LAVORO

Enciclopedia Italiana - IX Appendice (2015)

LAVORO.

Paolo Piacentini
Domenico Dalfino

– Politiche del lavoro. L’impatto della recessione sui mercati del lavoro. Caduta della quota del lavoro e crescita delle diseguaglianze. Il lavoro e la globalizzazione. Rivoluzione tecnologica e lavoro: quanti lavori, quali lavori. Osservazioni conclusive, con un cenno alle politiche del lavoro. Bibliografia. Procedimento per l’impugnazione del licenziamento (cd. rito Fornero). Il rito delle controversie di lavoro e la sua vocazione espansiva. Il procedimento speciale per l’impugnativa del licenziamento. La struttura del procedimento speciale. Le principali questioni interpretative. Le più recenti riforme in materia di lavoro e i profili processuali. Bibliografia. La riforma del lavoro

Politiche del lavoro di Paolo Piacentini. – Un aggiornamento sullo stato del l. e dell’occupazione richiede oggi più una presa d’atto di dati e tendenze che un’illustrazione di modelli o schemi analitici. Questo non significa che le recenti criticità non siano state al centro di un’attenzione degli economisti, costretti anche a rimettere in discussione schemi concettuali e indirizzi politici già posti a riferimento, a livello nazionale o sovranazionale. Nel frattempo, coloro che vivono di l. appaiono come le vittime incolpevoli e inconsapevoli di una crisi, essenzialmente riconducibile ai comportamenti degli operatori di una sfera finanziaria.

Gli impatti della grande recessione indotta dalla crisi finanziaria del 2007 sono stati profondi e il loro riassorbi-mento è, nelle migliori ipotesi, ancora in corso; gli indicatori del mercato del l. si attestano, in diversi contesti, a valori forse confrontabili solo con quelli della grande depressione degli anni Trenta del 20° secolo. Nel caso dell’Italia, rispetto ad allora sono diversi il regime politico, l’affidabilità delle statistiche, la composizione strutturale della popolazione per età e settori di impiego; è tuttavia certo che i tassi di disoccupazione giovanile siano ai massimi storici.

La crisi ha contribuito a riportare al centro del dibattito economico e politico temi trascurati, oppure oscurati, dai canoni ortodossi negli anni della cosiddetta grande moderazione (2001-06). Si pensi innanzitutto al rinnovato interesse verso i temi della distribuzione del reddito e della ricchezza fra l. e capitale, con la quota distributiva del l. che negli ultimi trent’anni si è continuamente erosa. Analisi delle distribuzioni dei redditi familiari hanno constatato la significativa crescita degli indicatori di diseguaglianza e la concentrazione della ricchezza nell’ambito di ristrette élites.

La necessità di sintesi richiede alcuni caveat preliminari: evidenze e schemi di interpretazione fanno riferimento al contesto di economie mature; ci si sofferma sulle tendenze quantitative e i loro legami con quelle che si considerano le grandi forze che agiscono sullo sfondo, ovvero la globalizzazione della scala di interazione commerciale e di integrazione economico-finanziaria, nonché l’impatto delle tecnologie innovative (legate in particolare alla information technology). Si accenna inoltre brevemente alle tendenze distributive, tralasciando la proiezione sui destini del l. nel capitalismo del 21° secolo (Piketty 2013).

tabelle 1
2

L’impatto della recessione sui mercati del lavoro. – I più convenzionali indicatori del mercato del l. permettono di visualizzare entità e sviluppi differenziati dell’impatto della grande recessione su occupazione e condizioni del lavoro. Le tabelle 1 e 2 presentano, rispettivamente, i tassi di disoccupazione e la consistenza dell’occupazione negli Stati Uniti e nell’Unione Europea, con dettagli per alcuni suoi Paesi membri. Sia pure nei limiti temporali considerati, i dati evidenziano la gravità e le eterogeneità degli impatti occupazionali della crisi del 2008-09. Per i cosiddetti tassi armonizzati di disoccupazione, la colonna relativa all’anno 2007 (valori in media annua) vale come riferimento a uno stato precrisi; la colonna per il 2010 rende conto di un anno convenzionalmente considerato di svolta, in cui si è esaurita una recessione più direttamente ascrivibile all’impatto dell’originario shock finanziario e bancario su scala globale; l’ultima colonna a destra riporta la situazione aggiornata al secondo trimestre del 2014. Da questo pur limitato confronto emergono diverse evidenze significative.

La principale è la conferma della semplice correlazione keynesiana per cui, almeno nel periodo ciclico, la caduta occupazionale e l’aumento della disoccupazione sono fondamentalmente dovuti alla diminuzione della domanda finale: come ammesso dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) nel suo più recente rapporto sul l. (OECD 2014, p. 21). Tale conferma suggerisce una riflessione: i dati e gli sviluppi reali della crisi hanno contribuito a ridimensionare la portata euristica di quei modelli e orientamenti di policy che, a partire dagli anni Ottanta del 20° sec., avevano visto la disoccupazione, e altri esiti subottimali del mercato del l., come sintomo o risultato in prevalenza di carenze (per es. competenze inadeguate a fronte delle esigenze della tecnologia) sul lato dell’offerta,

o di contesti, istituzionali e contrattuali, eccessivamente ‘rigidi’ per la regolazione del mercato del l. (per es., per i regimi d’impiego).

I casi evidenziati in tabella appaiono invece chiaramente collegati alle specificità nazionali e agli orientamenti di fondo delle politiche macroeconomiche. Negli Stati Uniti, dove i contratti di l. sono tradizionalmente meno rigidi, la caduta occupazionale è stata più forte negli anni di immediato impatto della recessione 2008-09; tuttavia, l’economia statunitense ha dimostrato la sua capacità, non nuova, di ‘rimbalzo’ ciclico, riuscendo a riportare di recente l’occupazione pressoché ai livelli antecrisi. Nell’eurozona (anche detta area euro, EA17, v. euro, area), a eccezione della Germania, l’impatto della crisi sui livelli occupazionali, inizialmente più contenuto, non è stato seguito da un recupero successivo; nel triennio 2010-13 la caduta occupazionale è proseguita, e ampi segmenti di una disoccupazione ‘ciclica’ sono transitati verso situazioni di inoccupazione di lungo periodo.

Dietro le diverse risposte c’è il differente dinamismo delle singole economie nazionali, tuttavia importanti sono stati anche gli impulsi determinati dalle politiche macroeconomiche, ispirate a modelli e priorità diversi: negli Stati Uniti, una gestione dei regimi monetari e fiscali fino al limite del ‘lassismo’, pur di sostenere la ripresa; nei Paesi EA 17, il rigorismo dei vincoli, peraltro rafforzati in anni di recessione (con le direttive six-pack, fiscal compact), imposti al bilancio pubblico. In questo contesto, l’anomalia tedesca rivela una posizione di forza acquisita in virtù della sua superiore capacità esportativa. Tuttavia, anche le prassi istituzionali di concertazione fra le parti sociali, in quello che è stato talvolta definito come modello renano di capitalismo sociale, possono avere contribuito nel proteggere la Germania (e i piccoli Paesi limitrofi) dagli impatti della crisi. Per quasi tutti gli altri Paesi dell’area euro, gli obiettivi indicati dalla Commissione europea – Strategia di Lisbona prima, ‘Europa 2020’ poi; per es., per un tasso di occupazione della popolazione in età di l. al 75%, nel 2020 – sembrano invece compromessi dall’impatto della crisi e delle politiche di austerità fiscale (European commission 2010).

tab. 3

Il quadro descrittivo e comparativo è completato da un’ultima serie di indicatori specifici di una carenza occupazionale (tab. 3), in particolare per la situazione dei più giovani: tassi di disoccupazione giovanile, incidenza dei contratti a termine (precariato), fenomeno dei cosiddetti NEET (Not in Education, Employment or Training), giovani apparentemente emarginati da ogni forma di partecipazione al l. e dai percorsi formativi e, infine, la percentuale di l. part-time, che sempre più spesso non è l’esito di una scelta volontaria.

Caduta della quota del lavoro e crescita delle diseguaglianze. – La diminuzione della quota distributiva del l., ovvero della quota del valore aggiunto prodotto assegnabile al l., è stata una tendenza comune ai principali Paesi e può essere osservata nei diversi settori di attività. L’inizio di tale tendenza è spesso individuato nei primi anni Ottanta, in concomitanza con l’affermarsi di un’agenda neoliberista, contrapposta a quella keynesiana che precedentemente aveva segnato il secondo dopoguerra. Il nuovo approccio si fondava su una diagnosi della stagflazione degli anni Settanta, secondo la quale le criticità delle economie mature in quel decennio – la destabilizzazione inflattiva da costi e la compressione dei margini di profitto – erano anche il risultato di spinte salariali eccessive. La svolta si è avuta dapprima in Gran Bretagna e negli Stati Uniti e poi, con modalità differenziate, negli altri Paesi e nelle sedi sovranazionali di elaborazione concettuale e di orientamento alla policy (FMI,Fondo Monetario Internazionale, OCSE ecc.).

Un’associazione esclusiva fra esiti distributivi e orientamenti delle politiche rischia di essere comunque eccessiva. Governi di stampo conservatore hanno operato riforme legislative e prassi di gestione dei conflitti di l. esplicitamente rivolte a diminuire il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali. La quota del l. è però calata sensibilmente anche in Paesi che non hanno rivisto le loro prassi di concertazione, e le garanzie di un welfare pubblico, in misura significativa. In media, nei Paesi più sviluppati dell’area OCSE la quota del l., dal 66% del 1980, è scesa al 61,5% del 2009. Rispetto ai primi anni Settanta la caduta si rileva anche superiore, in Italia e altrove prossima al 10%.

Un ulteriore dettaglio che merita un accenno riguarda le tendenze all’interno della scala distributiva dei redditi familiari: l’evidenza che emerge da indagini accreditate è un generale aumento degli indicatori delle diseguaglianze.

Ne costituisce un caso esemplare l’analisi dei cosiddetti top incomes, ovvero la stima delle quote di reddito o patrimonio attribuite al centile superiore (l’1% più ricco di una popolazione). Tali quote, nelle quali confluiscono le rendite da capitale e i compensi dei top manager, possono in alcuni casi arrivare a raccogliere il 17,7% dei redditi complessivi (OECD 2011). Nel frattempo, il potere di acquisto dei lavoratori comuni è spesso rimasto stagnante: negli Stati Uniti, il reddito mediano da l. (quello a metà della scala distributiva) risulta – a parità di potere d’acquisto – quasi invariato fra il 1990 e il 2013 (51.735 $ e 51.939 $ annui rispettivamente). In Italia, il salario medio reale è diminuito tra il 2000 (29.046 € lordi) e il 2012 (28.782 €).

I dati segnalano, in modo diffuso, tendenze redistributive sfavorevoli al l. (esclusi i ceti manageriali di fascia elevata).

Tale tendenza contraddice i modelli macroeconomici di lungo periodo, sia neoclassici sia keynesiani, che preconizzavano una distribuzione funzionale stabile in un equilibrio di ‘crescita bilanciata’. Sembra invece tornare di attualità la tesi classica (e marxista) dei redditi da l. stagnanti o dei lavoratori a rischio di impoverimento crescente. Una rinnovata attenzione della ricerca sottolinea i rischi della prosecuzione di una simile tendenza.

Il lavoro e la globalizzazione. – Senza pretese di dare una definizione esaustiva, si intende qui per globalizzazione la crescente integrazione dei mercati internazionali, per gli interscambi di beni e per la mobilità di capitali. L’apertura al commercio internazionale è spesso percepita come un’immediata fonte di perdita occupazionale nei settori manifatturieri più esposti alla competizione di imprese straniere, favorite da costi del l. comparativamente molto bassi. Nella teoria clas sica del commercio internazionale, i Paesi maturi dovrebbero trovare una compensazione nel loro vantaggio comparato nelle attività a maggiore intensità di capitale e conoscenza tecnologica incorporata. Dal punto di vista occupazionale, la minore occupazione nelle fasce di l. meno qualificato può dunque essere compensata da una maggiore domanda di lavoratori qualificati.

Alla luce dell’impatto delle nuove tecnologie e delle più recenti tendenze nella composizione della domanda di l., si rende opportuno un aggiornamento di tale aspetto. Ulteriori spinte alla delocalizzazione provengono infatti dallo stesso sviluppo tecnologico, che spesso aumenta, all’interno di una medesima filiera produttiva, la possibilità di scomporre e ricomporre le fasi del processo di produzione in sedi diverse di lavorazione, con conseguente rischio di ‘svuotamento’ (hollowing-out) degli insediamenti manifatturieri tradizionali. Si deve comunque considerare che, nei Paesi avanzati, all’incirca i 3/4 dell’occupazione complessiva attengono ormai al solo settore terziario: servizi alla produzione, alla distribuzione, al consumo privato e collettivo. In Paesi di tradizionale vocazione manifatturiera come la Germania o l’Italia la quota dell’occupazione nel terziario è all’incirca del 70%; negli Stati Uniti si tocca l’80%. Se i meccanismi di compensazione occupazionale previsti dalla teoria classica sono attivi, questi devono dunque operare in attività terziarie. Le attività di fabbricazione in senso stretto verrebbero così delocalizzate in misura crescente, mentre attività più qualificate – a monte (per es., ricerca, design), a valle (per es., marketing) e collaterali (per es., servizi finanziari, logistici) della filiera – verrebbero ancora prevalentemente operate nelle sedi di origine imprenditoriale.

La classificazione statistica del reddito o dell’occupazione in un ramo operativo dipende allora dalle forme di autonomia funzionale, o di separazione a fini legali e fiscali, delle diverse attività componenti la catena del valore. Nella nomenclatura statistica, il terziario è un aggregato residuale comprendente un insieme eterogeneo di servizi, alla impresa o alla persona, forniti dai tradizionali operatori privati e pubblici, o da altri enti senza scopo di lucro (il cosiddetto terzo settore). L’impatto della globalizzazione è stato di recente rafforzato dal fatto che tali servizi, tradizionalmente considerati come non decentrabili (non-tradable), sono invece divenuti in diversi casi decentrabili, grazie alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT, Information and Communications Technology). Le voci non merce nell’interscambio mondiale valgono all’incirca per 1/4 delle partite correnti dei Paesi; la quota del commercio ‘virtuale’ in servizi ICT è vicina oggi al 10% del totale. Nel la graduatoria dei Paesi esportatori netti di questi servizi si trova al primo posto l’India, seguita da Stati Uniti e Irlanda.

Rivoluzione tecnologica e lavoro: quanti lavori, quali lavori. – La percezione di una rivoluzione in corso, nei modi di produzione e fruizione di beni e servizi, è diffusa oggi a livello di senso comune. Anche in occasione delle precedenti grandi trasformazioni tecnologiche – macchina a vapore, elettricità – non erano mancate proiezioni catastrofiste sulle prospettive dell’occupazione. Queste furono smentite dalle compensazioni che hanno effettivamente operato: nuovi prodotti e nuove attività di servizi, ma anche maggiori redditi finali che hanno consentito di sostenere l’espansione della domanda congiuntamente all’ampliamento della gamma di offerta consentita dalle applicazioni delle nuove tecnologie. Le compensazioni occupazionali sono allora fondamentalmente riflesso della crescita della domanda finale sui nuovi mercati.

Il tema delle implicazioni delle nuove tecnologie sul l. richiederebbe una rassegna specializzata. Ci si limita qui a segnalare una dicotomia, fra l’ipotesi che ha prevalso fino a pochi anni fa, secondo cui l’innovazione tecnologica attiva in modo complementare una domanda crescente di l. qualificato (skill biased technological change) e un’ipotesi più recente, che sottolinea una tendenza alla cosiddetta polarizzazione della domanda di l., indotta dalle nuove tecnologie. Secondo questa visione, lo spiazzamento potenziale di l. umano, da parte di diverse tipologie di automata, riguarderebbe oggi soprattutto le posizioni intermedie nell’ambito di una tradizionale stratificazione del lavoro. Infatti, le forme di l. che risulterebbero difficilmente sostituibili sarebbero, da una parte, le applicazioni di competenze superiori, scientifiche, professionali ecc.; dall’altra, quelle convenzionalmente considerate nelle posizioni inferiori dalla percezione comune di qualità del l.: servizi alla persona ove è richiesta un’interazione umana non operabile per mezzo di automata. Le aree a maggiore rischio di ‘disoccupazione tecnologica’ sarebbero pertanto proprio quelle circoscritte alle mansioni che più facilmente possono essere codificate in compiti (tasks) sequenziali, ovvero principalmente quei l. che una volta erano associati agli impieghi di una fascia intermedia della gerarchia retributiva: gli operai specializzati, gli impiegati di ufficio per lo svolgimento di pratiche routinarie e così via.

La polarizzazione nella domanda di l. appare più evidente negli Stati Uniti; giungono tuttavia prime conferme anche per i Paesi europei (Acemoglu, Autor 2011; Goos, Manning, Solomons 2014). Mentre i cali occupazionali starebbero colpendo quelle fasce di lavoratori che si ponevano nei quantili intermedi della distribuzione salariale, aumenterebbe l’occupazione nei quantili più bassi, cioè per quelle mansioni normalmente destinate ai lavoratori meno qualificati, e spesso coperte da immigrati anche se formalmente in possesso di qualifiche superiori.

Sulla base di questi argomenti si propone una chiave conclusiva di lettura che coniuga le implicazioni della globalizzazione con quelle degli impatti tecnologici e che trova l’elemento centrale nel ruolo della mansione (task). Il task può essere svolto dal ‘lavoratore in sede’, dall’automata, o dal ‘lavoratore in sede decentrata’. Le opzioni dipenderan no dai costi comparati relativi alle specifiche caratteristiche del task. Tuttavia, pur rimanendo molti tasks non automa tizzabili né delocalizzabili, il rafforzamento della tendenza alla polarizzazione implicherebbe rischi di instabilità. Segmenti intermedi di un l., già tradizionalmente associati alle condizioni più stabili caratteristiche di un impiego contrattualizzato, sindacalizzato ecc., sarebbero quelli più colpiti.

Osservazioni conclusive, con un cenno alle politiche del lavoro. – Nel periodo successivo alla ‘svolta’ degli anni Ottanta, con tempistica e intensità diverse, i Paesi economicamente maturi hanno perseguito orientamenti di politiche ispirate, in senso lato, a un principio del ‘favore della liberaconcorrenza’. È stata posta un’enfasi sulla necessità di riforme strutturali, intese ad allentare vincoli di regolamentazioni in senso protezionistico sui mercati di beni e servizi e per quelli dei fattori produttivi. Il mercato del l. è stato, certamente, uno fra i terreni ove questo riformismo proattivo per la concorrenza (market friendly) è stato applicato con maggior convinzione. Giova ricordare alcune direttive della cosiddetta strategia europea dell’occupazione (European employment strategy) e confrontarle con gli sviluppi recenti. In particolare, si richiamano due dei cosiddetti pilastri di tali direttive, sintetizzati nelle parole d’ordine occupabilità e adattabilità. Il neologismo occupabilità (employability) rinvia in senso lato alle azioni tese a migliorare le caratteristiche di un’offerta di l., al fine di incentivare la propensione all’assunzione da parte dei datori di l.; invece l’adattabilità, quando non sinonimo della più controversa flessibilità, allude agli incentivi e ai regimi di (de)regolazione atti ad assicurare condizioni di uso e transizione occupazionale più favorevoli alle necessità di aggiustamento (congiunturale o strutturale) delle imprese.

A fronte dei dati odierni, si può desumere che queste politiche – pur avendo posto l’accento sul lato dell’offerta di l. spesso con intenzioni anche apprezzabili (per es. l’attenzione verso programmi formativi per i giovani o per la riqualificazione professionale dei meno giovani) – si siano rivelate alla fine fragili, o non adeguatamente dimensionate, rispetto alle cifre della carenza occupazionale innescata dalla crisi. Sia pure con il notevole esempio contrario della Germania e di altri piccoli Paesi, dove l’efficacia consoli-data dei sistemi formativi e dei servizi all’impiego ha certo contribuito alla tenuta occupazionale, anche osservatori di orientamento più conservatore ammettono oggi la prevalenza degli effetti del trascinamento sul l. di un deficit dal lato della domanda. Una formazione adeguata delle leve di l. per le competenze richieste dalle imprese rimane, sicuramente, una condizione necessaria per qualsiasi Paese che non voglia condannarsi all’emarginazione competitiva. Tuttavia, anche la migliore istruzione delle nuove leve rischia di non essere condizione sufficiente per un superamento delle difficoltà di transizione verso il l. (o fra i l.), se il contesto rimane quello di una stasi complessiva dell’economia. I tassi di occupazione dei più istruiti (per es. laureati) sono ovunque superiori a quelli dei mediamente istruiti, ma si osservano troppo spesso fattispecie di sottoinquadramento (o sovraqualificazione rispetto al contenuto dell’impiego, over-education).

Le recenti tendenze dell’innovazione tecnologica e della domanda di l. propongono ulteriori spunti di preoccupazione. La visione ottimistica per cui a processi innovativi si associa una domanda crescente di l. qualificato – anche ove questo dovesse implicare una diminuzione di impieghi, o un peggioramento dei differenziali retributivi, per i lavoratori meno qualificati – poteva suggerire un necessario passaggio nell’ambito di una divisione internazionale del l., ove le mansioni ‘manuali’ vengano gradualmente trasferite a Paesi con maggiori riserve di lavoro. L’ipotesi della polarizzazione invece implica che solo una quota minore di lavoratori potrà accedere alle competenze più elevate; i lavoratori ad abilità intermedie rischiano di esserne esclusi, restando al contempo riluttanti rispetto alla prospettiva di un ripiego permanente negli impieghi meno appetibili.

Anche per il paradigma della flessibilità, che ha impegnato tanti sforzi innovativi nel diritto del l. e che è ancora luogo di una polemica ideologica, vale il medesimo ordine di considerazioni. La dimensione non realistica di un modello sociale che insegua per tutti un posto di l. stabile e garantito per l’arco della intera vita attiva, è forse un luogo comune, ma sarebbe difficilmente contestabile da parte delle fasce giovanili della popolazione. Transizioni fra i l., che non siano traumatiche, sono tuttavia credibili solo in contesti di crescita dove i processi di distruzione e creazione di posti di l. tendano almeno a compensarsi. Altrimenti, gli intervalli di disoccupazione si allungano, e anche i migliori schemi di ammortizzatori sociali – con garanzie di reddito, percorsi di riqualificazione e di supporto all’avviamento al l. ecc. – rischiano di essere inadeguati rispetto ai numeri potenziali di uno squilibrio fondamentale fra la domanda e l’offerta. Su questo punto, risulta ancora importante la considerazione delle tendenze nella composizione qualitativa, oltreché nei saldi quantitativi, della domanda di lavoro.

In conclusione, le politiche macroeconomiche, le politiche industriali per l’innovazione, e infine, le funzioni più tradizionalmente assegnate alle politiche del l. devono trovare reciproca coerenza e azione sinergica. L’adeguamento dei servizi formativi e di welfare per il sostegno ai processi di transizione andrà allora coniugato con prospettive di una ripresa non effimera dell’attivazione economica, con migliori capacità di prevedere l’evoluzione dei fabbisogni di l. e di incidere su una loro migliore qualità. Le vicende più recenti dovrebbero avere ridimensionato la portata euristica di approcci analitici, i quali mostrano limiti nel contemplare un inquadramento parziale del mercato del l., scisso dal quadro delle interazioni più ampie con la crescita e il ciclo dei mercati finali, con la crescente rilevanza dei mercati finanziari, e con le complesse transizioni di un periodo di intensa attività di innovazione.

Bibliografia: D. Acemoglu, D. Autor, Skills, tasks and technological implications for employment and earnings, in Handbook of labor economics, 4b, ed. O. Ashenfelter, D. Card, Amsterdam 2011, pp. 1043-1171; OECD (Organisation for Economic Co-operationand Development), Divided we stand: why inequality keeps rising, Paris 2011; T. Piketty, Le capital au XXIe siècle, Paris 2013 (trad. it. Milano 2014); M. Goos, A. Manning, A. Solomons, Explaining job polarization: routine-based technological progress and offshoring, «American economic review», 2014, 104, pp. 2509-26; OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development), Employment outlook 2014, Paris 2014. Si veda inoltre: European commission, Europe 2020: a strategy for smart, sustainable and inclusive growth, Communication from the Commission, COM(2010), Brussels 2010 : http://eur-lex.europa.eu/ legal-content/EN/TXT/?uri=celex:52010DC2020 (2 luglio 2015).

Procedimento per l’impugnazione del licenziamento (cd. rito Fornero) di Domenico Dalfino. – Il rito delle controversie di lavoro e la sua vocazione espansiva. – Le controversie relative ai rapporti di l. sono assoggettate alla disciplina contenuta nel titolo IV del libro II del c.p.c., che, in particolare negli artt. 413 e segg., contempla forme procedimentali concentrate e snelle, caratterizzate da una notevole ampiezza dei poteri istruttori d’ufficio del giudice.

Introdotto con la l. 11 ag. 1973 nr. 533 in un clima di fervore ideologico e sociopolitico che, a sua volta, già aveva determinato rilevantissimi mutamenti sul piano della legislazione sostanziale, il processo del l. mira al perseguimento di una tendenziale celerità della tutela e al raggiungimento della cd. verità materiale (v. verità processuale), ossia all’accertamento pieno dei fatti, anche attraverso disposizioni denotanti un certo favor per il prestatore di lavoro.

Nonostante non abbia sempre dato buona prova di sé, la sua spiccata vocazione espansiva ne ha comportato l’utilizzazione anche in contesti diversi da quelli per cui era stato coniato (per es., in materia previdenziale e assistenziale, locatizia, agraria e così via). Nel 2009 e nel 2011 (v. la delega al governo contenuta nell’art. 54, l. 18 giugno 2009 nr. 69 e il d. legisl. 1° sett. 2011 nr. 150) il legislatore ha ritenuto possibile e opportuno compiere un passo più deciso, attribuendogli la dignità di vero e proprio modello, nel quale far confluire diversi altri riti aventi caratteristiche similari, in un’ottica di semplificazione e riduzione, sebbene ‘al netto’ delle rationes e delle peculiarità che avevano portato alla riforma del 1973.

A seguito di questi cambiamenti, oggi sembra più appropriato distinguere tra ‘rito del lavoro’ e ‘rito delle controversie di lavoro’ in senso stretto, assegnato quest’ultimo, in quanto tale, a giudici specializzati, preparati specificamente in funzione della risoluzione di una peculiare tipologia di conflitti.

Il procedimento speciale per l’impugnativa del licenziamento. – Sennonché, più di recente, il legislatore ha anche sentito l’esigenza di introdurre un nuovo procedimento per l’impugnazione del licenziamento (v. art. 1, 47° co. e segg., l. 28 giugno 2012 nr. 92), cd. rito Fornero, in evidente controtendenza rispetto alla scelta operata appena un anno prima in materia di semplificazione e riduzione. Un procedimento che è possibile definire specialissimo, poiché, pur avendo a oggetto controversie in materia di l., presenta caratteristiche strutturali differenti da quello, già di per sé speciale, del lavoro.

L’obiettivo perseguito in parte qua dalla l. 92/2012 era quello di attuare un «adeguamento al mutato contesto di riferimento» della disciplina dei licenziamenti. La strategia adottata ha operato su due fronti. Innanzi tutto, sul piano sostanziale, è stato riscritto l’art. 18, l. 18 maggio 1970 nr. 300 (cd. statuto dei lavoratori), con la previsione di quattro livelli di tutela del lavoratore. La reintegrazione nel posto di l. è stata relegata a ipotesi eccezionali (indipendentemente dall’impossibilità della sua pratica attuazione o dell’eccessiva onerosità per l’obbligato), mentre sono state ampliate le ipotesi di tutela cd. indennitaria. L’applicabilità del nuovo regime è stata limitata ai soli licenziamenti intimati da datori di l. aventi i requisiti dimensionali espressamente contemplati dallo stesso novellato art. 18, 8° e 9° co., statuto dei lavoratori, salvi i casi di licenziamento nullo, in quanto discriminatorio o illecito, ovvero intimato in forma orale, irrilevante essendo per essi il numero dei dipendenti. Al di sotto della soglia dimensionale, è rimasta invariata l’alternativa tra la riassunzione del lavoratore illegittimamente licenziato e il pagamento di un’indennità risarcitoria (cd. tutela obbligatoria ex art. 8, l. 15 luglio 1996 nr. 604).

Sul piano processuale, come anticipato, si è provveduto ad assoggettare le controversie relative all’impugnativa del licenziamento a un nuovo procedimento, auspicabilmente in grado di assicurare una maggiore accelerazione della tutela (evidentemente rispetto al già celere, almeno sulla carta, processo del l. disciplinato dal codice di procedura civile).

La struttura del procedimento speciale. – In estrema sintesi, la struttura del procedimento è bifasica eventuale.

Nella prima fase, l’impugnativa del licenziamento ritenuto illegittimo (o la domanda del datore di l. diretta alla declaratoria della sua legittimità) deve essere obbligatoriamente proposta nelle forme di un procedimento sommario non cautelare, di competenza del tribunale in funzione di giudice del l., caratterizzato dall’assenza di preclusioni o decadenze, destinato a concludersi con un’ordinanza, di accoglimento o di rigetto, munita di efficacia esecutiva e suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato.

Nella seconda fase, del tutto eventuale, si può proporre, innanzi al medesimo ufficio giudiziario in funzione di giudice del l. ed entro un termine a pena di decadenza, opposizione «contro» l’ordinanza sommaria, attraverso l’instaurazione di un giudizio a cognizione piena con preclusioni e decadenze legate alla fase introduttiva, sia pur semplificato e snello, avente la duplice natura di primo grado e di rimedio lato sensu impugnatorio, destinato a concludersi con una sentenza esecutiva, a sua volta impugnabile nelle forme di un ‘reclamo’, anch’esso snello e informale, la cui decisione è suscettibile di ricorso per cassazione.

Queste novità hanno avuto bisogno di essere coordinate con quelle precedentemente introdotte dalla l. 4 nov. 2010 nr. 183 (cd. collegato lavoro) e con le altre previste dalla stessa l. 92/2012, le quali hanno stabilito un duplice termine decadenziale per l’impugnativa del recesso del datore di l., individuandone l’ambito di applicazione.

Le principali questioni interpretative. – Le questioni interpretative non hanno tardato a emergere (v. Cassazione, sezioni unite, 31 luglio 2014 nr. 17443; Cassazione, sezioni unite, 18 sett. 2014 nr. 19674) e la maggior parte di esse non ha ancora trovato una condivisa definizione, se si eccettua quella relativa all’obbligatorietà o facoltatività del rito, risolta ormai (dalla prevalente giurisprudenza e dalla dottrina) nel primo senso.

Invece, continua a discutersi su tutto il resto, soprattutto, in ordine agli esatti confini dell’ambito di applicazione, alle conseguenze dell’errore sul rito, alla possibilità che a occuparsi del giudizio di opposizione sia la stessa persona fisica che ha emesso l’ordinanza sommaria.

Sotto il primo profilo, non è ben chiaro cosa debba intendersi per domande fondate sugli «identici fatti costitutivi», che, in quanto tali, la l. 92/2012 consente siano proposte unitamente alla impugnativa del licenziamento. Giurisprudenza e dottrina hanno per lo più adottato un orientamento restrittivo, tendendo a favorire l’aspetto del-l’esclusività dell’oggetto del procedimento (con esclusione, per es., delle domande relative all’inquadramento del lavoratore in un livello superiore e al pagamento delle differenze retributive). Sussistono, tuttavia, ancora numerosi dubbi (per es., sulla domanda di tutela cd. obbligatoria proposta in via subordinata).

L’adesione a questo orientamento ha comportato la necessità di proporre le diverse domande secondo forme procedimentali differenziate (cd. rito Fornero per l’impugnativa e per le domande a essa cumulabili; rito del l. per le altre), con una conseguente moltiplicazione dei processi.

Le soluzioni sinora prospettate a fronte di un errore sul rito – vale a dire della erronea proposizione con le forme del rito Fornero di domande non cumulabili o comunque non rientranti nel suo ambito di applicazione – sono state piuttosto varie. Per comodità di sintesi, possono distinguersi un orientamento favorevole all’inammissibilità e un altro, opposto, favorevole alla conversione nelle forme del rito del lavoro. La giurisprudenza sul punto è spaccata, mentre la dottrina propende nettamente per la seconda soluzione, sia in accoglimento del principio generale secondo cui il processo civile deve tendere a una decisione di merito e non a una pronuncia di mero rito (come sarebbe la declaratoria di inammissibilità), sia in virtù dell’assenza di un’espressa previsione di legge che consenta al giudice di pronunciare in tali ipotesi l’inammissibilità della domanda.

Allo stesso modo, si assiste a un’autentica spaccatura con riguardo alla possibilità che il giudice che ha pronunciato l’ordinanza sommaria possa anche occuparsi del giudizio di opposizione a quella stessa ordinanza.

Le argomentazioni a favore non mancano, ma quelle che spingono verso la soluzione opposta sembrano più convincenti e maggiormente ossequiose del principio di imparzialità del giudice (v. però Corte costituzionale 13 maggio 2015 nr. 78).

Le più recenti riforme in materia di lavoro e i profili processuali. – I menzionati profili di criticità avrebbero potuto indurre il legislatore ad abrogare il cd. rito Fornero. Invece, il sistema delle deleghe al governo contenuto nella l. 10 dic. 2014 nr. 183, si è mosso soltanto sul piano delle riforme di diritto sostanziale.

In particolare, la delega di cui all’art. 1, 7° co. (volta a «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva»), tra i principi e criteri direttivi assegnati al governo, ha contemplato quello di «promuovere, in coerenza con le indicazioni europee, il contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti» (lett. b), nonché quello di prevedere, «per le nuove assunzioni», il «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamenti» (lett. c).

Gli interventi normativi delegati, tuttavia, hanno interessato in qualche (rilevante) modo anche il versante processuale. In particolare, l’art. 11, d. legisl. 4 marzo 2015 nr. 23 ha abrogato il cd. rito Fornero, ma soltanto con riferimento ai licenziamenti relativi a contratti di l. ivi contemplati (disposizione, questa, probabilmente incostituzionale per eccesso di delega). Inoltre, l’art. 3, 2° co., d. legisl. 23/2015 ha introdotto un’inversione dell’onere della prova (addossato sul lavoratore) in caso di impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giusta causa.

In generale, poi, a uno sguardo complessivo del d. legisl. 23/2015, sembra assistersi a una definitiva presa di posizione da parte del legislatore in senso tutto contrario al riconoscimento della reintegrazione nel posto di l. come principio irrinunciabile (sia pure tendenziale) di effettività della tutela giurisdizionale del lavoratore a fronte di un illegittimo atto di recesso del datore di lavoro.

Bibliografia: P. Sordi, L’ambito di applicazione del nuovo rito per l’impugnazione dei licenziamenti, in Nuove regole dopo la legge n.92 del 2012 di riforma del mercato del lavoro. Competizione versus garanzie?, Atti del convegno dell’associazione Avvocati giuslavoristi italiani (AGI), Ancona, 2012, Torino 2012, pp. 263-83; M.Barbieri, D. Dalfino, Il licenziamento individuale nell’interpretazione della legge Fornero, Bari 2013; P. Curzio, Il nuovo rito per i licenziamenti, in Flessibilità e tutele nel lavoro. Commentario della legge 28 giugno 2012, n. 92, a cura di P. Chieco, Bari 2013, pp. 40733; L. De Angelis, Il processo dei licenziamenti tra principi generali e nuovo diritto: l’obbligatorietà e l’errore del rito ed il cumulo di domande, «Il Foro italiano», 2013, parte V, pp. 101-09; M. De Cristofaro, G. Gioia, Il nuovo rito dei licenziamenti: l’anelito alla celerità per una tutela sostanziale dimidiata, «Le nuove leggi civilicommentate», 2013, pp. 3-40; F.P. Luiso, R. Tiscini, A. Vallebona, La nuova disciplina sostanziale e processuale dei licenziamenti, Torino 2013; G. Verde, Note sul processo nelle controversie in seguito a licenziamenti regolati dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori, «Rivista di diritto processuale», 2013, pp. 299-315. Si veda inoltre: A.D. De Santis, ‘‘Eutanasia’’ del rito specifico accelerato per l’impugnativa dei licenziamenti individuali, 2015, http://www.eclegal.it/it/rito-accelerato-licenziamenti-individuali(13 luglio 2015).

La riforma del lavoro. – Per il Jobs act e la riforma del lavoro in Italia v. riforma del lavoro.

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