Le esposizioni di arti e industrie

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica (2013)

Le esposizioni di arti e industrie

Sergio Onger

La nascita delle esposizioni

Le prime esposizioni industriali videro la luce in Inghilterra con la fondazione della London society of arts nel 1751. La società stabilì di acquistare disegni, modelli e macchine che avessero vinto dei premi e con questi allestì nel 1756 e nel 1761 due mostre che, con il tempo, sarebbero divenute il nucleo di un museo permanente. Queste prime rassegne, che davano ampio spazio alle innovazioni tecniche in agricoltura, furono iniziative dei privati, senza il coinvolgimento dello Stato. L’esempio venne poi seguito da accademie e governi in varie parti d’Europa: esposizioni di tipo industriale si tennero a Ginevra nel 1789, ad Amburgo l’anno seguente e, infine, a Praga nel 1791. Si deve però riconoscere il merito alla Francia di aver dato particolare solennità a queste manifestazioni, codificando regole e stile e fissando il linguaggio espositivo del nascente capitalismo industriale.

Infatti, l’Esposizione pubblica dei prodotti nazionali, inaugurata il 4 settembre 1798 a Parigi nel Campo di Marte, indicò un modello che era destinato a dilagare in tutta Europa assieme alle armate napoleoniche. Confluivano in questa iniziativa, voluta dal ministro dell’Interno François de Neufchâteau, insieme alla rivalità con l’Inghilterra e all’idea rivoluzionaria e patriottica di convocare e premiare a Parigi tutti coloro che avevano ben operato nelle industrie e nei commerci in favore della Repubblica, i valori dell’Illuminismo. Non soltanto nell’idea di poter classificare e giudicare tutti i prodotti, ma anche nel desiderio di democratizzare la diffusione delle conoscenze, che in una pubblica manifestazione diventavano visibili a chiunque volesse provare il proprio talento, in qualsiasi condizione sociale e collocazione professionale si trovasse. I premi assegnati furono tra i principali motivi di successo e la ricompensa premiale diverrà anche in seguito una delle molle che spingeranno i produttori a intervenire a queste manifestazioni (Bassignana 1997).

Divenuta un’iniziativa fissa delle celebrazioni della fondazione della Repubblica, l’esposizione parigina venne ripetuta nel 1801, nel 1802 e nel 1806. Nonostante la disposizione di Napoleone Bonaparte di far intercorrere un intervallo di tre anni tra una manifestazione e l’altra, il perenne stato di guerra della Francia impedì l’organizzazione di altre esposizioni durante l’età napoleonica. Nel frattempo, però, l’idea si era diffusa in Europa e fra il 1800 e il 1815 Berna, Gand, Anversa, Milano, Trieste, Napoli e Torino si accodarono all’esempio parigino, chi con una sola edizione, chi con più manifestazioni.

Gli esordi italiani del primo Ottocento

La prima esposizione realizzata in Italia fu quella di Torino dell’aprile del 1805, nell’ambito dei festeggiamenti per il passaggio di Napoleone, diretto a Milano per l’incoronazione. Venne organizzata in tutta fretta dalla locale Camera di commercio in due sale presso la sede della Corte d’Appello e vide la partecipazione di 80 artefici e 33 artisti. Il contenuto tecnico dei prodotti esibiti era piuttosto limitato, come si deduce anche dall’articolazione delle tre sezioni in cui era suddiviso il catalogo. La prima illustrava gli oggetti di belle arti ed era divisa nelle categorie accademiche di pittura, scultura e modelli, incisione, disegno e architettura. La seconda trattava gli oggetti di belle arti, manifatture e mestieri a cui però parteciparono pochissime imprese private, alcune manifatture pubbliche attive negli istituti assistenziali o correzionali e diverse botteghe di alto artigianato tradizionalmente fornitrici della corte. Seguiva, infine, una sezione miscellanea, in cui erano raccolti gli oggetti più diversi. Solo nel 1811 e nel 1812 si tennero a Torino altre due rassegne. Nella prima, forse a causa di problemi organizzativi e dell’ambiente angusto in cui era collocata l’esposizione, il palazzo dell’Accademia delle scienze, gli oggetti d’industria si videro frammisti a quelli di belle arti. Nella seconda, i prodotti naturali e industriali cedettero vistosamente il passo a dipinti, disegni e sculture.

Le più importanti iniziative italiane in età napoleonica furono però le Esposizioni annuali d’arti e mestieri di Milano, che vennero istituzionalizzate nel 1805 e presero avvio l’anno seguente. Il provvedimento era stato preso in seguito al successo dell’esposizione aperta nel palazzo di Brera il 26 maggio 1805 per l’incoronazione di Napoleone a re d’Italia. L’evento, che registrò una notevole adesione con 115 artefici e 70 artisti, diversamente da quello di Torino, seppe dare ampio spazio alle attività produttive.

Le esposizioni industriali milanesi erano allestite nelle sale del palazzo di Brera e vennero aperte tutte, con intento dichiaratamente celebrativo, il giorno 15 agosto, in occasione del genetliaco dell’imperatore. Una commissione composta da membri dell’Istituto nazionale, la principale accademia scientifica del Regno italico, provvedeva a premiare i partecipanti con medaglie d’oro, d’argento e menzioni onorevoli. Gli aspiranti ai premi dovevano presentare al prefetto del rispettivo dipartimento una domanda di partecipazione accompagnata da una memoria illustrativa e da eventuali disegni. Una commissione dipartimentale selezionava le domande da trasmettere al ministero dell’Interno, dove una commissione centrale giudicava le invenzioni e i perfezionamenti meritevoli di essere premiati.

Con la Restaurazione pochi furono i Paesi europei che non adottarono le esposizioni, anche se queste erano legate a un passato rivoluzionario con il quale si volevano chiudere tutti i conti. Sull’esempio francese si organizzarono esposizioni a Kassel nel 1817, a Monaco nel 1821, a Berlino nel 1822, a Mosca nel 1825, a Londra nel 1828, a Manchester nel 1837. In Francia la struttura organizzativa delle esposizioni rimase sostanzialmente invariata, salvo stabilire – a partire da quella del 1819 – una periodicità quadriennale (aumentata a cinque anni durante il regno di Luigi Filippo) e concedere per la prima volta ampio spazio al comparto agricolo (Aimone, Olmo 1990).

In Italia, cessato il regime napoleonico, gli austriaci proseguirono nel Lombardo-Veneto le esposizioni industriali, ma allestendole alternativamente nelle due capitali del nuovo regno, Milano e Venezia. Dopo lo sdoppiamento, nel 1838, dell’unico corpo accademico milanese nei due istituti di Milano e Venezia il concorso continuò a essere rivolto a tutti gli abitanti del regno, sia che la premiazione avesse luogo nel capoluogo lombardo sia che avesse luogo in quello veneto; il giudizio per l’attribuzione dei premi era affidato all’Istituto della città ospitante.

A Napoli, Ferdinando I di Borbone, che aveva ereditato dal precedente regime l’Istituto di incoraggiamento, demandò a questa istituzione il compito di promuovere l’industria attraverso la concessione di privative e l’organizzazione di esposizioni industriali. L’istituto venne così configurandosi precocemente come una sorta di ‘ente fiera’ che, a partire dal 1822, promosse periodiche manifestazioni, annuali fino al 1827, biennali fino al 1842 e poi quinquennali, anche se poi fu sospesa nel 1848 e differita al 1853. Nonostante l’impegno e l’insistenza delle autorità, il tessuto produttivo non rispondeva adeguatamente. Con il regolamento per l’esposizione del 1830 si arrivò a minacciare gli imprenditori che trascuravano di esibire i propri prodotti alle esposizioni di decadere dai privilegi concessi, e allo stesso tempo soltanto gli espositori avrebbero potuto aspirare a ottenere una privativa (Arti, tecnologia, progetto, 2007).

Nel Regno di Sardegna la ripresa delle esposizioni torinesi fu segnata dalla ricostituzione della Camera di commercio della capitale nel 1825. Furono infatti le istanze di quest’ultima a spingere Carlo Felice ad autorizzare l’istituzione di esposizioni triennali, la prima delle quali si tenne nel 1829 presso il Castello del Valentino. Le Camere di commercio di Torino, Genova, Chambéry e Nizza ebbero il compito di selezionare nei territori di loro competenza gli oggetti da esibire alla manifestazione. Così, alla prima edizione parteciparono 502 espositori, suddivisi in 30 categorie, e per la grande affluenza di pubblico la rassegna si protrasse oltre il mese prestabilito. A Torino il modello francese era rispettato, ma l’intervallo di tempo tra un’edizione e l’altra – portato da tre a sei anni dopo l’edizione del 1832 che aveva visto scendere a 490 i partecipanti – era garanzia di serietà, in quanto consentiva di cogliere i cambiamenti effettivamente indotti dall’innovazione tecnologica. Le esposizioni diventavano un momento obbligato, a scadenza precostituita, di analisi sullo stato dell’economia nazionale, e permettevano di censire il patrimonio industriale del Paese. A testimonianza di una maggiore consapevolezza dell’importanza del portato tecnologico delle esposizioni, a partire da Torino 1832 ogni oggetto dovette essere accompagnato da una relazione contenente notizie dettagliate sulla qualità e funzione del prodotto stesso e sull’impresa produttrice.

Il Granducato di Toscana fu l’ultimo in ordine di tempo a organizzare manifestazioni espositive. Anche in questo caso fu un’istituzione accademica, quella dei Georgofili, ad allestire nel 1838 la prima Esposizione di arti e manifatture toscane, esperienza poi continuata con il patrocinio del granduca a cadenza triennale fino al 1857, anche se quest’ultima edizione, tenutasi alle Cascine, era limitata all’ambito agrario.

Il tema dell’organizzazione di esposizioni industriali su scala nazionale venne trattato a partire dal 1845 ai Congressi degli scienziati italiani. In particolare, all’ottavo, tenuto a Genova nel 1846, Pasquale Stanislao Mancini, riprendendo il progetto lanciato alla precedente riunione di Napoli dal suo collaboratore Francesco Lettari, caldeggiava una rassegna in cui «l’industria italiana riconosca se stessa, s’incoraggi da sé» (Atti della ottava riunione degli scienziati italiani tenuta in Genova dal XIV al XXIX settembre MDCCCXLVI, 1847, p. 142). La proposta venne accolta con favore e trovò l’appoggio di oltre sessanta congressisti che sottoscrissero l’iniziativa. Così al nono e ultimo Congresso degli scienziati, che si tenne a Venezia nel 1847, venne ospitata anche la prima Esposizione generale dell’industria italiana. Ma solo 64 ditte presentarono i loro prodotti nelle sale dell’Istituto veneto dove venne allestita la manifestazione, e per la gran parte si trattava di imprese locali.

Nelle esposizioni dei primi decenni dell’Ottocento la produzione artigianale prevaleva su quella industriale e l’agricoltura occupava una posizione decisamente preminente. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, in concomitanza con una sempre maggiore presenza di oggetti industriali, presero avvio esposizioni settoriali interamente dedicate all’agricoltura, promosse non solamente da governi o da istituzioni accademiche, ma anche da gruppi di possidenti, imprenditori e uomini di scienza, e rivolte a un pubblico diverso rispetto alle tradizionali esposizioni di arti e industria (Arti, tecnologia, progetto, 2007).

Gli anni del cambiamento (1851-1860)

Se nella fase nascente delle esposizioni era stata la Francia la principale protagonista e ispiratrice per le altre nazioni, a metà del secolo fu l’Inghilterra, con la Grande esposizione dell’industria di tutte le nazioni aperta a Londra il primo maggio 1851, a colpire profondamente l’immaginazione popolare e a modificare radicalmente la fisionomia di queste rassegne. Per la prima volta una manifestazione di questo tipo si apriva alla competizione internazionale: 7531 espositori inglesi e 6556 provenienti da altri Paesi portarono a Londra oltre centomila articoli, suddivisi in trenta classi. Il portato pedagogico e didattico dell’iniziativa venne moltiplicato dalla capacità dimostrata dagli organizzatori di trasformare il progresso tecnico in spettacolo. Il fantasmagorico palazzo di cristallo, che faceva cadere sulle merci una luce che le trasfigurava, ebbe un’influenza enorme sul comune visitatore, come sulle qualificate delegazioni provenienti da ogni parte del mondo (Le grandi esposizioni nel mondo, 1988).

La grande esposizione di Londra vide una limitata partecipazione italiana: 273 espositori provenienti dal Piemonte, dal Lombardo-Veneto, dalla Toscana e dallo Stato pontificio, mentre il Regno delle Due Sicilie era assente. Il Regno di Sardegna era presente ufficialmente con un proprio stand e furono inviati 147 tra tecnici, operai e artigiani per istruirsi sulle principali innovazioni tecniche. Questo grazie anche a una convinta politica di libero scambio che vedeva nella prima esposizione universale l’occasione non solo di mostrare le proprie merci competitive, ma anche prodotti che, seppure meno riusciti di quelli stranieri, avrebbero potuto attrarre nel Paese nuovi investimenti e nuove industrie (Le esposizioni torinesi, 2003).

Inizialmente vetrina di oggetti di artigianato industriale, le esposizioni toscane registrarono un salto di qualità grazie all’opera del livornese Filippo Corridi, direttore dell’Istituto tecnico toscano, che lavorava anche a una statistica industriale dello Stato. Del resto la manifestazione del 1850 e quella del 1854 preparata sempre da Corridi furono predisposte in vista degli appuntamenti londinese del 1851 e parigino del 1855, e vennero influenzate da queste esperienze internazionali. Soprattutto la partecipazione all’esposizione tenuta al Crystal Palace, alla quale intervennero espositori e visitatori toscani (in primo luogo Corridi in veste di rappresentante ufficiale del granducato), segnerà profondamente l’esposizione del 1854.

Anche in una realtà sostanzialmente refrattaria agli eventi internazionali quale quella del Regno delle Due Sicilie, l’ultima esposizione di Napoli del 1853 non solo registrò un numero insolitamente alto di partecipanti, più di trecento, ma vide pure una rilevante presenza industriale, anche se in gran parte ascrivibile a quella costellazione di attività riferibili all’impegno economico dello Stato, dal settore tessile agli opifici metalmeccanici di Pietrarsa.

Le esposizioni del Regno di Sardegna degli anni Cinquanta si vollero non soltanto come espressione di rassegna celebrativa, ma anche come occasione di censimento del tessuto produttivo e, quindi, di incentivo allo sviluppo economico, con il confronto diretto, la conoscenza delle innovazioni e la loro propagazione. Lo si vide all’Esposizione di Genova del 1854, voluta per celebrare l’apertura della linea ferroviaria tra Torino e il capoluogo ligure, durante la quale Camillo Benso conte di Cavour non perse occasione per rafforzare il consenso tra le forze produttive intorno al nuovo corso politico e alla nuova politica economica di libero scambio (Le esposizioni torinesi, 2003).

Per l’esposizione torinese del 1858, posticipata di due anni in quanto l’impegno organizzativo per la partecipazione piemontese all’Esposizione di Parigi del 1855 aveva assorbito gli sforzi degli enti promotori rendendo impossibile l’allestimento di quella di Torino l’anno seguente, si era giunti in un primo momento a ipotizzare un evento mondiale. Alla fine, dismessa ogni velleità e forti dell’importanza della produzione serica dello Stato, ci si limitò a organizzare al suo interno un’esposizione universale della seta. L’idea originale di una sezione campionaria a carattere internazionale registrò però una scarsissima partecipazione italiana e straniera. Comunque, la rottura con le precedenti manifestazioni torinesi era completa. Per la prima volta l’esposizione venne finanziata dallo Stato. Fu scelto un unico allestitore e i criteri espositivi imposti dal regolamento indicano come la mostra fosse diventata importante quanto ciò che vi si esponeva. Dalle sette classi del 1850 si era passati a ben diciassette, con 1687 espositori contro i 924 della manifestazione precedente. Non vi era più una rassegna di oggetti artistici, mentre, sull’esempio dell’Esposizione di economia domestica di Bruxelles del 1856, venne realizzata una Galleria economica per i prodotti di uso domestico e personale, che doveva offrire una vetrina di merci a basso costo accessibili ai ceti popolari. Alla stregua dell’esposizione parigina, venne istituito un premio destinato agli operai che avevano contribuito alla realizzazione dei manufatti esposti, sottolineando così quello spirito interclassista di armoniosa coesistenza tra capitale e lavoro che fu peculiare a tutte le esposizioni industriali del secondo Ottocento.

La particolare situazione politica nel Regno lombardo-veneto, posto sotto regime militare fino al maggio 1854, fece sì che le manifestazioni internazionali non influissero sulle esposizioni di Milano e Venezia, riprese pressoché immutate a partire dal 1851. E questo nonostante all’Esposizione internazionale di Londra avessero partecipato alcuni dei migliori tecnici milanesi come Luigi De Cristoforis e Antonio de Kramer, con il compito di studiare i nuovi macchinari e i nuovi ritrovati per l’industria. Furono invece alcuni ambiti provinciali a farsi interpreti dei cambiamenti in atto. Così, quando nel 1853 il ministero del Commercio sollecitò gli istituti camerali a farsi promotori di esposizioni locali, alcune Camere di commercio risposero all’invito. In particolare, quella di Brescia elaborò il progetto di un’esposizione che fosse l’esatto inventario del patrimonio economico provinciale. Il regolamento fissava la classificazione degli oggetti da esporre secondo una tassonomia che rompeva con la tradizione per ispirarsi alle recenti esposizioni universali di Londra e di Parigi.

A poche settimane dall’inaugurazione, il 5 luglio 1857, il milanese Giuseppe Sacchi venne invitato a Brescia a tenere una pubblica lettura sull’utilità delle esposizioni provinciali. In quell’occasione, egli definiva l’impresa bresciana «un vero atto di cittadino coraggio» (G. Sacchi, Intorno all’utilità delle esposizioni provinciali di agricoltura, di arti e di industria, «Annali universali di statistica», 1857, 15, p. 12). Ai molti detrattori delle esposizioni locali, Sacchi rispose: «è necessario che ogni provincia scopra per così dire i suoi ignoti tesori, e li porti con intima fiducia nel suo palazzo di cristallo, perché tutti veggano e tutti stimino il presente stato dei suoi prodotti naturali e manufatti» (p. 14). Egli era convinto che dalle singole esposizioni provinciali sarebbe nato

spontaneo il buon pensiero di vedere un giorno associate tutte queste locali esposizioni in un’unica esposizione o lombarda o veneta […], onde si possa conoscere ed apprezzare in una sola volta tutto il tesoro delle produzioni naturali e manufatte del paese nostro. E allora si vedrebbe come le esposizioni provinciali riescono utili per sé stesse, e come possono preparare anche il campo ad una grande esposizione comune (p. 20).

Nel Lombardo-Veneto la rassegna bresciana fu uno dei non molti casi in cui si rispose adeguatamente alle sollecitazioni governative. Nel 1855 era stata organizzata un’esposizione a Vicenza, seguita l’anno dopo dall’Esposizione provinciale veronese di agricoltura, industria e belle arti, alla quale avevano partecipato 234 espositori, di cui il 73% apparteneva all’ambito agricolo-industriale. Il 26 agosto 1857, dopo alcune difficoltà organizzative, era stata aperta l’Esposizione industriale bergamasca, promossa dalla locale Società industriale. L’iniziativa era riservata al solo comparto manifatturiero con la partecipazione di 124 espositori, in grado quindi di offrire un panorama articolato delle principali attività industriali del Bergamasco (Onger 2010).

Esaltare la nazione ed esibire il progresso (1861-1880)

Il giovane Stato italiano trovò nelle prime esposizioni nazionali uno dei modi con i quali cercava, un poco affannosamente e su molti versanti, di celebrare il proprio mito fondativo. Con un simile intento pedagogico il mondo scientifico e imprenditoriale comprese la possibilità di utilizzare il fenomeno espositivo per affermare in Italia una cultura tecnologica e diffondere nell’opinione pubblica i valori del positivismo. Se le esposizioni internazionali avevano il compito di far conoscere il giovane Stato al resto del mondo e di rivendicare un ruolo economico in Europa, quelle nazionali dovevano far incontrare gli italiani, in primo luogo imprenditori e intellettuali, ma anche artigiani, operai e pubblici funzionari, per costruire uno spirito appunto nazionale.

L’esaltazione dello Stato unitario è evidente nella prima esposizione nazionale di Firenze del 1861. Voluta da Quintino Sella, venne finanziata dal governo sull’esempio di quelle francesi, con uno stanziamento complessivo di 700.000 lire (Le grandi esposizioni in Italia, 1988). Nei primi anni unitari la classe dirigente dubitava che i privati avrebbero partecipato alla sovvenzione di tali imprese e preferì fare intervenire direttamente la mano pubblica. Nell’esposizione fiorentina lo Stato-nazione era rappresentato come valore etico, politico ed economico, metro di riferimento per l’agire dei singoli e dei gruppi sociali, dell’imprenditore e del lavorante, dell’artista e dello scienziato.

Fu ospitata nell’ex scalo ferroviario della linea Leopolda, la Firenze-Livorno, ridottasi ormai a grande contenitore vuoto, e i locali vennero riadattati dall’architetto Giuseppe Martelli, ottenendo un risultato di enorme effetto. Le modifiche apportate all’edificio si rivelarono però ben più dispendiose di quanto preventivato e finirono per costituire una questione estremamente delicata al momento del bilancio finale, costringendo lo Stato a un ulteriore intervento finanziario per ripianare il deficit.

La manifestazione, suddivisa in 24 classi e con cinque chilometri di percorso, presentò un quadro completo della produzione agricola e industriale, mettendo in evidenza la preponderanza che agrari e proprietari terrieri avevano nell’economia nazionale. Degli 8533 espositori, di cui 3452 toscani, gran parte era concentrata nel settore agroalimentare e delle materie prime. Ma la rassegna fiorentina «non fu solo la consacrazione della raggiunta unità […] fu anche la malinconica e per molti tragica manifestazione della pochezza dell’industria italiana» (Romano 1980, p. 220).

Dovevano trascorrere dieci anni prima che si realizzassero altre pur modeste esposizioni di portata nazionale. Le ragioni di questo ritardo furono dovute in primo luogo ai problemi finanziari. Dopo il notevole deficit di bilancio della manifestazione fiorentina era impensabile per lo Stato italiano, la cui già difficile situazione finanziaria si era ulteriormente aggravata dopo la Terza guerra d’indipendenza, sostenere una seconda esposizione e, d’altro canto, il tessuto economico e produttivo del Paese non era certo in grado di far fronte autonomamente al finanziamento di un tale evento. Proprio la gracilità del sistema produttivo nazionale, emersa chiaramente a Firenze nel 1861, sconsigliava l’allestimento a breve di una nuova rassegna.

Fu però la manifestazione fiorentina a permettere di organizzare al meglio la partecipazione italiana all’Esposizione internazionale di Londra dell’anno seguente. Venne costituito a Torino un Comitato centrale italiano presso il ministero di Agricoltura, Industria e Commercio che ebbe a disposizione oltre 1.200.000 lire e coordinò le Camere di commercio nella raccolta dei materiali da inviare in Inghilterra. Su un totale di 28.653 espositori, l’Italia con i suoi 2503 intervenuti, di cui 320 per le arti figurative, seguiva la Francia e si poneva largamente davanti all’Austria e alla Prussia. Era questa la prima volta del nuovo Stato unitario a una rassegna internazionale. Come scrisse Giuseppe Colombo con enfasi retorica, ma cogliendo nel segno il senso di quella partecipazione:

le nostre industrie non appena ebbero il tempo di riconoscersi all’Esposizione di Firenze, quando furono invitate a figurare in un’Esposizione mondiale. La loro comparsa a quell’Esposizione doveva avere un grande significato politico e industriale; affermando ancora una volta i nostri diritti, essa doveva nello stesso tempo mostrare agli stranieri quanti elementi di ricchezza possegga l’Italia e qual campo essa offre alle intraprese e ai capitali. Penetrato dell’importanza di questi intenti, il Governo si è adoperato attivamente onde promuovere a Londra un’esposizione, che degnamente rappresentasse le industrie italiane (G. Colombo, Discorso in occasione della consegna delle Medaglie e dei Diplomi agli Industriali della Provincia di Milano premiati all’Esposizione Universale di Londra del 1862, in Id., Industria e politica nella storia d’Italia. Scritti scelti: 1861-1916, a cura di C.G. Lacaita, 1985, p. 153).

Il governo italiano impegnò ingenti risorse non solo per permettere a un gran numero di espositori di partecipare, ma anche per inviare una folta rappresentanza di commissari speciali con il compito di relazionare sulle manifatture straniere e sui possibili trasferimenti tecnologici. Infatti, diverse erano le innovazioni epoch-making presenti a quella manifestazione. Tra queste il processo Bessemer che, con rilevanti risparmi di combustibile, consentiva di diminuire a 20-25 minuti il tempo di conversione della ghisa in acciaio, di ridurre i cali di ferro al 10-15% e di ottenere un prodotto omogeneo con una forza tensile di 10-12 tonnellate per centimetro cubo, pari a quella dei migliori acciai. Ma anche la chimica di sintesi che aveva permesso la fabbricazione su scala industriale di coloranti sintetici: attraverso la distillazione dell’anilina dal catrame si erano tratti i malva di William Henry Perkin, il rosso magenta di François-Emmanuel Verguin, i blu di August Wilhelm von Hoffmann.

Anche le amministrazioni provinciali e comunali erano state sollecitate affinché finanziassero delegazioni di tecnici da inviare per permettere l’acquisizione di nuove conoscenze. Vennero così formate 26 comitive su base provinciale, composte da un massimo di 25 delegati (quella di Torino) a un minimo di 1 (quella di Teramo), per un totale di 191 componenti, che fecero inoltre approfonditi sopralluoghi nei principali centri di produzione inglesi, con soste, in alcuni casi, in Francia, Belgio, Germania e Svizzera.

L’idea di fondo era quella di favorire il risorgimento economico, dopo quello politico, raggiungendo le altre nazioni dell’Europa occidentale. In tale prospettiva la visita all’esposizione londinese, il soggiorno nel Paese ospitante e lo stesso viaggio di trasferimento (utilizzato per visitare scuole, laboratori e strutture produttive) erano percepiti come altrettante occasioni da non mancare per uomini di scienza, imprenditori e politici.

Nel periodo che va tra il 1862 e il 1870 non vennero organizzate esposizioni nazionali. Tuttavia, sulla base delle tradizioni e della rinnovata opera di promozione delle Camere di commercio, e con il contributo di istituzioni pubbliche e private, si registrarono a livello locale diverse rassegne non circoscritte al solo ambito provinciale o regionale.

A dieci anni dalla manifestazione fiorentina, nel 1871, si organizzarono due rassegne dalle ambizioni nazionali a Torino e a Milano. L’Esposizione di Torino era stata progettata per l’apertura del traforo del Fréjus, prevista per il 1872 dalla Società promotrice dell’industria nazionale, organismo privato costituitosi fin dal 1868. La fine anzitempo dei lavori del traforo provocò l’anticipazione della rassegna al 1871, facendola così coincidere con la già prevista Esposizione industriale di Milano. Vennero utilizzati gli angusti spazi del Museo industriale – istituito nel 1862 per volontà del senatore Giuseppe Devincenzi, commissario generale per l’Italia all’Esposizione internazionale di Londra – e proprio per questo si dovette mutare la qualificazione della manifestazione da ‘nazionale’ in ‘campionaria’, in quanto gli espositori erano invitati a presentare soltanto dei campioni della loro produzione. I partecipanti furono solamente 511, di cui due terzi piemontesi (Le esposizioni torinesi, 2003).

Maggiore successo ebbe la rassegna milanese, promossa dall’Associazione industriale italiana costituitasi nel capoluogo lombardo nel 1867. Essa puntava sulla specializzazione e sull’istituzionalizzazione dell’evento in quanto mostra scientifica e tecnologica, così come stava avvenendo in Inghilterra dopo il modesto successo ottenuto dall’Esposizione universale di Londra del 1862. Infatti, l’Esposizione industriale italiana di Milano del 1871 fu dedicata alle «costruzioni ed arti usuali», e avrebbe dovuto far parte di un ciclo di cinque manifestazioni programmate su temi diversi. La rassegna mise in mostra soprattutto i tradizionali prodotti tessili e alimentari, con l’aggiunta di alcune più avanzate produzioni in campo edilizio e meccanico. Era ciò che nella società del tempo corrispondeva all’appellativo di industriale, conservando in questa nozione l’antica genericità, fatta sinonimo di attività purchessia e non ancora associata alla fabbrica e ai moderni processi produttivi. Intervennero 1190 espositori, di cui più della metà di Milano città e solo 370 provenienti dal resto d’Italia. I visitatori furono circa novantamila.

Comunque, pur nella modestia dei due eventi, nel pubblico più qualificato si delineavano idee ben precise sulla funzione che dovevano avere queste rassegne in ambito nazionale. Stava maturando l’idea che le esposizioni «per riescire veramente utili […] devono essere organizzate di tal maniera che sieno la fedele rappresentazione di ciò che un paese fa realmente, piuttosto che un saggio talora eccezionale di quello che potrebbe fare» (G. Arnaudon, Sulle esposizioni industriali con alcune considerazioni intorno alle cause che possono influire sul progresso delle industrie, 1870, p. 12).

L’Italia nell’«isteria espositiva» internazionale (1881-1911)

Del progetto di una nuova esposizione nazionale si cominciò a parlare a Milano fin dal 1878, sollecitati dall’Esposizione universale che si stava tenendo in quei mesi a Parigi. Su circa 53.000 intervenuti nella capitale francese solo 2499 erano gli italiani. La crisi economica fu una delle cause della limitata adesione. Ma in particolare fu la temporanea soppressione del ministero di Agricoltura, Industria e Commercio a lasciare il Paese privo di una guida organizzativa. L’anno seguente il piano per una nuova esposizione nazionale venne ripreso dalla Camera di commercio su proposta dell’industriale serico Luigi Fuzier, vicepresidente della Società di incoraggiamento d’arti e mestieri e, nel gennaio del 1880, fu costituito un comitato esecutivo. Doveva essere una rassegna rigorosamente industriale, ma via via al nucleo originario si aggiunsero una mostra speciale di agraria, una di musica e un’altra di belle arti. Inoltre, sull’esempio delle esposizioni universali e nel tentativo di spettacolarizzare l’evento, si allestirono due gallerie, una di tutti i costumi delle province italiane, l’altra dove operai e macchine in azione rappresentavano il lavoro industriale: una messa in scena del lavoro di fabbrica, opportunamente ripulita delle reali condizioni in cui normalmente si svolgeva (Barzaghi 2009). Il ballo Excelsior, dato per la prima volta al Teatro alla Scala nel gennaio 1881 e ripreso con largo successo durante l’Esposizione, divenne con la sua smaccata celebrazione del progresso l’emblema ideologico della manifestazione.

L’Esposizione nazionale di Milano venne dunque aperta dal 6 maggio al primo novembre 1881 tra i giardini pubblici di Porta Venezia e Villa Reale. Fu finanziata, come le mostre inglesi, con un sistema misto a cui parteciparono imprenditori e pubbliche amministrazioni, registrando entrate per 3.800.000 lire e un milione e mezzo di visitatori. Gli espositori furono 7139, di cui 2872 lombardi. Seguivano, ma a una certa distanza, i piemontesi (1059), i toscani (812), i veneti (527), le province emiliane (362) ancora distinte dalle romagnole (292), la Sicilia (314), la Campania (241). Il mondo produttivo milanese e lombardo era certamente il più rappresentato, e questa sua presenza si accentuava ulteriormente tra gli espositori dal profilo propriamente industriale. Ciononostante, la rassegna assunse un carattere effettivamente nazionale e, nel nuovo clima di parziale protezionismo doganale, le possibilità di consolidamento di settori come quello siderurgico, che mostravano evidenti segni di arretratezza, sembrarono una meta raggiungibile.

La manifestazione diede un contributo rilevante nel creare l’immagine di Milano ‘capitale morale’ d’Italia, forse il più potente mito identitario espresso dalla borghesia industriale italiana. Nonostante le contraddizioni e i ritardi, ben evidenti nell’architettura degli edifici effimeri realizzati in legno, quando le esposizioni internazionali fin dalla costruzione nel 1851 del Crystal Palace di Joseph Paxton erano rigorosamente in metallo, l’Esposizione milanese venne percepita da subito come una data importante nella storia dello sviluppo economico del Paese.

A partire da questa rassegna, l’Italia si trovò coinvolta pienamente in quella che è stata definita una vera e propria «isteria espositiva» europea. Nei trent’anni seguenti si succedettero altre sei manifestazioni di grande rilievo a intervalli che andavano da un minimo di due a un massimo di otto anni.

A sostenere l’Esposizione generale di Torino del 1884 fu ancora una volta la Società promotrice dell’industria nazionale, l’associazione di privati che con scarsa fortuna aveva organizzato la rassegna torinese del 1871. Anche in questo caso, come per quella milanese del 1881 che si intendeva emulare, il sistema di finanziamento fu misto tra privato e pubblico e l’iniziativa chiuse con un cospicuo attivo. Dal punto di vista organizzativo la manifestazione seppe coinvolgere migliaia di persone e associazioni, mentre l’amministrazione rimase saldamente nelle mani del comitato generale presieduto dall’avvocato Tommaso Villa, politico di successo e consigliere comunale, vero demiurgo dell’evento (Le esposizioni torinesi, 2003). L’intento di restituire un’immagine dell’Italia unificata sembrò in questa occasione, per la prima volta, completamente riuscito. Nell’ambito dell’esposizione si offriva la possibilità di un viaggio immaginario nello spazio e nel tempo, secondo una moda che si affermò in Europa a partire dagli anni Ottanta. Vennero riprodotti un borgo e un castello medievale, rimasti poi come architetture permanenti nel Parco del Valentino, momento ludico e pedagogico al tempo stesso («Memoria e ricerca», 2004).

In quegli anni non erano ancora sorti musei del Risorgimento italiano e Villa, convinto sostenitore dell’uso della storia a scopo pedagogico e dell’idea di una grande Italia proposta come mito interclassista e aggregante, volle celebrarlo allestendo la prima mostra sul Risorgimento nazionale. Tutte le città e le province del regno furono invitate a inviare cimeli e testimonianze e la risposta fu superiore a ogni aspettativa, al punto che il materiale raccolto dovette essere ospitato in un apposito padiglione di 1200 m2.

L’esposizione venne articolata in otto categorie: Belle arti, Produzioni scientifiche e letterarie, Didattica, Previdenza e assistenza pubblica, Industrie estrattive e chimiche, Industrie meccaniche, Industrie manifatturiere, Agricoltura e materie alimentari. A contorno si aggiungevano mostre speciali che toccavano alcuni temi della ricerca positiva di cui Torino era il principale centro italiano. Tra queste, la Galleria del lavoro, dotata di una rete di impianti e di macchine in movimento che producevano oggetti in vendita, e la Mostra internazionale di elettricità, con il coinvolgimento dell’inventore Galileo Ferraris.

La sezione dedicata alla Previdenza e assistenza pubblica, comparsa per la prima volta in un’esposizione nella rassegna parigina del 1878 e presente anche a Milano nel 1881, sanciva il rilievo raggiunto in Italia dalle società di mutuo soccorso e si apriva alle scienze di rilevanza sociale quali la demografia, l’antropometria, la topografia sanitaria e l’igiene, potendo contare su personalità come Luigi Pagliani, primo professore di igiene dell’Università di Torino e futuro estensore della legge Crispi sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica del 1888. Con 14.237 espositori e circa tre milioni di visitatori, l’Esposizione del 1884 fu quella fin qui più riuscita.

Dopo alcuni tentativi di allestire manifestazioni espositive di importanza nazionale anche in città del Meridione, e dopo i ripetuti fallimenti di Napoli in quest’impresa, il 13 maggio 1888 l’idea di tenere un tale evento a Palermo venne lanciata dal «Giornale di Sicilia» e fu subito fatta propria dal presidente del Consiglio dei ministri Francesco Crispi. L’evento avrebbe dovuto dimostrare i vantaggi del sistema protezionistico generale introdotto nel 1887 per lo sviluppo economico nazionale. È significativo che tra i promotori non ci fossero imprenditori. Del resto, la stessa Camera di commercio palermitana venne coinvolta solo successivamente e i finanziamenti alla manifestazione furono prevalentemente pubblici. La stessa verifica dei risultati economici successivi alle nuove tariffe doganali doveva condurre alla constatazione del danno prodotto nel Meridione dal regime protezionistico. La mostra, i cui padiglioni furono progettati dal giovane architetto Ernesto Basile, venne aperta dal 15 novembre 1891 al 7 giugno 1892; articolata in dodici divisioni, ebbe 7000 espositori, molti dei quali siciliani. L’unico tentativo effettivamente concretizzato di una città del Sud d’Italia di inserirsi nel circuito espositivo nazionale, ebbe di fatto un carattere prevalentemente regionale (Le grandi esposizioni in Italia, 1988).

Le Esposizioni riunite che si tennero a Milano nel 1894, pensate come risposta alla congiuntura economica negativa di quegli anni, furono il prodotto di undici diverse esposizioni, alcune nazionali e altre internazionali, organizzate autonomamente e coordinate tra di loro da un comune comitato esecutivo. Si trattava dell’Esposizione nazionale di belle arti, già programmata dall’Accademia di Brera, di quella nazionale dell’arte teatrale, di quella internazionale di fotografia, dell’esposizione nazionale di vini e oli, a cui venne affiancata una internazionale di macchine enologiche e olearie, della mostra nazionale orticola. Vi erano poi quella dello sport, della filatelia, delle arti grafiche, della pubblicità. La maggiore di tutte per importanza ed estensione era l’Esposizione internazionale operaia, la prima in Italia focalizzata non tanto sull’iniziativa industriale quanto sul mondo del lavoro e sui problemi sociali a esso connessi. Mentre l’Esposizione geografica ed etnografica enfatizzava la nascente politica coloniale della nazione.

Tutte queste iniziative trovarono posto nel Castello Sforzesco, divenuto in quegli anni di proprietà comunale e trasformato dall’architetto Luca Beltrami, e nel parco del Sempione che si stava realizzando nell’attigua ex piazza d’Armi. Il carattere specialistico e non generale della rassegna veniva indicato dagli organizzatori come un punto di forza della manifestazione. In realtà, le varie esposizioni furono il frutto di una giustapposizione e non il prodotto di una scelta ponderata. Non mancavano comunque delle novità assolute per l’Italia, come le Esposizioni internazionali di pubblicità e di fotografia. Ma la tanto auspicata Esposizione internazionale di elettricità, idea inizialmente accolta con favore dagli industriali milanesi, non venne realizzata. Con circa 45.000 metri quadri espositivi, più di 6000 espositori e oltre due milioni di visitatori, la classe dirigente milanese dimostrava ancora una volta la sua capacità organizzativa, riuscendo nell’impresa solo con il sostegno del finanziamento privato (Milano 1894, 1994).

Ultima grande manifestazione ottocentesca, l’Esposizione generale di Torino del 1898 non celebrò solamente il cinquantenario della promulgazione dello Statuto albertino, ma anche l’effettivo progresso industriale della nazione e il ruolo che la città di Torino aveva ricoperto in questo processo. L’idea della manifestazione maturò all’interno della società di previdenza La Libertà, presieduta dall’industriale Battista Diatto che in seguito assunse la presidenza del comitato esecutivo. Concepita con largo anticipo e finanziata prevalentemente con l’emissione di azioni redimibili, la rassegna venne allestita nel Parco del Valentino con un gigantismo che aspirava a emulare quelle internazionali (Le esposizioni torinesi, 2003).

Nell’ambito dell’Esposizione generale di Torino fu organizzata una Mostra internazionale di elettricità. Tra i 180 espositori prevalevano nettamente i tedeschi, mentre i pochi espositori italiani erano concentrati nel settore ferroviario (Officine di Savigliano) e in quello degli strumenti di precisione (Tecnomasio di Milano e Olivetti di Ivrea). Come stava accadendo nelle esposizioni internazionali, lo spazio e l’attenzione riservati alle gallerie della Marina e della Guerra erano ormai pari a quelli per la galleria del Lavoro, così come la sempre maggiore rilevanza della meccanica applicata ai mezzi di trasporto venne testimoniata dalla gara internazionale per automobili e motocicli svoltasi il 17 luglio sul percorso Torino-Asti-Alessandria e ritorno.

Con circa 8000 espositori, 43 congressi nazionali e internazionali e tre milioni e mezzo di visitatori, la manifestazione registrò un grande successo, e questo nonostante nelle prime settimane di apertura l’instabilità del clima politico, sfociata nell’insurrezione di Milano, avesse limitato l’affluenza di pubblico. Alla fine si ebbe un largo attivo, le azioni furono rimborsate e non fu necessario ricorrere all’intervento finanziario del governo.

L’Esposizione internazionale di Milano del 1906 rappresentò il vertice delle manifestazioni espositive italiane dell’epoca. Celebrando l’apertura del traforo del Sempione e interpretando i progressi tecnico-scientifici applicati all’industria e soprattutto ai trasporti, alla viabilità e alle telecomunicazioni, la prima mostra internazionale allestita in Italia testimoniava il decollo dell’industrializzazione del Paese e poneva Milano all’avanguardia dei progressi della nazione. Il capoluogo lombardo non era solo il centro di attività industriali, commerciali e finanziarie, ma un’esperienza complessa nella quale si cercava di mediare gli interessi e stemperare i conflitti di classe, con l’adozione di nuove politiche sociali volute da un’amministrazione radical-socialista e patrocinate da un organismo unico nel suo genere come la Società Umanitaria (Milano e l’Esposizione internazionale del 1906, 2008).

Allestita in due zone distinte, la piazza d’Armi e l’area compresa tra l’arco della Pace e il Castello Sforzesco, collegate da una ferrovia elettrica sopraelevata, l’esposizione aveva una superficie complessiva di un milione di metri quadri di cui 285.000 coperti, in grado di non sfigurare con le maggiori parigine.

Fra le novità presentate nel settore dei trasporti, l’aereonautica: una tecnologia avveniristica che aveva fatto la sua comparsa da pochissimi anni. Molto rappresentato era il settore automobilistico con la FIAT, l’Itala, l’Isotta Fraschini, comparto che occupava circa 20.000 operai in Italia. La circolazione su gomma richiedeva un ripensamento della pavimentazione stradale e l’esposizione assegnava a questo problema un grande spazio presentando diverse soluzioni tra cui l’asfalto e il macadam. Per le comunicazioni a distanza, al centro dell’attenzione era il trasmettitore transoceanico di Guglielmo Marconi.

La rassegna poteva vantare la partecipazione di grandi Paesi europei come Inghilterra, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Austria, ma anche la rappresentanza di Canada, Repubbliche sudamericane, Russia, Cina, Giappone e molti altri. La mostra si distribuiva su dodici sezioni e sette mostre temporanee speciali; come attività collaterali vennero previsti ben 76 congressi.

Nel 1911, per le celebrazioni del cinquantenario dell’Unità d’Italia, dopo aver rinunciato a organizzare un’esposizione universale romana, vennero predisposte diverse rassegne ospitate in quelle che erano state le tre capitali del regno. Si voleva dimostrare al mondo che il mito unificatore della Terza Roma era divenuto una consolidata realtà. A Torino, con l’Esposizione internazionale delle industrie e del lavoro, vennero eretti i palazzi delle Industrie manifatturiere, dell’Agricoltura, della Guerra e della Marina, dei Lavori pubblici, del Giornale e dell’arte della stampa, della Moda, dell’Arte applicata all’industria, le gallerie delle macchine in azione e dell’elettricità, il padiglione della caccia e pesca e dell’acquario, il villaggio del Club alpino, il borgo e castello medievale. Sempre nella città sabauda trovarono posto i palazzi e i padiglioni delle delegazioni straniere. A Firenze, ripescata solo all’ultimo momento dal comitato esecutivo, venne allestita la mostra del ritratto italiano a Palazzo Vecchio e l’Esposizione internazionale di floricoltura. A Roma, la mostra internazionale di belle arti a Valle Giulia nella Galleria nazionale d’arte moderna dell’architetto Cesare Bazzani, realizzata in muratura perché destinata a sopravvivere all’evento, la mostra regionale ed etnografica nell’ex piazza d’Armi, la mostra archeologica alle terme di Diocleziano restaurate per l’occasione, la mostra del Risorgimento e delle raccolte garibaldine negli interni del Vittoriano, inaugurato per l’occasione, e mostre retrospettive a Castel Sant’Angelo, queste ultime in realtà un insieme di iniziative eclettiche e casuali (Roma 1911, 1980).

Il cuore delle manifestazioni romane era rappresentato dalla Mostra regionale ed etnografica curata da Lamberto Loria, una vera e propria città delle meraviglie progettata dall’architetto Marcello Piacentini in quello che oggi è il quartiere Mazzini. La mostra era suddivisa in padiglioni regionali realizzati ispirandosi alle forme architettoniche della tradizione locale; accanto a questi trovarono posto cinquecento figuranti in costume che, sotto gli occhi dei visitatori, esercitavano i tipici lavori delle terre d’origine. Il successo fu tale che per qualche tempo il sindaco Ernesto Nathan accarezzò l’idea di rendere permanente la mostra trasformandola nel Parco delle regioni e riedificando in muratura i padiglioni. Questo parco pubblico avrebbe fatto da sfondo al grande asse che portava al Palazzo di Giustizia, mantenendo i due grandi viali tracciati per l’esposizione, il lago e il ninfeo.

La rassegna torinese doveva dimostrare i progressi industriali raggiunti dalla nazione, mettendo in evidenza, come sottolineava il sindaco della città, Secondo Frola, «l’alleanza intima, ben disciplinata che lega ormai il pensiero della scienza alla tecnica fattiva» (Esposizione internazionale dell’industria e del lavoro Torino 1911, Relazione della giuria, 1915, p. 2). Venne utilizzato l’ormai collaudato Parco del Valentino, estendendo però l’area espositiva sulla riva opposta del Po, nel tratto che va da Ponte Umberto I al Borgo del Pilonetto. I collegamenti fra le due rive del fiume furono garantiti da un servizio di vaporetti, da due ferrovie aeree, da due ponti provvisori e da una passerella. Il progetto raggiunse un’estensione di 1.200.000 metri quadri, di cui 380.000 coperti. I grandiosi edifici effimeri furono modellati sull’architettura barocca piemontese, mentre i padiglioni delle nazioni estere avevano stili diversi, ripresi dalla loro tradizione nazionale.

L’esposizione venne divisa in 26 gruppi a loro volta ripartiti in 167 classi. La produzione nazionale era posta accanto a quella di 22 Paesi stranieri, tra cui Francia, Inghilterra, Germania, Belgio, Svizzera, Russia, Stati Uniti e Giappone. Oltre 7.400.000 furono i visitatori, per un preventivo di spesa di 12 milioni di lire (Le grandi esposizioni in Italia, 1988).

L’elettricità in mostra

Alle esposizioni universali, l’elettricità, questa protagonista assoluta della seconda rivoluzione industriale, fece la sua prima comparsa a Parigi nel 1855, facendosi notare soprattutto con il telegrafo elettrico e la galvanoplastica. Il suo ruolo rimaneva però racchiuso nell’ambito scientifico; bisogna attendere l’esposizione parigina del 1878 per vedere l’elettricità raggiungere una posizione di rilievo grazie anche al fonografo di Thomas A. Edison e al telefono di Alexander Graham Bell, quest’ultimo già presente all’Esposizione universale di Filadelfia del 1876. A Parigi, nel 1889, per la prima volta le apparecchiature elettriche non vennero più presentate nella classe degli strumenti scientifici, ma ebbero una classe propria, anche se il boicottaggio di alcune nazioni, in particolare della Germania, influì negativamente sulla reale portata della manifestazione nel settore elettrico. Con la Fiera colombiana di Chicago del 1893 si ebbe il primo padiglione riservato all’elettricità. Da allora ogni nuova manifestazione internazionale non mancò di dotarsi di un edificio apposito, a cominciare da Parigi 1900 quando venne realizzato il Palais de l’électricité.

Con la costruzione di dinamo e motori sempre più potenti, di lampade ad arco più efficienti e con l’invenzione della lampadina a incandescenza, la tecnologia elettrica fece nascere un’industria in rapida espansione e si cominciò a sentire l’esigenza di realizzare rassegne specializzate, esclusivamente dedicate a questo settore. La prima di tali manifestazioni fu l’Esposizione internazionale di elettricità che si tenne a Parigi nel 1881, un evento di straordinaria importanza per le vicende dell’elettrotecnica europea: in questa rassegna fu lanciato il sistema di illuminazione Edison. Con l’esperienza parigina prendevano il via le esposizioni internazionali di elettricità, la cui seconda edizione si tenne a Monaco di Baviera nel 1882. Seguirono le edizioni di Vienna del 1883, con sedici Paesi partecipanti, e quella di Filadelfia l’anno successivo.

La rapida crescita dell’industria elettrica tedesca, che l’aveva portata a essere di gran lunga la prima in Europa e di poco inferiore a quella americana, è all’origine dell’Esposizione elettrotecnica di Francoforte sul Meno del 1891. In quell’occasione venne realizzata una linea di trasmissione trifase a 25.000 volt di ben 175 chilometri di lunghezza, dimostrando in questo modo come i problemi dell’utilizzo dell’alta tensione fossero stati risolti e come il trasporto a lunga distanza potesse avvenire mantenendo le perdite entro limiti accettabili.

L’Inghilterra in questi anni non fu estranea all’organizzazione di esposizioni specializzate di elettricità. Infatti, fin dal 1881 allestì al Crystal Palace una piccola rassegna con circa trecento espositori la quale, benché si fregiasse dell’appellativo di internazionale, era composta soprattutto da partecipanti del Regno Unito. Un’altra si tenne due anni dopo sempre a Londra; mentre nel 1890 si ebbe a Edimburgo l’Esposizione internazionale di ingegneria elettrica. Nel 1892 vi fu una rassegna di apparecchi elettrici sempre al Crystal Palace che implicò un notevole sforzo tecnologico e segnò l’inizio della commercializzazione di questi prodotti nel mercato inglese (Beauchamp 1997).

A partire dagli anni Ottanta anche l’Italia iniziò a ospitare esposizioni internazionali di elettricità all’interno di rassegne generali. La prima si tenne nel 1884, nell’ambito dell’Esposizione nazionale di Torino, e coinvolse l’inventore Ferraris, il quale, fin dalla fine degli anni Settanta, si era dedicato allo studio dei problemi applicativi dell’elettricità e, nella seconda metà degli anni Ottanta, metterà a punto la sua scoperta di maggiore rilievo: il motore asincrono a campo magnetico rotante. Tra i 141 espositori, di cui 57 stranieri, emergeva il ritardo produttivo e tecnologico nazionale. Una mostra speciale di elettricità di modeste proporzioni si tenne pure all’Esposizione nazionale di Palermo del 1891-92, alla quale intervennero 73 espositori, di cui 35 nazionali, 33 francesi e 5 tedeschi. La rassegna tenuta durante l’Esposizione nazionale di Torino del 1898, come già ricordato, vide la partecipazione di 180 espositori, tra i quali prevalevano nettamente i tedeschi. In ogni caso, le industrie nazionali, alcune di recentissima costituzione, presentarono la loro produzione, la cui principale novità era data dalle macchine a corrente alternata.

Pur essendo la città italiana più coinvolta nella nascita dell’industria elettrica nazionale e, con Torino, quella più impegnata nell’organizzare eventi espositivi, Milano per lungo tempo non riuscì a promuovere alcuna manifestazione specializzata. Non trovò mai attuazione la proposta fatta da Ferraris, nel 1884, di un’esposizione mondiale di elettricità nel capoluogo lombardo.

Esaurita la fase depressiva e avviato un positivo ciclo economico internazionale, la seconda metà degli anni Novanta segnò per l’Italia un’accelerazione dello sviluppo industriale che interessò anche il comparto elettrico. Grazie alla caduta degli ostacoli giuridici fino allora opposti agli elettrodotti e alla possibilità tecnica del trasporto dell’energia su lunga distanza, l’industria lombarda entrò in una fase di grande slancio e si cominciò a sentire l’esigenza di organizzare manifestazioni specializzate. Nel 1899, in occasione del centenario dell’invenzione della pila, si tenne a Como, città natale di Alessandro Volta, l’Esposizione nazionale di applicazione dell’elettricità. Durante la rassegna si svolse il primo Congresso nazionale di elettricisti promosso dall’Associazione elettrotecnica italiana, fondata nel 1896 e presieduta da Giuseppe Colombo, divenuta da subito sede di scambio costante di informazioni, luogo di dibattito teorico e applicativo, collegata agli interessi industriali. In questa manifestazione gli osservatori anche stranieri ebbero la conferma di come fosse ormai possibile realizzare anche in Italia le attrezzature per gli impianti più grandiosi.

Tuttavia, nemmeno l’Esposizione internazionale di Milano del 1906 diede autonomia al settore, pur con le sue attrazioni e i suoi servizi a funzionamento elettrico, l’ampio spazio dedicato in alcune sezioni all’elettricità e interi padiglioni assegnati a imprese elettriche.

Nel 1909, facendosi interprete di un comparto produttivo che aveva registrato una notevole espansione, la Camera di commercio di Brescia decise di organizzare un’Esposizione internazionale di applicazioni dell’elettricità. La pianificazione dell’evento venne affidata all’ingegnere Giacinto Motta, una delle figure tecniche di punta del capitalismo industriale italiano, presidente della sezione milanese dell’Associazione elettrotecnica italiana. L’Esposizione ebbe complessivamente 121 espositori organizzati in tre sezioni: Costruzioni elettriche, Esercizi elettrici, Applicazioni elettriche. Tra le manifestazioni collaterali si tenne anche l’Esposizione aeronautica internazionale e, con uno straordinario successo di pubblico, tra l’8 e il 20 settembre, il Circuito aereo internazionale, il primo in Italia e il secondo in Europa, dopo quello di Reims del mese precedente (Onger 2010).

Conclusioni

Le esposizioni sono da molto tempo oggetto d’attenzione degli storici. In primo luogo come fonte per la storia dell’economia, della produzione industriale e delle innovazioni tecnologiche. Più recentemente si è posta loro attenzione in una dimensione politico-culturale, analizzando e studiando i processi di nazionalizzazione e di costruzione del consenso che le accompagnarono. E certamente, da questo punto di vista, il fenomeno espositivo ha moltissimo da dire. Grazie alla loro funzione pedagogica, alla capacità di narrare gli sforzi produttivi del Paese e di esaltare il ‘genio italico’, le esposizioni ebbero un ruolo rilevante nella costruzione dello Stato e persino dell’identità nazionale. Come macchine spettacolari via via sempre meglio rodate e funzionanti, sono state osservate con molta attenzione anche dagli studiosi dell’immaginario popolare e delle strategie ideologiche della borghesia in formazione.

Più in ombra è rimasta la domanda, che è oltremodo legittimo porsi in conclusione, sull’efficacia concreta in ordine agli scopi che il sistema espositivo e premiale si poneva, di sostegno cioè, e di impulso, ai meccanismi di invenzione, imitazione e miglioramento tecnico-produttivo. Da questo punto di vista molto lavoro resta da fare, anche perché non può essere svolto in termini macroeconomici, osservando grandezze che – a questo stadio di maturazione delle rilevazioni statistiche – non sembrano poter dare risposte ragionevolmente fondate. Il lavoro di verifica sull’efficacia del sistema premiale ed espositivo va fatto sul piano locale. Del resto, fin da subito fu un campo di competizione fra le diverse città italiane e in particolare tra Milano e Torino, le uniche due che potevano veramente contare su un apparato produttivo, un sistema finanziario e un ceto dirigente in grado di far fronte ai rischi organizzativi.

Gli studi analitici sugli ambiti territoriali disponibili suggeriscono che le esposizioni non sono state solo la vetrina del processo di industrializzazione e un’attività economica di per se stessa che poteva rivelarsi fonte di guadagno per i promotori. Esse hanno effettivamente favorito l’emulazione e permesso il trasferimento di conoscenze tecnologiche. Nel processo di trasformazione cui le esposizioni andarono incontro nella seconda metà dell’Ottocento, in quanto macchine spettacolari e ideologiche, il ruolo svolto dall’Italia, alle prese con la propria arretratezza economica e l’esigenza prioritaria di portare a compimento l’unità del Paese, fu marginale: solo le manifestazioni italiane novecentesche potranno ben figurare nel contesto internazionale. Nonostante ciò l’Italia partecipò a tutte le esposizioni internazionali del tempo, con fiducia, proprio perché la sua classe dirigente e produttiva e le istituzioni preposte all’incoraggiamento dello sviluppo tecnologico avvertivano acutamente il ritardo di fronte agli altri Paesi sviluppati, e l’urgenza di cogliere ogni occasione per ridurlo. Le esposizioni erano certamente ai loro occhi, ma lo furono di fatto, occasioni da non perdere.

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