Lavoro agile

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Lavoro agile

Lisa Taschini

Il d.d.l. sul lavoro autonomo non imprenditoriale contiene anche una prima regolamentazione del cd. lavoro agile, un particolare modello organizzativo del rapporto di lavoro subordinato ispirato ad esigenze di maggiore flessibilità, nel quale al lavoratore viene riconosciuta un’ampia autonomia nello stabilire tempi e luoghi di svolgimento della prestazione, in accordo con il datore di lavoro. Si tratta di un fenomeno in forte espansione, gravido di notevoli potenzialità e foriero al contempo di rilevanti problematiche che debbono essere affrontate dal legislatore in maniera più incisiva.

La ricognizione

Il d.d.l. AS n. 2233 sul lavoro autonomo non imprenditoriale – che, approvato dal Senato il 3.11.2016, al momento della redazione del presente contributo è in attesa della definitiva ratifica parlamentare – contiene un capo secondo in cui sono dettate alcune norme sul cd. lavoro agile, noto anche come smart working.

. Contesto normativo e finalità del disegno di legge

Occorre subito chiarire che lo smart working nulla ha a che vedere con il lavoro autonomo, con il quale solo accidentalmente condivide il provvedimento legislativo in via di approvazione, e non costituisce neppure una nuova tipologia contrattuale.

Rappresenta esclusivamente una particolare modalità di svolgimento della prestazione nell’ambito del comune rapporto di lavoro subordinato, basata sulla possibilità che essa venga resa al di fuori dei locali aziendali (da casa, ma anche da hub o spazi di coworking esterni) e senza precisi vincoli di orario, per lo più (ma non solo) utilizzando strumenti tecnologici come p.c., smartphone o tablet.

Si tenta, per questa via, di superare il tradizionale paradigma fordista di organizzazione del lavoro, incentrato sulla prestazione lavorativa resa da una postazione fissa all’interno dei locali aziendali e secondo un orario ben definito, passando ad un modo di lavoro più flessibile, adatto alle nuove esigenze del mercato globalizzato, che consiste essenzialmente (anche sfruttando l’elevata digitalizzazione che caratterizza ormai la maggior parte delle attività produttive) nell’affrancare la prestazione da vincoli spaziotemporali, lasciando il dipendente libero di organizzare luoghi e tempi di lavoro.

Con tale modello organizzativo s’intende non solo permettere al lavoratore di conciliare più facilmente tempi di vita e di lavoro, ma anche renderlo più responsabile del proprio operato, consentendogli di raggiungere gli obiettivi aziendali in totale autonomia.

L’idea di fondo è che il lavoratore, se ha una maggiore possibilità di bilanciare il rapporto lavoro-famiglia e di adeguare i ritmi lavorativi alle proprie esigenze personali, avrà anche una più alta soddisfazione lavorativa, con conseguenti ripercussioni positive sia in termini di produttività che di ovvio vantaggio per l’azienda.

Si tratta di un fenomeno in forte aumento, soprattutto nelle imprese di maggiori dimensioni, che fino ad oggi non aveva nel nostro Paese una regolamentazione organica, salva quella contrattuale del telelavoro, quasi un antesignano del lavoro agile, disciplinato da un accordo interconfederale del 2004.

La focalizzazione. La disciplina normativa

La norma di apertura del capo II del d.d.l. in commento (art. 15), dopo avere definito le (più sopra evidenziate) caratteristiche essenziali e finalità del lavoro agile, prevede innanzitutto che tale modalità di esecuzione del rapporto sia subordinata all’accordo tra le parti.

L’accordo – che può essere a tempo indeterminato (ed in questo caso le parti possono recedere, ma con obbligo di preavviso, salva giusta causa, non inferiore a trenta giorni) o determinato (e in questo caso non è possibile recedere anticipatamente, sempre salva la giusta causa) – richiede la forma scritta ai fini della “regolarità amministrativa” e della prova, dovendo disciplinare, tra l’altro, i modi di svolgimento della prestazione all’esterno dei locali aziendali, le forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro, gli strumenti che il lavoratore deve utilizzare, i tempi di riposo (art. 16, co. 1 e 2) e le condotte che possono dare luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari (art. 18, co. 2).

L’art. 17 stabilisce il principio di parità di trattamento economico e normativo dello smart worker rispetto ai lavoratori che svolgono le medesime mansioni all’interno dell’azienda.

Quanto all’orario di lavoro, l’art. 15, co. 1, prevede che la prestazione lavorativa possa essere liberamente svolta fuori dai locali aziendali e senza postazione fissa, ma entro i limiti di durata massima dell’orario giornaliero e settimanale stabiliti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

Inoltre, il datore di lavoro rimane responsabile della salute e della sicurezza dello smart worker (art. 19), dovendo garantire il buon funzionamento degli strumenti tecnologici a lui assegnati e consegnare, almeno annualmente, anche al rappresentante per la sicurezza, un documento informativo sui rischi generali e su quelli specifici per la particolare modalità di esecuzione della prestazione. Il lavoratore è, a sua volta, tenuto a cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione disposte dal datore (artt. 15, co. 2, e 19) ed ha diritto alla tutela contro le malattie professionali e gli infortuni, anche se occorsi durante il percorso tra l’abitazione e il prescelto luogo di lavoro (art. 20).

Quanto al potere di controllo sulla prestazione resa al di fuori dei locali aziendali, viene imposto il rispetto dei limiti previsti dall’art. 4 st. lav.

La normativa sopra sintetizzata è infine dichiarata applicabile, in quanto compatibile, anche al lavoro svolto alle dipendenze della p.a. (art. 15, co. 3).

I profili problematici

Il modello organizzativo del lavoro agile, come visto, presenta notevoli potenzialità, essendo in grado di conseguire risultati positivi sul piano sia del rapporto individuale di lavoro sia sociale (si pensi ai benefici ambientali derivanti dai minori spostamenti per recarsi sul luogo di lavoro o al maggiore tempo a disposizione dei lavoratori per l’assistenza parentale).

Può comportare, però, anche l’insorgere di alcune criticità, non del tutto risolte dal d.d.l. in commento. Innanzitutto, il lavoratore dev’essere disponibile a rivedere il proprio ruolo all’interno dell’impresa in un’ottica di flessibilità, a definire nuovi modi d’interazione con il management aziendale e a perfezionare le proprie conoscenze tecnologico-informatiche, indispensabili per accedere da remoto ai dati aziendali. Sarebbe necessario pertanto prevedere un’adeguata attività di formazione ed aggiornamento a carico del datore.

C’è poi il rischio dell’isolamento e del minore coinvolgimento del lavoratore nelle dinamiche aziendali, con conseguenze negative tanto sulla sua professionalità, nel senso di una minore possibilità di apprendimento del know-how attraverso il confronto con i colleghi, quanto sulla capacità di tutelare i propri diritti in forma organizzata. Si potrebbe prevedere che almeno una parte della prestazione lavorativa venga svolta nei locali aziendali.

Altro importante fattore di rischio è rappresentato dal cd. tecnostress, sindrome che colpisce chi controlla continuamente la posta di lavoro attraverso i propri device tecnologici, non separando così mai del tutto vita e lavoro. Per superare tale rischio si potrebbe imporre una verifica periodica per monitorare le condizioni di lavoro ed i livelli di soddisfazione del dipendente.

Da ultimo, il lavoro da remoto implica l’ineliminabile necessità per il datore di lavoro del monitoraggio continuo delle performance dello smart worker, il che può accentuare i rischi per la tutela della riservatezza, tipicamente connessi al controllo a distanza dei dipendenti, e che non vengono del tutto scongiurati dalla nuova disciplina statutaria.

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