubbidivano comunque al fine supremo di persuadere alla vera religione, di convertire gradualmente il mondo all’Onnipotente che, premiando la sua pietas, aveva innalzato alla monarchia universale un uomo alla ricerca dell’Uno e del suo ordine provvidenziale136. Chiaramente, dopo la definitiva sconfitta di Licinio e l’attingimento della monarchia assoluta, la necessità di mediazione politica con le resistenze pagane tende a scemare, seppure non a cessare137. Proprio questa novità sembra caratterizzare l’altissimo encomio dell’imperatore aggiunto al VII libro delle Divinae institutiones138: Costantino non è più soltanto il sovrano finalmente monoteista, tollerante, provvidenzialmente premiato da Dio per la sua ricerca di giustizia e pietas, ma ormai l’unico «sanctissimus» eletto di Dio, illuminato dalla sua giustizia trascendente, che gli chiede di mediarla al mondo quale universale manifestazione della «maiestas» divina. La lotta per la tolleranza religiosa, l’appello all’humanitas classica e alla iustitia romana, la tendenziale convergenza tra religione monoteistica e prosperità pacifica dell’Impero, insomma la strategia lattanziana di una progressiva, razionale e politica introduzione della civiltà romana sulla via della salvezza139, sembrano davvero compiute e superate nella definizione di una teologia politica sacralizzata, avviata verso quella liturgia dell’imperatore immagine di Dio che presto verrà proclamata da Eusebio.

1 Cfr. Hier., vir. ill. 80. In epist. 58,10 e 70,5, Girolamo dichiara di apprezzare l’eloquenza di Lattanzio, ma ne segnala debolezza teologica ed eccessiva dipendenza da Cicerone.

2 Cfr. Lact., inst. V 2,2; e E.G. Turner, Latin versus Greek as a Universal Language. The Attitude of Diocletian, in Language and Society. Essays Presented to Arthur M. Jensen on His Seventieth Birthday, Copenhagen 1961, pp. 165-168.

3 Cfr. Lact., inst. V 2,2 e 11,15, che pare autobiografico: si fa riferimento al governatore della Bitinia (quasi sicuramente Ierocle Sossiano, oggetto di violento attacco in V 2,12-17) «gaudio mirabiliter elatus» per essersi illuso che un cristiano (Lattanzio?) «qui per biennium magna virtute resisterat, postremo cedere visus esset». Considerando che la persecuzione di Diocleziano è avviata nel 303, il fatto va datato al 305 circa; probabilmente, il cedimento apparente (?) di Lattanzio, se gli risparmiò la persecuzione, comunque ne mise in crisi il ruolo alla corte di Nicomedia.

4 Cfr. Hier., vir. ill. 80: «Hic in extrema senectute magister caesaris Crispi, filii Constantini, in Gallia fuit, qui postea a patre interfectus est».

5 Cfr. Ch. Matson Odhal, Constantine and the Christian Empire, London-New York 2004, pp. 124-129; E. DePalma Digeser, Lactance and Constantine’s Letter to Arles: Dating the Divine Institutes, in Journal Early Christian Studies, 2 (1994), pp. 33-52; Id., The Making of a Christian Empire. Lactantius and Rome, Ithaca-London 2000, pp. 135-136, ove, datata la nascita di Crispo tra il 300 e il 305, si propone il 310 come data del trasferimento a Treviri di Lattanzio come suo precettore. Più complessa la tesi di T.D. Barnes, Constantine and Eusebius, Cambridge (MA) 1981, p. 13, ove si ipotizza che Lattanzio sia stato precettore di Crispo tra il 309 e il 313, per ritornare quindi a Nicomedia, presso Licinio; il che spiegherebbe al tempo stesso le sue informazioni recentissime sulla conversione di Costantino e il ruolo fortemente positivo di Licinio nel mort. pers. Più semplicemente preferiamo posticipare al 315 il trasferimento di Lattanzio da Nicomedia a Treviri.

6 Cfr. J. Stevenson, The Life and Literary Activity of Lactantius, in Studia patristica, 1 (1957), pp. 661-677, in partic. 670-673.

7 E. Heck, Die dualistischen Zusätze und die Kaiseranreden bei Lactantius. Untersuchungen zur Textgeschichte der Divinæ Institutiones und der Schrift De opificio Dei, Heidelberg 1972, data la prima dedica a Costantino (inst. I 1,13-15) al 324, in quanto ancora si fa cenno a una persecuzione in corso; la seconda (VII 27,11-15), trionfalistica, al 325, dopo la vittoria finale su Licinio nuovo persecutore. Lattanzio sarebbe morto prima di rendere finalmente coerenti le diverse aggiunte. Diversa la tesi di J. Stevenson, The Life and Literary Activity of Lactantius, cit., pp. 671-672; ripresa da Ch. Matson Odahl, God and Constantine. Divine Sanction for Imperial Rule in the First Christian Emperor’s Early Letters and Art, in The Catholic Historical Review, 81,3 (1995), pp. 327-372, in partic. 337-338; Id., Constantine and the Cristian Empire, cit., p. 328 nota 10; e da E. DePalma Digeser, Lactantius and Constantine’s Letter to Arles, cit.; Id., The Making of a Cristian Empire, cit., p. 134: la prima dedica risalirebbe al 310 circa, quando le persecuzioni in atto sarebbero ancora quelle tetrarchiche, mentre l’ultima sarebbe di poco successiva al 313, quando Lattanzio avrebbe già raggiunto Treviri. Continuiamo a preferire l’ipotesi di Heck.

8 Per un apprezzamento della cultura biblica di Lattanzio, che si vuole riscattata rispetto alla tesi corrente di una sostanziale dipendenza da Cipriano, cfr. l’imponente monografia di P. Monat, Lactance et la Bible. Une propédeutique latine à la lecture de la Bible dans l’Occident constantinien, 2 voll., Paris 1982; per un esempio più specifico, cfr. Id., La présentation d’un dossier biblique par Lactance: le sacerdoce du Christ et celui de Jésus, fils de Josédec, in Lactance et son temps. Recherches actuelles, Actes du IVe Colloque d’Études Historiques et Patristiques (Chantilly 21-23 septembre 1976), éd. par. J. Fontaine, M. Perrin, Paris 1978, pp. 272-292.

9 Cfr. V. Loi, Lattanzio nella storia del linguaggio e del pensiero teologico pre-niceno, Zurigo 1970.

10 Cfr., ad esempio, Lact., inst. V 4,3.

11 Sull’utilità di esporre con eloquenza e razionale sistematicità le verità della religione salvifica, cfr. Lact., inst. I 1,7-10; III 1,1-2; V 4,8.

12 Cfr. in Lact., inst. III 3,1-6,8, la lunga trattazione scetticheggiante sulla vanità filosofica. Sulla dipendenza dell’intera argomentazione dal De philosophia di Varrone, cfr. Aug., civ. XIX 1-3. Si noti che, in De ira Dei 9,3, Lattanzio afferma – in analogia con la sua storia delle religioni –, l’origine univoca della filosofia, quindi il suo decadere, dividendosi in pluralità contraddittoria di dottrine: cfr. M. Perrin, Le Platone de Lactance, in Lactance et son temps, cit., pp. 203-234, in partic. 207-208. Interesse storico e abbozzo di storia delle religioni sono le novità apologetiche principali di Lattanzio: cfr. J.-C. Fredouille, Lactance historien des religions, in Lactance et son temps, cit., pp. 237-249.

13 Sul graduale passaggio dal monoteismo, tramite lo smarrimento ateo della conoscenza dell’unico vero Dio, al demoniaco errore politeistico, connesso all’evemeristica divinizzazione del potere politico, cfr., soprattutto, Lact., inst. II 13,4-13; in partic. 13: «Errant igitur qui deorum cultus ab exordio rerum fuisse contendunt et priorem esse gentilitatem quam Dei religionem, quam putant posterius inventam, quia fontem atque originem veritatis ignorant».

14 Sulla coincidenza, in Cristo, di sapienza e religione e sulla convergenza tra gnosi filosofica e teoria romana della religione, cfr. A. Wlosok, Laktanz und die philosophische Gnosis. Untersuchungen zu Geschichte und Terminologie der gnostischen Erlösungsvorstellung, Heidelberg 1960, pp. 210-215.

15 Cfr. Lact., inst. V 1,11.

16 Cfr. Lact., inst. V 2,1-4,7. Sull’identificazione dell’anonimo filosofo qui combattuto con Porfirio, cfr. E. DePalma Digeser, The Making of a Cristian Empire, cit., pp. 93-107.

17 Per un’introduzione al contesto storico, nel passaggio dalle persecuzioni tetrarchiche alla svolta costantiniana, cfr. M. Simonetti, Il vangelo e la storia. Il cristianesimo antico (secoli I-IV), Roma 2010, pp. 187-200; e G. Filoramo, La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori, Roma-Bari 2011, pp. 88-136, in partic. 91-104.

18 Cfr. le testimonianze riportate da F. Kolb, Diocletian und die erste Tetrarchie. Improvisation oder Experiment in der Organisation monarchischer Herrschaft?, Berlin 1987; Id., L’ideologia tetrarchica e la politica religiosa di Diocleziano, in I cristiani e l’impero nel IV secolo: Colloquio sul cristianesimo nel mondo antico, Atti del Convegno (Macerata 17-18 dicembre 1987), a cura di G. Bonamente, A. Nestori, Macerata 1988, pp. 17-44, in partic. 29-31: l’interpretazione lattanziana dell’età tetrarchica come ferrea età di Giove è il rovesciamento dell’ideologica esaltazione della pace dioclezianea come rediviva età dell’oro; come vedremo, sono strutturali le corrispondenze tra inst. e mort. pers.

19 F. Kolb, L’ideologia tetrarchica, cit., pp. 22-30, in partic. 22: «[…] Giove ed Ercole. Non c’è dubbio che questi ultimi dèi, il supremo dio dello stato ed il dio-eroe simbolizzante l’imperatore nella sua attività incessante di liberare il mondo da ogni male, si trovino nel centro della politica religiosa di Diocleziano».

20 F. Kolb, L’ideologia tetrarchica, cit., pp. 25 e 27.

21 Cfr. F. Kolb, L’ideologia tetrarchica, cit., p. 28.

22 Porfirio, I frammento dell’ed. von Harnack di Porphyrius “Gegen den Christen”, Berlin 1916 = Eus., p.e. I 2,1.

23 Cfr. Costantino, Epistula ad episcopos et plebem, in Gel. Cyz., h.e. II 36 e Socr., h.e. I 9.

24 Lact., inst. I 3,1: «utrum potestate unius Dei mundus regatur anne multorum»; cfr. Lact., epit. 1,3-2,1.

25 Lact., inst. I 3,4; 9 e 11: «Potestas enim vel virtus absoluta retinet suam propriam firmitatem […] Quidquid enim capit divisionem, et interitum capiat necesse est […] consequens est ut dividi potestas divina non possit […] Ita fit ut ad regendum mundum unius perfecta virtute opus sit quam imbecillitate multorum»; cfr. Lact., inst. I 3,12-24. Oltre ai saggi di F. Kolb, cfr. E. DePalma Digeser, The Making of a Cristian Empire, cit., pp. 32-40.

26 Lact., mort. pers. 7,1-2: «Diocletianus, qui scelerum inventor et malorum machinator fuit, cum disperderet omnia, ne a Deo quidem manus potuit abstinere. Hic orbem terrae simul et avaritia et timiditate subvertit. Tres enim participes regni sui fecit in quattuor partes orbe diviso et multiplicatis exercitibus, cum singuli eorum longe maiorem numerum militum habere contenderent, quam priores principes habuerant, cum soli rem publicam gererent».

27 Cfr. Lact., inst. I 3,2-3 e 5-6.

28 Cfr. Lact., inst. I 3,19; IV 3,11-4,9; IV 12,20; epit. 2,2-6, ove l’analogia teologico-politica fa definire l’universo, retto da Dio «unicus moderator», come «haec mundi res publica» (epit. 2,5); cfr. Lact., ira 10,42.

29 Lact., inst. I 8,4: «Apparet Herculem Apollinem Liberum Mercurium Iovemque ipsum cum ceteris homines fuisse, quoniam sunt ex duobus sexibus nati». Cfr. Lact., inst. I 11,50-54; 15,1-33. Sull’esplicita chiamata in causa di Evemero, cfr. Lact., inst. I 11,33; 22,27; epit. 13,2-4; 19,4; ira 11,8. La fonte di Lattanzio è comunque la Sacra historia di Ennio, probabilmente mediata da Cicerone: cfr., ad esempio, inst. I 11,34; 63; epit. 13,3.

30 Cfr. Lact., inst. I 10,10-11,63; I 12,22-28; I 9,1. Sulla demitizzazione lattanziana di Ercole-Massimiano, cfr. E. DePalma Digeser, The Making of a Cristian Empire, cit., pp. 38-39, che giustamente mette in connessione la descrizione di Massimiano ‘Erculio’ come forte, violento e libidinoso in Lact., mort. pers. 8,1-6 con la descrizione evemeristica del bestiale Ercole (invero non del tutto corrispondente all’eroe del mito) divinizzato per la sua sanguinaria potenza in Lact., inst. I 18,3-17.

31 Il re Giove è colui che, mosso da perverse «insolentia…, superbia», introduce e contribuisce a diffondere una «falsa religio» incentrata sulla divinizzazione del sovrano: cfr. Lact., inst. I 22,21-28.

32 Cfr. Lact., inst. I 10,10 e 11,3; I 12,10; I 13,1 e 5; I 14,11-12; V 5,9, ove Giove è definito «propemodum parricida»; il fondamentale V 6,1-12. Su violenza e sangue connessi geneticamente alla divinizzazione del potere politico, cfr. I 18,6-17. Probabilmente, Lattanzio fa riferimento anche all’origine ‘parricida’ dell’Impero di Diocleziano, asceso al potere supremo dopo la morte misteriosa di Numeriano e la sconfitta in battaglia di Marco Aurelio Carino, figlio ed erede dell’imperatore Marco Aurelio Caro, che aveva innalzato ai vertici del suo esercito l’ingrato Diocle/Diocleziano. Cfr. E. DePalma Digeser, The Making of a Cristian Empire, cit., pp. 36-37.

33 Lact., inst. I 10,10. Su Giove come re divinizzato, cfr. I 11,44-49; sull’opposizione tra «aureum […] pium saeculum» saturnino e l’ingiusto regno di Giove, cfr. in partic. 50-51. In I 11,61, si riporta una citazione di Ermete Trismegisto, Asclepius 11 = Corpus hermeticum X,5, che inserisce Saturno tra quei pochi nei quali anticamente rifulgeva la «perfecta doctrina» teologica. In Lact., inst. I 11,45, l’esaltazione di Giove come re giusto citata da Ennio è negativamente restituita da Lattanzio.

34 Lact., mort. pers. 52,3.

35 Cfr. Lact., inst. I 11,50: nell’«aureum […] ac pium saeculum» regna monoteistica «iustitia»; fondamentale l’excursus in V 5,9-6,13, in partic. 6,6-8.

36 Cfr. Lact., inst. I 13,15.

37 Cfr. Lact., inst. I 13,12-13.

38 In Lact., inst. I 15,29-30, la divinizzazione di Cesare è attribuita ad Antonio, «homo sceleratus»; rivelativo che nessun rimprovero sia mosso in proposito ad Augusto.

39 Lact., inst. I 11,7-8: «Video alium deum regem fuisse primis temporibus, alium consequentibus. Potest ergo fieri ut alius postea sit futurus. Si enim prius regnum mutatum est, cur desperemus etiam posterius posse mutari?… Potest ergo Iuppiter regnum amittere, sicut pater eius amisit? Ita plane».

40 Lact., inst. V 10,18: «Sic fit ut vitam colentium Deus pro qualitate numinis sui formet, quoniam religiosissimus est cultus imitari».

41 La tesi di E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem, Leipzig 1935 (trad. it. Il monoteismo come problema politico, Brescia 1983), può qui trovare una sua conferma: come nel caso ‘negativo’ di Eusebio, Lattanzio – pure sorprendentemente mai citato, malgrado si tratti del parallelo Augusto-Costantino (cfr. 62-63) e della genesi della teologia della storia cristiana – concepisce l’ambito del politico a) come analogo all’ambito del teologico, quindi necessariamente assoluto e indiviso, in quanto monoteisticamente fondato; b) come storica, provvidenziale immanentizzante del regno escatologico, del quale si finisce per perdere l’assoluta eccedenza.

42 In Lact., inst. IV 14,17-20, Cristo, «princeps angelorum», riceve il «Dei nomen» come premio della sua umiltà kenotica; egli non si è mai proclamato Dio, altrimenti avrebbe contraddetto la sua missione rivelativa, che era quella di riportare l’umanità dal culto demoniaco politeista alla salvifica religione monoteistica (cfr. 18-20).

43 Cfr. Lact., inst. II 8,3-6. Cfr., inoltre, il fondamentale excursus di VI 3,13-6,3.

44 Cfr. Lact., inst. II 8,6,3-5.

45 Cfr. Lact., inst. IV 8,6-16.

46 Cfr. Lact., inst. IV 6,1-3.

47 Cfr. Lact., inst. IV 29,1-15; IV 24,1-25,10. In proposito, cfr. V. Loi, Cristologia e soteriologia nella dottrina di Lattanzio, in Rivista di storia e letteratura religiosa, 4 (1968), pp. 259-260; e B. Studer, La sotériologie de Lactance, in Lactance et son temps, cit., pp. 253-271.

48 Cfr Lact., inst. II 9,11-14.

49 Sulla ricorrente opposizione Oriente (luce, regno dell’unico Dio)/Occidente (tenebra, regno del disordine) e sulla sua latente interpretazione politica (il trasferimento di Lattanzio in Occidente presso Costantino pare ancora lontano), cfr. Lact., inst. I 11,31; II 9,5-6; II 9,11; in VII 15,11, identificato l’oriente con il barbaro nemico escatologico e l’Occidente con Roma che nella persecuzione finale sarà costretta a soccombere, la consueta tipologia ovviamente cade.

50 Cfr. Lact., inst. II 9,11-14.

51 Cfr. Lact., inst. II 12,7-9.

52 Lact., inst. II 9,13.

53 Lact., inst. VI 4,15: «Imperator noster Deus»; Lact., inst. VI 8,8: «Unus erit communis quasi magister et imperator omnium Deus». Secondo Lact., inst. I 3,4-5, Dio è «potestas vel virtus absoluta […] potentissimus rex qui totius orbis habet imperium […] Deus vero si perfectus est, ut esse debet, non potest esse nisi unus, ut in eo sint omnia»; cfr. I 3,6-19; VI 8,12.

54 Lact., inst. V 22,17: «Quomodo enim potest imperator militum suorum probare virtutem, nisi habuerit hostem?»; cfr. V 19,25. Su Deus imperator che chiama a sconfiggere l’«adversarius», «princeps daemonum» (VII 24,5; 26,1; II 14,5), cfr. VI 4,1-24; VI 8,12; VII 27,15-16.

55 Lact., inst. IV 7,4 e 7-8: «Nam Christus non proprium nomen est, sed nuncupatio potestatis et regni; sicut enim Iudaei reges suos appellabant […] Nos eum Christum nuncupamus, id est unctum, qui hebraeice Messias dicitur […] Sed tamen utrolibet nomine rex significatur»; cfr. IV 12,6-20.

56 Lact., inst. V, 5,3: «Saturno enim regnante, nondum deorum cultibus institutis nec adhuc illa gente ad divinitatis opinionem consecrata, Deus utique colebatur». Sull’interpretazione evemeristica di Saturno, cfr. Lact., inst. I 11,61; 13,1-14; IV 7,4-8.

57 Lact., inst. IV 12,21-22. Sul carattere fortemente millenaristico dell’apocalittico trionfo terreno di Cristo con i suoi giusti (i corpi dei quali non moriranno e genereranno un’«infinita multitudo»), che, legato il diavolo, durerà per mille anni, cfr. VII 14,9-14; 24,1-8; 26,1-5; in partic. 24,7-8; 24,15.

58 Lact., inst. IV 12,20 e V 6,6; cfr. V 7,10; VII 2,1. Del mito dell’«aureum saeculum» di Saturno si tratta in I 11,50-53; VII 24,8-9; epit. 20,1 e soprattutto il fondamentale excursus di Lact., inst. V 5,1-6,13, ove la fine dell’età d’oro è fatta coincidere con l’usurpazione del potere divino da parte di Giove. Sul politeismo come causa unica della presenza del male nel mondo, che sparirebbe se il mondo si convertisse alla vera religione cristiana, coincidente con quel monoteismo originario professato nel secolo aureo dai pagani, cfr. la visionaria e millenaristica invocazione di Lact., inst. V 8,6-8.

59 Lact., inst. VII 2,1: «Dispositione summi Dei sic ordinatum, ut iniustum hoc saeculum decurso temporum spatio terminum sumat extinctaque protinus omni malitia et piorum animis ad beatam vitam revocatis quietum tranquillum pacificum, aureum denique ut poetae vocant saeculum Deo ipso regnante florescat».

60 Cfr. Lact., inst. V 7,1-10, in partic. 2.

61 Cfr. V. Loi, I valori etici e politici della romanità negli scritti di Lattanzio, in Salesianum, 4 (1966), pp. 37-96.

62 Lact., mort. pers. 2,6. Cfr. Lact., inst. IV 13,1.

63 Lact., inst. V 17,6: «Nam Plato et Aristoteles […] depingebant verbis et imaginabantur iustitiam quae in conspectu non erat, nec praesentibus exemplis confirmare poterant quae adserebant […] Nos autem non verbis modo, sed etiam exemplis ex vero petitis vera esse quae a nobis dicuntur ostendimus». Cfr., in Lact., inst. V 14,13, il riconoscimento del monoteismo filosofico di Platone, meritorio, ma puramente immaginario, sterile, incapace di divenire pubblica religio: «Plato quidem multa de uno Deo locutus est […] sed nihil de religione; somniaverat enim Deum, non cognoverat».

64 Lact., inst. IV 25,2: «Nam cum iustitia nulla esset in terra, doctorem misit quasi vivam legem, ut nomen ac templum novum conderet, ut verum ac pium cultum per omnem terram et verbis et exemplo seminaret».

65 Cfr. Lact., inst. IV 16,4; 23,10; epit. 45,4.

66 Cfr. Lact., inst. VI 12,1-4; epit. 29,6.

67 Cfr. Lact., inst. VI 9,2; cfr. VI 9,1-7.

68 Cfr. Lact., inst. VI 6,18-25. cfr., in Lact., inst. V 14,3-7; V 16,1-13; V 17,9-16, i riferimenti, pure critici, alle spregiudicate argomentazioni di Carneade, scettiche nei confronti dell’esistenza della giustizia tra gli uomini, perseguita soltanto contro il proprio interesse, quindi a prezzo della follia. Sallustio è citato in I 21,41; II 12,12; VI 18,26.

69 Cfr. Lact., inst. VI 8,6-12.

70 Cfr. Lact., inst. V 16,12-13. Cfr. in proposito E. Heck, Iustitia civilis-iustitia naturalis: à propos du jugement de Lactance concernant les discours sur la justice dans le De republica de Cicéron, in Lactance et son temps, cit., pp. 171-184; Ch. Ingremeau, Lactance et la justice dans le livre V des Institutions Divines, in Régards sur le monde antique: hommages a Guy Sabbah, éd par M. Piot, Lyon 2002, pp. 153-162; e Id., Lactance et la justice: du livre V au livre VI des Institutions Divines, in Autour de Lactance: hommages à Pierre Monat, a cura di J.-Y. Guillaumin, S. Ratti, Besançon 2003, pp. 53-62.

71 Cfr. Lact., inst. V 19,11-13. La lunga argomentazione a favore della tolleranza e della libertà di coscienza religiosa, presupposto il legame tra culto autentico e autonoma razionalità, è in V 19,1-20,15.

72 Cfr. Lact., inst. V 20,7-9. Sulla peculiarità e storica novità delle richieste cristiane di tolleranza religiosa, cfr. P. Garnsey, Religious Toleration in Classical Antiquity, in Persecution and Toleration, ed. by W.J. Shiels, Oxford 1984, pp. 1-27, in partic. 16.

73 Lact., inst. V 19,23.

74 Lact., inst. V 4,1.

75 Lact., inst. V 19,3 e 7: «Ratione abdicant, dum alienis erroribus credunt […] contra ius humanitatis, contra fas omne».

76 Cfr. M. Perrin, La “Révolution Constantinienne” vue à travers l’oeuvre de Lactance (250-325 ap. J.C.), in Le Cahiers de Fontanay 63-64. L’Idée de révolution, Fontanay 1991, pp. 81-94, in partic. 88.

77 Lact., inst. V 19,9: «Et quoniam vi nihil possunt – augetur enim religio Dei quanto magis premitur –, oratione potius et hortamentis agant». Cfr. H.A. Drake, Constantine and the Bishops. The Politics of Intolerance, Baltimore-London 2000, pp. 207-212.

78 Cfr. Lact., inst. I 1,13-16.

79 Cfr. M. Perrin, La “Révolution Constantinienne”, cit., pp. 91-92; G. Bonamente, La “svolta costantiniana”, in Chiesa e impero. Da Augusto a Giustiniano, a cura di E. dal Covolo, R. Uglione, Roma 2001, pp. 145-170, in partic. 146-147 e 169-170.

80 Lact., inst. VII 25,8.

81 Cfr. in Lact., epit. 66,1-67,8, la descrizione della fine apocalittica del mondo: progressivo sfaldarsi della res publica universale, scindersi dell’unico potere imperiale, venir meno della potenza del suo esercito, trionfo di violenza, ingiustizia, libidine, perdita della libertà, sino al ritorno di Cristo, instaurazione del millennio, scontro finale e avvento del regno escatologico. Cfr. Lact., inst. VII 15,7-17,11, ove, con un intreccio tra testi apocalittici e oracoli pagani, la decadenza ultima del saeculum viene fatta coincidere con la caduta di Roma e della sua gloria universale, soppiantata dall’oriente barbaro.

82 Per la ricostruzione della disputa secolare sull’autenticità dell’opera, cfr. Lactance, De la mort des persécuteurs, éd. par J. Moreau, I, Paris 1954, pp. 22-33; F. Corsaro, Lactantiana: sul De mortibus persecutorum, Catania 1970.

83 Poco convincente la proposta di datare l’opera tra il 318 e il 321, avanzata da Jacques Moreau in Lactance, De la mort des persécuteurs, cit., pp. 34-37; e rilanciata da A.S. Christensen, Lactantius the Historian, Copenhagen 1980, pp. 21-26. Tenute per ferme autenticità lattanziana dell’opera e intimità crescente tra Lattanzio e Costantino, pare improbabile datare il de mortibus persecutorum dopo il 316 (anno del bellum cibalense), considerato l’alto apprezzamento di Licinio attestatovi. Per una datazione non successiva al 314/315, cfr. L. De Salvo, A proposito della datazione del De mortibus persecutorum, in Rivista di storia della chiesa in Italia, 31 (1977), pp. 482-484; Lactantius, De mortibus persecutorum, ed. by J.L. Creed, Oxford 1984, pp. XXXIII-XXXV.

84 Si tratta della cosiddetta Enmann’s Keisergeschichte; cfr. A. Enmann, Eine verlorene Geschichte der römischen Kaiser und das Buch De viris illustribus urbis Romae, in Philologus, suppl. 4 (1884), pp. 337-501. Cfr. T.D. Barnes, The lost Kaisergeschichte and the Latin historical Tradition, in Bonner Historia-Augusta-Colloquium 1968/69, ed. J. Straub, Bonn 1970, pp. 13-43; A.S. Christensen, Lactantius the Historian, cit., pp. 49-64 e 72-81; Lactance, De la mort des persécuteurs, cit., pp. 44-51; G. Zecchini, La storiografia da Lattanzio ad Orosio, in I cristiani e l’impero nel IV secolo, cit., pp. 171-180; F. Winkelmann, Historiography in the Age of Constantine, in Greek and Roman Historiography in Late Antiquity. Fourth to Sixth Century A.D., ed by G. Marasco, Leiden-Boston 2003, pp. 3-41, in partic. 10-14 e 31-34; F. Amarelli, Il De mortibus persecutorum nei suoi rapporti con l’ideologia coeva, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 36 (1970), pp. 207-264.

85 Cfr. G. Zecchini, La storiografia da Lattanzio ad Orosio, cit., pp. 173-175.

86 Sul de mortibus persecutorum, redatto a Nicomedia presso la corte di Licinio, cfr. T.D. Barnes, Constantine and Eusebius, cit., p. 14, che corregge quanto affermato in Id., Lactantius und Constantine, in Journal of Roman Studies, 63 (1973), pp. 29-46, in partic. 40, ove si sosteneva che Lattanzio avesse ricevuto in Occidente, presso Costantino, documenti ufficiali inviatigli dall’Oriente su politica imperiale e persecuzioni. Anche F. Winkelmann, Historiography in the Age of Constantine, cit., pp. 31-32, colloca la redazione del de mortibus persecutorum in Oriente, sottolineando come esso non possa essere un testimone costantiniano degli eventi.

87 Sui rapporti tra Lattanzio e Costantino, stimolante risulta l’innovativo volume di R. van Dam, Remembering Constantine at the Milvian Bridge, New York 2011, in partic. pp. 106-218, ove si sottolinea il ruolo ideologico ricoperto da Lattanzio nella svolta di Costantino.

88 Cfr. F. Heim, L’influence exercée par Constantin sur Lactance: sa théologie de la victoire, in Lactance et son temps, cit., pp. 55-74; più in generale, Id., La théologie de la victoire de Constantin à Théodose, Paris 1992.

89 Cfr. Lact., mort. pers. 24,9.

90 Cfr. Eus., h.e. IX 9,2-11; v.C. I 37,1-41,2.

91 Si consideri, in tal senso, anche il rigore storico con cui si tratta di Costanzo Cloro: Lact., mort. pers. 15,7 sottolinea come anch’egli abbia messo in pratica l’Editto dioclezianeo di persecuzione, se non mandando a morte i cristiani, almeno distruggendone le chiese; la notizia eusebiana in Eus., h.e. VIII 13,12-14 è invece ‘agiografica’: Costanzo, simpatizzante della vera religione, non solo non avrebbe perseguitato alcun cristiano, ma non avrebbe fatto distruggere alcuna chiesa.

92 Si noti la secchezza della descrizione del celeberrimo evento: Lact., mort. pers. 44,5-6: «Commonitus est in quiete Constantinus ut caeleste signum Dei notaret in scutis atque ita proelium committeret. Facit ut iussus est et tranversa X littera summo capite circumflexo, Christum in scutis notat. Quo signo armatus exercitus capit ferrum». Sul tentativo di determinare l’esatta grafia del segno, sulla sua sostanziale (prevista dallo stesso Costantino?) ambiguità – sicché la croce monogrammatica poteva essere al tempo stesso interpretata come segno cristiano e come segno solare pagano, forse egiziano –, persino sull’ipotesi radicale di un’interpolazione del passo relativo, cfr. l’interessante contributo di J. Rougé, Á propos du manuscrit du “De mortibus persecutorum”, in Lactance et son temps, cit., pp. 13-23, in partic. 19-22; ritengo l’inverificabile ipotesi di un’interpolazione inverosimile per la modalità troppo allusiva e appunto ambigua della descrizione e per la coerenza della natura cristiana del segno con la politica apertamente filocristiana di Costantino imperatore, dichiarata in Lact., mort. pers. 24,9. Sulla relazione tra segno, innovative decisioni di Costantino nei confronti dei riti pagani di vittoria da celebrare a Roma e necessaria prudenza politica dell’imperatore chiamato a mediare fra tradizioni religiose contrastanti, cfr. K.M. Girardet, Die konstantinische Wende. Voraussetzungen und geistige Grundlagen der Religionspolitik Konstantins des Großen, Darmstadt 2006, pp. 37-38 e 74-80; A. Fraschetti, La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana, Roma-Bari 1999; H.A. Drake, Constantine and the Bishops, cit., pp. 154-191. Sulla questione del sogno/visione, cfr. M. Dimaio, J. Zeuge, N. Zotov, Ambiguitas Constantiniana. The cæleste signum Dei of Constantine the Great, in Byzantion, 58 (1988), pp. 333-360; H.R. Seeliger, Die Verwendung des Christogramms durch Konstantin im Jahre 312, in Zeitschrift für Kirchengeschichte, 100 (1989), pp. 149-168; H. Brandt, Die heidnische Vision Aurelians (HA, A 24, 2-8) und die christliche Vision Konstantins des Großen, in Historiae Augustae Colloquium Maceratense, a cura di G. Bonamente, G. Paci, Bari 1995, pp. 107-117.

93 Rispetto alla natura lapidaria, eppure quasi evasiva della notazione «Et manus Dei supererat aciei» (Lact., mort. pers. 44,9), accurata e sistematica la messa in rilievo dell’intervento di Dio nella descrizione della battaglia decisiva tra Licinio e Massimino; cfr. 46,10: l’esercito di Massimino sente l’esercito di Licinio pregare; 46,11: l’esercito di Licinio ripete «tre volte (ter)» la preghiera, che rende i soldati di Licinio, in netta minoranza, «pleni» di una miracolosa «virtus».

94 Cfr. Lact., mort. pers. 44,10-11.

95 Cfr. Lact., mort. pers. 44,7.

96 Cfr. Lact., mort. pers. 44,3 e 9-10.

97 Cfr A.S. Christensen, Lactantius the Historian, cit., pp. 27-41.

98 Cfr. Lact., mort. pers. 45,5-7.

99 Cfr. Lact., mort. pers. 46,10. La preghiera di Licinio e dell’esercito corrisponde alla richiesta divina formulata in sogno a Licinio: cfr. 46,3.

100 Lact., mort. pers. 48,1: «[…] et Nicomediam ingressus gratiam Deo, cuius auxilio vicerat, retulit».

101 Cfr. Lact., mort. pers. 48,2-12.

102 Cfr. Lact., mort. pers. 48,13.

103 In Lact., mort. pers. 50,4-5 e 6, certo qualche ombra pare essere gettata sull’onestà e sull’umanità di Licinio: «Qui omnes Licinium iam pridem quasi malum metuentes» (5).

104 Cfr. Lact., mort. pers. 50,1 e 8.

105 Presenti, ma ben più misurate le lodi di Licinio, comunque subordinato a Costantino («secondo dopo di lui»), in Eus., h.e. IX 9,1-13, in particolare nella variante di alcuni manoscritti in 9,1; X 2,2; 4,16; 4,60; la tarda persecuzione anticristiana di Licinio è attribuita, in aggiunte eusebiane in IX 9,1e12 e X 8,2-9,6, a un suo «essere divenuto folle».

106 Sulla dipendenza del de mortibus persecutorum, dai libri maccabaici, cfr. J. Rougé, Le De mortibus persecutorum 5e livre des Macchabées, in Texte und Untersuchungen, 115 (1976), pp. 135-143.

107 Lact., mort. pers. 1,3.

108 Lact., mort. pers. 1,6: «Sero id quidem, sed graviter et digne»; Lact., mort. pers. 1,8: «quatenus virtutem ac maiestatem suam in extinguendis delendisque nominis sui hostibus Deus summus ostenderit».

109 Cfr. Lact., mort. pers. 1,2.

110 Sul ‘materialismo’ della teologia della storia provvidenzialistica di Lattanzio, debitrice dell’ideologia romana della «pax deorum», cfr. W. Kirsch, Triebkräfte der historischen Entwicklung bei Laktanz, in Klio, 66 (1984), pp. 624-630. Sulla dipendenza di Lattanzio da generi storici pagani, dalla «mors tyranni» agli «exitus virorum inlustrium», cfr. G. Zecchini, La storiografia da Lattanzio ad Orosio, cit., pp. 176-178.

111 Lact., mort. pers. 1,7: «magna et mirabilia exempla, quibus posteri discerent et Deum esse unum».

112 Più meditata la prospettiva di Eusebio di Cesarea, evidentemente meno incline a suggestioni apocalittiche: in Eus., h.e. VIII 1,7-2,2, gli imperatori persecutori sono presentati come strumento di Dio nella punizione dei peccati dei cristiani, piuttosto che come figure anticristiche; al punto che il pacifico impero tetrarchico precedente alla persecuzione è elogiato in VIII 13,9. Coerentemente, il giudizio di Dio è quello abbattutosi sulla Chiesa peccatrice, piuttosto che quello che ha punito i persecutori.

113 Lact., mort. pers. 2,6-7.

114 Cfr. Lact., mort. pers. 2,7, ove è presentata l’analogia tra Nerone e il re di Babilonia/Lucifero di Isaia 14; del principe di Tiro/cherubino scacciato dal monte di Dio di Ezechiele 28; dello stesso deformato Simone, in Atti degli apostoli 8 (che già applicano su di lui lo schema di condanna apocalittica di Ezechiele 28) e in Atti di Pietro 32.

115 Cfr. Lact., mort. pers. 2,8-9. Sullo scontro finale tra Cristo «liberator et iudex et ultor et rex et Deus» e l’Anticristo, sconfitto con tutti «ceteri principes ac tyranni, qui contriverunt orbem», cfr. Lact., inst. VII 19,4-8.

116 Cfr. Lact., mort. pers. 3,2-3.

117 Cfr. Lact., mort. pers. 3,5.

118 Lact., mort. pers. 4,1.

119 Cfr. Lact., mort. pers. 4,2.

120 Cfr. Lact., mort. pers. 4,3.

121 Cfr. Ap 19,17-21; ma cfr. anche 2 Maccabei 15,33.

122 Lact., mort. pers. 9,2.

123 Sulla persecuzione anticristiana come barbara negazione dell’humanitas e interna malattia della patria minata dalla tirannide, cfr. Lact., inst. VI 15,12; e VI 6,14-18, con una singolare condanna (di evidente tradizione senatoria) di Cesare, contrapposto al ‘giusto’ Pompeo. Per un lungo excursus sui potenti corrotti dal politeismo e paragonati a «malae bestiae» (Lact., mort. pers. 52,2) sanguinarie, cfr. Lact., inst. V 11,1-19;

124 Lact., mort. pers. 13,1-2.

125 Cfr. Lact., mort. pers. 38,6.

126 Cfr. in Lact., mort. pers. 31,1-34,5, malattia, pentimento, morte di Galerio, editto di tolleranza di Nicomedia (311), promulgato in punto di morte; in 49,2-7 malattia, morte, invocazioni a Cristo di Massimino. Sul carattere apocalittico della morte dell’empio, che, ammalatosi ai genitali e pieno di vermi, si gonfia come un otre e muore, in un tanfo insopportabile, esplodendo, cfr. la morte di Giuda com’è descritta in una conflazione di materiale catenario dipendente da una testimonianza di Apollinare relativa a Papia, riportato in Papia di Hierapolis, Esposizione degli oracoli del Signore. I frammenti, a cura di E. Norelli, Milano 2005, pp. 336-350, cui si rimanda per i tanti riferimenti biblici sottesi.

127 Lact., mort. pers. 47,3: «Nemo nominis, nemo virtutis, nemo veterum praemiorum memor; quasi ad devotam mortem, non ad proelium venissent, sic eos Deus summus iugulandos subiecit inimicis. Iam strata erat ingens multitudo».

128 Cfr. Lact., mort. pers. 52,3-4, cit. supra.

129 Cfr. F. Amarelli, “Vetustas-innovatio”. Un’antitesi apparente nella legislazione di Costantino, Napoli 1978, il cap. Tracce dell’insegnamento di Lattanzio nella legislazione di Costantino, pp. 87-145, in partic. 113-133; e E. DePalma Digeser, The Making of a Christian Empire, cit., pp. 135-138. Sulla possibile influenza di Lattanzio su Costantino, Lettera ai vescovi di Arles (314), riportata in Ottato di Milevi, Appendix V = von Soden, Urkunden, 18, 2,25, ove l’imperatore parla del suo «converti», definendosi «famulus» di Dio, nella prospettiva di una graduale iniziazione cristiana, cfr. K.M. Girardet, Die konstantinische Wende, cit., pp. 56-60; E. DePalma Digeser, Lactantius and Constantine’s Letter to Arles, cit.

130 Lact., mort. pers. 48,3; idem in 48,4 e 6. Non ci si occupa qui delle differenze tra il testo lattanziano dell’editto e quello riportato da Eus., h.e. X 5,1-14. Su possibili divergenze tra il cristiano Costantino e il non cristiano Licinio, identificabili in certe oscillazioni del documento, cfr. K.M. Girardet, Die konstantinische Wende, cit., pp. 100-105.

131 Cfr. Eus., v.C. II 24,1-42.

132 Cfr. Eus., v.C. II 48,1-50,2.

133 Cfr. Eus., v.C. IV 9,13.

134 Sul dibattito relativo all’autenticità costantiniana del Discorso all’assemblea dei santi e sulla sua datazione tra il 315 e il 325, cfr. H.A. Drake, Constantine and the Bishops, cit., pp. 292-297; R. Cristofoli, L’Oratio ad sanctorum coetum e il suo contesto. Problemi metodologici e prospettive di interpretazione, Napoli 2007. Più in generale sull’influenza di Lattanzio su Costantino nel Discorso e nella questione donatista, cfr. E. DePalma Digeser, The Making of a Christian Empire, cit., pp. 136-138; Ch. Matson Odhal, Constantine and the Christian Empire, cit., p. 329 nota 13; Id., God and Constantine, cit., pp. 336-341.

135 Derimente lo studio di M.-L. Guillaumin, L’explotation des “Oracles Sibyllins” par Lactance et par le “Discours à l’assemblée des saints”, in Lactance et son temps, cit., pp. 185-202.

136 Cfr. E. DePalma Digeser, The Making of a Christian Empire, cit., pp. 138-143; sul rapporto tra universalismo imperialistico romano e monoteismo cristiano, fusi soprattutto negli ultimi documenti costantiniani, cfr K.M. Girardet, Die konstantinische Wende, cit., pp. 105-112.

137 Per la tesi estrema di un Costantino legislativamente ostile al paganesimo dopo il 324, cfr. T.D. Barnes, The Constantinian Settlement, in Eusebius, Christianity, and Judaism, ed by H.W. Attridge, G. Hata, Leiden 1992, pp. 635-657; proprio il perdurare della lattanziana apologia della tolleranza nei documenti costantiniani successivi al 324, impone di sfumare quest’ipotesi. Sulle perduranti ambiguità di Costantino, cfr. A. Marcone, Pagano e cristiano: vita e mito di Costantino, Roma-Bari 2002.

138 Cfr. Lact., inst. VII 26,11-17.

139 Cfr. H.A. Drake, Constantine and the Bishops, cit., pp. 207-212.

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