Le crociate e il Regno di Gerusalemme

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

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Le crociate e il Regno di Gerusalemme

Franco Cardini

Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Il movimento crociato nasce nel corso dell’XI secolo, impiantandosi senza dubbio su una lunga tradizione di lotte islamo-cristiane, ma senza alcun rapporto con imminenti pericoli da parte cristiana ad opera di aggressioni musulmane: in realtà, esso è parte del generale processo di risveglio demografico, economico e sociale del mondo euro-occidentale che si proietta sull’universo mediterraneo. Dalla spedizione del 1096-1099, che ormai è in uso definire prima crociata, nasce paradossalmente la prima monarchia feudale europea superiorem non recognoscens.

I secolari rapporti cristiani-musulmani

È ormai invalsa, nella tradizione storiografica come nella manualistica in uso nelle scuole, l’uso di definire “crociate” una serie di spedizioni militari che s’inaugurarono con un’impresa originata nell’Europa del 1095-1096 e approdata nel 1099 alla conquista della città di Gerusalemme da parte di alcune colonne di guerrieri guidati da principi provenienti dall’Europa occidentale e che dà luogo a una serie di spedizioni tese al mantenimento o al recupero delle conquiste in quella che gli occidentali definiscono, e che ancor oggi viene chiamata, “Terrasanta”: vale a dire l’area territoriale che fu il teatro della maggior parte delle vicende bibliche nonché la testimone della vita terrena di Gesù.

Il termine crociata è per la verità tardo: emerge solo sporadicamente nel corso del XIII secolo, e non viene adottato in modo definitivo se non a partire dal Trecento/Quattrocento. La storia delle crociate testimonia un processo evolutivo complesso, che conosce varie fasi e obiettivi diversi: si fanno infatti crociate volte alla conquista e alla cristianizzazione del nord-est europeo, crociate dirette a contrastare e reprimere la diffusione delle eresie e crociate politicamente intese a battere i nemici politici del papato; infine, dal XIV-XV secolo fino al XVIII secolo, scopo di spedizioni che vennero sovente definite crociate o a esse assimilate è il costituire un antemurale europeo di fronte alla potenza espansionistica turco-ottomana.

Solo riduttivamente e semplicisticamente, quindi, le crociate possono essere interpretate come una fase della “secolare lotta” tra cristianità e islam: anche perché la guerra è solo un aspetto saltuario, ancorché frequente, del profondo rapporto tra mondo cristiano (sia occidentale, cioè latino, che orientale, cioè greco ma anche arabo e armeno) e mondo musulmano, che si espresse in uno stretto e articolato scambio economico, culturale e diplomatico. In realtà, il “movimento crociato” da un lato non esaurisce per nulla il vasto ambito dei rapporti cristiano-musulmano, dall’altro va ben al di là di essi, riguardando anche l’espansione dell’Europa e il suo equilibrio politico e religioso interno a cominciare dalla storia dei rapporti tra le Chiese latina e greca e tra l’autorità ecclesiastica ufficiale e i gruppi ereticali.

Naturalmente, fra cristiani e musulmani si erano già verificati ripetuti scontri sia marinari, sia terrestri, tra VII e XI secolo: e nel corso di essi si era da entrambe le parti fatto ricorso alle rispettive fedi, in una comune e opposta “santificazione della guerra” che sia la cristianità, sia l’islam giustificavano. Si è d’altronde in un’età profondamente religiosa, nella quale tutti gli atti dell’esistenza (dai momenti più importanti della vita ai gesti del lavoro quotidiano) venivano sacralizzati: e la guerra non può certo sfuggire da questa regola generale. Ciò non impedisce mai tuttavia né la stipula di trattati di pace, né perfino alleanze “incrociate” che conducono a scontri nei quali si vedono cristiani e musulmani combattere alleati contro leghe nemiche, anch’esse religiosamente parlando miste. Gli scontri frequentissimi durante l’XI secolo sia nella penisola iberica, sia in Sicilia, sia nel Mediterraneo, e che hanno come scopo la conquista o l’egemonia su aree territoriali, scali portuali, isole e rotte commerciali marittime, hanno questo carattere.

Nel corso di tale secolo, tuttavia, una rinnovata energia espansiva e commerciale delle genti dell’Occidente europeo, alla base della quale era anche un forte slancio demografico documentabile già alla fine del secolo precedente, provoca una forte mobilità che si riscontra sia nell’ampliamento dei centri demici esistenti, sia nella fondazione di insediamenti nuovi, così come nell’espansione delle terre messe a coltura e nella rinnovata frequentazione dei santuari da parte di gruppi anche molto numerosi di pellegrini – abitudine che dà luogo all’uso sempre più frequente delle vie di comunicazione di terra, sia alla fondazione di mercati. Sulle vie di pellegrinaggio si sviluppano le leggende dei santi e i cantari epici che i marinai-mercanti-corsari delle città portuali italiche – quali Pisa, Genova, un po’ più tardi Venezia – diffondono in tutto il bacino mediterraneo.

In questo contesto nasce quella che abitualmente si definisce “prima crociata”. L’avvio di quell’inatteso e per molti versi ancora stupefacente movimento, che coinvolge probabilmente qualche decina di migliaia di persone tra guerrieri e pellegrini almeno originariamente inermi, fu tuttavia inatteso e quasi casuale.

La prima crociata

Bernardo di Chiaravalle

Virtù dei cavalieri di Cristo, malizia della milizia

De laude novae militiae ad Milites Templi

Ma quale è dunque il fine e il frutto di questa non dirò “milizia”, ma piuttosto “malizia” mondana, se l’uccisione pecca mortalmente e l’ucciso muore eternamente? Invero, a dirla con l’Apostolo, “chi ara deve arare con speranza, e chi trebbia con speranza di avere parte del frutto” (I Cor., 9,10). Che cos’è dunque, o Cavalieri, questa incredibile passione, questa intollerabile pazzia di guerreggiare con tante spese e tante fatiche senza alcun altro guiderdone che la morte o il peccato? Coprite di seta i cavalli e rivestite di non so che genere di straccetti colorati le corazze; dipingete le lancie, scudi e selle; ornate d’oro, d’argento e di gemme le briglie e gli speroni; e in tanta pompa correte, con vergognoso furore e impudente stupidità, alla morte.Sono insegne militari, queste, o femminei ornamenti? Forse che il ferro del nemico avrà paura dell’oro, rispetterà le gemme, non potrà attraversare la seta? In fondo, e voi stessi lo sperimentate di continuo, al combattente sono soprattutto necessarie tre cose: che sia abile, alacre e circospetto nel guardarsi, rapido nel cavalcare, pronto nel ferire. Voi al contrario vi curate come donne i capelli fino a disgustare chi vi vede, vi coprite con sopravvesti lunghe e drappeggiate che vi impicciano i movimenti, seppellite le tenere e delicate mani in ampi e comodi guanti. […]

Certamente, uccidere o morire per motivi del genere non è cosa da fare con tranquillità. I cavalieri di Cristo combattono invece le battaglie del loro Signore e non temono né di peccare uccidendo i nemici, né di dannarsi se sono essi a morire: poiché la morte, quando e data o ricevuta nel nome di Cristo, non comporta alcun peccato e fa guadagnare molta gloria. Nel primo caso infatti si vince per Cristo, nell’altro si vince Cristo stesso: il quale accoglie volentieri la morte del nemico come atto di giustizia, e più volentieri ancora offre se stesso come consolazione al Cavaliere caduto. Il Cavaliere poi, posso affermarlo, uccide sicuro e muore più sicuro ancora: giova a se stesso quando muore, a Cristo quando uccide. Non è infatti senza ragione che porta la spada: egli è ministro di Dio in punizione dei malvagi e in lode dei buoni. Quando uccide il malvagio egli non è “omicida”, ma - per così dire - “malicida”, ed è stimato senza dubbio vindice di Cristo su quelli che fanno il male a difensore dei cristiani. E quando muore, si sa che egli non è perito, ma è - piuttosto - giunto alla meta. La morte che egli dispensa è infatti un guadagno per Cristo: quella che egli riceve è il guadagno suo personale. Nella morte del pagano il cristiano si gloria, perché Cristo è glorificato. Nella morte del cristiano si dimostra quanto magnanimo sia stato il re che ha ingaggiato il Cavaliere.

Testo originale:

Quis igitur finis fructusve saecularis hujus, non dico, militiae, sed malitiae; si et occisor letaliter peccat, et occisus aeternaliter perit? Enimvero, ut verbis utar Apostoli, Et qui arat, in spe debet arare; et qui triturat, in spe fructus percipiendi (I Cor. IX, 10). Quis ergo, o milites, hic tam stupendus error, quis furor hic tam non ferendus, tantis sumptibus ac laboribus militare, stipendiis vero nullis, nisi aut mortis, aut criminis? Operitis equos sericis, et pendulos nescio quos panniculos loricis superinduitis; depingitis hastas, clypeos et sellas; frena et calcaria auro et argento, gemmisque circumornatis: et cum tanta pompa pudendo furore et impudenti stupore ad mortem properatis. Militaria sunt haec insignia, an muliebria potius ornamenta? Numquid forte hostilis mucro reverebitur aurum, gemmis parcet, serica penetrare non poterit? Denique, quod ipsi saepius certiusque experimini, tria esse praecipue necessaria praelianti, ut scilicet strenuus industriusque miles et circumspectus sit ad se servandum, et expeditus ad discurrendum, et promptus ad feriendum: vos per contrarium in oculorum gravamen femineo ritu comam nutritis, longis ac profusis camisiis propria vobis vestigia obvolvitis, delicatas ac teneras manus amplis et circumfluentibus manicis sepelitis. […]

At vero Christi milites securi praeliantur praelia Domini sui, nequaquam metuentes aut de hostium caede peccatum, aut de sua nece periculum: quandoquidem mors pro Christo vel ferenda, vel inferenda, et nihil habeat criminis, et plurimum gloriae mereatur. Hinc quippe Christo, inde Christus acquiritur: qui nimirum et libenter accipit hostis mortem pro ultione, et libentius praebet se ipsum militi pro consolatione. Miles, inquam, Christi securus interimit, interit securior. Sibi praestat cum interit, Christo cum interimit. Non enim sine causa gladium portat. Dei etenim minister est ad vindictam 0924B malefactorum, laudem vero bonorum. Sane cum occidit malefactorem, non homicida, sed, ut ita dixerim, malicida, et plane Christi vindex in his qui male agunt, et defensor Christianorum reputatur. Cum autem occiditur ipse, non periisse, sed pervenisse cognoscitur. Mors ergo quam irrogat, Christi est lucrum: quam excipit, suum. In morte pagani christianus gloriatur, quia Christus glorificatur: in morte christiani, Regis liberalitas aperitur, cum miles remunerandus educitur.

Nel novembre del 1095, a Clermont in Alvernia, papa Urbano II, si trova in Francia per riorganizzare la Chiesa appena uscita da una profonda riforma istituzionale e morale. Alla fine di un concilio che aveva raccolto alcuni prelati della regione, tiene un breve discorso rivolto alle aristocrazie militari della zona, esortandole ad accorrere in soccorso dei “cristiani d’Oriente” minacciati da alcune genti barbare venute dalla Persia. In effetti, nel corso del secolo, le tribù turche da poco islamizzate riunite sotto l’egemonia della tribù dei Selgiuchidi, provenienti dall’Asia centrale attraverso l’altopiano iranico, avevano dilagato nei territori dominati dal califfato abbaside di Baghdad; divenuti presto il nerbo delle milizie musulmane di tutta l’area, avevano preso a minacciare sia l’Impero bizantino, sia il califfato sciita fatimide d’Egitto.

Gli imperatori bizantini erano stati duramente sconfitti da loro negli anni Settanta ed erano essi a ricorrere spesso al servizio mercenario dei cavalieri pesantemente armati d’origine occidentale, specie normanni. In realtà, intenzione originaria del pontefice a Clermont (come fa qualche mese dopo, in primavera, durante un concilio tenuto presso Piacenza) è quella di convogliare verso l’Oriente, in un servizio spiritualmente meritorio di difesa della cristianità locale ed economicamente redditizio, i riottosi e violenti cavalieri che infestavano Italia centrosettentrionale, Francia e Germania occidentale con le loro continue guerre private e che, con il disordine di cui erano protagonisti, impedivano alla Chiesa di procedere nella riorganizzazione della società del tempo.

Ma l’appello di Clermont ottiene un successo inatteso e molto probabilmente non voluto. Mentre alcuni aristocratici accolgono l’appello pontificio, l’Europa occidentale del tempo viene percorsa da predicatori itineranti e spesso indisciplinati che predicano la penitenza, predicono la prossimità del giudizio universale e indicano Gerusalemme come meta finale d’una cristianità rigenerata. Il più famoso di questi prophetae è Pietro d’Amiens, detto “l’Eremita”. Dietro a loro, si organizzano orde di pellegrini inermi che si mettono in marcia verso Oriente e che, in tempi e momenti diversi, finiscono con il seguire i gruppi armati che intanto convergono su Costantinopoli e che da lì – spinti anche dall’imperatore di Bisanzio Alessio I, preoccupato per questi troppo numerosi, indisciplinati e inattesi ospiti – procedono verso l’Anatolia, attraversandola tra 1097 e 1098. Raggiunta Gerusalemme, la prendono d’assalto e la conquistano il 15 luglio del 1099 sottoponendola a saccheggio e massacrandone la popolazione musulmana ed ebrea. La città viene quindi ripopolata dai cristiano-orientali che ne erano stati espulsi e da altri loro correligionari siriaci e armeni: almeno in un primo tempo, difatti, viene proibito a musulmani ed ebrei di soggiornarvi.

Il Regno di Gerusalemme

Come i capi della spedizione si siano decisi a puntare su Gerusalemme, resta un punto sul quale non si è mai fatta piena luce: ed è molto probabile che essi si siano fatti a loro volta trascinare dalla forza carismatica dei prophetae che guidavano i pellegrini. Va al tempo stesso fatto notare che l’impresa non è guidata da nobili o da cavalieri di modesta origine, per quanto ce ne siano molti di tale livello sociale tra i gregari.

In realtà, partono nel 1096 dall’Europa anche grandi principi, i quali però, per un motivo o per l’altro, sentono che il loro spazio politico si era ridotto e preferiscono cercar nuova fortuna altrove. I principali tra loro sono Raimondo di Saint-Gilles, conte di Tolosa e marchese di Provenza, Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, Roberto conte di Fiandra, Roberto duca di Normandia – figlio di Guglielmo il Conquistatore e fratello di Guglielmo Rufo, re d’Inghilterra –, Boemondo d’Altavilla – figlio di Roberto il Guiscardo.

Nessuno di questi principi aveva gran voglia di tornare in Europa, per quanto alcuni poi lo facessero. La maggior parte decide di rimanere in Terrasanta e di ritagliarsi lì nuovi domini. Ma insorge la necessità di organizzare e inquadrare in qualche modo le nuove conquiste. Sul piano giuridico, esse avrebbero dovuto essere restituite all’imperatore di Bisanzio, in quanto si trattava di territori appartenenti all’impero romano d’Oriente, che i musulmani avevano conquistato durante il VII secolo. Ma nessuno aveva intenzione di farlo e viene immediatamente usato come alibi il fatto che i bizantini siano, dal 1054, scismatici rispetto alla Chiesa latina. Tra i capi di quelli che già si definivano cruce signati (una croce di stoffa sulle vesti era stata l’insegna con la quale si simbolizzava l’adesione all’invito espresso dal papa a Clermont) si fa strada l’idea di offrire la sovranità eminente delle nuove conquiste al papa, come già era accaduto in Inghilterra, in Spagna e in Sicilia. Ma il pontefice non può accettare una proposta che avrebbe scavato un’irreversibile fossato tra lui e Costantinopoli, rendendo definitivo lo scisma. I principi, tra i quali nessuno voleva cedere ai concorrenti, stabiliscono pertanto di dichiarare che le nuove conquiste siano da considerare terre della diocesi latina di Gerusalemme e del suo patriarca, custode e protettore sotto il profilo politico-militare (un advocatus, secondo la terminologia allora in uso); per questo ruolo si elegge l’anziano e ammalato Goffredo di Buglione. La scelta vuole tendere a evitare che l’Advocatus Sancti Sepulchri sia un personaggio troppo forte ed energico, che avrebbe potuto imporsi alla loro volontà. Difatti, Goffredo accetta con umiltà l’ufficio, rifiutando secondo la tradizione di essere incoronato re perché mai avrebbe portato corona d’oro là dove il Cristo era stato incoronato di spine; ma sopravvive alla nomina appena un anno. Nel 1000, la carica è di nuovo vacante. Alcuni cavalieri insediati nella zona, per impedire che a quel punto un potere eccessivo fosse assunto dal patriarca che aveva l’appoggio del papa, chiedono al fratello di Goffredo – cioè a Baldovino, conte di Boulogne, che già dal 1098 si era impadronito della città armena di Edessa in Anatolia meridionale (oggi Urfa in Turchia) erigendola arbitrariamente in contea – di accorrere a Gerusalemme. Egli raccoglie l’invito, ma ottiene dai principi “franchi” (come gli Arabi chiamavano gli Europei occidentali) quel che suo fratello non aveva ottenuto – o, come dicono i cronisti, aveva rifiutato –: cioè di essere incoronato re di Gerusalemme.

In quel tempo non esiste potere terreno che non sia in qualche modo soggetto a un’autorità universale: o quella di uno dei due imperatori (il bizantino o il romano-germanico) o quella del pontefice romano. Ma il nuovo Regno di Gerusalemme non è emanazione di alcune di queste volontà ecumeniche, per quanto ricevesse tacitamente, poi, un riconoscimento de facto. Si trattava di una nuova e strana situazione giuridica: il regno nasce come obiettivamente superiorem non recognoscens. In un certo senso, dalla prima crociata trae origine fuori d’Europa la prima monarchia “laica” e “moderna” dell’Europa cristiana. Un paradosso.

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