Le cento città

L'Italia e le sue Regioni (2015)

Le cento città

Goffredo Fofi

La scoperta delle differenze e delle originalità

«Il mondo in provincia, soprattutto se in vicinanza con la natura, non è solo meno brutto, ma uno riesce a vedere anche i germi di resistenza che stanno nascendo dopo la crisi, e che ti fanno essere non totalmente pessimista come a Roma o a Milano, ‘capitali della morte’» (da una lettera dell’agosto 2014 di un giovane amico che vive e lavora in provincia di Gorizia, al confine con la Slovenia).

C’erano, lo constatava già Carlo Cattaneo, e ci sono ancora oggi non meno di ieri ‘le cento città d’Italia’, di un Paese che è stato ed è appassionante per le sue differenze fisiche, storiche, sociali. Ancora oggi, colpisce chi si muove lungo la penisola quanto possano essere diverse antropologicamente e culturalmente città peraltro vicinissime tra loro, appartenenti a uno stesso territorio e a una simile storia. Cremona non è Mantova, Parma non è Piacenza, Trapani non è Marsala. Fu la necessità di conoscere queste differenze, questa originalità, che stimolò, dopo l’Unità, la pubblicazione di fascicoli che le cento città raccontassero, illustrassero. La prima serie ebbe vita tra il 1887 e il 1901 ma fu la seconda collana, Le cento città d’Italia illustrate, ad avere un grande e duraturo successo, grazie alle milanesi edizioni Sonzogno, che tra il 1924 e il 1929 stamparono e diffusero capillarmente una serie di fascicoli di grande formato e riccamente illustrati su ognuna di quelle. Non si trattò in realtà di cento città (cento fascicoli ) ma di trecento, tra città note a tutti e altre a pochi, comprese le piccole e alcune piccolissime, e zone geografiche come, per es., il lago di Garda o il lago di Nepi, la Val Camonica, la laguna veneta ecc.; ci furono anche dei fascicoli che accorparono superficialmente Brindisi e Otranto, Oristano e Alghero, e perfino un fascicolo Tripoli-Bengasi. Un grande letterato calabrese, Vincenzo Padula, aveva dato l’esempio molti anni prima sulla sua rivista «Il Bruzio», con le monografie, numero dopo numero, su tutti i comuni della sua regione.

I lettori sui quali «Le cento città» contavano erano quelli di ciascuna località, prima di tutto, ma anche quelli delle biblioteche di tutta Italia e di un nascente turismo, benché ancora elitario. Gli italiani non conoscevano l’Italia, era opportuno e utile che imparassero a conoscerla, e questi fascicoli provvidero egregiamente a una prima perlustrazione. Questo fenomeno si ripeté dopo i vent’anni del fascismo, che non aveva certo favorito la libera circolazione degli italiani nel loro Paese (e la libertà della cultura). Il bisogno che gli italiani conoscessero l’Italia era di nuovo impellente.

Lo si coprì in più modi: la diffusione della stampa settimanale con i suoi servizi e le sue inchieste, corredate in gran parte di immagini fotografiche adeguate e perfino a colori, anche queste una vera novità, e i film del neorealismo, in particolare quei pochi che raccontavano qualcosa di diverso da Roma – divenuta grazie al cinema un modello di riferimento per i comportamenti di tutti. Il film-inchiesta più memorabile dell’immediato dopoguerra fu certamente Paisà (1946) di Roberto Rossellini, episodi della guerra di liberazione dal Sud al Nord del Paese: lo sbarco alleato dalle parti di Salerno, le condizioni di vita a Napoli sotto i nuovi occupanti, la liberazione di Roma, la battaglia di Firenze, la Resistenza organizzata lungo il Po, nel Polesine. Fu soprattutto Rossellini a insegnare a tanti un modo nuovo, a-retorico, fresco e partecipe di ‘documentare’ l’Italia così com’essa appariva dopo vent’anni di dittatura (di cui cinque di guerra, di cui due di guerra civile). Non reggono il confronto le molte, velleitarie e titubanti proposte di Cesare Zavattini e dei suoi seguaci, ma forse il modello più forte e più alto di inchiesta – tra diario e romanzo, tra sociologia e antropologia, tra denuncia e proposta, tra documentazione e riflessione – fu il libro italiano più giustamente famoso negli anni del dopoguerra, Cristo si è fermato a Eboli (1945) di Carlo Levi.

Tra le tante inchieste del secondo dopoguerra merita di venir ricordata l’egregia impresa di Guido Piovene, scrittore veneto, borghese e cattolico, che girò l’Italia dal Nord al Sud alle Isole come inviato della radio nazionale (e accessoriamente di un grande settimanale) tra il 1953 e il 1956 per il suo Viaggio in Italia (1957), documento prezioso di una società in grande movimento, nonostante il peso delle sue tante contraddizioni. Dopo di lui, in quegli anni, vennero i grandi documentari di poesia di Vittorio De Seta sul Sud, le inchieste televisive come il “Viaggio lungo la Valle del Po alla ricerca dei cibi genuini” di Mario Soldati, quelle giornalistiche degli anni del boom di Camilla Cederna, Giorgio Bocca e altri, e i film documentari o a pretese documentarie, e più tardi, già negli anni Settanta e sulla scia degli avvenimenti del Sessantotto e del Sessantanove, le inchieste di Luigi Comencini e di Pier Paolo Pasolini sull’amore e la sessualità, di De Seta sulla scuola e altre.

Ma è opportuno ricordare che, quasi contemporaneamente, all’esatta metà degli anni Cinquanta, sul finire della stagione della ricostruzione e agli albori del miracolo economico ma ancora nel pieno della guerra fredda, due dei maggiori scrittori italiani del Novecento, Pasolini con l’Antologia della poesia popolare italiana (1955) e Italo Calvino con la scelta e riscrittura delle Fiabe italiane (1956), fornirono al Paese un ritratto della sua variegata realtà, della vitalità delle sue culture locali e della loro grande ricchezza.

Il bisogno di conoscere chi siamo e da dove veniamo si è più volte riproposto nella storia della nostra società e della nostra cultura, e non è un caso che esso si ripresenti nei nostri anni non più attraverso i giornali e la televisione (i mezzi di comunicazione di massa per eccellenza, ma divenuti gli strumenti privilegiati dell’omologazione, della manipolazione, della pubblicità, della difesa dello status quo economico e dei suoi assetti di classe), bensì attraverso i libri e i film di una generazione che sembra uscire non tramortita, ma piena di nuove curiosità e di nuova energia dai trent’anni del consumismo e del conformismo che ne è conseguito, gli anni delle vacche grasse e delle grandi illusioni e menzogne. Ma di questo diremo alla fine del nostro rapido excursus.

«Lo stabile e il transitorio» non sono facili da distinguere, diceva Piovene al termine del suo viaggio. È questo il compito più delicato, ma anche più appassionante, di ogni ricerca sull’Italia e non solo sull’Italia, ed è ancora molto difficile affrontarlo se non si è assistiti da una conoscenza diretta e seria, direi perfino vissuta, delle diverse situazioni (anche in ragione della superficialità dei mass media e della frammentazione del sapere universitario, non solo scienza per scienza, ma anche regione per regione). E viene il sospetto che a conoscere meno la penisola e le nostre Isole in tutta la loro complessità e varietà siano, oggi, proprio coloro che meglio dovrebbero conoscerle: i politici e i giornalisti.

«Lo stabile e il transitorio», ma anche il diverso. L’Italia è lunga, dalle Alpi al Mar di Sicilia, dai confini con la Svizzera alla prossimità con le coste africane – ed è questo a creare le differenze più vistose: tra Nord e Sud, tra I promessi sposi e Il Gattopardo, tra Italo Svevo e Giovanni Verga e tra Calvino e Leonardo Sciascia – ma l’osso dell’Appennino crea una distanza forte anche tra la costa ovest e la costa est, tra l’Italia bagnata dal Tirreno e quella bagnata dall’Adriatico, tra un’Italia che ha trafficato con la Spagna e una che ha trafficato con i Balcani, con la Grecia, con il Medio Oriente. Un esempio: il mare che ci circonda e ci avvolge è stato cantato pochissimo dalla nostra letteratura, si contano sulla punta delle dita libri e film importanti che ne hanno tratto ispirazione. E Milano, Torino, Roma, Firenze – le città che, per es., hanno dominato dopo l’Unità il campo delle belle lettere – sono state e restano città eminentemente lontane dal mare, poco o niente interessate alla vita del mare. Anche Roma e forse Roma più delle altre.

Lo stabile, il transitorio, il diverso.

Ascoltiamo su questo Carlo Levi, il torinese costretto dall’esperienza del confino a conoscere il Sud, e a capirlo e amarlo anche più di chi vi era cresciuto, e che ha dedicato alla Roma del dopoguerra, la Roma della ‘politica’ e della sua vittoria sulle prospettive aperte al Paese dalla Resistenza, il più grande e vero ‘romanzo italiano’ dell’epoca, L’orologio (1950), superiore a tutti gli altri che hanno, prima e dopo, raccontato come la capitale fagocitasse e mortificasse, talvolta uccidendola, ogni radicale novità. C’è un suo testo, di prefazione a un libro fotografico tedesco che esplora la penisola con lodevole curiosità ma senza grande talento, che ha il titolo che gli dette Levi, Un volto che ci somiglia (1960). È un canto d’amore all’Italia, all’Italia degli anni della speranza e della ricostruzione, ed è un canto d’amore che appare oggi drammaticamente non proponibile. Nonostante fame, disoccupazione e miseria, nonostante la distanza dei centri e anzi proprio per questo, l’Italia dell’immensa provincia pare a Levi «popolare e aristocratica, non mai media e mediocre» (2000, p. 63).

Per Levi, le stratificazioni non sono giustapposizioni, il passato non è ostile e il presente sa integrarlo nel suo movimento, la contemporaneità italica è diversa da tutte le altre perché è (era) permanenza, è (era) compresenza data

dal lunghissimo seguirsi e incrociarsi e convergere e svilupparsi di epoche e civiltà diverse, e tutte, fin dal principio, storiche, senza che questa così lunga durata abbia incontrato (o, comunque, credo, meno che dappertutto altrove), delle fratture, dei vuoti, delle sospensioni totali, ma si sia quasi sempre realizzata in una infinità di centri diversi, di regioni, di città, di villaggi, di comuni, ciascuno dei quali tendeva a essere un mondo completo, autonomo e autosufficiente; dall’altro, dalla continua presenza, dovuta a ragioni sociali, economiche e strutturali, di grandi masse nuove al processo storico, costrette a percorrerlo per la prima volta, a fare durante una vita di uomo, oggi, il salto, ricapitolando, in rapidissima scoperta e conquista, millenni di civiltà (p 25).

Caratterizzava il nostro Paese, secondo Levi, la «contemporaneità dei tempi», nell’animo di ognuno oltre che nelle piazze, nella storia di ogni città. Da questa compresenza derivava per lui quel «processo verso l’esistenza, con il suo peso di difficoltà, di fatica e di dolore» che è infine «il più profondo e continuo elemento poetico della vita italiana, che la riscatta, sul suo piano di realtà diretta, di continua scoperta, dal peso stagnante dei conformismi, delle tendenze accademiche e burocratiche, dalla lunga oppressione dei problemi non risolti» (p. 26).

Nonostante tutto, nonostante l’acutezza dei contrasti e la fatica dell’accostarsi al giusto, il piemontese-lucano Levi sosteneva non esserci nell’animo dei nostri connazionali la fragilità che gli sembrava caratterizzasse altre culture, quanto meno in Europa, riscontrando invece nei nostri connazionali, dal Nord al Sud e dovunque, «una profonda sicurezza esistenziale», «un senso profondo dell’unità dell’uomo». Egli, da poeta, vedeva un «popolo in cammino» nell’immagine, così diffusa non solo nel Sud, dei contadini che a sera tornavano dai campi ai paesi, alti sulle colline, dopo una dura giornata di lavoro accompagnati da «animali mitologici e reali» (p. 34), l’asino e la capra fedeli. Oggi l’asino è scomparso da ogni paesaggio, ucciso dalla modernità anche se per secoli era stato il più concreto e diffuso aiuto dell’uomo, in numero pari, secondo i vecchi dati statistici, a quello della popolazione attiva, dei lavoratori.

Bisognerà che ci sia pur qualcuno che, senza cedere al pessimismo o soggiacere al disgusto (dunque non pasolinianamente ma levianamente, se così si può dire), cerchi di verificare la distanza di questa sintesi da quella che è possibile dare del nostro presente, il peso della mutazione che è avvertibile non soltanto nel paesaggio ma anche negli animi. Sembrano trascorsi non mezzo secolo ma molti secoli dal mondo descritto e amato da Levi, e da tanti come lui. La prima e vera tragedia della parte di generazione più attiva a cui appartengo, cresciuta, tra Nord e Centro e Sud, nelle speranze e nelle lotte del secondo dopoguerra, è stata quella di aver lottato per un popolo che ci sembrava straordinario e mirabile nonostante tutte le ingiustizie subite, le sofferenze patite, e di vederlo via via svilirsi e corrompersi nel benessere, nelle rivendicazioni, nella febbre del consumo e del conformismo aderendo alla mediocrità della politica e alla corruzione del potere: un’epidemia inarrestabile. È senza dubbio un’Italia non più ‘popolare e aristocratica’, è un’Italia ‘media e mediocre’ quella in cui viviamo da molti decenni, e se si devono individuare delle responsabilità a tutto questo, esse appartengono anzitutto (potremmo dire, quasi esclusivamente?) a un ‘centro’, e cioè a una classe dirigente che ha perduto via via il senso delle sue responsabilità nei confronti del Paese, di tutto il Paese e di tutto il suo ‘popolo’, proponendogli solo le profonde e stordenti gore del ‘populismo’.

Il racconto delle cento città

Torniamo agli scrittori e alle loro e nostre cento città. A narrare le due vere capitali, Roma e Milano, non sono stati soltanto i romani (dopo l’immenso Gioacchino Belli) e i milanesi (dopo l’immenso Carlo Porta), ma gli immigrati, stanziali o transitori, da altre città, regioni. Cito alla rinfusa. Per Milano, che pure ha avuto una grande letteratura, da vera capitale-ombra qual è spesso stata sino agli anni di Carlo Emilio Gadda e di Giovanni Testori, ecco Alberto Savinio (romano: il suo Ascolto il tuo cuore, città, 1944, è il più bell’omaggio di scrittore, dopo Stendhal e dopo i dimenticati Cento anni, 1859-65, di Giuseppe Rovani, alla Milano qual era prima della Seconda guerra mondiale), Elio Vittorini (siciliano), Giuseppe Marotta (napoletano), Luciano Bianciardi (toscano), Giovanni Giudici (ligure), Franco Fortini (toscano) eccetera. Ma Roma, poi! Quanti e chi sono i romani autentici, dopo Belli? Insieme a Elsa Morante e Alberto Moravia, che vi sono nati, chi ha narrato meglio l’‘imperio’ di Federico De Roberto, Gabriele D’Annunzio, Matilde Serao, Gadda, Corrado Alvaro, Levi, Vitaliano Brancati, Mario Soldati, Aldo Palazzeschi, Ennio Flaiano, Pasolini, che venivano da altrove? E ben pochi sono stati, a consultare le nostre biblioteche e nonostante l’attività di alcuni egregi giornalisti – come documentano le belle antologie dei Meridiani sui viaggiatori italiani in Italia curate da Luca Clerici (Il viaggiatore meravigliato. Italiani in Italia 1714-1996, 1999) –, gli italiani che hanno davvero amato l’Italia sì da volerne conoscere la varietà, da essere affascinati dalle sue tante anime e dai suoi tanti paesaggi fisici e umani. Un nome per tutti, i cui scritti sull’Italia sono meno noti di quanto non meritino, il trevisano Giovanni Comisso, che intitolò significativamente La favorita (1945) una raccolta di splendide scorribande tra Nord e Sud perché la sua ‘favorita’ era l’Italia.

Con un’unica eccezione, l’Umbria, regione piccola e contadina che ha però espresso l’esemplare figura del teorico della non-violenza e ‘persuaso’ Aldo Capitini, tutte le regioni italiane – anzi meglio, tutte le province – hanno dato alla letteratura nazionale, e continuano a darle, opere significative di autori importanti che hanno dovuto fare i conti, per una affermazione nazionale, con Roma e Milano, e un tempo anche con Firenze e Torino. Per non parlare della tradizione più lontana e dei filosofi, dei pensatori, che hanno avuto e che hanno origini regionali le più diverse. Sarebbe un gioco assai facile quello di ‘piantare le bandierine’: per ogni nome di rilievo, un paese o una città. Foltissime di bandierine la Sicilia e il Veneto, la Toscana, l’area che possiamo definire, dal suo centro, ‘triestina’, l’Emilia-Romagna, la Lombardia, e poi la Liguria, la Sardegna, e poi la Campania, il Piemonte, la Liguria, l’Abruzzo-Molise, il Lazio, e poi le Marche, la Puglia, la Basilicata.

Proviamo ad aggiungere alcuni nomi, sul filo della memoria (della mia memoria, che si riferisce agli autori amati o conosciuti – cioè letti, ma molti davvero conosciuti – e ne dimentica certamente tanti):

Sicilia: Verga, De Roberto, Luigi Pirandello, Sciascia, Luigi Capuana, Vittorini, Brancati, Stefano D’Arrigo, Vincenzo Consolo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Lucio Piccolo, Gesualdo Bufalino, Giuseppe Bonaviri, Nino Savarese, Salvatore Quasimodo, Giuseppe Lanza, Giorgio Vasta, i molti autori che pubblicano con l’editore Sellerio (e tra cinema e teatro Ciprì e Maresco, Emma Dante, Franco Scaldati). E Danilo Dolci, venuto da altrove.

Area veneta: Antonio Fogazzaro, Giacomo Noventa, Andrea Zanzotto, Luigi Meneghello, Comisso, Mario Rigoni Stern, Guido Piovene, Goffredo Parise, Giuseppe Berto, Fernando Bandini, Pasolini.

Area triestina: Svevo, Umberto Saba, Scipio Slataper, Giani Stuparich, Pier Antonio Quarantotti Gambini, Fulvio Tomizza, Biagio Marin, Virgilio Giotti, Claudio Magris.

Lombardia: Eugenio Montale, Clemente Rebora, Vittorio Sereni, Elio Pagliarani, Giovanni Testori, Dino Buzzati, Danilo Montaldi, Cederna, Elio Pagliarani, Giovanni Raboni, Alberto Arbasino, Alda Merini, Aldo Busi, Michele Mari.

Toscana: Federigo Tozzi, Aldo Palazzeschi, Dino Campana, Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Enrico Pea, Romano Bilenchi, Vasco Pratolini, Mario Luzi, Carlo Cassola, Antonio Tabucchi.

Emilia e Romagna: Giovanni Pascoli, Antonio Delfini, Goisuè Carducci, Giorgio Bassani, Bruno Barilli, Riccardo Bacchelli, Arturo Loria, Renato Serra, Attilio Bertolucci, Tonino Guerra, Piergiorgio Bellocchio.

Sardegna: Grazia Deledda, Salvatore Satta, Giuseppe Dessì, Salvatore Mannuzzu, Sergio Atzeni, Giulio Angioni (e Antonio Gramsci).

Campania: Serao, Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, Raffaele Viviani, Eduardo De Filippo, Domenico Rea, Mario Pomilio, Raffaele La Capria, Luigi Compagnone, Giuseppe Montesano (e Benedetto Croce).

Piemonte: Guido Gozzano, Edoardo Calandra, Soldati, Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Carlo Levi, Primo Levi (Piero Gobetti e Norberto Bobbio).

Abruzzo e Molise: D’Annunzio, Ignazio Silone, Flaiano, Francesco Jovine.

Liguria: Camillo Sbarbaro, Giorgio Caproni, Calvino, Edoardo Sanguineti.

Calabria: dopo Padula e Nicola Misasi, Corrado Alvaro, Saverio Strati, Mario La Cava.

Puglia: Tommaso Fiore, Vittorio Fiore, Carmelo Bene, Vittorio Bodini, Nicola Lagioia.

Basilicata: Leonardo Sinisgalli, Rocco Scotellaro, Albino Pierro.Lazio (Roma): Moravia, Morante, Vincenzo Cardarelli.

Marche: Paolo Volponi.

Umbria: Capitini, Sandro Penna.

E ci sono ovviamente gli ‘apolidi’, che hanno abitato, e assorbito, e narrato più Italie: Giuseppe Ungaretti, Anna Maria Ortese, Piero Jahier, Massimo Bontempelli, Aldo Rosselli, Anna Banti, Alba De Céspedes, Giorgio Manganelli e tanti, tanti altri. Occorre infine aprire una parentesi sulle dimenticanze: perché nei libri accademici più quotati, nelle storie della letteratura, ci sono autori e opere non meno importanti di quelli ‘centrali’ di cui gli accademici si accorgono in ritardo, grazie all’insistenza di pochi non accademici. Fa parte del normale gioco delle generazioni, che esprimono gusti diversi rispetto alle vecchie, ma fa parte anche della pigrizia del centro, dei centri. A volte della loro pigrizia, dei loro pregiudizi. Solo di recente – penso all’eccelso e pionieristico esempio di un non-accademico come Giampaolo Dossena, cremonese – alcuni accademici hanno provato a stilare storie della nostra letteratura nazionale a partire dalle sue origini ed espressioni regionali, ma tuttora dimenticando o sottovalutando nomi di scrittori e scrittrici invisi ai loro canoni o dei quali, semplicemente, ignorano l’esistenza. E sarebbe opportuno un repertorio delle riscoperte necessarie, delle opere di scrittori e scrittrici trascurati in vita o dimenticati subito dopo la morte.

A seconda degli anni e delle influenze, la cultura italiana ha avuto una vitalità e una varietà regionali sorprendenti che, credo, nessun Paese europeo, salvo forse l’Inghilterra e la Germania, possono vantare ugualmente varia, se non ugualmente fitta. E pochi sono, al confronto, gli autori che attraversano più regioni, che si distaccano dall’humus di provenienza per diventare sovraregionali senza un definito carattere originario, nonostante il richiamo e il ricatto dei ‘centri’, la necessità o l’obbligo di farsi ‘nazionali’ (e questo non riguarda soltanto la letteratura). Ma quando si dice regioni, o province, o aree, o territori, si intendono anzitutto città, ché l’Italia è stata e rimane quella delle ‘cento città’. E sarebbero ancora da indagare i legami che più scrittori (in verità pochi) hanno avuto con l’Europa, con le Americhe, perfino con l’Africa, e i modi in cui queste li hanno influenzati. È molto recente – e anche questo è significativo della miopia dei ‘centri’ – l’attenzione accademica alla storia delle nostre migrazioni, tra la fine dell’Ottocento e gli anni del ‘miracolo’, e di conseguenza agli scrittori e registi dei Paesi di destinazione di origine italiana, come gli italoamericani John Fante, Pietro Di Donato, Arturo Giovannitti, Giose Rimanelli, Martin Scorsese, Francis F. Coppola, Abel Ferrara, che hanno narrato, a ben vedere, culture regionali o paesane trapiantate in contesti lontani. La ricchezza dell’Italia è in questa diversità, in questa pluralità.

La vocazione centralizzatrice

C’erano un tempo più centri dove la vita culturale della nazione si esprimeva al meglio, dopo l’Unità, quantomeno quattro: Roma e Milano, Torino e Firenze – due delle quali ex capitali della nazione e una la capitale che è tale dal 1871, a cui va aggiunta nel Sud la vecchia capitale meridionale, Napoli. Questo ha riguardato in particolare l’editoria – libri e giornali. Il teatro ha avuto in passato fortissime radici locali, in particolare quello povero, e dialettale, soprattutto comico, che hanno resistito nel tempo, fino agli anni Sessanta del Novecento, in ragione di un rapporto diretto con il pubblico, con gli ambienti da cui nasceva. L’esempio più forte è stato quello di Napoli, dove – tra una popolazione perlopiù analfabeta – l’invenzione artistica si è espressa soprattutto nella canzone e nel teatro, nella comunicazione che non ha bisogno di essere scritta (basti pensare ai nomi di Viviani, Eduardo, Totò, ben più noti e influenti di quelli degli scrittori loro contemporanei. Ma si potrebbe proseguire con la Milano di Edoardo Ferravilla, la Genova di Gilberto Govi, la Catania di Angelo Musco e Nino Martoglio, la Trieste di Angelo Cecchelin, la Venezia di Cesco Baseggio, la Roma di Aldo Fabrizi e Alberto Sordi, la Palermo di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia ecc.). E un capitolo a parte meriterebbe la storia della nostra poesia dialettale, fiorita di nuovo negli anni dell’omologazione come modo di dire cose che la povertà della lingua nazionale non aiutava più a dire.

A essere cultura, a ‘fare cultura’, per la borghesia postunitaria e per la piccola borghesia che a essa si riferiva, che a essa si ispirava, erano soprattutto i libri. Essi erano scritti e prodotti al suo interno anche quando si trattava, in un lodevole sforzo di alfabetizzare il Paese e di ammaestrarne gli abitanti, di opere di divulgazione, in particolare di editoria scolastica e parascolastica. Fece eccezione l’editoria cattolica che col tempo riuscì a prevalere nel campo della ‘scolastica’ e che ebbe il suo massimo sviluppo in Lombardia e Veneto, da Brescia a Padova, contrastata in parte da Torino e Bologna con iniziative laiche, minoritarie (talora di origine protestante o ebraica) e non nella capitale, per il transitorio isolamento del Vaticano almeno fino al Concordato, quando però era troppo tardi perché un’editoria cattolica vi si potesse imporre.

La storia della cultura italiana è dunque storia regionale che si fa nazionale per forza propria, imponendosi con qualche fatica perché il centro tende a sfruttare o a cooptare, vuole essere centro a tutti gli effetti – economici (commerciali) e culturali (politici) – innanzitutto negli anni del fascismo e negli anni della grande mutazione, quando la sconfitta delle novità tentate dai movimenti (il Sessantotto, il Sessantanove …) si fa più radicale, e si impone un modello mediatico meno che mai rispettoso delle differenze. Con una distinzione oggi particolarmente netta tra la pesantezza del centro e la vitalità, nel bene e nel male, delle province, delle ‘periferie’.

Ma facciamo un altro passo indietro e vediamo l’esempio più evidente di questa vocazione centralizzatrice del potere politico e di conseguenza culturale, quello del cinema. Il nostro cinema è nato più o meno contemporaneamente ed è diventato un luogo di produzione di portata nazionale e internazionale, a Torino (specializzandosi nei supercolossi come Cabiria, 1914, di Giovanni Pastrone), a Roma (con un cinema dannunziano e borghese come, per es., Ma l’amor mio non muore, 1913, di Mario Caserini) e a Napoli (la sceneggiata, e il verismo, per es. di Sperduti nel buio, 1914, di Nino Martoglio). Dopo la crisi degli anni Venti, il fascismo creò con Cinecittà, a Roma, la concentrazione delle attività produttive e il monopolio sul cinema, perpetuato dalla politica della sinistra nel dopoguerra, innanzitutto dal PCI (Partito Comunista Italiano) nella sua politica di egemonia culturale e dai sindacati dei tecnici nella loro difesa corporativa.

L’idea di fondo del fascismo e dello stesso Benito Mussolini era di promuovere un’industria in una capitale che ne era priva, ma un’industria particolare, che assorbisse molto personale legandolo a privilegi particolari, e che riguardasse il settore dell’intrattenimento, del ‘tempo libero’ degli italiani – un diversivo alle pene quotidiane, un modo di aiutare a pensare e sognare altro da quelle. Nell’antica logica dei circenses, contava, per il fascismo come per il nazismo, ma anche per le democrazie, un modo di distrarre piuttosto che di convincere a un’idea politica, un modo di sognare (è solo in anni più vicini a noi, con la televisione prima e con l’uso che ha saputo farne il berlusconismo, che si è tornati alla propaganda vera e propria, diretta, di un leader e di un’organizzazione, di una precisa immagine e non solo di uno ‘stile di vita’).

Con la Liberazione, il cinema ha cercato altre strade, preannunciate dal regionalismo di Ossessione (1943) di Luchino Visconti e dalle ambientazioni regionali del cinema detto calligrafico, basato su romanzi e racconti dell’Ottocento, anche minore. Negli anni del neorealismo ha cercato, di rado, di raccontare le province, e in particolare quelle meridionali, ma era pur sempre da Roma che partiva ed era a Roma che tornava. I tentativi di una produzione regionale (da Milano a Napoli, da Palermo a Bari, da Torino alla Sardegna) sono stati sempre accanitamente frustrati dalla difesa di un centro da cui è stato obbligatorio passare, e dai suoi condizionamenti sia economici sia culturali. La storia del cinema italiano dal 1945 di Roma, città aperta di Rossellini in avanti, solo oggi costretta a nuove mosse dalla crisi, è stata una storia romana. Si potrebbe e dovrebbe fare una storia dei tentativi di sfuggire a Roma negli anni Ottanta e Novanta, quando a Milano – che pure era ed è Milano! – con il gruppo di Indigena (il nome più noto, Silvio Soldini), a Napoli (Mario Martone), a Palermo (Ciprì e Maresco), in Sardegna (Salvatore Mereu), ma anche a Torino e a Bari, in Veneto e in Emilia, e con la nascita delle Film commission regionali, si è cercato in più modi di contrastare la mediocrità del cinema romanizzato e la rigidità dei percorsi che obbligatoriamente dovevano condurre i cineasti nella capitale per i finanziamenti, per le attività di postproduzione, per la distribuzione. Era Roma a imporre le sue regole e le sue pastoie, sempre e comunque. Con gli anni Novanta, accessoriamente s’impose Milano, per i finanziamenti offerti dalla Mediaset di Berlusconi e dalle produzioni Medusa. È d’uopo a questo punto constatare che il cinema che Roma ha prodotto, condizionato, sponsorizzato è stato tra i meno creativi, mondialmente, dell’ultimo ventennio del Novecento e del primo decennio del nuovo secolo. Questo cinema conformista e consolatorio nelle commedie familiari paratelevisive e ipocrita nelle denunce politiche (i ‘cattivi’ sono sempre ‘gli altri’) ha cominciato a declinare solo negli ultimi anni e a causa della crisi, che ha stimolato nuovamente le energie locali, benché tuttora assai fragili, riuscendo comunque a raggiungere risultati artistici egregi.

È stato ancora il fascismo, nella sua smania di controllo, ad aver soffocato in più modi la produzione locale di libri un tempo varia e vivace (si pensi per es. alla casa editrice Carabba di Lanciano, in Abruzzo, che ebbe rilevanza nazionale per molti decenni), con la sola eccezione della Laterza di Bari, di influenza liberale prima e comunista dopo la guerra, e ad aver combattuto tutto ciò che riguardava la ‘cultura di massa’, trovando un ostacolo solo nella produzione cattolica, in particolare quella variamente educativa e legata dunque alla scuola, che ha avuto i suoi centri nelle zone dove era tradizionalmente più forte il peso della Chiesa, da Brescia a Padova (le case editrici fondate da ebrei vennero ovviamente boicottate dopo le leggi razziali; il caso più noto è quello della milanese Treves, la più interessante e aperta alla cultura italiana del suo tempo, ceduta a Garzanti).

Lo statalismo è stato peraltro una costante della scuola italiana postrisorgimentale. Si veda in proposito il dibattito di fine Ottocento su scuola pubblica e scuola privata ricostruito nei testi ormai classici di Lamberto Borghi e Dina Bertoni Jovine, che partivano però da schieramenti diversi, laico e socialista il primo, comunista la seconda, anche se concomitanti nella richiesta di una scuola per il popolo che mirasse alla emancipazione delle ‘classi subalterne’. Allo statalismo e al centralismo delle classi dirigenti si è opposta un’esigenza federalista che ha portato alla valorizzazione, più burocratica che sociale, delle istituzioni regionali e provinciali, condizionate bensì dai partiti nazionali, tutti centralisti, e con il centro a Roma. Hanno cercato di mantenere una loro autonomia di modelli più regioni, alcune grazie alle preoccupazioni di un loro scollamento, nell’immediato dopoguerra, per la vicinanza a economie e culture forti come la Francia (la Valle d’Aosta) e l’Austria (il Trentino-Alto Adige) o per le loro spinte indipendentiste (la Sicilia, e con minor pressione la Sardegna).

Con gli anni del boom, Milano ha consolidato e allargato la sua influenza nella produzione e nella diffusione del libro, strappando sempre più terreno alla rivale Torino, da dove l’Einaudi, che si voleva portavoce di un progresso nazionale legato in modo solo parzialmente autonomo alla politica del Partito comunista (e dunque, in sostanza, a Roma) aveva preteso una sorta di primato sulla formazione delle idee dell’intellighenzia e del vasto funzionariato culturale e pedagogico del Paese (in verità, rispetto alla letteratura, erano assai più libere e inventive nella scelta degli autori italiani da pubblicare e sostenere la fiorentina Vallecchi e le milanesi Bompiani e Mondadori).

La vocazione centralizzatrice si è affermata anzitutto nel campo dei media più influenti sulla formazione delle idee e dei consumi degli italiani, nei grandi giornali – i due più importanti, a tutt’oggi, come il «Corriere della sera» milanese e «La Repubblica» romana, e accessoriamente «La Stampa», torinese, da sempre legata alla FIAT – e nel campo della televisione e del cinema. Si è trattato di una sorta di monopolio, in questo caso, più rigido per quanto riguarda la televisione, che è stato ed è ancora il regno di una ‘casta’ di burocrati e ‘comunicatori’ privilegiata e chiusa, dove si è entrati molto di rado per cooptazione e quasi sempre per lottizzazione e clientelismi politici. Quasi mai per concorso, che per altro è, come avviene nell’università, non sempre oggettivo.

Prima della televisione e poi in alternativa alla sua ‘unica proposta’ di merce e di messaggio, nella dimostrazione più evidente della differenza tra il dire (e il predicare) e il mostrare (il praticare), esisteva una differenza forte tra i giornali nazionali e i locali (regionali, provinciali, da ‘cento città’), e dunque un’autonomia cosciente dei secondi, in dialogo per lo più conflittuale con quelli nazionali, la cui invadenza ha finito per soffocarne la differenza rendendoli non più espressione degli interessi di un territorio ma trasformandoli in ‘supplementi’ di quelli nazionali – forse l’espressione più insulsa di un localismo rispondente alle logiche del centro, strumenti coloniali del centro –, oppure, con un fenomeno del tutto nuovo perlomeno in certe regioni del Sud (penso in particolare alla Calabria), rappresentanti di interessi campanilistici al servizio dell’espansione di gruppi di potere locali, o meglio, di accorpamenti locali di gruppi di potere, di piccole ‘massonerie’ zonali o perfino municipali. Con questo modello si direbbe compiersi un percorso che vede nelle periferie, nelle province, le parodie del potere centrale più che la persistenza di autonomie locali, a fianco dei pochi ‘caciccati’ che hanno resistito al tempo e dei protettorati dei nuovi partiti dell’arrembaggio al potere centrale per l’affermazione e la difesa di interessi decisamente privati, di qualche rilevanza per gli arricchimenti locali. Clamorosa da questo punto di vista, anche se ancora poco analizzata, e sofferta solo da pochi, è la scomparsa della ‘questione meridionale’ dal dibattito nazionale, non perché non resti uno dei cardini più resistenti della particolarità italiana, ma perché è all’interno del Sud medesimo che non se ne avverte l’imponenza, la gravità. Ogni regione, e spesso con forti differenze e divisioni al suo interno, sembra vedersi isolata dalle altre, unica e diversa, e se la Calabria ignora la Puglia, la Puglia ignora la Sicilia, la Sicilia ignora la Campania, la Basilicata ignora la Sardegna e così avanti, ciascuna pensando a una ‘questione regionale’ e non a una più ampia, appunto, questione meridionale. Le differenze tra Nord e Sud permangono e crescono, in questi anni, nonostante la crisi e forse anche come sua conseguenza, e se, nella distinzione, il Nord si vive come europeo, il Sud non riesce nemmeno a viversi come mediterraneo. La Puglia, con la sua insolita, benché ormai periclitante, capacità di auto-organizzazione verso riforme di sostanza non solo amministrative – sulla base appunto di uno sviluppo stimolato in gran parte dalla riapertura o intensificazione dei suoi rapporti con l’altra costa dell’Adriatico che ha ridato vita alla sua vocazione ‘levantina’ – avrebbe potuto servir da modello alle altre regioni e proporre collegamenti e scambi dentro una nuova visione della questione meridionale vista come parte di una questione mediterranea (si veda F. Cassano, Il pensiero meridiano, 1966), ma non è riuscita a farlo, o non ha voluto.

Non sembra, invece, che esista una questione meridionale nella cultura, almeno negli anni della crisi, e in particolare nei primi anni Dieci del nuovo secolo. Le illusioni del trentennio hanno riguardato tutta la generazione postmovimenti (tra riflusso, new age, illusioni, arrembaggi sociali e culturali, nuovi raggruppamenti e nuove clientele, e un precariato ancora protetto e sdrammatizzato dall’assistenza familiare) e la grande editoria ha saputo, dopo molte titubanze, buttarsi sul cambiamento e profittarne, cercando e accettando autori e opere di ogni dove, purché rientrassero nelle sue prospettive commerciali. Inoltre una generazione (che potremmo anche definire con qualche ragione ‘famelica’ di beni e di fama) di giovani che ‘hanno fatto l’università’ anche nelle regioni in passato le più depresse, e sono mediamente e genericamente colti e hanno imparato il mestiere di scrittore o cineasta o teatrante o altro fuori dalle università (proliferate dovunque), e nelle scuole di scrittura, di cinema, di teatro ecc. (anch’esse proliferate dovunque), si è rivelata in grado di scrivere libri quasi su ogni cosa e certamente da ogni luogo.

Esiste dunque una questione di qualità, non di quantità e di commerciabilità – nei limiti di un mercato tuttavia ristretto quale è per es. quello, tuttavia centrale, del libro e del film. I buoni libri e i buoni film vengono da più parti per opera di autori giovani, e se non giovani nuovi, smaliziati e preparati, che cercano di raccontare cosa siamo diventati e indagarne le cause. E sono spesso – quasi sempre – analisti efficaci del nuovo mondo e delle sue storture. Come negli anni del neorealismo e in quelli del miracolo, sentono come necessità e dovere di studiare il Paese e raccontarne il male e il bene che vi si confrontano o mescolano (a cominciare è stato, ed è ormai senso comune, Roberto Saviano raccontando in Gomorra, 2006, una parte d’Italia, la Terra di lavoro tra Aversa e Caserta, di cui il resto degli italiani sapeva ben poco o non voleva sapere). L’inchiesta sociale ha visto un nuovo slancio, e il romanzo se ne è nutrito. Ma si può affermare con certezza che anche chi faceva inchiesta ha saputo nutrirsi delle acquisizioni di chi inventava storie sulla base di un vissuto o di una investigazione. Languono o vanno morendo i giornali, o mentono per superficialità e ‘sottocultura’ o per compromissione nel potere. E mentre le tre città che vengono più narrate restano Roma, Milano e Napoli – i luoghi dove sembrano concentrarsi le ambiguità politiche e sociali, ergo culturali, più forti del nostro tempo –, si assiste nel resto del Paese a una paradossale situazione di povertà della proposta politica e al contrario di una vivacità della cultura, non soltanto, come appena ieri, nel senso del consumo (che ha raggiunto i suoi limiti con la moltiplicazione delle fiere del libro, delle ‘tribù dei lettori’, dei festival cinematografici, teatrali, filosofici, scientifici, religiosi e quant’altro, delle sagre e dei premi), ma anche nel senso di esigenze nuove di qualità e di rigore. È significativo che non ci sia distinzione per provenienza tra gli autori di maggior talento e progetto, a seconda delle cento città (e delle loro campagne), nella serietà con cui sanno raccontarne problemi, tensioni e speranze, distinguendosi per questo dalla marea degli scriventi, dei filmanti, dei recitanti, dei musicanti, dei pittanti e disegnanti.

Una storia particolare di questi anni dovrebbe ancora riguardare la diffusione e la rilevanza che ha avuto la poesia dialettale nella letteratura degli ultimi decenni, proprio quando si pensava, pasolinianamente, che i dialetti morissero, mentre invece stavano rinascendo, sia pure diversi da quelli del passato. Un modo di resistere delle differenze, delle specificità, e la constatazione che certe cose, certi sentimenti, non potessero più venir detti nella impoverita lingua nazionale, resa più povera e ‘inespressiva’ dal linguaggio dei media e della politica.

Ma si può davvero parlare oggi di ‘vitalità’ delle province e di ‘mortalità’ dei centri? Senza ovviamente pensare a chissà quale salute delle province, a me pare evidente. «Il pesce puzza dalla testa», dice un vecchio proverbio sempre attuale. Naturalmente non fanno testo quegli artisti, professori, giornalisti che venendo dalla provincia hanno scelto Roma o Milano per le loro affermazioni e carriere, rapidamente inglobati nella logica centralista e aggressiva/autodifensiva delle due capitali (così poco ‘morali’), rimaste immeritatamente alla testa della vita collettiva, concentranti nei loro centri di potere le imposizioni internazionali e le istanze dei potentati locali, costringendo la collettività alle loro scelte. Così mi scrive l’amico sopracitato, dopo aver letto una prima stesura di queste note:

Il Centro culturale e antropologico che alimenta Roma e assorbe le periferie è la Televisione, che seziona i provinciali proprio come fanno nei ministeri con i funzionari. Devi aggiungere un paragrafo sulla cattura e corruzione dei pessimi provinciali diventati romani (o milanesi), sulla letteratura dei giornalisti e sui best-sellers di Bruno Vespa, sulle differenze della Roma di Flaiano e di quella di Costanzo e di Fazio e di tutti i pessimi scrittori e attori cantori che la provincia porta all’ammasso di un centro che la televisione ha reso apparentemente irradiante ma in realtà assorbente e funzionante da tampone che schiaccia ogni differenza che non si consegni all’ammasso di una cultura di mass[a] media, che è la sottocultura sovrastante della televisione che ha fatto anzi strafatto i nuovi italiani. La camorra o forse la piccola criminalità c’è anche in cultura e fa la parte del leone ed è questa la base non silenziosa delle maggioranze di vertice.

Condivido parola per parola, e avrei tanto da aggiungere: anche nomi e cognomi di contestatori di ieri e opinion-makers di oggi.

Centri e periferie

Prima di tutto, c’è da chiedersi chi viene mandato al centro dalla periferia? E come? Basterebbe rileggere da alcuni ‘classici’ (La conquista di Roma, 1885, di Serao; I vecchi e i giovani, 1913, di Pirandello; L’imperio, 1928, di De Roberto) per vedere come Roma non abbia attirato il meglio delle classi dirigenti locali nella sua Camera e nel suo Senato. E lo stesso è accaduto con il funzionariato nazionale, con le sue regole di autoprotezione e perpetuazione. E bisognerebbe accennare anche alla figura dei prefetti e alle sue varianti, alla loro funzione di controllo sulla provincia (Gaetano Salvemini li combatté, senza però farsi illusioni sulla ‘salute’ delle province, e da ultimo anzi quasi li difese, di fronte al malgoverno dei gruppi dirigenti locali). Eppure…

Eppure ci sono stati periodi anche lunghi della storia unitaria in cui il rapporto centro-periferia ha avuto linee direttrici robuste e uno scambio, se non paritario, certamente vivace. La difficoltà di ‘tenere insieme’ e far procedere congiuntamente le varie parti del Paese è stata sentita da molti legislatori e anzitutto dalla sinistra, che sapeva mettere in conto le due necessità, dell’autonomia e dell’organizzazione, del contributo delle periferie e delle mediazioni necessarie che il centro poteva offrire. Ci sono stati modelli che hanno avuto un’influenza lunga e positiva. A volo d’uccello: le figure dei sindaci non sono sempre state negative, anzi molti di loro hanno difeso autonomie e interessi locali egregiamente, nonostante che da ultimo, con l’accentuazione e l’insistenza di un modello di politico che si impone grazie all’immagine e non alle qualità, hanno miserevolmente cercato di supplire alla povertà di preparazione e di progetto con un divismo messo subito a dura prova dallo scontro con i problemi reali delle città che hanno creduto di poter governare (è inoltre da lamentare oggi la perdita di peso di figure di collegamento e controllo quali sono stati i segretari comunali); le proposte organizzative realizzate dal movimento operaio e socialista dell’Ottocento, per es. con le Camere del lavoro pluriprofessionali e senza le successive divisioni corporative, hanno creato nessi di tipo confederativo sul piano nazionale, peninsulare; gli stessi partiti, soprattutto nel secondo dopoguerra e almeno fino agli anni Settanta, hanno costituito una sorta di ossatura del Paese che è servita a legare e non dividere; i meridionalisti ‘classici’ hanno sempre insistito su ciò e in questo senso operato, fino all’esempio, nel secondo dopoguerra, di quelli come Rossi-Doria, fautori della riforma agraria ma nell’ottica di una politica nazionale rispettosa dei bisogni maggiori delle aree del Paese dette depresse; un filone ancora cattaneano presente nella borghesia nazionale, in particolare lombarda; il modo di governare attuato in Emilia-Romagna tra la liberazione e, ancora, gli anni Settanta, è stato un punto di riferimento importante per qualsiasi altra esperienza di democrazia locale, non astratto, non solo ideologico; e così via. Ma a vincere è stato, con le mutazioni del sistema economico e l’assetto delle classi, con il prevalere dell’economia (e cioè del peso delle classi abbienti) sulla politica e con la crisi della democrazia che ne è seguita, un modello accentratore, che ha chiesto alle periferie di aderire alla sua amoralità di fondo, nella spartizione di privilegi e non nella accentuazione dei reciproci doveri.

Ma, più in generale, chi parla oggi di riforma della burocrazia? Dovrebbe essere una preoccupazione politica fondamentale, nel nostro Paese. Ma nessuno prende ancora in considerazione la sua necessità, anche se il centro – i governi – nei primi anni Dieci del nuovo secolo vanno anzi insistendo sulla necessità non di una trasformazione vitale degli istituti regionali, provinciali, comunali (imperfetti o imperfettissimi) bensì sul loro ridimensionamento, sulla loro ‘messa a regime’ a vantaggio assoluto del centro. Il risultato della politica del centro sembra essere l’affermazione nelle periferie del modello di una politica chiusa ed egoista, corporativa e settoriale, che sa sfruttare il centro per i propri interessi, imponendoli localmente attraverso nuovi modi di organizzarsi che passano dalle università, dalla sanità, dalla pubblica amministrazione. Tra i molti che s’improvvisano classe dirigente a partire da interessi economici concreti e si impongono attraverso un’accorta occupazione della cosa pubblica (si veda il caso più imponente di tutti, quello della sanità), ci sono anche, in dubbie alleanze con costoro, le malavite cresciute in uno specifico territorio ma che hanno saputo diramarsi conquistando nuovi legami con i più ambigui poteri locali e riuscendo a unire il locale al nazionale e all’internazionale. È il denaro a stabilire modi e regole dell’incontro, sono le banche – mal controllate dal centro, e perno a loro volta di un sistema finanziario europeo e ‘occidentale’, in gara con altre finanze, altre economie, altri modi dell’espansione e del controllo. La criminalità organizzata locale – con le diverse mafie siciliana, campana e infine calabrese – ha saputo costruire una fitta rete di alleanze o di filiazioni altrove, in territori che, fino a pochi lustri fa, da questa cancrena erano considerati intangibili.

La provincia, le periferie, sono anche ciò; non si dovrebbe mai dimenticare che esse esprimono anche quest’altro genere di vitalità, condizionando il centro e infiltrandosi al suo interno nei luoghi più suscettibili di influenza – che sono da sempre quelli dell’economia e della finanza – da quando la crisi delle grandi organizzazioni politiche ha lasciato libero il campo a modi di affermarsi, di entrare nella lizza e di fare carriera, modi che vengono decisi più dalla pubblicità e dall’immagine che dalla sostanza delle proposte. Non solo, la politica è uno dei modi oggi più sicuri di farsi strada nel mondo, e per i giovani più ambiziosi di conquistare uno status, di arricchirsi e di soddisfare il proprio narcisismo, aggiornando i meccanismi del più sfrenato populismo che si sono diffusi a macchia d’olio negli anni Novanta e successivi.

Avere e sembrare contano assai più che essere, assai più che nei precedenti contesti storici. La più impressionante delle trasformazioni subite dall’Italia repubblicana è conseguente alla diversa declinazione delle classi sociali derivata dalle mutazioni dell’economia, una volta concluso il ciclo storico dell’industria metalmeccanica e dell’industria chimica. Il radicale assottigliamento del mondo contadino e il suo asservimento a nuove leggi economiche e scientifiche, la perdita assoluta di peso del proletariato, industriale e di altro genere, la (mediocre) scolarizzazione di massa e il crescente rilievo delle comunicazioni di massa, il fenomeno delle nuove indebite ricchezze – dagli anni Ottanta in avanti – a danno dei più hanno reso più facile la manipolazione ideologica, soprattutto negli anni in cui la nuova economia sembrava portare a tutti nuova ricchezza (ma concentrando nelle tasche di pochi il massimo, e lasciando agli altri le briciole, che erano tuttavia sostanziose e, si diceva dall’alto, destinate a farsi sempre più consistenti e a far cumulo e torta). Il fenomeno del populismo – e dovremmo ormai dire delle varie fasi del populismo o dei vari populismi – nasce da questo, e si declina in modi simili secondo i territori, rispettando differenze locali, vernacolari, e a volte creando conflitti tra loro come, ancora una volta, tra Nord e Sud.

C’è ancora qualcosa da aggiungere, e non è gradevole farlo. L’Italia non è più un solo Paese, e molti ormai se ne accorgono, lo soffrono e lo denunciano. Cito da un articolo di un commentatore politico di cui è possibile condividere, per gran parte, la disperazione, anche se si colloca dalla parte del centro e guarda alla difesa del centro:

Sgretolando lo Stato centrale e accaparrandosi le sue funzioni, un demenziale indirizzo politico federalista, al quale hanno aderito tutti i partiti, ha di fatto liquidato l’eguaglianza dei cittadini proclamata dalla Costituzione. Oggi ogni italiano paga tasse diverse, viene curato in modo diverso, gode di servizi pubblici, di mezzi di trasporto, di quantità e qualità diversa, studia in edifici scolastici degni o fatiscenti, a seconda che abiti a Sondrio o a Trapani, che sia un italiano del Sud o del Nord. I modi e i contenuti reali del suo rapporto concreto con la sfera pubblica dipendono in misura pressoché esclusiva solo da dove si è trovato a nascere e a vivere. […] Questo (e molte altre cose, eguali o peggiori) è il Paese reale. Ed è a partire da esso che va ripensata la crisi italiana. Il cui carattere più intimo e vero non sta nell’economia, che in certo senso ne è solo l’involucro. Sta nel fatto che una parte sempre maggiore di italiani – in modo specialissimo quelli che abitano il Paese reale, per l’appunto non riesce più a credere di far parte di una comunità retta da regole certe fatte rispettare da un’autorità vera. Non riesce più a credere, cioè, che esista uno Stato (E. Galli della Loggia, Argini infranti di una comunità, «Corriere della sera», 11 nov. 2014).

È giusto, è vero; ma si può partire anche da un’altra parte, reagendo a una situazione in cui i mali del centro e quelli della periferia sembrano gareggiare tra loro nell’opposto del ‘ben fare’ dantesco e del ‘buon governo’ lorenzettiano. In Italia ci sono aree (per quanto fragili) di resistenza e di invenzione pressoché dovunque. A caratterizzare gli ultimi decenni, parallelamente alla crisi dei partiti (della politica tradizionalmente intesa, di una democrazia sana ed efficiente) è la diffusione di esperienze locali di intervento sociale che – nella crisi delle istituzioni, nell’incapacità manifesta del centro di rappresentare le giuste istanze di novità imposte dalle mutazioni e dalle loro aggressioni – hanno saputo parzialmente supplire alle crescenti mancanze, ai crescenti abbandoni, e organizzare, assistere, proteggere e infine mediare tra i nuovi bisogni inevasi e le popolazioni locali, ivi compresi i poteri locali. Esse riguardano gruppi cattolici e laici, e non il poco che rimane delle organizzazioni della vecchia sinistra, abbarbicate ai nuovi come ai soliti centri di potere. Riguardano ‘persone di buona volontà’ raramente affiliate a grandi agenzie nazionali. Queste ultime, peraltro, si sono trovate sottoposte al ricatto che derivava dalla loro stessa crescita, dal loro stesso successo, dalla loro burocratizzazione e dalla necessità di difendere il proprio spazio trovando alleanze politiche e alleanze economiche; e sono tante quelle che, di compromesso in compromesso, hanno perduto la loro novità e si sono ridotte ad accettare logiche di sottogoverno, protezioni ambigue (comprese quelle delle grandi fondazioni internazionali i cui finanziatori e manager, dopo aver contribuito all’esplosione della crisi, sembrano ora mirare al controllo delle possibili reazioni locali finanziando i possibili ammortitori dei conflitti). Ma ciò non toglie che altre ve ne siano, più determinate nelle loro scelte di intervento, e più vicine ai bisogno di coloro che assistono, e con i quali operano, nel cui nome parlano. È stata illusione di molti che la politica potesse rinascere in Italia a partire non dalla politica, ma dai campi, che sembravano più sani, dell’educazione e dell’intervento sociale. La crisi o scomparsa del welfare ha posto queste figure di ‘buoni’ in situazioni difficili, spingendo molti a difendere prima che gli interessi dei loro assistiti (che era infine la ragion d’essere del loro intervento) i propri, invece che cercare alleanze con loro, e lottare insieme. Forse questo può ancora succedere, nonostante tutto.

Si è assistito negli ultimi anni e si assiste tuttora a un doppio processo: di omologazione, proposta e imposta dal centro (che non è solo Roma o Milano – è Bruxelles ed è Wall Street), e di resistenza e movimento nelle ‘periferie’. Politicamente il centro sfrutta e manipola, media tra poteri e sotto-poteri; culturalmente sceglie e commercializza, secondo interessi economici e secondo scelte che integrino, modelli che unifichino e condizionino. Ma le periferie inventano? Le province sembra vadano tuttavia avanti per conto proprio, bensì su due direttrici: una, evidentemente negativa (il localismo; la proliferazione di iniziative – case editrici spesso velleitarie e parassitarie, festival e manifestazioni, mostre e convegni anche egregi ma che promuovono la cultura come svago e tempo libero, come consumo effimero di idee intercambiabili e non come sollecitazione alla comprensione, alla riflessione, e soprattutto all’azione) e una positiva, una creatività autentica anche se procede disordinatamente e faticosamente ed è spesso sopraffatta dal ricatto economico, dai clientelismi, dal peso deformante e ottuso delle università. Si è voluto diffondere localmente l’istituzione universitaria in modi spesso insensati e nel cui seno si riproduce (e si fa guerra) al 90% una casta mediocre, dalle regole astruse e dalle finalità confuse, basata su un sistema di privilegi decisamente classista. La difesa e proposta in loco della propria originalità e della propria storia (es. Trentino, Friuli, area triestina-istriana-slovena, parte del Sud) ha meriti indubbi ma anche indubbie carenze, nel senso di un’assenza di responsabilità sia verso la periferia sia verso la nazione, verso la collettività. Di questo è colpevole il centro, soprattutto quello ‘culturale’ con le sue convenzioni scritte e non scritte.

Non tutto ciò che è provincia è buono: si vedano le mafie e si vedano anche le leghe. La provincia esprime anzi due contrari: omologazione, conformismo e sudditanza, contro novità, creazione e proposta. Ma è assai raro che il centro abbia una proposta positiva da affermare, e cerca anzi in ogni modo di controllare e sfruttare, di addomesticare o perfino di uccidere quel che di buono e di nuovo viene dalle periferie.

Come uscirne? Il nostro discorso è semplice e trova la sua base in una riflessione sul rapporto maggioranze/minoranze. Si parla, è ovvio, di minoranze etiche e non etniche, o sessuali, o religiose, ché non c’è nessun merito a nascere neri o bianchi, maschi o femmine, ricchi o poveri, cattolici o protestanti. Se la democrazia non può rifiorire dalla politica così come essa si è ormai imposta e insediata nel Paese e nel mondo, da dove ripartire se non dalle minoranze? È un discorso vecchio, a ben vedere, ed è quello che si affermò nell’Ottocento risorgimentale attraverso il confronto, la compresenza e la fusione tra pensiero e azione. Si ha bisogno di nuovo pensiero, perché si ha bisogno di nuova azione, e viceversa. A questo può provvedere solo una nuova (antica) concezione della politica e della democrazia, partendo da quelle minoranze attive ed etiche, là dove esse agiscono e qualora sappiano farsi carico di una maggiore, molto maggiore responsabilità nei confronti della collettività e del futuro.

Le minoranze socialmente attive sono appartenute in passato a più tradizioni, la religiosa (prevalentemente e quasi esclusivamente cattolica), la socialista, la liberale-borghese-progressista (d’impronta crociana e non montanelliana). Nella storia del Risorgimento e dell’Unità, e poi in quella dell’antifascismo, della Resistenza e della ricostruzione, hanno avuto un ruolo rilevante, niente affatto secondario, la minoranza religiosa valdese (si veda per il passato l’aureo libretto di G. Gangale, Revival, 1929) e quella ebraica (anche se in quest’ultimo caso l’appartenenza religiosa è stata meno importante di quella culturale). La loro storia è ancora poco nota, perché il campo della ricerca storica sul passato della nazione è stato coperto dall’invadenza della storia delle grandi organizzazioni.

Oggi quelle separazioni non contano più, e si tratta davvero e soltanto di ‘persone di buona volontà’ che si assumono scientemente la responsabilità di occuparsi del ‘prossimo’, a partire dalla sua parte meno protetta e meno considerata, ma anche della collettività nel senso più vasto, e di se stessi. Nel nostro dopoguerra ci sono stati gruppi e persone che lo hanno fatto, sul piano locale e su quello nazionale, la cui storia va ripercorsa proprio per trovarvi modelli positivi di intervento da cui c’è tanto da imparare. Un ‘fai-da-te’ che ha saputo fare a meno dello Stato e delle grandi organizzazioni, che si è spesso riconosciuto in un motto chiarificatore come quello con cui Ignazio Silone definiva le sue posizioni, di «cristiani senza Chiesa e socialisti senza partito». Gli esempi sono innumerevoli, di iniziative sociali, culturali, pedagogiche, politiche, religiose che sono state il sale della nostra storia civile, e che hanno avuto in comune la tensione al ‘ben fare’, il rapporto strettissimo e interdipendente tra il pensiero e l’azione, l’individuazione dei modi più immediati e più sensati, i più concreti e dunque i più radicali, di esprimere la solidarietà – quella solidarietà che Bobbio in Destra e sinistra (1994) ha visto come carattere distintivo e irrinunciabile della sinistra (non è senza significato che quest’aureo saggio abbia sollecitato le discutibili recensioni e riflessioni di Walter Veltroni e nel 2014 la prefazione a una ristampa di Matteo Renzi).

Insieme a queste persone e a queste iniziative, andrà ricordata e ripercorsa, anche questa come esempio al ben fare, l’azione di quegli intellettuali che hanno saputo in passato e non sembra siano più capaci di sapere oggi come affrontare il presente attivamente, come studiarlo e denunciarlo o approvarlo, come contrastare il male e come invece proporre il bene. Per quanto riguarda i decenni del secondo dopoguerra, come non ricordare, con Capitini, don Lorenzo Milani, Guido Calogero, Manlio Rossi-Doria, Dolci, Raniero Panzieri, Tullio Vinay, Bobbio, Arturo Carlo Jemolo, i Lombardo-Radice, i Basso, i Fiore, Angela Zucconi, Ada Gobetti, Margherita Zoebeli, Luigi Di Liegro, Tonino Bello, don Giuseppe Puglisi, ecc., e l’Umanitaria, il Movimento di cooperazione educativa, e Scuola-Città Pestalozzi di Firenze, e l’Associazione risveglio Napoli, e l’Unione lotta contro l’analfabetismo, e le iniziative fiorite intorno ad Adriano Olivetti, e il MOVI (Movimento per il Volontariato Italiano) e il CNCA (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza), e Mercurio, «Il nuovo corriere», «Il Mondo», «Il Ponte», «Nuovi argomenti», «Nord e Sud», «Quaderni piacentini» e tante altre riviste, e i nomi di Carlo Levi, di Primo Levi, di Ernesto De Martino, di Noventa, di Bilenchi, di Sciascia, di Pasolini, di Calvino, di Federico Fellini, di Moravia, di Cassola, di Fortini, di Zanzotto, di Morante, di Ortese, di Bianciardi, di Consolo e così via. Una lista lunga e straordinaria, di cui poche altre nazioni possono produrre l’uguale. Se oggi del loro insegnamento si apprezza poco, e se non vi sono loro eredi evidenti, o altrettanto determinati, ciò non toglie che è da questi esempi che occorre ripartire, nell’incontro e scontro con la realtà in cui viviamo e cercando in essi più che dei precisi modelli lo stimolo a nuove intenzioni e nuove persuasioni, a nuove invenzioni. Partendo da dove si può, dai margini e dal basso, dai bisogni e dai doveri, e non dal centro, anzi in opposizione creativa alle imposizioni del centro, ai pessimi e inefficaci modelli che esso oggi impone, efficaci solo nel perpetuare disuguaglianze e sudditanze.

È già difficile oggi resistere. Eppur si deve e si può farlo anche nel vuoto e nel disastro della politica, con il fine di individuare e praticare di nuovo una strada collettiva, battuta per prima da minoranze responsabili, in attesa che da esse possano rinascere movimenti collettivi e nuova democrazia.

Perché per tanti decenni non si è più parlato di ‘carattere degli italiani’? Di ciò che sul fondo ci unisce, che ci fa popolo? Lo fece Giacomo Leopardi (il Discorso sopra lo stato presente del costume degl’italiani del 1824), ma passarono molti decenni, passò un secolo, prima che tornasse a farlo, egregiamente, Giulio Bollati (L’italiano, Il carattere nazionale come storia e come invenzione, 1983) e più tardi Silvio Lanaro in alcuni passi della sua Storia dell’Italia repubblicana (1992) e in modo più sofferto e drammatico Cesare Garboli in Ricordi tristi e civili (2001). Oggi non c’è gazzettiere che non dica la sua, dimenticando il saggio avvertimento di Salvemini: ‘se ti dicono che gli italiani sono fatti così, io rispondo di essere italiano ma di non essere fatto così’. Ma è forse vero che ci sono cose che ci uniscono e cose che ci distinguono, e oggi, nel momento storico che attraversiamo, nella crisi che attraversa il mondo e in un’Italia conformista, svilita e avvilita, è il momento di far valere più le differenze che le somiglianze, agendo perché dalla costante vivacità delle prime possa rinascere una comunanza di sentimenti e di intenti.

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Nella bibliografia non sono incluse le opere di autori classici quali Gobetti, Gramsci, Salvemini, Croce, Bobbio e Nicola Chiaromonte, che tuttavia costituiscono riferimenti imprescindibili, anche per la stesura di queste note, così come i film di Fellini, Roma (1972), Amarcord (1973), La voce della luna (1990).

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