Le lettere

Storia di Venezia (2002)

Le lettere

Giorgio Pullini

Tra giornalismo di viaggio e impressionismo poetico sulla realtà di Venezia nel Novecento

Prima di entrare nell’ambito vasto della produzione narrativa e poetica vera e propria, sia di scrittori veneziani sia di non veneziani che si sono occupati di Venezia(1), è il caso di soffermarsi un poco sulla visione di Venezia come appare nelle pagine descrittive, divagative o documentarie, poetiche o giornalistiche, della città, sempre a opera di veri e propri scrittori con intenti d’arte, ma impegnati a uno sguardo di testimonianza piuttosto che creativo. C’è una generazione più antica che ha raggiunto la maturità intorno agli anni Trenta e Quaranta del nostro secolo, come quella di Diego Valeri e Giovanni Comisso; e c’è una generazione più giovane, che ha guardato alla Venezia di quest’ultimo dopoguerra fino a toccare i nostri giorni, e che può annoverare penne più adulte, come quella di Paolo Barbaro, e penne più acerbe come quelle di Gianfranco Bettin e di Tiziano Scarpa. Qualche punto in comune tra i due momenti, e molti punti divergenti.

Valeri (nato a Piove di Sacco) ha l’occhio alla malia delle stagioni, quando scrive su Venezia nel 1934 in Fantasie veneziane(2): la città trascorre dall’impasto di sole, di pietra e d’acqua in estate, alla nudità invernale, quando «spoglia d’ogni velo, e tanto più casta quanto più nuda, Venezia, pur nella sua concretezza nuova, ha tutta l’aria di un paese metafisico». Città silenziosa, dove «i fanatici, gli agitati, gli ‘esagerati’ d’ogni specie, non hanno fortuna», miracolo oltre gli orizzonti del quale pare «non ci debba essere più nulla. Come nel cerchio d’illusione della giovinezza». In Guida sentimentale di Venezia(3), Valeri sviluppa questa visione stupita e incantata di una Venezia impressionistica, tutta luce e mobilità d’acque, e reagisce così al mito romantico e decadente di Venezia immagine di morte («frusto motivo romantico»). Venezia gli appare come una «città che sveglia nei ben vivi tutte le potenze vitali»: e, descrivendo le bellezze della chiesa di S. Marco e poi della Piazza, mette l’accento sull’«inenarrabile mistero» (della prima), sull’«inverosimile luce d’oro e di perla» (della seconda) «che s’accoglie nella conca marmorea come un’acqua di magica fontana». Valeri è un osservatore eminentemente visivo, e Venezia è una gioia per i suoi occhi per le «variazioni infinite del cielo, attraverso ogni ora di ogni giorno di ogni stagione». Perciò «ci vorrebbe un buon pittore veneziano», «per dirne qualche cosa nei modi della sensibilità nostra»; e soprattutto nella pittura, più ancora che nel teatro e nella musica, Venezia è per lui presente con tutto il suo fascino. Inesprimibile, comunque, la sua bellezza, perché «il mistero di Venezia rimane». E la sua malia si estende anche oltre il limite dei suoi confini urbani (si veda Invito al Veneto(4), che nel 1977 raccoglie molte pagine precedenti), operando una funzione concentrica nella regione e trasmettendo anche alla pianura l’attrattiva della sua piatta, orizzontale laguna: che gli trasmette, a sua volta, «una gran pace del sangue e del cuore, e perfino, chi sa come, della coscienza […]». Sulla linea di questo descrittivismo estetico e contemplativo, si innestano le pagine di Comisso (nato a Treviso) nel suo Veneto felice(5) (pagine precedenti, raccolte da Nico Naldini). Comisso era più girovago di Valeri, ma, nelle sue scorribande nel Veneto, in Italia e nel mondo, Venezia è sempre rimasta un punto fermo. Partendo dall’immagine della città come di «un grande pesce galleggiante sul verde delle sue acque» (immagine che ritornerà in Tiziano Scarpa), e da quella della sua topografia paragonata all’interno di un grande palazzo (vedi Barilli), è anche lui molto attento al rapporto lirico luce-acqua: «La luna sorgeva e si vedeva il barlume sulle acque», «Il cielo s’illumina tra le due alte colonne», «Ci si sente attratti dalla luce», «Il vento agita le acque celesti e spaziose», «Un flusso e riflusso che crea una vita nei canali», ecc. Fra città e mare c’è una comunicazione continua e, se ci si sveglia all’alba, la calle ancora umida non sembra sfociare nella piazza (S. Marco) ma addirittura nella spiaggia marina «rilucente come alla marea ritratta». Anche per Comisso Venezia non è città di forti rumori, ma di tranquillità, e la sua gente si caratterizza per la sottile, bonaria ironia, «ironia giocata nei sottintesi, in una parola sola subito afferrata e compresa». Per lui c’è, in più, un’aria domestica che lo attrae, «una comunanza casalinga» che permette di incontrare sempre le stesse persone e di conoscere un po’ tutti gli abitanti; c’è l’attrazione per la realtà popolare del mercato, dove arrivano alle prime luci del giorno «le barche dagli orti delle isole, colme di ceste rosse di pomidoro, verdi di sedani, gialle di carote e di peperoni». I colori dei prodotti agricoli e le voci degli uomini e dei ragazzi che vogano si mescolano ai colori e ai rumori delle acque. E ancora una volta la pittura si rivela come la forma espressiva più adatta a ritrarre il volto mobile della città: «Il pennello o la matita scorrono rapidi per raggiungere nell’amoroso inseguimento l’attimo di luce o di colore, che nella luce si afferma, o l’attimo espressivo dell’anima umana e delle cose». Infine, com’era nella tradizione dal Settecento al decadentismo (lo vedremo con qualche accenno più tardi), anche a Comisso Venezia si apre davanti agli occhi come città della finzione teatrale, cioè dell’illusione: «La piazza si rivela il più grande teatro del mondo» nel quale «gli uomini di ogni razza […] sentono che devono recitare una loro parte, quella parte che fu trattenuta intimidita nella loro città d’origine: la parte della suprema follia». E si è toccato, così, un termine estremo, che va oltre quello valeriano di «mistero» e che coinvolge, con la città, anche i suoi abitanti e i suoi visitatori in una specie di trasalimento, o trapasso, nel regno dell’irrazionale.

Venezia aerea e acquea, Venezia miracolo, anche agli occhi di un visitatore affezionato come il francese Paul Morand, che l’ha frequentata per oltre mezzo secolo e ne ha scritto in un libro intitolato appunto Venezie(6), edito solo nel 1970, a un anno dalla sua morte. Questa testimonianza ci serve da trait d’union, perché, con la penna di un uomo della generazione di mezzo (nato nel 1906), riprendiamo alcune prospettive che erano dei Valeri e dei Comisso, cioè lirico-impressionistiche, ma già tocchiamo alcuni accenti critici sulla decadenza della città, che non sono più soltanto tardoromantici (Venezia-morte) ma già attenti al degrado fisico e al mutamento del costume di vita. Anche per Morand è forte l’attrattiva di una Venezia mobile di cui ritrova un’eco addirittura a Bangkok: «L’acqua dà ai suoni una profondità, una persistenza vellutata che durano oltre un minuto; sembra di scendere negli abissi». Le sue case «sono degli immobili con nostalgie di battello»; e i loro pianterreni, perciò, sono spesso inondati, e «soddisfano il gusto del domicilio fisso e del nomadismo». È città pacifica, e il suo emblema sono i gatti («Gli avvoltoi di Venezia sono i gatti») come già aveva osservato Valeri (i veneziani amano il gatto, in Fantasie veneziane, «perché è una bestia bonariamente scettica, che mostra di saperla lunga su le cose […]. Temperamento, press’a poco veneziano», perché possiede «una favilla d’ironia», come aveva osservato anche Comisso). Pure per Morand Venezia è inafferrabile e il suo «riflesso […] nella nostra memoria, è più leggero della realtà». Ma non è tutto qui. Morand ci è tornato a distanza di anni (assente dal 1939 al 1951) e ha ritrovato, al suo ritorno, una realtà mutata soprattutto sul piano del costume. La decadenza ai suoi occhi è dovuta a un dilagante «americanismo», al turismo di massa, alla meccanizzazione dei mezzi di trasporto; e tutto questo egli lo mette in correlazione con la decadenza del mondo contemporaneo. Negli anni Venti «Il saper vivere? Si era ancora al saper stare al mondo. Gli americani, europeizzati; non il contrario […]. Quel mondo di ieri, lo guardo senza risentimento, né rimpianto; semplicemente non esiste più; per me almeno […]». Da questa premessa, è facile il passaggio a una visione malinconica della nuova Venezia. Se prima l’ambiguità della città si limitava a suggerire qualche brivido di presentimento dei suoi rischi («Sulla porta d’approdo delle case di Venezia, si espone la propria vita posando il piede sulla soglia. ‘Città sdrucciolevole’, la chiama H.D. Lawrence […]. Per la salute dell’anima […] è meglio scegliere un’altra città che l’androgina Venezia»), ora l’allarme si fa più esplicito. Una famosa festa a palazzo Labia, negli anni Cinquanta, basta a snebbiarlo di ogni illusione: «sin dall’arrivo sapevo che stavo congedandomi da un mondo […]. Nel fumo dei tubi di scappamento, del tabacco, delle rosticcerie all’aria aperta, delle torce, i riflettori puntavano diritto sui primi ingressi […]». Il fasto nobiliare di palazzo Labia gli appare definitivamente profanato («Vent’anni sono stati sufficienti perché Palazzo Labia, venduto, divenisse una triste amministrazione della penisola»), e Venezia divenuta «l’ultima città dell’ultimo paese per sfaccendati». Il rammarico va naturalmente rapportato anche al gusto un po’ snobistico di Morand, e non a caso egli si compiace quasi di intravvedere un’immagine di bellezza anche nella morte imminente della città, ultimo residuo di una visione estetico-decadente: «Venezia annega; è, forse, quanto poteva succederle di più bello».

Di altri viaggiatori o descrittori stranieri e italiani, è il caso di dire ancora qualcosa per gli anni successivi, prima di addentrarci nel clima più teso e critico degli anni recenti. Bruno Barilli (nato a Fano) riprende (o preannuncia) alcuni dei temi più tipici, scrivendone nei lunghi anni che vanno dal 1923 al 1941 (scritti raccolti ora nel volume Lo stivale(7)). Lo sorprende, anche lui, l’impasto di mistero e quotidianità. Sotto il primo aspetto Venezia non gli sembra neppure una città, ma «un immenso battello in quarantena, che stagiona, da più di quindici secoli, fra il pesce e le zanzare, in piena palude» (e così la vede dall’alto di un aereo). Perciò, come Diego Valeri, pensa che «bisogna rispettarla fin dove è possibile. Noli me tangere, dice». I suoi bianchi palazzi di marmo sembrano «veri ossi di morto», maschere «le tue facciate bucherellate di occhi senza sguardo». Ma poi Venezia offre anche l’altro volto: «è un armonioso congegno sociale», domestici vi sono i gatti e i piccioni, e perfino il mare «che si insinua e scola sporco lungo le fondamenta». Vi «regna sovrana la ‘ciacola’ delle donne e fuma la polenta con gli uccelli». Anche per Barilli, come per Comisso, i suoi rioni «sono degli appartamenti. La piazza è un vero salone da ricevimento»(8). I due volti si assommano nei due momenti della giornata: «Venezia: nera sotto la luna. Rosa e verde, il mattino»; «Venezia città della contemplazione». Ma anche per Barilli c’è presentimento di crisi: «rigurgita, colma di forestieri. Troppi arrivi, troppi treni, troppi piroscafi, troppo sole, troppo orgasmo. L’industria alberghiera è sopraffatta dalla clientela. Tutto sommato, la situazione è difficile».

Ne scrivono anche due turisti d’eccezione come Jean-Paul Sartre e Iosif Brodskij. Dalla Francia alla Russia: negli anni Cinquanta, il primo; e negli anni Ottanta, il secondo. Sartre ha un atteggiamento ambiguo, o bifronte, davanti a Venezia. In questo libro-diario, La regina Albemarle o l’ultimo turista(9), la stessa curatrice che ne ha ‘stabilito’ il testo, Arlette Elkaïm Sartre, afferma che «per lui, uomo di progresso che non ha alcuna simpatia per i dogi e i mercanti che l’hanno costruita, Venezia non può essere che una vecchia incongruità un po’ malefica, promessa all’inabissamento»; ma che, nello stesso tempo, la sua bellezza gli appare «irrefutabile». E, infatti, lo scrittore esistenzialista la definisce «morta e viva»: «Certo, Venezia è morta. Ma come brulica di vita!». È morta perché fatta d’acqua che non è acqua ma «è bestia pustolosa, pianta velenosa, superficie di vetro su un nero immondo, pus, disordine puro serrato entro l’ordine, morbido scivolamento del nulla fra le scogliere dell’Essere». Nessun «impulso le viene comunicato dal di fuori: tutte le forze terrestri vengono a morire nell’acqua». Per tutto questo Sartre non la ama, o meglio «amo Venezia senza amicizia». Perché dentro di essa diventa anfibio, si sente sprofondare: «Le calli mi avviluppano, questo chiaroscuro mi cancella». Venezia non è un padre cui ci si possa opporre, ma potenza femminile che ci fa smarrire nelle sue «mucose materne».

Al di là di queste riserve, però, resiste anche per lui con il suo fascino: «La sua ricchezza è nei particolari. Vi dà di suo soltanto la bellezza». In essa ci si dimentica anche delle grandi bellezze artistiche, della Scuola di S. Rocco, e ci si lascia incantare dal riflesso dell’acqua «che pare si possa veder dappertutto e non si vede in nessun altro luogo». Tra architettura e acqua si intreccia un dialogo, cosicché «la pietra diventa immagine dell’acqua», e non si capisce più se i palazzi nascono dall’acqua o se la pietra ha generato l’acqua. Insomma, «questa città pare nascere da un sogno», ma «c’è indubitabilmente, a Venezia, una mancanza di realtà che la rende sinistra». Neppure Sartre, infine, si tace la nuova realtà sociale che ha trasferito la vita produttiva a Mestre, mentre nel capoluogo rimane un lusso come riflesso della ricchezza internazionale dei turisti. La vita di Venezia è «senza avvenire». La sua dolcezza «un po’ zuccherosa» ci sfibra, l’acqua ci rende tristi: di qui, anche per Sartre, la sua immagine di morte: «La tristezza di Venezia è come uno di quei freddi, dolci e penetranti, che transita lentamente ma sicuramente fino alle ossa».

Brodskij è un russo che ha frequentato la città lagunare per diciassette anni, pur senza imparare bene l’italiano. Ne è rimasto sempre conquistato e ne ha esaltato la miracolosa bellezza, ma ne ha conosciuto anche lui i difetti, suoi e dei suoi abitanti. La definisce «città dell’occhio», «bellezza di sogno, appunto, che si nota anche solo nelle facciate». Le «idee celestiali» degli architetti che l’hanno concepita devono essere venute loro di notte «mentre sognavano». Ma, oltre questa intonazione estatica, c’è nelle brevi pagine di Fondamenta degli incurabili(10) di Brodskij la consapevolezza dei due volti della città, la cui acqua è ora «azzurra» ora «grigia o brutta»; la cui animazione è ora simpaticamente chiacchierina («la gente esiste qui in uno stato di reciproca contiguità cellulare, e la vita evolve secondo la logica immanente del pettegolezzo»), ora invasa da un turismo straripante e volgare («mi danno ai nervi le mandrie in pantaloncini»). Ora vede il fascino di un palazzo in decadenza, in cui la polvere sembra assorbire lo spazio, o quello della fitta nebbia invernale che annulla ogni cosa; ora descrive il pericolo di una montante acqua alta che rischia di sommergere la città stessa. Ma di fronte a questi allarmanti sintomi di disgregazione, Brodskij è cauto. Sente mille voci che propongono rimedi, ma teme che nascondano la stessa volontà di fare violenza alla città. Per fortuna, ai suoi occhi, tutti questi presunti salvatori sono rivali tra loro e finiscono per non concludere nulla (è tesi opposta a quella di Bettin, che vede nel numero eccessivo di iniziative il male di Venezia, ma, in fondo, tesi convergenti). Forse la conclusione di Brodskij è più artistica che pratica, e propende per l’immobilismo piuttosto che per una intraprendenza confusa e, alla fine, distruttiva: «il nostro secolo si assicurerebbe un ottimo titolo per essere ricordato se lasciasse intatto questo posto, se lasciasse le cose come sono».

Le impressioni di alcuni italiani, infine, Camerino, Cibotto, Zanzotto (ma si ricordino anche le brevi pagine di Guido Piovene Venezia e il Veneto nel suo Viaggio in Italia(11)): tutti veneti, ma solo uno veneziano, a indicazione della centralità del capoluogo nell’attenzione dei suoi corregionali. Aldo Camerino, appunto, nelle sue pagine di Gazzetta veneta(12), pubblicate nel 1965 ma degli anni precedenti, si trattiene su note discrete, intrecciando il gusto delle cose belle con il presentimento di morte che comportano. Anche per lui «qui tutto, se non proprio composto, è civilmente lieto di una allegria nativa e di una contentezza naturalmente chiacchierona» (città sostanzialmente silenziosa, in cui le voci echeggiano come echi dell’acqua che fa loro «da cassa di risonanza»). Anche per lui l’alternanza dello sfavillio dei mosaici di S. Marco e dei piccoli «mestieri che vanno per via». Anche per lui, come per Valeri, più che una «città letteraria», uno «spiritual luogo» in cui «sta di casa la pittura». Ma, anche per lui, senza che la sua attenzione si soffermi sulle crepe di una decadenza fisiologica, questo eccesso di bellezza e di felicità ispira il bisogno di saziarsene «come se ogni volta il nostro saluto fosse un estremo addio».

Gamma che è comune, del resto, anche a un ‘elzevirista’ come Gian Antonio Cibotto (nato a Rovigo) che, nei suoi frequenti excursus memorialistici e impressionistici lungo le strade del Veneto e fra i suoi più tipici personaggi (vedi la serie di volumi sul Veneto), non ha mancato di fissare l’occhio su scorci veneziani, in un impasto di allegra affabulazione e di nostalgici rimpianti. Come, del resto, al veneto di terraferma Tiziano Rizzo, con i suoi volumi I ponti di Venezia(13) e Magia di Venezia(14). Basti per tutti il capitolo di Cibotto Venezia di notte nel volume In Paradiso con la Carrozza(15), in cui, prendendo lo spunto da un libro fotografico di Giustino Chemello(16) sulla città lagunare, condivide soprattutto la sua predilezione per la Venezia minore: «Per cui viene magari concesso ruolo da protagonista ad un contrappunto di scalini, oppure ad una selva di cupole, anziché ai luoghi deputati d’una convenzione che resiste tenace […]». Pare che il costume, nella sua mutevolezza, abbia lacerato un sogno; che di Venezia resti soprattutto la memoria; e che della sua bellezza attiri soprattutto il silenzio, contro il «brusio sempre fastidioso» della folla: gli «improvvisi silenzi che diventano come dei grandi respiri, talora prossimi addirittura a sospiri, affondanti le loro radici in una plurisecolare pazienza venata di eleganza». Parla allora «la musica dei particolari», parlano i «vecchi mattoni sfarinati sotto l’azione dell’aria», le «gondole che si fanno cullare dalle onde», le «bricole con il cappio al collo delle funi», i «vecchi legni tarlati delle chiese». Insomma, «scorci marginali, interni di luoghi sacri, fregi di blocchi scultorei sui quali mai nessuno cala lo sguardo».

Ma non è del tutto lontana da questa sensibilità neppure quella del poeta Andrea Zanzotto (nato a Pieve di Soligo) quando scrive di Venezia in pagine di prosa descrittiva (sia pure nel suo stile contratto e ‘traslato’), negli anni Settanta (Sull’altipiano e prose varie(17)). Ci dà anche lui una visione esaltante della città, al limite del visionario e del surreale: «quell’impensata germinazione di realtà attonite, protese, morse dall’irreale». Anche per lui la mobilità di Venezia è accostabile, forse, soltanto salendo su uno di quei pezzi di terra con erbe folte che «si staccano a volte dalle rive marine», cioè in maniera avventurosa e fantastica «su una zattera di questo genere, più remota e mitica che quella usata da Ulisse». L’accostamento rimane, comunque, ambiguo, perché si tratterà di un ancoraggio «provvisorio», «dubbio», anche se «subdolamente vero». La stessa città «potrebbe anche lei essere una delle zattere di limo erboso: che ha viaggiato a lungo e ha raccolto echi di molti Orienti e Occidenti […] una zattera che si è poi assestata, ma sempre con ormeggi di ragnatela radiosa, in questo punto della costa». La sua è «un’assurdità tenue, non-violenta, opposta in modo ambiguo alla ‘vita che irrompe’ […]. Meraviglia di una potenza che trova il suo punto d’onore nell’essere soprattutto potenza di meraviglia artistica».

Ma ecco a questo punto profilarsi i due rischi maggiori. Da un lato, quello del peso della sua storia e della sua grandezza artistica, dall’altro, quello della schiacciante industrializzazione. Il peso della sua grandezza artistica si prolunga nell’invasione del turismo di massa: «Bisognerà allora che ciascuno, anche se si è intruppato nelle ‘turbe di solitari’ o se è stato ciclato nella macchina turistica, nello sciame di voyeurs volanti, […] faccia piazza pulita per qualche attimo anche di questi compagni giustamente chiamati eterni: raschi via tutti i Grandi e le loro parole: per ritornare con essi, ma dopo, in seconda istanza e perlustrazione. Tacerla al massimo, Venezia, per entrarvi». Non basta, però, perché «ben altro mito che quello ormai tradizionale della ‘morte a Venezia’, sempre umanamente ‘accettabile’ con tutto il suo sovrappiù di paccottiglia, è quello che incombe da Marghera e da tutto il seno della terraferma, i cui orizzonti sono tarlati dalle incastellazioni e dalle torri infernali dell’‘industria’». Per Zanzotto «bisognerà ancora che falliscano, su Venezia, chissà quanti urbanisti e sociologi», perché essa «sembra fatta apposta per stimolare ad un superamento, costringendo alle prove più alte». Ma ci fermiamo qui, riservandoci più avanti la citazione di speranza e di fiducia. Anche per Zanzotto, dunque, accanto al peso della tradizione artistica, è più minaccioso il presente di degrado, laddove quest’angolo di Adriatico «mostra la sua natura di povera pozza ormai addensita di liquami, dove la madreperla più pura si fonde con le iridi equivoche delle deiezioni industriali». La connessione con la visuale di Paolo Barbaro, e poi di Gianfranco Bettin, viene immediata.

Barbaro (nato a Mestrino di Padova) ha scritto molto su Venezia, da Lunario veneziano(18) a Ultime isole(19), da Venezia. La città ritrovata(20), fino al romanzo ecologico L’impresa senza fine(21), in un impasto dialettico e drammatico tra attaccamento affettivo, incanto, fascinazione per la città del miracolo e allarme per i segni sempre più incisivi del suo degrado. E mai, forse, come in lui, si avverte (in Venezia. La città ritrovata, che ne è la sintesi) la coscienza della difficoltà di scriverne: «Città difficile, lo sappiamo, da scrivere su di lei; ma anche luogo difficile per scrivere. Finisce per essere sempre troppo presente; anche senza rumore. Certe mattine quel canto sulle rive […] in un luogo così, l’unico vantaggio […] è la bellezza continua; però è troppo anche quella». Non resta che «perdersi, andare su e giù, non scrivere, non annotare più nulla […]. Amare, insomma — nient’altro». Che è una variante del «tacerla al massimo, Venezia, per entrarvi», di Zanzotto.

In contrasto con questa ‘mistica’ dell’inesprimibile, la consapevolezza delle condizioni critiche attuali. Barbaro scavalca i Valeri, i Comisso, anche certo Zanzotto, e dà già la mano alla visione disincantata e consapevole delle nuove generazioni che guardano coraggiosamente la realtà di oggi: «C’è già tutto a inquietarci: esodo, inquinamento, deterioramento d’ogni genere, buchi nelle rive, traffico petrolifero in piena laguna, scorie chimiche di cui non abbiamo neanche l’idea di quanto siano pericolose in tutta la gronda tra Marghera e Venezia, nubi tossiche, nuovi scavi nel maledetto canale dei petroli, squilibrio ambientale, acque alte di anno in anno sempre più frequenti e più alte, acque basse sempre più basse — e tutto nella città più delicata e più bella, o a un passo dalla città». Barbaro soffre della propria dilemmaticità. È stato anche lui a lungo assente dalla città lagunare e, al ritorno, non è mai sazio di guardare, di scoprire cose che «si vedono solo ora, al ritorno». Il confronto con le città della terraferma gli sembra insostenibile (quegli «[…] strani luoghi della pazzia, al confronto con tutto ciò che sto vedendo qui»). Ma, proprio per questo, anche il confronto con quello che Venezia è e potrebbe continuare a essere, lo sconforta: «Di fondo, in breve, è cambiato tutto» in pochi anni: «i colori sfatti, i segni dell’umido, la salsedine, le scrostature, intaccano senza tregua le piccole case che danno sul canale […]. I colori ci inquietano, ora, non sono solo colori; sono ferite, lesioni, fessure, ‘segnali dal profondo’». Eppure, anche se la popolazione diminuisce di continuo, conta il poter incontrare per strada gente che conosci, ti dà una mano; conta la vitalità delle sue donne («Rinasce la fiducia in Venezia, a vederle così piene di vita»). La sua prospettiva di soluzione è più morale e affettiva che scientifica: tutti dicono che Venezia «sta andandosene […] sta crepando»; è necessario discuterne, «ma non per farci la guerra, nelle condizioni in cui siamo […]. Dobbiamo poter tornare, vivere, restarci anche noi, nel vecchio nido che aspetta». Restauri in corso ce ne sono molti, «sono tutti segni di speranza».

Tiziano Scarpa e Gianfranco Bettin (nati a Venezia); uno scrittore, e uno scrittore che ricopre anche funzioni politico-amministrative nella città stessa. Il primo ci conduce per mano In gita a Venezia(22) nel 1998; e non può non toccare, anche lui, molti luoghi obbligati sul fascino fisico, storico e artistico della città. Riprende l’immagine scientifica (vedi Barbaro) della città costruita sapientemente su milioni di tronchi d’albero conficcati nella laguna a sorreggere il mistero della città fantasma; e quella valeriana della creatura viva, della città teatro e maschera, cioè quella della città dell’immaginario: «Venezia è incrostata di immaginario […]. Gli allarmi ricorrenti sulla tenuta della città non riguardano le strutture architettoniche. Quelle, con un po’ di sostegno da parte di tutti, forse ce la possono fare. Venezia sprofonderà schiacciata da tutte le sue visioni, le fantasie, le storie, i personaggi, i sogni a nasi aperti che ha ispirato» (ricordiamo ancora Zanzotto). Venezia schiacciata, dunque, dalla sua stessa bellezza (come già Henry James in un suo romanzo(23) ha suggerito): «Ogni scorcio irradia bellezza; apparentemente dimessa: profondamente subdola, inesorabile». Forse è qui la chiave per capire la mancanza di iniziative risolutive dei veneziani? Che sono «morbosamente calmi, instupiditi, sonnambuli», perché «vieni preso a facciate dalla bellezza, schiaffeggiato, malmenato […]. Ti senti male».

A parte questo versante di ammirazione e di turbamento di fronte alla malia di Venezia, Scarpa sviluppa anche la parte documentaria, a partire da affermazioni drastiche: «Chi ha detto che Venezia sprofonda? Venezia cade a pezzi». E allora ecco la sequenza di fenomeni allarmanti: la sempre più frequente acqua alta, la rarità degli scavi dei canali, l’invasione del turismo di massa, il cambiamento del costume di vita («Non troverai più, invece, le vecchie friggitorie di pesce […] anche a Venezia i fast food sono sempre più numerosi»). Scarpa non tocca il tema del rapporto con l’industria della terraferma, del degrado della laguna, e rimane in città da buon turista ma anche da fedele abitante. I campanelli di allarme sono molti, ma prevale, o meglio sopravvive, il piacere dello smarrirsi nella città («Dove stai andando? Butta via la cartina! […] Impara a vagare, a vagabondare», come ha detto anche Barbaro); e quello di sentirla e trattarla come una creatura umana, pur nella sua astratta bellezza: «Ti viene spontaneo toccarla. La sfiori, l’accarezzi, le dai buffetti, la pizzichi, la palpi, le metti le mani addosso a Venezia». Ambigua, sfuggente, metafisica, complessa, tormentata da mille problemi, ma infine accostabile, amabile nella sua femminilità(24).

Come ha ben detto ancora una volta Barbaro in Venezia. La città ritrovata: «forse Venezia è sempre stata quello che è, strana, femminile, mutevole, sorprendente, bellissima […] e come risultato finale non sai mai niente di Venezia e del mondo». E come (Guida sentimentale di Venezia) aveva previsto Valeri: «Occorre dire che, scrivendo questo piccolo libro, non ci siamo illusi di risolvere l’insolubile enigma che si rinserra nel nome di Venezia […]. Se si continua a scrivere di Venezia, non è, dunque, perché si speri ‘sua laude finire’, ma soltanto ‘per isfogar la mente’».

Bettin scrive prima di Scarpa, ma ci viene opportuno citarlo per ultimo perché, almeno nel suo libro-documento Dove volano i leoni(25) del 1991 (riciteremo lo scrittore, come Scarpa, per opere narrative), già dà la mano a chi studia il problema di Venezia sul piano sociale e scientifico. Non trascura, comunque, neppure lui, qualche aggancio con la tradizione letteraria del «mito» di Venezia. E cita Jean Cocteau con la sua famosa frase «A Venezia i piccioni camminano e i leoni volano»(26); e riprende dallo storico francese Fernand Braudel (morto nel 1985) il concetto che i sortilegi di Venezia siano difficili da definire, e che la città viva fra la realtà e il sogno, fra l’acqua e il cielo(27). Per Bettin, però, «il carattere ‘miracolo’ e ‘mitico’ della città è innato», ma è anche «un effetto deliberatamente ricercato dai fondatori e dai costruttori della città stessa lungo l’arco della sua esistenza» (e ne ricostruisce le origini storiche ed edilizie). E, pur riprendendo il mito di Venezia, passa direttamente a un esame critico e documentato della situazione fallimentare della Venezia d’oggi. Per Bettin essa non consiste nella mancanza di iniziative concrete, ma nell’eccesso di iniziative simili ma non coordinate e non sempre giustificate, anzi spesso sbagliate. Venezia non è un miracolo astratto, ma una città dalle fondamenta ben sedimentate (si veda Sergio Bettini, storico dell’arte: «una città tutta edificata dall’uomo»(28)). Fare male, perciò, significa distruggerla. Il suo malanno maggiore consiste in una indiscriminata industrializzazione, cominciata negli anni Trenta e proseguita inarrestabile (solo una mobilitazione internazionale, dopo il 1966, è riuscita a impedire il completamento della terza zona industriale, con la legge speciale per Venezia approvata nel 1973). Bettin fa riferimento anche a studi di specialisti, come a un volume «struggente e istruttivo» dello storico Alvise Zorzi(29), e al libro di Luigi Scano Venezia: terra e acqua(30) che considera l’industrializzazione uno dei fenomeni più deleteri. Sembra che si sia realizzato, così, quello che nel Thomas Mann de La morte a Venezia(31) (che vedremo) era soltanto un presentimento: dopo l’alluvione del 1966 «la città assomiglia davvero, in quei giorni desolati, alla Venezia immaginata da Thomas Mann». Ma la differenza sostanziale consiste nel fatto che non si tratta più di «un malessere misterioso, metafisico quasi. Tutto quello che è accaduto ha una precisa spiegazione, cause perfettamente ricostruibili e, peraltro, denunciate e previste da tempo». Si determina, così, una sempre più netta divaricazione tra il mito di Venezia come la cultura artistico-letteraria continua a diffondere, sostenuta anche da finalità turistiche, e la realtà: «Mito e realtà, intenzione politica e costruzione dell’immagine di Venezia si separano. Velleitario sarà il mito, ingannevole e cruda, violenta l’esperienza del reale. L’affarismo della Venezia novecentesca farà uso abile degli stereotipi romantici. Da una parte se ne serve per alimentare l’immagine di una città fascinosa e conturbante, d’intrighi e d’arte, di amori e di vacanze suggestive». Dall’altra parte alimenta «la Venezia difficile, segnata da crisi sociali e ambientali».

Ma, sostiene Zanzotto, forse con una intuizione più poetica che pratica, Venezia è destinata a rinascere dalle sue stesse ceneri, e proprio in forza della propria cronica mutevolezza: «A Venezia in realtà si traccia il segno di una ‘morte continua’ (‘mirabile’), per rintuzzare continuamente gli stratagemmi della morte […]. No, la vicenda umana qui non è terminata, non terminerà […]. Pus e petroli, fosgene e vermi, questioni di trasporti, beni, servizi, conflitti di competenze incompetenze e velleità sono certo dei fatti. Ma si ha la sensazione che i problemi verranno in qualche modo risolti, nel nome e per volontà di tutti, di tutto il mondo che vuol stare con Venezia. Il come non lo sappiamo». E conclude con una serie di immagini poetiche che attingono ancora una volta alla malia della città di acqua e luce, di pietra e aria: «Ma da qui è giusto prospettarsi ogni incontro, si può sempre toccare, anche a tentoni, con la mano qualche ipotesi: un muro, un anello di ferro, un supporto ligneo; si può avvertire un alito: di vento, di alga, di bocca umana che supera l’afrore di qualunque tipo di marciume».

Venezia tra decadenti e futuristi all’inizio del secolo (1900-1930)

Alle spalle di questa visione di Venezia, accampata nel pieno Novecento, e dissociata tra l’impressionismo idillico di un Valeri e di un Comisso negli anni Trenta-Quaranta e una prospettiva più critica e realistica degli anni Sessanta-Novanta di un Barbaro, di un Bettin, di uno Scarpa, sta la fase tardoromantica, soprattutto europea, ma non senza qualche testimonianza italiana (D’Annunzio soprattutto). Già se ne è parlato su queste pagine, nella voce riservata all’Ottocento. Ma è necessaria qualche ripresa, sia pure allusiva, per toccare gli anni Venti del Novecento che ci riguardano.

La Venezia dei tardoromantici è una Venezia in cui il miracolo della bellezza si impasta di un rabbrividito presentimento di morte: ma non è già la morte fisiologica che preoccuperà giustamente i Barbaro e i Bettin, quanto piuttosto una morte quasi metafisica. I tardoromantici trasferiscono una loro particolare e personale vocazione di dissolvimento, che è segno di una crisi storica ed esistenziale più vasta, nella fragilità della città lagunare, nella mobilità almeno apparente della sua struttura acquea, nel chiaroscuro dei suoi giochi di luce e cielo e acqua, ma anche nella tenebrosità dei suoi interni (le piccole e strette calli, gli angusti canali), nella nebbia dei suoi inverni, nell’umidità della sua atmosfera, nella funebre e lenta andatura delle sue gondole simili spesso a carri funebri. Tutto un repertorio ispirato alla precarietà dell’esistenza, all’incombenza della fine, alla minacciosità del cielo plumbeo, si trasferisce dalla letteratura della decadenza postromantica alla scenografia della nostra città. Bastino pochi accenni ai presentimenti lontani, da Hofmannsthal a Schnitzler, per scendere poi a Thomas Mann, a Rolfe, a D’Annunzio, a Proust. E non certo in ordine cronologico, perché qui esso conta poco, quanto piuttosto in un intreccio ideale e tematico, che occupa almeno tutto il primo ventennio del secolo XX. E che oscilla dai temi più tenebrosi ad altri già rischiarati, nei tardoromantici, in chiave idillico-contemplativa, impressionistico-crepuscolare, come abbiamo già visto in Diego Valeri e in Comisso. Cosicché i due momenti, quello tardoromantico e quello visivo-sensitivo, si coordinano e finiscono per fondersi poi insieme, prima che la coscienza critica della decadenza fisiologica di Venezia prenda pienamente piede.

Hofmannsthal ha già efficaci presentimenti a fine Ottocento, nelle due opere teatrali (e le citiamo perché imprescindibili) La morte di Tiziano(32) e L’avventuriero e la cantante(33) rispettivamente del 1892 e del 1899. La prima si svolge nella villa di Tiziano «vicino a Venezia»: immagina che il pittore quasi centenario sia moribondo in una stanza interna, e che in scena siano suo figlio Tizianello, sei allievi e poi tre modelle. I giovani sono presi da pensieri di morte e insieme di ammirazione per la genialità del maestro. Ma quello che conta, ai nostri fini, è l’accenno a Venezia (anche se non nominata), sia pur breve, fatto da un giovane di sedici anni, Giannino. In esso egli descrive una notte misteriosa, percorsa da fluidi in cui si è trovato immerso: «Ancora mezzo in sogno, andai fin dove / si vede la città, laggiù assopita, / avvolta dentro lo stupendo manto / steso da luna e mare sul suo sonno». In questo scenario ammaliante e come sospeso, ecco però i sintomi di una realtà allarmante: in quel vento che «reca il suo bisbiglio» nella notte, «voce spettrale, piana, dileguante / con strana angoscia e inquiete seduzioni». Sotto l’apparenza di sonno, brulica una vitalità bacchica, sanguigna, ebbra di odi e di tormenti, anche corrotta: «nel suo silenzio immobile, di pietra, / mi parve che affiorasse dall’azzurra / corrente della notte la selvaggia / bacchica danza del sangue vermiglio, / vidi fosforo ardente lungo il ciglio / dei tetti e un giuoco di riflessi arcani». Nell’apparenza dei colori luminosi (oro, giallo, ocra, azzurro) e della «tersa purezza della città», «covano sospetti, / s’annidan la bruttura e la bassezza». L’allusione è morale: si parla, infatti, subito dopo, di «esseri ripugnanti, truci, insulsi, che ignoran la bellezza»; ma sembra di intuire un precorrimento dei miasmi che Barbaro e Bettin sentiranno spirare dalla laguna imputridita e dagli scarichi della Marghera industriale: dalla metafora al resoconto documentario.

In L’avventuriero e la cantante il tema decadente diventa esplicitamente quello dell’incipiente vecchiaia del protagonista maschile, che, nascosto sotto le sembianze di un anziano barone, è addirittura un declinante Casanova. L’intreccio è quasi d’appendice, si impernia su una celata maternità (Vittoria, madre del giovane Cesarino, si è sempre dichiarata sua sorella, e ha nascosto, così, in quanto sposata ora con Lorenzo, di aver avuto un rapporto amoroso con Casanova: donde la nascita di Cesarino). Vittoria finge, con il marito, che Casanova, tornato ora a Venezia dopo un’assenza di quindici anni, sia stato l’amante di sua madre. Anche qui abbiamo due volti di Venezia e due prospettive psicologiche. Vittoria incarna la mobilità della città continuamente oscillante tra luci e ombre: «Nel silenzio nasconde e rivela, / genera incessantemente mille immagini / di cose esiliate in questo mondo / e poi le dissolve. / Lo stesso accade a me: / questo accade dentro di me». Casanova, invece, incarna la malinconia del declino, a specchio di quello di Venezia che è stata città splendida e ora comincia a non esserlo più. Egli ne ricostruisce sinteticamente gli albori, quando «l’Iride raggiava di luce, le Nereidi nuotavano verso / di lei». Poi, «col passare del tempo, la città dei miracoli / decadde irreparabilmente […]». Ma non del tutto, perché «nell’aria e nel sangue restò qualcosa! Il mare la baciava con labbra di conchiglia, / il mare le lambiva dolcemente i piedi / con la sua lingua di smeraldo!». Casanova rievoca le ore indescrivibili della propria avventurosa giovinezza, consapevole che quel tempo è finito. La sua morale di vita è edonistica («Io considero il mondo per quello che è: / una cosa, solo una cosa che devo afferrare / con tutti i miei sensi finché il giorno / mi trascini con sé e la notte mi porti via / nel suo abbraccio come un carro che cigola»). Per lui la vita è legata alla luce di una candela, il cui riflesso «illumina il tuo cupo sepolcro!»; per Vittoria invece, «in un luogo d’acqua e di pietra / mi sembra di non essere riuscita / a invecchiare come le altre donne: / qui tutto mi pare trasparente, / sciolto dalla pesante tenacia della terra». Ma prevale incombente lo spettro di un vecchio compositore, oramai paralizzato e miserabile che, tra i due antichi amanti, si introduce come incarnazione di una Venezia ormai finita. Si dice di lui che «abita in un tugurio alla Giudecca / ingombro di cadaveri di barche / che marciscono adagio / e guardano in alto mare / dagli squarci delle loro orbite vuote». E Casanova aggiunge di suo: «È così che saremo!». E Vittoria, di lui, mettendo il dito sulla sua distruttiva sensualità: «La sua barca fatalmente naufragherà / un giorno o l’altro / persa dietro la sua eterna ossessione: / una bocca dipinta / che lo invita dietro i vetri / di una casa qualunque». Parole in cui la metafora della barca in naufragio e quella della bocca dipinta rimandano a precorrimenti di un linguaggio già espressionistico.

Parallelo a questo dramma è Il ritorno di Casanova(34) di Arthur Schnitzler, anche se scritto più di quindici anni dopo, e cioè tra il 1915 e il 1917, in forma di romanzo. Parallelo perché, come indica il titolo, ancora una volta il protagonista è Casanova, e un Casanova senile. Che, a cinquantatré anni, a Mantova, «da tempo non più spinto a vagare per il mondo dal giovanile piacere dell’avventura, ma dall’inquietudine dell’avanzante vecchiaia, fu preso da una così intensa nostalgia per la sua città natale, Venezia, che cominciò a girarle intorno simile a un uccello che vien giù a morire». Reduce, dunque, come il Casanova di Hofmannsthal, dopo dieci anni di assenza, anziché quindici. Non è il caso, qui, di raccontare le sue ancora frequenti avventure amorose prima del ritorno in città (respinge l’amante di un tempo, ma seduce la giovane Marcolina con l’aiuto complice e interessato del suo amante in carica); quanto, piuttosto, di sottolineare ancora una volta la sua consapevolezza di decadenza: «non sono nulla. Un mendicante — e per di più un mentitore». Venezia, nel ricordo, gli diventa il simbolo della giovinezza perduta, città di sogno e di memoria (teatri, sale da ballo e da gioco, maschere, amori). L’idea di non doverla più rivedere lo fa impazzire; ciononostante è disposto a rinunciarvi, pur di avere Marcolina. Ma proprio l’incontro amoroso con la ragazza lo sospingerà verso un’amara consapevolezza della propria vecchiaia: «si vide come il giorno prima nello specchio appeso nella stanza della torre: un volto giallo e malvagio solcato da profonde rughe, labbra sottili, occhi taglienti — e per giunta tre volte distrutto, dagli eccessi della notte, dall’affannoso sogno del mattino, dalla terribile cognizione del risveglio». E, infatti, quando riuscirà a raggiungere la città agognata, essa non gli apparirà più bella come un tempo (cadente e trascurato l’albergo, vecchissimo e istupidito l’amico Bragadino, pur essendo suo coetaneo): «uscì da solo nella grande piazza vuota oppressa da un cielo pesante di caligine, privo di stelle […] trovò la strada del suo miserabile albergo, passando per anguste viuzze fra scuri muri di case e superando stretti ponticelli sotto i quali i canali nerastri scorrevano verso le acque eterne». Con Andrea o i ricongiunti(35) (del 1912-1913), oltre a tornare a Hofmannsthal, torniamo al tema dell’ambiguità più che della decadenza di Venezia; e della finzione, del mascheramento, come già in L’avventuriero e la cantante. Andrea è alla ricerca di se stesso, si sente sdoppiato in due, e in due donne (Maria e Mariquita) si rispecchierà come nei due volti della propria personalità: l’anima e il corpo, la purezza ideale e la torbida corruzione. Egli scende dall’Austria per Villaco, e cerca Venezia proprio perché lì la gente è quasi sempre in maschera. Il mascheramento e il travestimento non sono più topoi di una Venezia carnevalesca e teatrale come nel Settecento, ma spie di una inquietudine che cerca la propria identità e cautamente la nasconde sotto il volto della finzione per incapacità di guardare in faccia la propria verità. Maschera come simbolo, dunque, che rimanda ad altro. Già il primo incontro di Andrea, al suo arrivo nella città lagunare, è con un uomo mascherato, semisvestito, reduce da una notte di perdite al gioco. Costui gli indica una casa modesta come possibile alloggio. E così Venezia si spalanca agli occhi di Andrea nel suo duplice volto, anch’essa: l’esterno luminoso, con bei palazzi, onde illuminate dal sole; l’interno squallido: «erano arrivati in una calle molto angusta davanti a una casa altissima, che aveva un’aria signorile ma molto cadente, con le finestre chiuse da tavole di legno invece che da lastre di vetro». La casa che lo ospiterà appartiene alla famiglia di un conte decaduto («Io sono un’esistenza fallita, che i colpi della fortuna hanno precipitato dalle altezze della mia famiglia»), eppure tutti i membri della famiglia continuano a coltivare rapporti con il mondo del teatro, sia pure nella forma di ormai modesti servizi. Ma non solo la sua famiglia è decaduta: tutta la città è caratterizzata da una diffusa decadenza; e ne è la prova esplicita la lotteria che, sotto l’egida di un gran signore, mette in palio la verginità di una minorenne al prezzo di un costoso biglietto venduto ad anonimi concorrenti. La città corrotta diventa, poi, un vero e proprio labirinto di personaggi indefinibili anche nel sesso, che sfuggono a ogni identificazione di Andrea: «Andrea non capiva. I luoghi si confondevano ai suoi occhi, raccontava e vide che non poteva raccontar nulla». Ne rincorre uno che sembra «un viso giovane e pallido», e che poi si rivela per una donna; ma anch’essa scompare, al suo posto Andrea ne trova un’altra. Poi all’improvviso «una figura misteriosa, tra orrida e selvaggia», al posto della quale, infine, si presenta il servitorello di casa. Il labirinto non si risolve (qui il romanzo si frammenta in abbozzi non conclusi). Il mistero delle due donne prima citate era «qualche cosa che si ripeteva come in cerchio», ed è il mistero della dualità sia di Andrea (deve imparare che spirito e corpo sono una cosa sola, l’uno in funzione dell’altro), sia di Venezia, splendida e corrotta, potente e decadente. Dopo tante delusioni, non manca, infatti, qualche finale spiraglio, che non risolve l’ambiguità ma la conferma: «Andrea guardò dalla finestra e vide sotto di sé un grazioso giardinetto pensile. Sopra una terrazza c’erano piante di aranci in mastelli, in cassettine di legno fiorivano gigli e rose […]».

Con Thomas Mann de La morte a Venezia(36) (1912) i due temi dell’arte e dei sensi si mescolano insieme in una vera e propria teorizzazione del decadentismo come connubio della bellezza estetica nelle forme creative dell’arte, e della bellezza estetica come incarnazione di un bel corpo naturale. Il protagonista non a caso è uno scrittore, sia pur in crisi di creatività, e, durante un soggiorno di vacanza al Lido di Venezia, vede incarnarsi nell’efebo Tadzio l’immagine ideale della bellezza. Ma il trapasso, dal culto della bellezza formale dell’arte (che non trova più sfogo nella sua penna) a quella del bel corpo ambiguo di un adolescente, segna per Gustav von Aschenbach il sintomo di una crisi morale ed esistenziale più vasta: che, a sua volta, si riflette nel volto di Venezia, avvolta da un clima umido e asfissiante, irrespirabile, e poi, più esplicitamente, dal dilagare di una misteriosa pestilenza. Anche per lui Venezia si offre dapprima con il suo volto «della città-miracolo, della città-meraviglia». Ma poi, «questa città un po’ fiaba, un po’ trappola per stranieri, nella cui atmosfera corrotta l’arte fiorì rigogliosa, e sbocciarono canti che cullano in sonni lascivi», diventa la città «ammalata». In piazza S. Marco, seduto al tavolino di un caffè, «improvvisamente fiutò nell’aria un particolare aroma, che ora gli sembrava di aver già avvertito da qualche giorno senza darvi peso — un aroma dolciastro, medicinale, che sapeva di miseria, di piaghe, e di pulizia dubbia». È un odore di disinfettante, «l’odore della città ammorbata». Ma il fenomeno non è solo realistico, e si allarga a una sintomatologia simbolica, come il contrassegno di una corruzione che sta invadendo anche l’anima di Gustav nella sua ambigua attrazione fra estetica ed erotica per il giovane Tadzio, e che non è esente da un compiaciuto masochismo: «Così, Aschenbach provava un’oscura soddisfazione per ciò che accadeva sotto il manto ufficiale nelle sudicie calli veneziane, per il turpe segreto della città che si fondeva col suo più nascosto, e che tanto gli premeva mantenere […] volgeva un’attenzione tenace e penetrante […] all’avventura del mondo esterno che oscuramente confluiva con quella del suo cuore, e nutriva la sua passione di speranze indistinte ed arbitrarie».

D’Annunzio ci aveva già dato nel 1900 un’immagine di Venezia come città d’arte e di passione, intrecciando nel romanzo Il Fuoco(37) la vicenda di Stelio Effrena, artista della parola (con cui inaugura il racconto nello splendore di Palazzo Ducale facendogli pronunciare una sua ampollosa orazione), e la storia del suo amore per l’attrice Foscarina (ossia Eleonora Duse) nella sua ultima fase di stanchezza (Foscarina risulta più anziana del poeta, che si innamora, nel frattempo, della giovane cantante Donatella Arvale). Qui la situazione appariva rovesciata: il protagonista era sì attratto da una creatura giovane, anche se non adolescente, ma viveva soprattutto il dilemma dell’abbandono della donna più matura in un clima di stanca e crepuscolare elegia. Che, non a caso, è un’attrice, quindi anche lei collegata con il mondo dell’arte, dell’artificio, e per di più carica, agli occhi di Stelio, di una lunga esperienza amorosa. Foscarina, perciò, per D’Annunzio è Venezia, è una donna segnata dalla vita e dall’arte della finzione scenica, così come la casa dei Dario «inclinata come una cortigiana decrepita sotto la pompa dei suoi monili». L’attrice non sa vivere se non attraverso le forme artistiche della finzione scenica, così come a Venezia «non si può sentire se non per modi musicali» e «non si può pensare se non per immagini». L’eccesso di sensibilità e di emozione di fronte alla bellezza dell’arte coinvolge fino all’estenuazione e alla morte. Di fronte al miracolo di Torcello in ottobre, D’Annunzio confessa: «Non avevo mai avuto un più puro e più dolce sentimento della morte; e quel sentimento mi rendeva così leggero che avrei potuto camminare senza lasciare orma su la prateria d’asfodelo» come se trapassasse «nel paese di là». Ed ecco che, in comunione con Foscarina che «riebbe la visione dell’Estate defunta», ha la netta percezione di un colmo insuperabile: «quando gli occhi umani hanno ricevuto un simile spettacolo di bellezza e di gioia, le palpebre si dovrebbero abbassare per sempre e restare suggellate». Così come Torcello, anche Venezia è autunno, e lo è Foscarina che egli soprannomina Perdita, a suggerire l’idea di una donna destinata al distacco: «Vorrei celebrare in me le nozze di Venezia e dell’Autunno […] l’anima che foggiarono alla Città bella gli antichi artefici, è autunnale». Se ne ricorderà Vincenzo Cardarelli nella poesia Autunno veneziano (ma a Venezia ha dedicato anche Settembre a Venezia(38)): «L’alito freddo e umido m’assale / di Venezia autunnale […]. Morto è il silenzio dei canali fetidi, / sotto la luna acquosa / in ciascuno dei quali par che dorma il cadavere d’Ofelia: / tombe sparse di fiori / marci e d’altre immondizie vegetali, / dove passa sciacquando il fantasma del gondolier». Ma, al di sopra di questa parvenza di una città sfatta, anche per il D’Annunzio de Il Fuoco la città rimane ammaliante («Tutto il mistero e tutto il fascino di Venezia sono in quell’ombra palpitante e fluida, breve e pure infinita, composta di cose viventi ma inconoscibili»); così come per Cardarelli, sia pure malefica, resterà sempre una città dal «volto di medusa contagiosa». È nel Notturno(39), però, che D’Annunzio, tra il 1916 e il 1921, darà l’immagine più concreta e ispirata di una Venezia di morte. Il 23 febbraio 1916 il poeta resta vittima di un incidente aereo che lo costringe a una lunga degenza a letto con un occhio bendato. Venezia gli appare, così, sdoppiata ancora una volta in due volti antitetici: da un lato la città di sogno, dalla meravigliosa bellezza, dall’altro la città di buio e di morte, soprattutto per la morte dell’amico Giuseppe Miraglia, già scomparso l’anno prima. I due volti si alternano in maniera marcata particolarmente durante il lungo spazio del libro occupato dal flashback sul passato. Non ancora ferito all’occhio, D’Annunzio con altri compagni va a visitare Miraglia all’ospedale della Marina: e, mentre fuori Venezia è un tripudio di luce («Il bacino di San Marco, azzurro. Il cielo da per tutto»), la disperazione gli avvolge il cuore, le lacrime gli bagnano gli occhi e, nell’imminenza dell’ospedale, la riva «con gli alberi nudi […] qualcosa di funebre e di remoto». Poi, quando scende la sera, mentre «la luna d’oro splende nel cielo», egli ha con sé «la morte, l’odore della morte». E quando infine riparte dall’ospedale, ormai tutto il paesaggio si è trasformato, «Venezia in cenere. La morte per tutto». Il racconto si apre poi alla ricostruzione del grande volo che D’Annunzio compirà, purtroppo senza l’amico, e da cui uscirà ferito alla vista. L’idea dell’azione cambia il paesaggio: «È il mattino stabilito per il gran volo: un mattino glorioso. Non una bava di vento. La laguna è senza una ruga. Il cielo è immacolato […]. Il cielo puro. Il sole giovane e forte, il sole che balza, che aspira al meriggio. La laguna è di seta cangiante, come l’opale. Il campanile inclinato di San Pietro sembra di madreperla». Ma ancora una volta, se, nell’attesa dell’impresa ardimentosa, nel prendere una gondola s’abbandona all’euforia («Acqua azzurra, felicità dell’aria dorata»), il rimpianto per l’amico scomparso fa subito dopo sentire «duro e sonante» il suolo, gli fa vedere «spogli e disperati» gli alberi, e i rami «mi sembra che sieno essi per spezzarsi di dolore, del mio medesimo dolore». I visi delle donne gli sembrano «dolorosi», «travagliati dalla fatica e dalla sventura, visi di pietà», i bambini «macilenti, tutt’occhi, sudici, tristi»; la città tutta imbruttita: «L’acqua del rio malata […]. Un cielo grigio, umido, freddo». Non è la Venezia di Barbaro e di Bettin guastata da un lento e inesorabile deterioramento fisiologico, ma una Venezia tinta di nero a riflesso dello stato d’animo del poeta, metaforicamente funebre. Poi sopraggiungono la ferita e la degenza a letto nella Casetta Rossa. D’Annunzio non vede direttamente la città, ma la sente dall’interno della sua stanza, la intravede e, soprattutto, la immagina. Ed è inevitabilmente una Venezia autunnale, ancora città di sogno nella sua essenza, ma avvolta dal grigiore della nebbia. Egli vive come in una bara: «È l’ora dell’oscurazione per tutta la città, e io supplico di non chiudere la finestra. Bevo l’ultima luce con l’ansia d’un moribondo. Quando gli scuri sono sbarrati, la stanza diventa una bara. Le quattro pareti serrano il corpo come quattro assi. I chiarori erranti nel fondo dell’occhio bendato formano la figura spettrale dell’insonnio». E come una bara gli era già apparsa anche la gondola in cui aveva ricondotto Rosalina alla stazione dopo il funerale di Miraglia («bara oscura»), perché il suo amico era laggiù «nel suo piombo», così come lui era «in questa prigione vacillante che puzza di muffa e di cose putrefatte, sopra la marea bassa». Un tempo, però, da quella stessa scala di un palazzo che ora è rovina, «esciva la mascherata condotta dall’Arlecchino bianco che portava sopra l’omero un pappagallo azzurro». Più che tempo storico cronologicamente lontano, è un tempo soggettivamente distanziato. Ma basta a capovolgere lo stato d’animo e, insieme, la visione di Venezia, il pensiero dell’azione di guerra: «La campana suona a stormo. Il rombo del bronzo penetra in tutte le midolle. Un urlo immenso lo supera. La guerra! La guerra! Suona dal fondo dei secoli morti? suona dal fondo dei secoli avvenire?». Il pensiero va subito, perciò, a Marinetti e ai suoi discorsi Contro Venezia passatista(40) del 27 aprile 1910, preceduto da Uccidiamo il chiaro di luna!(41) dell’aprile 1909 e seguito da Discorso contro i veneziani(42). Nell’aprile 1909 Marinetti aveva già inneggiato alla guerra, in antitesi con la Venezia di morte, come alla «nostra unica speranza, la nostra ragione di vivere, la nostra sola volontà!». In Contro Venezia passatista, poi, aveva ripudiato «l’antica Venezia estenuata e sfatta da voluttà secolari, che noi pure amammo e possedemmo in un gran sogno nostalgico». E alla Venezia «putrescente, piaga magnifica del passato», contrapponeva «la nascita di una Venezia industriale e militare che possa dominare il mare Adriatico, gran lago Italiano». Il suo era un progetto di vera e propria distruzione della Venezia di un tempo («Affrettiamoci a colmare i piccoli canali puzzolenti con le macerie dei vecchi palazzi crollanti e lebbrosi»), la Venezia dei romantici diventata poi la Venezia turistica del commercio dei grandi alberghi, la Venezia di morte che anche lui vede sotto una luce ormai funebre (i gondolieri come «becchini»), per una Venezia in cui «le lampade elettriche dalle mille punte di luce taglino e strappino brutalmente le tue tenebre misteriose, ammalianti e persuasive!». Cioè, per quella Venezia industrializzata il cui declino è, invece, in tempi recenti lamentato dalla documentazione critica dei Barbaro, dei Bettin e degli Scarpa degli anni Ottanta e Novanta.

Ma torniamo brevemente a toni più pacati, e percorsi delicatamente da venature liriche e altre tenebrose, ma sempre in chiave di morbida compenetrazione: toni che preparano blandamente l’impressionismo sensitivo dei Valeri e dei Comisso. Le ultime testimonianze sono quelle dell’inglese Frederick Rolfe, detto il Baron Corvo, nel suo romanzo Il desiderio e la ricerca del tutto(43) scritto tra il 1909 e il 1913 ma edito solo nel 1934; e di Marcel Proust nella sua ciclica Ricerca del tempo perduto(44) scritta tra il 1913 e il 1922 (anno della sua morte). Quello di Rolfe è un tipico romanzo dell’ambiguità imperniato sull’attrazione sensuale del protagonista Nicholas Crabbe per la figura androgina di Zilio, un’adolescente dai tratti efebicamente mascolini. Venezia è la vera protagonista del libro, nella sua ambivalenza di labirinto povero e fascinoso, da cui il protagonista (che è lo stesso autore) non riesce a staccarsi così come Rolfe non era riuscito a fare in tutta l’ultima parte della sua vita, nonostante le difficoltà economiche. La conoscenza che la ragazza Zilio ha «del labirinto dei canali cittadini era della più intima natura». Il protagonista, a sua volta, si libera del «pupparin» e della barchetta che aveva acquistato, e, fuggendo sul «topo» nuovo di zecca, si dà a «coltivare il giardino dell’anima sua nella solitudine del mare e del cielo, nell’aria salsa e soave, là dove i venti erano come un corpo di cantori». La sua vita di vagabondo, «senza un tetto e quasi morto di fame», è «singolarissima a Venezia». Egli rifiuta l’ospitalità caritatevole degli ospizi e preferisce girovagare: «Quasi tutto il tempo lo passava per le vie […]. Spesso vagabondava nel porto della Marittima, osservando il carico e lo scarico dei piroscafi, e la lunga fila dei gagliardi scaricatori carichi di sacchi di frumento che danzavano con leggerezza a piedi nudi giù per le lunghe assi dai vapori al molo. Questo spettacolo lo entusiasmava […] anche l’ultimo tratto delle Fondamenta Nuove era uno dei luoghi che prediligeva». È una Venezia antitetica a quella sontuosa del D’Annunzio de Il Fuoco, una Venezia popolare, che preannuncia quella altrettanto colorita e cameratesca di Comisso e del suo mercato di frutta e verdura. Perfino l’isola cimiteriale di S. Michele gli appare un giardino fiorito («Il cimitero era un giardino») e perfino il rito funebre nella chiesa dei Frari è tinteggiato di dolcezza: «Una musica dolce, triste e colma di speranza si riversò dal coro». Il tutto si avvolge di un appena accennato brivido di morte, un delicato presentimento di crepuscolo. In chiesa il protagonista si riposa, e le ombre dei grandi pittori del passato lo confortano («Vi si riposò per qualche tempo, in seguito, tra le ombre di Tiziano e del Canova»). La stanchezza è sua e insieme della città, un po’ assonnate e sognanti entrambe: «Anche Venezia era stanca e si asteneva dalla dissipazione nella notte del Giorno dei Morti».

Per Proust, infine, Venezia è più che mai la città del sogno, perché il giovane protagonista della Ricerca trascorre diversi anni a fantasticare su un viaggio a Venezia che gli è frequentemente promesso e prospettato dalla madre. Insieme a Venezia c’è anche Firenze, ma è la prima che finisce per prevalere. Ed è, per ora, soprattutto la Venezia dei grandi pittori: «Certo, ogni volta che mi ripetevo […] che Venezia era ‘la scuola del Giorgione, la dimora di Tiziano, il più completo museo dell’architettura domestica medievale’, mi sentivo felice». Ma non solo, perché ancor più felice si sente quando «pensavo che […] già il sole di primavera tingeva i flutti del Canal Grande d’un così cupo azzurro e di così nobili smeraldi che, frangendosi ai piedi dei dipinti del Tiziano, quelli potevano rivaleggiare con questi in dovizia di colori». Ancora una volta ci si avvia, così, alla visività sensitiva di Diego Valeri e di Comisso, sia pure con una eccitabilità che ha qualcosa di decadentisticamente morboso (Marcel si sente addirittura male, gli viene la febbre, quando il progetto del viaggio sta per concretizzarsi). E, quando descrive un suo stato frequente tra veglia e sonno, paragona quella sensazione sfumata alla luce veneziana: «È così che in seguito, a Venezia, parecchio dopo il tramonto, quando sembra che regnino le tenebre, ho visto — grazie all’eco, seppure invisibile di un’estrema nota di luce indefinitamente tenuta sopra i canali come per effetto di un pedale ottico — il riflesso dei palazzi disteso, come per sempre, in velluto più nero sul grigio crepuscolare delle acque. Uno dei miei sogni era la sintesi di ciò che, da sveglio, avevo spesso cercato di raffigurarmi con l’immaginazione a proposito di un certo paesaggio marino [...]». Si convince, poi, che vedere Venezia conta più che immaginarla. E, infine, la vede, non senza averla prima intravista addirittura attraverso le stoffe degli abiti dell’amata Albertine. E la vede nel suo straordinario impasto di ricchezza e di semplicità, perché, nel momento stesso in cui contesta la visione di chi predilige i suoi «umili campi» e i suoi «piccoli rii abbandonati», lui stesso sembra appassionarsi anche a questa Venezia minore: «La mia gondola seguiva i piccoli canali; come se la mano misteriosa di un genio m’avesse condotto per il labirinto di questa città d’Oriente […]. A volte appariva un monumento più bello, che figurava come una sorpresa […] un po’ spaesato fra le cose usuali in mezzo a cui si trovava […]. Avevo l’impressione […] di non essere all’aperto, ma di entrare sempre più a fondo in qualcosa di segreto […]. Tornavo a piedi per piccole calli […]». Venezia fastosa e Venezia segreta, dunque, ma soprattutto Venezia come flusso continuo di luce e acqua («in un’incessante corrente d’aria, l’ombra tiepida e il sole verdastro filavano come su una superficie galleggiante evocando la vicinanza mobile, il tipo di luce, la scintillante instabilità dell’onda»): come sarà in Valeri. E la prospettiva di piazza S. Marco gli si presenta come una fusione di terra e acqua marina, come se la piazza stessa fosse una spiaggia (si ricordi Comisso), in una ripetuta mistura di realtà e sogno. Ed è tanto soggettiva l’emotività di Marcel che bastano la partenza della madre e la solitudine perché la stessa realtà gli appaia in una luce diversa, malinconica e desolata: «La città che avevo davanti aveva smesso d’essere Venezia». Lontano, alla fine, in questa esasperata sensibilità decadente, dalla visività delicata, ora crepuscolare ora impressionistica, dei Valeri e dei Comisso, che è pur sempre concreta e lucida. Con Proust si chiude, allora, idealmente, la linea decadente dell’interpretazione e ricreazione ‘onirica’ di una Venezia più sognata che vista, e più interiorizzata che oggettivamente contemplata.

I narratori non veneziani (italiani e stranieri) su Venezia (1930-2000)

La letteratura fra le due guerre e oltre si distingue con difficoltà fra letteratura dei veneziani e letteratura dei non veneziani e degli stranieri su Venezia. Eppure la distinzione va rispettata, almeno in parte, per motivi pratici. È evidente che, riferendoci agli scrittori veneziani, dobbiamo tener conto del complesso della loro produzione anche nel caso in cui non si siano occupati di Venezia, mentre per i non veneziani (stranieri o italiani) la loro inclusione in questo nostro panorama si giustifica solo nel caso in cui si siano occupati della città lagunare. Inizieremo, perciò, proprio da questi ultimi, e sempre con indicazioni che non pretendono di essere esaurienti ma soprattutto di orientamento tematico.

Tra i non veneziani sono gli italiani a occupare lo spazio più vasto, dando respiro anche a una narrazione di impianto storico-romanzesco, rispetto agli stranieri che invece si ispirano per lo più alla contemporaneità. Fra i narratori che guardano al passato, ricordiamo, in successione cronologica di argomento, Neri Pozza, Raffaele Calzini, Orazio Bagnasco. Neri Pozza (vicentino) ha composto, oltre alla biografia di Tiziano(45), anche una serie di tre volumi di «storie veneziane» (Processo per eresia(46), La putina greca(47), Le luci della peste(48)) negli anni 1967-1982, ispirandosi ai maggiori artisti, pittori, architetti, ecc. della Venezia rinascimentale (come, del resto, al Rinascimento veneziano si ispira il padovano Piero Sanavio nel suo Caterina Cornaro in abito di cortigiana(49) del 1981). In essi, spesso, ha alternato la prosa descrittiva al dialogo teatrale, mettendo al centro dell’interesse figure come quelle di Paolo Veronese, Tiziano appunto, Bellini, Tintoretto, e spaziando anche fuori di Venezia, nella pittura e architettura veneta (Jacopo da Bassano, Giorgione, Palladio, spesso ritratti durante soggiorni veneziani). Pozza si compiace anche di amalgamare la lingua italiana con il dialetto o la coloritura dialettale, e di mescolare l’informazione erudita con l’invenzione fantastica, nell’intento di ricreare ambienti, clima storico, suggestioni espressive tipiche del Rinascimento veneziano. Resta sempre sottesa la presenza di una Venezia nel pieno splendore sia economico che creativo, e il suo contrassegno è dato proprio dall’idea artigianale dell’arte. Siamo volutamente lontani da una interpretazione romantico-idealistica della creazione artistica, e il mestiere sembra reggere, sia come competenza sia come ricerca di guadagno, il lavoro degli artisti, in un contesto in cui la qualità e la quantità della produzione erano scontate. Di Venezia si intravedono, al di là delle vicende sceneggiate, scorci luminosi ma anche tempestosi. Cima da Conegliano, ad esempio, in Tornare a casa(50), «spalancava le finestre. Girava gli occhi sui tetti della città, santo Stefano, il campanile dei Frari e gli orti della Giudecca come volando […]. A occidente il cielo diventava scuro, ma sulla sua testa sfiamegava ancora la luce». Se, da un lato, ne La modella del Tintoretto(51), «il pomeriggio era bello, veniva dal mare una bava fresca che sapeva di sale», dall’altro «il canal della Giudecca, agitato dalle correnti di un verde infangato, faceva sbandare la barca che lo traghettava […]. La giornata piovosa e fredda gli pareva piena di fumo, le pietre delle calli sembravano cedere sotto i suoi passi, i muri sbavavano». E non solo la città offre questi due diversi volti secondo il tempo e la luce, ma Pozza coglie anche qualche distacco già avvertibile della terraferma dal capoluogo: sia quando Venezia, in seguito alla peste, non si preoccupa molto della provincia (di Conegliano, ad esempio, dove requisisce quasi tutta la farina, sempre in Tornare a casa); sia quando in Donna della Dalmazia(52), attraverso la voce di una donna del popolo, Pozza decanta lo splendore di Venezia, l’eleganza dei suoi abitanti, la ricchezza delle feste e delle processioni, il senso abile degli affari, ma, per quanto la riguarda, le fa esprimere preferenza per il paese rustico, in cui vive: «Venezia è sporca, piena di robe false, di insidie, c’è una confusione da far paura». La dicotomia, che balzerà agli occhi nel Novecento, è già preannunciata da Pozza nella sua visuale retrospettiva di ‘novecentista’ che fa storia del passato.

Raffaele Calzini (milanese) aveva già scritto nel 1935 La commediante veneziana(53) imperniata sulla figura dell’attrice Teodora Ricci: la famosa amante di Carlo Gozzi e del Gratarol, abile nel destreggiarsi anche tra il Truffaldino dell’attore Antonio Sacco e il marito Bartoli. La natura della protagonista permette all’autore di aprire ampi squarci sulla vita teatrale e sociale della Venezia del Settecento, come, ad esempio, sulla festa in casa di Caterina Dolfin Tron (il palazzo della Parona). Il motivo centrale del libro si può dire che è quello della teatralità: sia della città sia della folla dei personaggi, a cominciare da quelli di Teodora e del Gratarol, la cui vanità, nella stretta alleanza, «accanto al teatro, uscio a uscio col camerino, tra i su e giù dei siparii e delle scene, ne rifletteva gli artificii e la fragilità» («fingevano una passione alla quale credevano poco»). A specchio sta la città nella forma di «un palcoscenico solo». Intorno si configura uno scenario sdoppiato nella tradizionale alternanza di momenti luminosi (città di aria e di luce «mutava colore e forma: misura e volume»; «Era un’immensa Dea adagiata in un’alcova violacea a forma di conchiglia che i zig zag dei lampi incrinavano»); e di momenti tetri, minacciosi di morte: «La città, come una carcassa di nave abbandonata alla deriva, pareva lì lì per affondare». Quest’ultima funerea intonazione a sua volta alterna momenti ‘fisiologici’ e momenti ‘storici’: ora pare che Venezia si dissolva nella nebbia e nell’acqua, e «la si udiva ciangottare con un rigurgito di chiaviche»; ora pare che la si senta morire per una crisi storica di fallimento (mentre le antiche generazioni erano state «le formiche economiche e risparmiatrici della Serenissima», oggi, cioè al tempo di Teodora Ricci, «bisognava difendere i granai dove essi avevano accumulato ricchezza, potenza». C’è insomma un «presentimento della fine». E i Tron, per primi, si esortano reciprocamente: «Aiutiamoci a rattoppare questa vecchia Repubblica!»). Il quadro di Calzini è, perciò, molto articolato, tra amori e recite, gelosie e rivalità, in una sapiente mescolanza di passato e sapienza del ‘poi’. E non ultimo, accanto a questo romanzo degli anni Trenta, va citato Vetro(54) di Orazio Bagnasco (genovese) che, nel 1998, rievoca romanzescamente la figura di Casanova, in una Venezia in cui si muove anche Lorenzo da Ponte, tra fasto, avventura e sensualità. E si deve, a questo punto, almeno citare tutta una produzione di biografie sospese tra documentazione erudita e narrazione fantasiosa di personaggi rappresentativi del Settecento veneziano: Casanova e Goldoni sopra tutti. Si potrebbe risalire a quella di Piero Chiara (Il vero Casanova(55)), per scendere, ma non in ordine di merito, a Casanova(56) di Roberto Gervaso e a quella recente di Luca Goldoni, Casanova romantica spia(57). E poi a quelle di Carlo Goldoni, sebbene personaggio meno avventuroso dell’altro e perciò meno suscettibile di reinvenzioni romanzesche: dalla monografia di Franca Angelini (Vita di Goldoni(58)) a quella di Paolo Ruffilli (Vita amori e meraviglie del Signor Carlo Goldoni(59)).

Dal romanzo storico al romanzo contemporaneo. E sono almeno quattro quelli che ci piace affiancare, perché tenuti insieme da un comune filo conduttore, nonostante la diversa estrazione dei loro autori: si tratta di Gioventù che muore(60) (1949) di Giovanni Comisso, Le notti della paura(61) di Antonio Barolini, Di là dal fiume e tra gli alberi(62) (1950) di Ernest Hemingway, Anonimo veneziano(63) (dal precedente copione teatrale del 1971) di Giuseppe Berto. E non è, forse, del tutto casuale che proprio Comisso abbia ‘scoperto’ Berto al suo primo romanzo (Il cielo è rosso), e che Berto ammirasse molto la narrativa di Hemingway. Sono quattro romanzi d’amore e morte, sullo sfondo di Venezia, città meravigliosa ma incline a sentimenti funerei. E in tutti e quattro i casi si tratta proprio di morte fisica, non metafisica, portata dentro il proprio corpo dai protagonisti maschili negli ultimi due casi (dai sintomi già identificati di un male incurabile), e nei primi due casi presentita come destino di morte in un clima di guerra (l’ultima guerra mondiale). In Comisso la storia d’amore coinvolge una donna, Adele, non più giovanissima, e un ragazzo, Guido. Per lui la libertà e la felicità si identificano con la vita all’aria aperta, al mare e in campagna. Venezia, invece, gli si profila come immagine lugubre. Una prima volta sono entrambi sorpresi dall’acqua alta, che sale addirittura all’interno della loro stanza da letto. Adele se ne entusiasma; Guido invece, dapprima la attende come un bellissimo fenomeno, ma poi «si sentiva sempre più inquietare da quell’acqua che saliva e non era l’acqua dei fiumi estivi che gli piaceva godere ignudo, era un’acqua come uscita dalla cucina dopo il lavaggio dei piatti». In seguito, quando tornano a Venezia, si apre qualche scorcio di luminosità, ma ben presto, anche a Chioggia, le acque appaiono a Guido «sporchissime» e ben diverse da quelle del mare. Vi si aggiunge il clima di guerra, i cui echi giungono anche qui. Ed egli ne coglie i richiami nel Lamento di Arianna di Monteverdi, che anche Adele sente come un canto funebre («così ella avrebbe parlato disperata se un giorno Guido avesse dovuto staccarsi da lei per sempre»). Guido è incalzato da un’inquietudine adolescenziale che lo spinge a cercare il pericolo: entrerà anche lui in guerra, si mescolerà con i diversi fronti in una confusa smania di azione; finirà ucciso dai partigiani, dalla cui parte, in realtà, militava. Ma anche prima di questa tragica conclusione, il romanzo è tutto percorso da brividi di morte: Venezia, guerra, morte si identificano. Nella città Guido sente odore di cadavere: «Venezia era orrenda: la neve si era ghiacciata nelle calli e sui ponti, senza essere spazzata». Alla propria morte andrà poi incontro, altrove. Ma qui l’aveva già respirata. Come un’atmosfera di morte si respira ne Le notti della paura del vicentino Antonio Barolini, in un tetro clima di guerra nella Venezia della Resistenza. Ma anche qui, come già ne La grande Olga(64) del veneziano Facco De Lagarda (che vedremo), la guerra si combatte fuori, lontano, e i due protagonisti maschili, Gir e Tarcisio, sono due antifascisti nascosti nella casa della giovane figlia (Priscilla) di un patrizio veneto che offre loro ospitalità. Se nel libro di Lagarda l’intreccio è di amicizie difficili tra uomini, all’ombra protettiva e trafficante di Olga, qui fra i tre personaggi si intreccia invece una intensa rete di rapporti sessuali che compromettono la fede e la coerenza cattolica dei due uomini. Mentre Priscilla è priva di qualsiasi complesso, Gir invece è un cattolico debole e contraddittorio; e Tarcisio, che si presenta con un moralismo granitico, cede poi alla tentazione e si lascia coinvolgere dai sensi anche più dell’altro. Ma nessuno trova pace nello sfogo: Gir perché malato di masochismo, Tarcisio perché inappagabile. E perfino Priscilla rivela, alla fine, sotto la veste di una animalesca naturalità, un fondo di disperazione. Il romanzo si perde poi in disquisizioni teoriche che presuppongono un diverso impianto; ma, come storia di coscienze turbate e fragili, dentro una cornice di paura e di ‘fuga’ dalla realtà, possiede una sua conturbante spregiudicatezza (sotto la patina di compostezza, in questa Venezia tenebrosa si patiscono frustranti passioni, da Comisso a Camerino a Barolini).

In Hemingway la morte è annunciata, invece, dal mal di cuore del colonnello americano che, già cinquantatreenne, si è innamorato della diciannovenne Renata. Gli è stato pronosticato che la fine sopraggiungerà al quarto infarto: e i due amanti vivono la loro storia sotto la minaccia inesorabile di questa previsione. Il romanzo è fatto di reiterati incontri in alberghi di lusso, in caffè, in passeggiate lungo luoghi tipici della città. Intrecciato nei caratteristici e reiterati dialoghi hemingwaiani, più che procedere, ritma e ribadisce il Leitmotiv centrale. Venezia respira intorno alla coppia come magia e incubo: «percorrendo il Canale […] sentirono l’antica magia della città e ne videro tutta la bellezza». Ma ecco che, subito dopo, egli «vide il grande palo nero per attraccare le gondole e la luce del tardo pomeriggio invernale sull’acqua spazzata dal vento». Ed è già una sfumatura diversa, con quel «nero» e quel «tardo pomeriggio invernale». E infatti cominciano presto le allusioni allo stato di decadenza della città; e le domande inquietanti di Renata: «Mi ami ancora su queste vecchie pietre fredde e logore?». Le stesse effusioni dei due amanti sono percorse da sintomi di disperazione: «nel bacio non rimase che disperazione». Eppure Venezia continua a sprigionare un suo richiamo di bellezza: «e il colonnello guardò la ragazza e poi il Canal Grande fuori dalla finestra e vide le chiazze magiche e i mutamenti di luce, che risaltavano anche lì in fondo al bar». E il colonnello stesso lo ribadisce: «E mi piace Venezia […] Venezia mi piace, come sai».

Giuseppe Berto (nato a Mogliano Veneto), che si era già occupato di Venezia in un diverso libro cui accenneremo, in Anonimo veneziano porta anche lui il suo contributo all’immagine tardoromantica di Venezia come spettro di morte. Nel breve racconto fa incontrare due coniugi che da qualche anno si sono separati: lei si è trasferita a Milano, e vive con un altro, ne ha avuto una figlia. Lui è rimasto a Venezia, fa il musicista sia pure senza grande successo, e l’ha convocata qui senza dirgliene la ragione. La donna è curiosa di conoscerla, ma non fa pressioni; e lui si diverte, tra il sadico e il masochistico, a tenerla sul filo dell’attesa, facendo continue ma velate allusioni alla propria precaria condizione fisica: finché le rivela di essere malato di cancro al cervello e di avere pochi mesi di vita. Venezia, in questo caso, è una città di degrado e di squallida agonia: «Per il momento la città manteneva nel canalgrande la sua splendida esibizione di vita, ma la morte stava a sonnecchiare in qualsiasi rio confinante, ceneri ostruivano canali di morta laguna, ratti pazientemente si moltiplicavano». Ecco che allora, la «paura di morire», la «paura dell’annientamento» si mescola alle «catene di rifiuti», agli «odori abbastanza mortali». La città sta morendo, «ma è proprio questo che la fa bella». La stessa musica dell’Anonimo veneziano (che è poi Alessandro Marcello) sembra «il lamento funebre per questa città [che] vuol tornare ad essere fango». Identificandosi con lei, al protagonista sembra più facile accettare il proprio destino: «Milioni di cancri se la stanno mangiando, moriamo insieme, e per me è meno duro accettare. Hai mai letto Morte a Venezia?». La musica di Marcello si allarga da «dolore per la morte di un uomo» a «disperata rassegnazione per la morte di una città e forse di tutto ciò che è vissuto». Il che conferma che la prospettiva di Thomas Mann non si era ancora esaurita nel 1976, anzi si rinnovava. Diverso l’altro romanzo di Berto (La cosa buffa(65)) che accostiamo a Il Doge(66) di Aldo Palazzeschi (fiorentino), anche se può sembrare arbitrario. Ma serve a introdurre un modo finora inedito, nella narrativa contemporanea, di vedere Venezia: non più in chiave romantico-decadente, ma in chiave scherzosa, sebbene poi i due romanzi infilino intonazioni diverse per l’impianto sostanzialmente realistico del primo e surreale del secondo. Berto riprende i temi psicanalitici del precedente Il male oscuro (1964), ma in modo anche più divertito e divertente. Non solo: ma svolge il racconto in terza persona (Antonio), nello sdoppiamento del protagonista «tra il divino e il demoniaco per cui mentre da una parte adorava la purezza dall’altra non vedeva l’ora di rovinarla». Sviluppa, così, due sue successive storie d’amore, con la borghese Maria e con la plebea Marica, sempre dibattuto tra la spinta sessuale immediata e gli scrupoli di coscienza; in un impasto lingua-dialetto che è divertente soprattutto nel ricorso a ridicoli nomi di calli, fondamente e campielli veneziani, che contrastano paradossalmente con la pretesa serietà delle situazioni (calle della Parona, rio delle Ostreghe, ecc.). Venezia fa da sfondo ai tentativi e agli abbandoni erotici della prima coppia (Antonio-Maria) come una ragnatela inestricabile e labirintica di viuzze e luoghi nascosti («elaborate manipolazioni in calli e sottoportici»). E talvolta le situazioni non del tutto irreprensibili sembrano specchiarsi nella condizione di deterioramento dell’edilizia cui i due giovani si appoggiano. Più arioso, invece, l’incontro con Marica che avviene in un caffè sulle Zattere, aperto sull’ampio canale della Giudecca. Ma, al di là delle differenze, è fondamentale, a segnare il timbro comico-grottesco del libro, la coloritura del linguaggio che è tipico della bonaria, ironica parlata veneziana, capace di smussare tutti gli angoli irti dei rischi drammatici in soluzioni confidenziali. Il Doge, invece, ci trasporta in un’atmosfera rarefatta e favolistica, con una prosa disarticolata. Vi si narra di un doge, appunto, che per tre giorni consecutivi fa annunciare la propria apparizione sulla loggia di Palazzo Ducale, ma non mantiene l’impegno; finché appare al quarto giorno affiancato da due donne, la dogaressa e una probabile concubina, annunciando così un’apertura del matrimonio verso forme più libere, anziché la prevista rivoluzione. Infine, il doge stesso fugge guidando la quadriga di cavalli di S. Marco, per riportarli il giorno dopo al loro posto. Il tutto è incredibile e stravagante, oltre i confini del verosimile, in questa tarda fase della storia di Palazzeschi tornato, così, ai funambolismi della giovinezza futurista (Il codice di Perelà). Una favola surreale e impalpabile. Ma tutta veneziana. Qui la città è parte integrante del racconto, con il suo scenario aperto verso l’acqua e il cielo. Non più residui di una Venezia sfatta, ma spazi sconfinati e luci abbaglianti. Palazzo Ducale è presentato «fra le cose più belle che l’uomo abbia visto»; «I marmi della città imperiale compongono un abito vetusto, rivelano la sensibilità pronta e delicatissima della loro anima rispecchiando le iridescenze dell’acqua sotto il magistero della luce che li fa cambiar di rilievo e di colore da un momento all’altro». Il mare «era in quel giorno di un azzurro leggerissimo e argentato gioiosamente surreale». Tornano anche le impressioni di una città della chiacchiera, «dove la parola, rappresentando il solo rumore esistente, vi detiene un primato che nessuno le potrà mai togliere»; e di una città-teatro: «la città si trasforma in un teatro nel quale ognuno è attore e spettatore ad un tempo, tanto che nulla sfugge del tuo comportamento, del tuo abito come del tuo gesto». Anche gli aspetti negativi del turismo attuale, che trasformano «quella Piazza [S. Marco] magnifica in un policromo bivacco internazionale», vengono alleggeriti da una estatica meraviglia dello scrittore che ne purifica il peso: «Il mare verdeazzurro tempestato di gondole e motoscafi carichi di turisti e di valigie che assumevano aspetti anche più sensazionali e originali senza possibilità di riscontro in tutte le epoche […] e sfoggiando tali colori che abbagliavano lo sguardo dell’incantato spettatore». Vagando lungo i rii in gondola e guardando la città dal basso in alto, Palazzeschi prova una sensazione «solamente metafisica per la quale senti di non essere più in una città né in altro luogo della superficie terrena». Esito opposto, dunque, rispetto a quello del Berto de La cosa buffa (lì la città pettegola e quotidiana, qui la città di sogno), ma pur sempre dentro una gamma serena e spiritosa. In fondo, ottimistica.

Con un balzo nel tempo ma sempre restando tra narratori non veneziani, concludiamo la ‘sezione’ con una narratrice dell’ultima generazione. Il passo è lungo perché ci immerge in una realtà inquieta e spregiudicata, in cui il male di vivere spazia dalle difficoltà economiche a quelle esistenziali. L’inquietudine si allarga a macchia d’olio a una piccola folla di giovani, soprattutto studenti, che, nel romanzo La ballata degli invisibili(67) (1999) di Marilia Mazzeo (nata a Ravenna, ma residente da anni a Venezia; e già apparsa nel 1998 con il volume di racconti Acqua alta), abitano e lavorano in piazzale Roma e dintorni. Tutti i personaggi hanno difficoltà economiche, sono degli spostati, hanno difficili rapporti con la famiglia, intrecciano labili relazioni amorose. Piazzale Roma appare come un’isola disperata, con il suo traffico confuso di turisti e lavoratori, ponte lanciato tra il miracolo di Venezia e la terraferma industriale. E accosta, così, l’immagine miracolosa di Venezia propria di Valeri e Comisso a quella disastrata di Barbaro e di Scarpa. Tra i giovani universitari provenienti anche da altre città e che a Venezia soggiornano in un clima di grande libertà (sia pure economicamente precaria) si sprigiona talvolta anche qualche sprazzo di euforia (Acqua alta), e la città stessa si alterna tra l’afoso caldo estivo e l’umido e piovoso freddo invernale a specchio degli stati d’animo, irrequieti e mobili, dei ragazzi: ancora una volta splendida ma anche fragile, foriera, più che di morte, di dubbia instabilità.

I poeti a Venezia, nel secolo

Per la poesia, forse, è meno consigliabile tener distinti gli autori nati a Venezia da quelli nati altrove ma attenti a Venezia come in una simbiosi naturale con la città di elezione. Per tutti, ad esempio, sono ormai da considerarsi poeti e scrittori veneziani un Diego Valeri (che era di Piove di Sacco) o un Manlio Dazzi (che era di Parma) o un Giacomo Noventa (che era di Noventa di Piave, Venezia). Quest’ultimo si è spesso espresso addirittura in dialetto veneziano nei suoi versi. Di molti altri veneziani, a parte Domenico Varagnolo, ci limitiamo a citare i nomi in veste di poeti, perché, da Ugo Facco De Lagarda a Carlo Della Corte, da Giorgio Chiesura a Gino Pastèga, si sono espressi, e spesso preponderantemente, in forme narrative.

L’americano Ezra Pound dà il la, nella sua maniera fantasmagorica e visionaria, a una Venezia piena di bagliori e scintillii in alcuni dei suoi XXX Cantos(68). Poiché «i gondolieri tariffavan troppo […] quell’anno ebbi per seggio i gradini / della Dogana». La banale notizia di cronaca, sul suo essere rimasto seduto sui gradini per evitare le richieste esose dei gondolieri, è però subito trasfigurata dall’immagine inventiva «Dalle travi del Morosini scaturiva luce, / Pavoni nella casa di Corè… o forse. / Dèi aleggian nell’aura azzurra»; «L’argento d’acqua invetria i capezzoli / Delle ninfe in tinta di mandorle»; «Vene verdi nel turchese». La nota informativa cerca di delucidare la situazione: il poeta rimira «la città dal volto più bello del mondo», come egli stesso scrisse in una lettera inedita alla madre nel 1908. E nella stesura del 1918, identifica la meraviglia per la bellezza del volto di una ragazza con quella per il volto della città: «c’era il bagliore, / Un viso soltanto io vidi, autentico… / Né saprei dire che forma avesse… / Ma ella era giovane, troppo giovane. / È vero, era Venezia». In Canti successivi ricostruisce, con sintetiche e allucinate illuminazioni, momenti della storia veneziana dal Duecento al Cinquecento, storia in cui entrano i Malatesta, i Medici e i loro rivali Albizzi, con intrighi di corte, assassini, corruzione, lusso, ecc. E personalmente vi si inserisce («Qui venni / In mia gioventù»), fondendo i dati di cronaca con un flusso analogico di immagini vertiginose: «E di notte cantano nelle gondole / E nelle barche con le lanterne; / S’impennano prore d’argento, argento / lampeggia nel buio».

Con Diego Valeri e Domenico Varagnolo entriamo in un diverso clima espressivo: crepuscolare nel primo, realistico-quotidiano nel secondo, non senza, anche in lui, sfumature malinconiche. Poeti minori, si è detto a lungo, anche se Valeri spaziava nella letteratura francese ed europea, mentre Varagnolo rimaneva più ancorato ad una matrice bonariamente, ma sapientemente, provinciale. E comunque, in entrambi, è presente un’attenzione alle piccole cose, ai sentimenti trepidi e discreti. Valeri, di Venezia vede soprattutto l’aspetto autunnale (si ricordi Cardarelli), sfumato verso le tinte sbiadite: «Giunge dal mare il fiato sonnolento / dello scirocco». I colori, perciò, si impastano di grigio: «Questi grigi di perla e grigiorosa, / e grigioverdi». Acqua e cielo sembrano «venire, come dietro un velo». Anche la gondola dondola «stancamente» e l’onda «ha un singulto soffocato, dentro». Conclusione: «Venezia giace languida, disfatta» (Ottobre di Venezia(69)). E altrettanto in Riva di pena, canale d’oblio…, in una Venezia autunnale si susseguono immagini smorte: «il cielo fumido, oscuro», «l’acqua spenta», «la pietra malata»; i lampioni radi «sperduti per il nebbione». Anche il cuore è «morto», si sentono solo gli «urli straziati d’addio / dei bastimenti che lasciano il porto». Spesso la città si tinge dei colori dei suoi sentimenti, tetri quando il suo cuore è in preda alla delusione amorosa, lieti quando il suo cuore trova corrispondenza. In Ritorno, egli che se ne era andato per disperazione, ora torna e ritrova la città «dalla faccia arida e stanca / dal dolcissimo cuor morto»; «la città del sogno caduto, / della vana estrema illusione». In Chitarra veneziana, invece, si chiede se c’erano anche prima i fiori, i colori, l’acqua, ecc. Sì, c’erano, «ma solo quando è apparso il tuo viso / le ho viste, a un tratto, come al rompersi del giorno». Ed allora ecco la tenda, stesa, riempirsi d’aria «azzurra», la nuvoletta diventare «di perla», e il «lungo respiro del vento» portare dentro il chiuso «l’immenso del mare».

Eppure, in questa sinfonia di note crepuscolari, intimistiche, in cui la malinconia ha la meglio e la città si fa portavoce degli stati d’animo amorosi di Valeri, non manca l’eccezione, cioè la poesia in cui la bellezza di Venezia è intravista in sé e per sé. Nel contrasto tra la primavera di terraferma e quella della città lagunare, Valeri conclude che la seconda non è meno bella e misteriosa della prima. Qui la primavera non può far fiorire i petali di pesco, né l’erba. Ma questa primavera «che non può far fiore», che agisce più sotterranea e segreta e anche «più soave e bella», è come un «respiro immenso che solleva / i palazzi, le cupole, le altane / più verso il cielo, e in cielo avventa cumuli / di nuvole d’argento, apre ferite / di luce azzurra, viva come sangue» (Primavera di Venezia).

Varagnolo umilmente comincia con il chiedersi, come già Palazzeschi e Moretti, «Sogio un poeta?». E risponde: «Ma! Mi ve confesso / che proprio garantirvelo no posso». E già ci introduce, così, dentro il clima dimesso della sua modestia da piccolo «realista» (siamo sulla scia dei Gallina e dei Selvatico fine Ottocento). E, infatti, egli non si abbandona a voli lirici, ma tratteggia piuttosto fragili, ma verosimili, personaggi, figurette riconoscibili nella cronaca quotidiana ed episodi di simpatica familiarità. Come ben scrive il suo presentatore Ugo Facco De Lagarda: «Chi legge questo libro [Sei monologhi veneziani(70)] entra subito nel clima di una Venezia scomparsa, o sconosciuta, o negletta, al giudizio dei più […]. È particolarmente, la Venezia tra il 1900 e il 1930; la Venezia delle calli e dei campielli chiacchierini; del sontuoso Florian […]; la Venezia del teatro-salotto Goldoni […] e della Cavalchina alla Fenice […]; la Venezia del tranquillo vivere, che non era affatto un’addormentata, torpida sirena». Nei sei monologhi in versi sfilano personaggi come «La Rosina che se sfoga», «La sartorela», «La lavandera», «El goloso». Il Leitmotiv è quello del ridimensionamento di tutti i valori che presumono di imporsi come troppo importanti o di fronte ai quali la vince invece il buon senso concreto. C’è, ad esempio, il poeta che pretende di leggere i suoi versi ai familiari, ma non riesce a trovare ascolto, perché ciascuno è preso da altri, più semplici ma fattivi interessi. E commenta, tra l’amaro e l’ironico: «No gh’è ch’el gato che me staga atento!». Si torna sulla relatività della giustizia umana; sull’inafferrabilità della felicità che, come la donna, sfugge chi troppo la corteggia; sull’appetito che è la forza motrice basilare della vita; sulle necessità primarie; sui piccoli piaceri. La morale, pur nel ridimensionamento di tutte le retoriche, è ottimistica, la vita ha la meglio sulla morte. Anche in uno scorcio di guerra (Maternità de guera), tra fischi di bombe e urla di paura in un rifugio antiaereo, «vien al mondo un bel putelo!». Ed è la vita che continua. Qualche sospetto di enfasi compare solo quando Varagnolo si lascia andare a magnificare S. Marco (Omaggio a S. Marco, e San Marco! San Marco!) o per la sua sfarzosa bellezza («Oh magnifico scrigno pien d’oro») o per la sua rappresentatività storica («Xe qua la to Storia, / de Arte miracolo-prodigio de Gloria, / onor de Venezia»).

Spesso, anche se non sempre, in dialetto si è espresso anche Giacomo Noventa nella sua ampia produzione di poesie (in lingua, invece, ha cantato Venezia anche Neri Pozza nella selezione Suite veneziana 1958-1982) e in un dialetto che appartiene alla più pura matrice veneziana (molti altri sono, del resto, i poeti in dialetto veneto nel Novecento, ma molto spesso di una coloritura padana più che veneziana, da Eugenio Ferdinando Palmieri a Giulio Alessi e Cesare Ruffato [da Rovigo a Padova], per non dire della poesia triestina di Virgilio Giotti e di quella gradese di Biagio Marin). Noventa, che è stato anche fertile saggista di impegno politico, si compiace di difendere la sua scelta del dialetto veneziano (in Parché scrivo in dialeto…(71)) come autentica lingua alla pari del toscano: «Parché scrivo in dialeto…? / Dante, Petrarca e quel dai Diese Giorni / Gà pur scritto in toscan. / Seguo l’esempio». E, altrove (in Mi me son fato…), superando la questione del diritto del veneziano di essere considerato una lingua alla pari di altre, si attribuisce il merito di essersi creato una propria lingua sia in dialetto che in italiano come creazione espressiva personale: «Mi me son fato ’na lengua mia / Del venezian, de l’italian: / Ga sti diritti la poesia, / Che vien dai lioghi che regna Pan», cioè la poesia vera. E, ancora, in Nei momenti che ’l cuor…, individua nel proprio linguaggio veneziano l’unico suo strumento espressivo. «Nei momenti che ’l cuor me se rompe», cioè quando si sente stanco, porta il suo cuore a morire a Venezia (Venezia-morte ancora una volta?); perché «No’ gh’è lengua che valga el dialeto / Che una mare nascendo ne insegna». Dialetto, dunque, come naturalità, nei momenti rivelatori della sua essenza. Noventa lo usa in diverse occasioni e su vari spunti. Ma tocchiamo solo alcuni momenti dedicati a Venezia. È una Venezia vista, però, di straforo, quasi mai dichiarata, e presente per un’allusione alle barche o ai rii. In Go vestìo, si, de luto…, la barca appare in forma metaforica: tradito dalla donna amata, Noventa ha rivestito a lutto la barca e si è affidato al mare, come simbolo di una vita che si affida al destino. Altrettanto simbolici sono i nomi del «picolo mar» e della «nave» in Nel me picolo mar. La nave gli è stata di scuola nella vita, ma solo nel «picolo legno» egli ha trovato se stesso, in una intimistica riduzione alle piccole cose in chiave quasi crepuscolare. Così, metafora della vita è ancora la barca, quando chiede a una donna, l’ultima venuta («Ultima vigna…»), «cossa vustu / Ne la me barca a riva?». Non è forse casuale che queste metafore attingano a un repertorio di oggetti tipicamente veneziani, ma non hanno altro riferimento più concreto alla città. Tranne almeno in due casi: nel primo frammento (No’ più longo i rii...), Noventa contrappone la realtà di oggi a quella di ieri («No’ più longo i rii, le serenadine, / No’, soto i balconi, rispèti d’amor, / No’ più tresse d’oro, no’ scale de seda»). I rii sono per lo meno visti nella vera scenografia veneziana, così come la gondola e il gondoliere in Una gondola […]. In essa Noventa assiste ai frequenti amoreggiamenti di giovani coppie veneziane («Quanti basi, Venezia, quanti basi, / Fermi nei to rìi!»), sotto gli occhi distratti del gondoliere che porta una coppia di «foresti». O forse è il poeta che ha l’impressione di vederne così tanti, perché se ne sente escluso: «Son mì che porto qua i me oci strachi, / E el me cuor, a morir?». E lo cogliamo, così, in uno dei momenti più tardoromantici, lui che invece ha nutrito una vena spesso arzilla, di una visività e di una vitalità estroversa. Così come, per finire, e in lingua italiana questa volta (Guardiamo nel mare), ha invitato serenamente a spaziare nella natura: «Guardiamo nel mare / Svegliarsi le barche / Su placide onde».

Manlio Dazzi, sia pure con minore maestria tecnica e minor malia musicale, non si discosta dalla tematica di Valeri. Nella sua raccolta Stagioni(72) (1926-1954), e in particolare nelle sezioni In grigiorosa (1926-1931) e In riva all’eternità (1932-1940), parte da una iniziale impressione di aria e luce («palpitan come vele / ritagli d’aria azzurra, / ritagli di verde acqua lagunare», in Invito sulla laguna) e da un’atmosfera di miracolo in piazza S. Marco (Di prima sera in piazza San Marco). Ma poi alterna anche lui momenti di fresca luminosità su Venezia primaverile (i legni delle barche sono gonfi come se volessero far sbocciare delle gemme e «l’acqua, un grido d’azzurro», in Primavera a Venezia; e «gabbiani vibrati sul vento» e l’acqua «lucida come di quarzo» in Quarzo), a momenti tristi e stanchi su Venezia autunnale («I suoni sono opachi»; «Dentro l’asfalto dei viali è chiusa / una gran luce nera», in Ottobre al Lido; nebbia, il giorno «lattiginoso e molle», «vecchio», l’acqua «spenta», in Novembre al Lido; oppure, in una sera di pioggia, senso di torpore, le nubi livide «tramutano lente»; la luce si perde «senza più volontà», i gabbiani sono sbandati e pigri, le loro ali sono indolenti, in Pioggia di sera in laguna). Come si vede, nella poesia, pur nella sua matrice lirica, è più rara la dilatazione metafisica del tema della morte (Venezia-morte), cioè di Venezia come metafora di decadenza storica e perciò anche esistenziale; e prevale, invece, il motivo più sensitivo e impressionistico del contrasto delle stagioni nelle loro manifestazioni palpabili, visive, addirittura realistiche, di colori e di profumi. Anche in Dazzi, infine, una Venezia reattiva agli stati d’animo amorosi dell’autore (nebbiosa quando la sua donna è assente; esorbitante di vita che riempie ponti e cielo come un gonfiore espansivo, quando la donna è presente, in Canto e controcanto). E non manca la nota sociale, in Mattina, con la rara immagine degli operai che se ne vanno all’Arsenale in vaporetto, e leggono ogni giorno sul giornale la stessa notizia, in piccolo corpo tipografico, sulla disgrazia di un operaio travolto. Piccolo omaggio, fuori tradizione, all’impegno ideologico del Dazzi maturo.

I narratori veneziani (1930-2000)

Piuttosto fiorente la narrativa dei veneziani nella seconda metà del secolo, e fino ai nostri giorni. Distingueremo, anzi, la produzione degli autori nati nell’anteguerra (anche se molti sono attivi tutt’oggi) da quella degli scrittori più giovani, nati cioè negli ultimi decenni del secolo, per la diversità delle loro caratteristiche. Tra i primi citeremo Francesco Maria Pasinetti, Ugo Facco De Lagarda, Aldo Camerino, Alberto Ongaro, Carlo Della Corte, Nantas Salvalaggio. Fra i narratori delle ultime generazioni, ricorderemo Enrico Palandri, Tiziano Scarpa, Carla Vasio, Gianfranco Bettin. Un accenno iniziale, però, ad Alvise Zorzi, che è eminentemente uno storico della civiltà veneziana nelle sue svariate angolature, ma anche un biografo di alcuni dei suoi più rappresentativi figli, da Vita di Marco Polo Veneziano(73) a Cortigiana veneziana: Veronica Franco e i suoi poeti(74), a Monsieur Goldoni(75). E di cui va ricordato il romanzo storico Il Doge(76): che, sulla base sottintesa di una ricca documentazione d’archivio, ricostruisce le vicende avventurose di Andrea Gritti, da mercante a doge, appunto, sullo sfondo dell’Europa e della Venezia del pieno Rinascimento.

Creare dei raggruppamenti, all’interno delle due generazioni di narratori veneziani, non è facile, ma in qualche caso è opportuno qualche accostamento dopo aver detto qualcosa di Facco De Lagarda e di Camerino. Il primo è divenuto famoso soprattutto per un romanzo sul tempo di guerra, La grande Olga, che per qualche aspetto ci richiama Le notti della paura di Barolini già visto. Anche qui la guerra è rivissuta quasi indirettamente, attraverso gli echi che ne giungono nel chiuso di una stanzetta dove sono rifugiati tre antifascisti (e poi un fascista in fuga) negli ultimi anni del conflitto. La padrona di casa, la mastodontica e scaltra Olga, si destreggia nell’affittare stanze a coppie clandestine ma anche nell’aiutare chi intende sottrarsi all’arruolamento nelle file del risorto esercito fascista della Repubblica di Salò. La Venezia che si respira è una Venezia asfittica, tenebrosa, di cui giungono rumori e odori attraverso la nebbia del clima invernale; una Venezia di callette e sottoportici, lontana dagli splendori del centro e dai fasti del grande turismo: quasi essa stessa una prigione, un simbolo di segregazione nei suoi spazi chiusi e labirintici. Aldo Camerino, invece, fa tesoro degli influssi dell’elzevirismo della «Ronda», e, da fine critico (sul quotidiano «Il Gazzettino») e traduttore, quando scrive brevi pagine narrative scandisce cadenze eleganti e calibrate, raccolte poi tutte nel volume Cari fantasmi(77), dopo il precedente Salotto giallo(78): definito nei suoi esiti ultimi da Emilio Cecchi come «qualcosa che fa pensare ad una lunga, sinuosa, un poco ossessiva suite musicale». Anche le atmosfere inquietanti, gli incubi da ‘giallo’, alternati a riflessioni e a commenti divaganti, si innestano nell’elezione di una prosa dosata con sapienza. Due espressioni antitetiche, Lagarda e Camerino, di una Venezia contemporanea: quella di una realtà storica allarmante, e quella di una realtà più dilatata e quasi astratta, in entrambi i casi riscritte con grande controllo formale. Ma Camerino, oltre che di epigrammi grassocci sulla linea che discende dal settecentesco Giorgio Baffo, è anche autore del romanzo Amalia, scritto tra il 1962 e il 1965, e pubblicato postumo soltanto nel 1991. E che già ci permette di introdurre alla maniera di Pasinetti, cioè all’orchestrazione dei suoi romanzi familiari. Camerino, lasciandosi presto alla spalle il nonno Felice e la sua numerosa prole, si concentra sulle storie erotiche del figlio Jacopo e del nipote Lello, entrambi conquistati dalla carnalità di Amalia che diventerà la matrigna del secondo. Il romanzo ha una forte densità sensuale e insiste sulla passiva debolezza dei due maschi travolti dalla sifilide e incapaci di arginare l’attrattiva erotica di questa, ma anche di altre figure femminili. Debolezza fisiologica e nevrotica, che non si può dire si estenda, però, a specchio della città perché Venezia è appena intravista e mai nominata; ma certo è capace di alzarsi a contrassegno di una intrinseca debolezza della struttura morale della borghesia (il sottotitolo è infatti Romanzo borghese), se non fosse per certe eccessive divagazioni che allentano la tensione e annacquano l’intensità della prosa, quasi in osservanza alla natura conversevole del costume veneziano.

E proprio nel respiro del grande romanzo borghese ci spostiamo prendendo in considerazione i successivi autori citati. E soprattutto il primo: Pasinetti. Che definiremmo artefice di vasti quadri di storia familiare nell’intreccio complesso dei rapporti affettivi tra generazioni (dai nonni ai nipoti) sullo sfondo della crisi di un’alta borghesia che, lungo l’arco dell’ultima guerra mondiale, vede esaurirsi le sue riserve economiche oltre che morali. Ongaro, poi, è l’architetto di romanzi imperniati spesso sul tema dello sdoppiamento della personalità in un’allusiva rielaborazione di spunti pirandelliani reincarnati in ambienti e tempi che spaziano nei secoli e nello scenario internazionale. Della Corte è un narratore visionario, in cui la realtà si mescola alla fantasia di allucinati transfert, in una Venezia del mascheramento spinto fino a metafisici invasamenti. Salvalaggio, infine, è un romanziere di costume, la cui curiosità si destreggia tra classi e ambienti eclettici, ora popolari, ora borghesi, ora aristocratici, riuscendo sempre, con provetto mestiere, a costruire ingranaggi avvincenti eppur verosimilmente indicativi di un preciso clima storico. Non sempre, e non in tutti, compare Venezia in funzione di sfondo o di protagonista, ma spesso la città resta coinvolta nelle loro scenografie.

Pasinetti ha una vasta produzione, dal celebre Rosso veneziano(79), attraverso La confusione(80), Il ponte dell’Accademia(81), Dorsoduro(82), fino a Piccole veneziane complicate(83). Spesso, da romanzo a romanzo, tornano le stesse grandi famiglie protagoniste, i Partibon e i Fassola, cioè gli artisti e gli uomini di affari. E già in Rosso veneziano, strettamente connesso a La confusione, ci sono molti dei temi fondamentali della narrativa di Pasinetti. Sul piano formale, si può subito dire che all’autore non interessano in primo luogo i fatti, ma i commenti, le conversazioni che intorno ai fatti i personaggi possono intrecciare. Lo si afferma ne La confusione più volte: «vedo moltissime persone e parliamo, parliamo […] e continuarono a parlare a lungo nella notte, perdendosi per i rami di tutta quella struttura multifamiliare […] qui si continua e continua a ripetere cose che già si sanno, a farsi racconti, commenti, lunghe citazioni dirette con imitazioni delle voci altrui, ripercorrendo gli avvenimenti e traducendoli in commedia». I romanzi diventano, così, quasi una sintesi dello spirito veneziano, di quella Venezia che molti hanno riconosciuto come la città delle voci parlate, della chiacchiera per le strade, della conversazione ininterrotta che diventa teatro. Della parola come sfogo e ancora di salvezza: «certi veneziani sono molto resistenti. Venezia, vedi, è un po’ marcia, e quindi si crea un’immunità, restano come vaccinati contro la corruzione totale. E poi, parlano tanto. Quello salva, Bernando! Chissà che fine farà».

Gli intrecci, dicevamo, sono fitti, e non è possibile riepilogarli. In Rosso veneziano l’azione si svolge tra Venezia e Corniano, in Friuli. I Partibon sono costretti a vendere il loro palazzo a Venezia, per debiti, e a rifugiarsi a Corniano. La necessità pratica ispira il contrasto tra morale di città e sanità di campagna. Venezia sta spegnendosi e con lei le sue famiglie più rappresentative, ma i Fassola sono del retroterra e sentono di possedere ancora energie vive: «Lo sai cosa sono, tutti quanti i veneziani? Lo sai? I famosi veneziani? Sono insetti. Creature senza consistenza, senza niente dentro, senza budella. Noi non siamo di qui; siamo venuti dal retroterra, da Pordenone, pare. E adesso andiamo a Roma, Enrico, e cosa sia Roma lo hai sempre capito anche tu: un posto dove puoi contare, dove le tue azioni hanno riflessi enormi […]. E c’è forza nella nostra famiglia, Enrico — riprese Augusto — c’è salute, energia». La guerra è sentita come una cosa assurda e confusa nello scontro di ideologie e parti. Ma il male che corrode i personaggi è più profondo e viene da più lontano, essi si sentono già morti. La ricerca dello zio Marco, da parte di Giorgio Partibon, uno zio che se ne è andato da molti anni in America, diventa motivo ossessivo del tempo in fuga, del tempo che «ci circonda da tutte le parti» e in cui le persone sprofondano. La «verità completa non si arriva mai a saperla», e per questo bisogna lasciarsi guidare dai sentimenti che sono l’«unica cosa reale». Donde la preminenza dei casi privati, dei legami intimi (solidarietà, rancori, gelosie, amicizie) su quelli pubblici. Le immagini di Venezia in La confusione ripercorrono i tracciati già visti: «un grande complicato palazzo che per soffitti ha i cieli di Carpaccio e di Canaletto, come stanze e come salone principale ha i campi e la Piazza; e come corridoi le calli». Predominano gli scorci di una Venezia minore, segreta, e le tinteggiature autunnali, tra nebbia e umidità, in una specie di proustiana ricerca del tempo perduto («Era felice di sentirsi nella Venezia autunnale della sua infanzia, tanti anni dopo […]»), rinnovato e attualizzato dall’inarrestabile loquela: «Quello che finisce a prenderti sono le parole. Fiumi di parole. Parlare, parlare, parlare, cercare di definire qualcosa che non si definirà mai […]. Il caso limite è Venezia, il tono veneto. A un certo momento può benissimo succedere che desideri morire […]. Bene, ma poi, quello che ti riporta a galla da quel silenzio, sono le parole; si è catturati da una rete di parole […]».

Ongaro, invece, si cala nel profondo delle coscienze, sprofonda nella bipolarità della persona, traduce il tema veneziano del mascheramento da esibizione teatrale in intuizione di una frattura intima: per cui si è diversi da quello che si appare, oppure si appare diversi in momenti e luoghi diversi. Ci si identifica con altri, si perde il senso della propria identità, la realtà si mescola con la finzione, non sappiamo più chi siamo e se siamo altra cosa da quella che la nostra o l’altrui fantasia letteraria ha immaginato. La fascetta di uno dei suoi primi libri, Il segreto di Caspar Jacobi(84), suggerisce: «Il mondo esiste solo per finire in un libro». E, infatti, il fenomeno si verifica proprio nel romanzo stesso, ma si moltiplica nei casi di Passaggio segreto(85). Nel primo libro il protagonista Cipriano Parodi, ventottenne e promettente romanziere cresciuto a Venezia, viene invitato, con un contratto di collaborazione, a New York dal famoso facitore americano di best-sellers Caspar Jacobi. Ma da questo momento lo scrittore americano si impossessa di un romanzo autobiografico, una specie di diario, di Parodi, e lo fa proprio, risucchiando la personalità dell’altro. Cosicché Parodi, scrivendo il proprio diario, si sente un po’ alla volta identificato con l’americano e non riesce più a distinguere il frutto della propria, sia pure autobiografica, fantasia, e l’influsso dell’altrui personalità: «la fantasia di Caspar e la mia producevano uguali fantasmi». Si sarebbe dovuto spiegare «come fosse stato possibile per me immaginare come mia una storia già pensata da Caspar e per Caspar immaginare una storia così mia che io mi sentivo mutilato al solo pensiero di perderla». Nell’alternanza di prima e terza persona, Caspar appare come ideale modello per Parodi, oppure come personaggio di fantasia cui lo stesso Caspar si uniforma. Ongaro andrà anche più lontano nel tempo, immaginando una intricata vicenda nella Venezia del Settecento con La partita(86). Una Venezia corrotta e teatrale, in cui la moralità è già in declino e i sentimenti si barattano con la seduzione del denaro e del sesso. Il protagonista Francesco Sagredo, di ritorno da Corfù, scopre che il padre, dedito al gioco con una irresistibile anziana tedesca (Matilde), ha dilapidato l’intera sostanza della famiglia. Accetta allora una provocatoria proposta della donna: giocherà al posto del padre e, se perderà, soddisferà le richieste sessuali di lei. Naturalmente Francesco perde, ma fugge per l’Italia e per l’Europa per evitare l’umiliante baratto. Il romanzo è intessuto delle vicende spesso rocambolesche cui la fuga lo mette di fronte. Ma non è tutto qui. C’è un sottofondo squallido, di sentimenti erosi, di compromessi imbarazzanti, di cattiverie acide: come quella del figlio Francesco che, per vendicarsi del padre, ne organizza la perdizione anche fisica facendolo incontrare con una cortigiana infettata di sifilide. Tutti i personaggi principali hanno più volti, nascondono segrete pieghe inconfessabili, e soprattutto la coppia Matilde-Francesco, legata da un vincolo di attrazione-repulsione. E la lunga mano della donna perseguiterà il giovane anche a distanza come una maledizione: «non riuscivo a non vedervi la mano della contessa che continuava a giocare con me»; una maledizione che diventa incarnazione di una doppiezza e ansietà interiore in lui: «come se io cercassi di sfuggire a qualcosa di astratto, a un fantasma che portassi dentro di me». La paura diventa la sua stessa sostanza esistenziale, paura come «strumento di conoscenza» attraverso una «partita» che ormai egli ha l’impressione di giocare «da solo». In una Venezia da cui la storia è partita e la cui laguna ha «l’immobilità delle quinte di teatro o dei dipinti appesi alla pareti dei palazzi, una immobilità così insolita da darmi una sensazione di perplessa incredulità».

In L’ombra abitata(87) il gioco diventa più surreale. Il veneziano protagonista, mercante d’arte a Londra dopo lunghe peripezie per il mondo, vede una fotografia in cui riconosce una donna amata in passato e poi scomparsa. Se ne dà allora alla ricerca a Parigi, finché, in una specie di giallo ne scopre la drammatica fine. Ma, anche qui, non è questo che conta, quanto il gioco di specchi attraverso il quale passa la dubbiosità del protagonista, che entra idealmente nella fotografia, non tanto per ricuperare proustianamente il tempo perduto, quanto per compiere «un’operazione di scavo». Scavalca il normale senso del tempo, mescola il presente con il passato, incontra persone che l’hanno conosciuta, fa un’indagine nel profondo. Nel finale, torna a Venezia per un breve periodo nella palazzina che era stata di suo padre, e scopre una matrice forse psicanalitica alla propria inquietudine: «Si rese conto che stava soffrendo di una perdita di identità e che questa perdita derivava dalla percezione malata che lui aveva della città, una percezione che veniva da lontano, dalle profondità della ferita aperta dalla morte di suo padre». Scoperta la verità sulla ragazza, torna a Londra, ma la sua ricerca interiore non è conclusa, perché «entrava lì dove, nello spazio profondo di una vecchia fotografia, occultate da uno spesso sipario di ombre, lo stavano aspettando immote figure del tempo». Così Ongaro, al di là dello scenario veneziano, si acclimata con la narrativa italiana e internazionale sul tema della solitudine e dell’alienazione, alla ricerca di una identità personale che nessun dato esterno può assicurargli. Per arrivare, con Passaggio segreto, a una moltiplicazione di casi di disintegrazione della personalità in una serie di unitari racconti, in cui accaduto e inventato si mescolano insieme, senza che sia necessario stabilirne il nesso perché «non era indispensabile che vi fosse fra gli eventi immaginari e quelli reali lo stesso ordine cronologico». Come aveva già affermato Caspar Jacobi, «noi raccontiamo menzogne», ma, nello stesso tempo, il personaggio di fantasia ha «diciamo così, diritti civili più imperiosi di un cittadino del mondo reale».

Carlo Della Corte o della visionarietà, dicevamo. Nella sua ampia produzione, a partire da I mardochei del 1964, ha aperto squarci rabbrividenti su una Venezia moribonda a specchio di una visione degradata di tutta la realtà umana. Già in Di alcune comparse a Venezia(88), l’attenzione si accentra sulla decadenza di una famiglia, i conti Trevisani. Il protagonista Ottorino fugge a Milano, non riesce a inserirsi, torna a Venezia, apprende che i suoi sono emigrati in Argentina lasciando cumuli di debiti, riprende a bere, si ammala, viene ricoverato in ospedale dove vaneggia tra ricordi e incubi. Ma già prima, nei suoi sogni, le persone subivano metamorfosi, gli oggetti si spostavano, le pareti precipitavano, in una espressionistica deformazione della realtà. E Venezia stessa «di notte, era una specie di sogno tetro»: «arrivò fino a noi un sentore di vecchiume madido»; «i pesci […] nutriti d’ira, di rancore, d’una profonda vocazione alla vendetta, tornavano a infestare i rii di Cannaregio, percorrevano in lungo e in largo il Canal Grande, con ammicchi silenziosi dei grossi occhi vitrei, una fanaleria che debolmente splendeva nel buio di torba, dove acqua e fango si impastavano». Il racconto procede a singulti, le scene si accavallano in un turbinio di strappi violenti. Un nonno autoritario, un padre debole, un fratello raffinato e inconcludente. E Venezia, «un agglomerato di case che stanno in piedi a stento», continua a «concepire il mondo, come se fosse ancora quello dei ‘lustrissimi’, diviso a metà tra padroni e servitori». Della Corte polemizza in Germana(89), il primo romanzo di una trilogia proseguita poi con Il diavolo suppongo(90), e … e muoio disperato!(91), con i «chiacchieroni» che ogni giorno escogitano «qualche mirabolante nuovo marchingegno» per salvare la città; e vi oppone un nichilismo radicale, mettendo sulle labbra del padre in Di alcune comparse a Venezia una disperata predilezione per le crepe, i buchi, l’umidità, «il tempo che corre, i topi che si scavano le tane, i tarli che lavorano con scrupolo, tutto quello che contribuisce alla rovina di queste stanze pretenziose». Anche in Germana c’è la storia di una famiglia squinternata, e una protagonista che vive come in un mondo di fantasmi, di false grandezze. Attraverso la scoperta di un inconsapevole amore incestuoso per il fratello, la fine tragica del padre e di un altro fratello in Africa, un delitto di sangue, un suicidio, Germana approda alla follia «parlando dell’immortalità dell’anima dei gatti»: mentre «niente al mondo era più logoro ed esteticamente infrequentabile delle Zattere, dei Carmini, della Venezia minore zuppa di una infetta mistura di musicalità e di folclore». E a poco a poco i racconti di Della Corte si fanno più slabbrati e ossessivi, con personaggi che brancolano nelle tenebre, credono che «i morti viaggiano» e «non abitano nelle tombe», registrano con un Sony «voci che […] giungono dall’empireo, dalle stelle, da un non so dove» (in Il diavolo suppongo), in una Venezia «come sprofondata nel suo niente eterno», ma anche capace, proprio perché ha toccato il fondo della dissoluzione, di rigenerarsi (ricordiamo Zanzotto) per uno di quegli sconvolgimenti cosmici «che avrebbero spiegato come e perché nulla rimaneva eguale a se stesso nello scorrere abissale del tempo». Come questa città ha sempre richiamato l’idea della morte per l’eccesso della sua bellezza, così sembra per Della Corte capace di rinnovamento proprio perché ormai finita.

Con Nantas Salvalaggio, infine, entriamo nel pieno di una narrativa di successo, sotto la cui maestria costruttiva e la comunicativa di un linguaggio conversevole si nascondono però pieghe di un avvertito percorso all’indietro, nella suggestione della memoria. Nell’ecclettismo dello scrittore non mancano sia i romanzi di ambientazione provinciale sia quelli di ambientazione altoborghese o mondana. Tra i primi, Malpaga(92), che è un romanzo corale di paese (siamo vicini al lago di Garda, tra Lombardia e Veneto). Qui, in un parlato tinto di dialetto, si intrecciano voci e pettegolezzi intorno al protagonista, Paolo Staffieri, di cagionevole salute: maghi e parroci, prostitute e omosessuali, partorienti e orfani, in una vivacità bonaria e ironica di intrecci. Dall’altro lato, ne Il salotto rosso(93), la vita mondana di Roma, con alcune centrali figure di donne e un’attrice ripresa dalla cronaca del vero. E Venezia vista, nel finale, dall’alto di un aereo come «un mondo regolato da altre leggi». E ne Il signore delle ombre(94), sulla falsariga della biografia del regista Luchino Visconti, l’ambiente aristocratico-mondano di Roma e quello dello spettacolo teatrale e cinematografico del jet-set internazionale. Ma il meglio di Salvalaggio, al di là dell’abile mestiere, si ha nei romanzi costruiti ‘a ritroso’, sul filo della memoria di un protagonista: a esempio in Rio dei pensieri(95) e in Calle del tempo(96), per concludere con Villa Mimosa(97) in cui Salvalaggio riscrive addirittura Malpaga come ricupero della memoria, immaginando che lo scrittore Scriba torni in quel paese dopo diversi anni e riviva le avventure di un tempo, con gli occhi del ricordo, come «momento della verità». Ma più profondi gli altri due libri. In Rio dei pensieri il protagonista, in prima persona, vive una sua crisi esistenziale. Abbandonato dalla moglie, torna a Venezia, rievoca l’infanzia difficile: «torno a casa dopo più di trent’anni, dovrei essere il più soddisfatto dei reduci; ho avuto successo, non mi manca denaro, sono nel vigore della maturità. E nonostante questo mi sento un sacco vuoto». Quando non aveva niente, in realtà aveva tutto; ora che ha tutto, in realtà «non ho niente». Venezia gli appare in rovina, il ritorno è una «condanna a morte in una terra di morti». E non manca il rapido accenno all’industrializzazione di Marghera che minaccia la città da vicino. Ma più vasto, metafisico, è il senso, o il non senso, del tempo: «Di quale strana materia è fatta la dimensione del tempo?». Che, infatti, detta addirittura il titolo dell’altro romanzo della memoria, Calle del tempo. Qui il protagonista Olindo rimane paralizzato per un incidente di sci. E si dà allora a ricordare episodi e figure diverse del passato, amori e amicizie. Il libro è percorso da una tristezza funebre, e la bellezza di Venezia, scorta per un momento nel suo splendore, non basta a attenuarla. La morale è sulle labbra dell’amico Sergio, ed è imperniata appunto sulla funzione della memoria («devi cercare la forza nel tuo stesso passato», «il potere, tutto il potere, è nella memoria»); ma è proprio quell’amico a concludere drasticamente la sua vita suicidandosi. E il suo funerale chiude il romanzo. La memoria diventa per Olindo «il tunnel del proprio vissuto», una specie di vizio «come la sigaretta per il tabagista e il caffè per il caffeinomane». Non una soluzione, dunque, ma una malattia.

Qualche cenno non può mancare anche sull’ultima generazione che non è possibile raggruppare secondo tendenze tipiche di una narrativa ‘veneziana’; ma che, al di là delle diversificazioni interne da autore a autore, manifesta sintomi tipici piuttosto della nuova generazione italiana, non senza, se mai, qualche addentellato con quella internazionale, americana soprattutto. Si fa un gran parlare, in questi ultimi anni, di narratori «cannibali», intendendo, per tali, narratori violenti; cioè, al di là dell’efferatezza di singoli episodi di sangue, inclini a esasperare le situazioni e a metterne in risalto la crudezza con immagini aspre (prese spesso in prestito dal cinema) e con un linguaggio duro, sboccato, al limite del turpiloquio. Ma non è il caso di generalizzare. Certo è che anche i giovani veneziani esprimono un’inquietudine, un disagio esistenziale, una difficoltà a inserirsi nell’ambiente familiare e sociale di tradizione, e si abbandonano spesso a forme di solipsismo angosciato, o di anarchismo ribelle, quando non cercano, invece, reazioni forti nei covi della malavita; e anche chi tenta una denuncia sociale con intenti costruttivi (Bettin), non riesce sempre a nascondere un sottofondo di violenta contestazione dell’ordine costituito.

Enrico Palandri ha scritto due primi romanzi sintomatici, Boccalone(98) e Le Pietre e il Sale(99), cui ne sono seguiti altri. Nel primo ha messo a fuoco, in forma di monologo, la storia frastagliata e slabbrata della paranoia di un giovane (tra Bologna e frequenti ritorni del protagonista a Venezia). Al centro, l’amore per Anna, una ragazza inquieta che gli corrisponde solo in parte, e l’amicizia per Gigi. Ma la storia conta poco, contano piuttosto le confessioni di lui. Niente più fede nelle grandi ideologie, niente impegno politico: «gemo in continuazione, soffro di tutto e tutto mi fa male». Concepisce dei vani conati di ripresa, sente bisogno di amicizia e di solidarietà, si rende conto del proprio egocentrismo («non so ascoltare gli altri, non so amare davvero, mi importa solo di me»), ma non ha l’energia determinante per sbloccarsi. Non è Venezia la causa del disagio (anzi: «amo l’odore salmastro della laguna, il cielo terso che a Bologna non vedo»), ma anche «A Venezia mi trovo male […] non riesco a passare mai una buona giornata nella mia città natale». I narratori giovani sono usciti, così, dalle strettoie di una città come richiamo di morte per la sua stessa natura, e respirano una più radicale crisi che va oltre i confini della città, anche se la città non li aiuta. Come ribadisce anche il secondo romanzo, che, in un’alternanza di lingua e dialetto, coglie frammenti di vita affettiva e sociale tra Marco Ivancich (che da pochi mesi è a Venezia come traduttore) e la coppia di Nina e Luca cui presta ospitalità nel suo appartamentino, per incontri amorosi; e poi il professor Scarpa, e un’altra coppia di coniugi. Sono storie accennate, talvolta intrecciate, ma senza costrutto. La realtà esterna, anche di Venezia, non è lugubre («Fuori c’era il sole, la giornata viva, piena di uomini e di cose»), ma «esistevano solo colori, movimenti, senza relazione o perché». Venezia è una città da cui si sente il desiderio di evadere («la vita sarebbe stata possibile solo fuori dall’isola»). Nina e Luca sono troppo chiusi dentro il loro amore; Marco tende «a ridursi alle attività fisiologiche senza rendersi conto del loro perché»; e «gironzolando per Venezia, gli sembravan tristi anche i lampioni: sentiva che era accaduto qualcosa tra lui e il mondo d’irreversibile».

Con Scarpa, che abbiamo già citato, la narrativa si apre a grottesche spericolatezze sessuali e verbali, sia con il romanzo Occhi sulla graticola(100) che con i racconti di Amore(101). La sessualità non conosce conformismi, e gioca se stessa come un banco di prova per uno sperimentalismo ai confini con il paradossale. E la parola scherza con il neologismo, inventa abbinamenti e storture inediti, scardina i luoghi comuni del perbenismo e scandalizza il lettore compassato. Ma è soprattutto con Gianfranco Bettin che il romanzo trova accenti di violenta e sconvolgente ribellione, indagando nei meandri della malavita della terraferma di Marghera come in un inferno confinato alla periferia del capoluogo celebrato. Impostazione e linguaggio antitetici a quelli con cui Carla Vasio in Come la luna dietro le nuvole(102), un viaggio-diario in Giappone, e soprattutto in Laguna(103), rivive la memoria dell’esotico oppure dell’infanzia in atmosfere di sogno. Bettin non sdegna, invece, la cronaca bruta, e in L’erede(104) ricostruisce la vicenda di Pietro Maso e della sua uccisione dei genitori per sete di denaro veramente accaduta nel Veronese in una notte del 1991, cercando di indagare al di là delle convenzioni morali e sociali per «azzardare un passo nel cuore oscuro». Ma poi passa all’invenzione, almeno parziale. Ed eccolo in Nemmeno il destino(105) narrare di un ragazzo di quindici anni, Ale, che vive in un centro di rieducazione perché, con un gesto di anarchica rivolta, ha dato fuoco a una casa: un libro visionario in cui la realtà si mescola al sogno, al ricordo, all’incubo, in spezzoni sconnessi. Ma è proprio nel primo libro, Qualcosa che brucia(106), che sviluppa la vicenda drammatica di un ragazzo, Maurizio Cellini, tra la Venezia della Giudecca e quella anch’essa popolare di S. Marta. Dalle difficoltà in famiglia al rifugio in casa di una zia; da brevi esperienze di lavoro al trasferimento in casa di due amici a S. Marta, dove incontra alcuni drogati e patisce una delusione d’amore. Un drogato muore, avviene un delitto durante le ricerche della responsabilità in seguito a quella morte nel panorama squallido della terraferma di Marghera, tra inquinamento atmosferico e malavita. Finché Maurizio decide di chiudere con questa realtà e, inseguito da un mandato di cattura, parte per l’estero. Un libro forte, scabro, tagliato nel vivo della cronaca più scottante, con, alle spalle, una Venezia ormai svuotata della sua popolazione tradizionale e una terraferma in crescita confusa e spericolata. Il grido di rivolta di Maurizio è aggressivo e polemico: «Maledetti. Maledetti. Maledetti padri e madri che non capite, che guardate i figli con occhi stupidi e diffidenti. Maledetti per la vostra morale da tre soldi, per i vostri principi, che siete i primi a rinnegare […]». E suona come una scudisciata alle precedenti generazioni e all’intera città, a sottolineare che, se nella terraferma la vita è rischiosa e assassina, Venezia rimane «un artificio senza radice», qualcosa che «non appartiene né alla terra né all’acqua», una città che la decadenza ha ridotto «una scena senz’anima», con la sola «ingannevole bellezza della maschera».

Venezia è passata, così, attraverso tutti i movimenti artistici e letterari del secolo, dal decadentismo al crepuscolarismo, dall’impressionismo al futurismo, dalla cronaca claustrofobica della seconda guerra mondiale al romanzo storico, dal romanzo di costume a quello dell’alienazione, dalla visionarietà espressionistica al realismo violento delle ultime generazioni. Conservando sempre il proprio volto di città particolare, splendida e moribonda, e forse perseguitata dalla morte proprio per il suo eccesso di bellezza. Ma anche con le crepe allarmanti dell’industrialismo e turismo incombenti: promessa, o minaccia, di un futuro diverso.

1. Per una panoramica sulla storia letteraria veneta v. Manlio Dazzi, Disegno di una storia della letteratura veneta, Firenze 1937; Il fiore della lirica veneziana, I-III, a cura di Id., Venezia 1956-1959; Narratori del Veneto, a cura di Guido Piovene-Alberto Frasson, Milano 1973; Fernando Bandini, Gli scrittori veneti di questi anni e il loro rapporto con la realtà regionale, in Veneto contemporaneo, Vicenza 1983, pp. 46-47; Antonia Arslan-Franco Volpi, La memoria e l’intelligenza. Letteratura e filosofia nel Veneto che cambia, Padova 1989 (in partic. il cap. La letteratura nel Veneto dal 1945 a oggi); Mario Allegri, Venezia e il Veneto, in Letteratura italiana. Storia e geografia, III, L’età contemporanea, Torino 1989, pp. 289-338; D’Annunzio e Venezia. Atti del convegno, a cura di Emilio Mariano, Roma 1991; Il Veneto raccontato dai suoi narratori, II, a cura di Alberto Frasson, Camposampiero 1997; Intimo parlar. Poesie del ’900 nei dialetti veneti, a cura di Giorgio Faggin, Padova 1997; Marco Prarolan, Venezia e il Veneto nell’immaginario degli scrittori europei, in L’Europa e le Venezie, a cura di Giuseppe Barbieri, Cittadella 1997, pp. 91-103; Id., Gli scrittori veneti del Novecento e l’Europa, in Le Venezie e l’Europa, a cura di Giuseppe Barbieri, Cittadella 1998, pp. 121-131; Saveria Chemotti, Il ‘limes’ e la casa degli specchi. La nuova narrativa veneta, Padova 1999.

2. Vicenza 1994.

3. Padova 1944.

4. Bologna 1977.

5. Milano 1984.

6. Vicenza 1995.

7. Padova 1999.

8. Si ricordi anche Henry James, Il carteggio Aspern (1888), a cura di Gilberto Sacerdoti, Milano 1991: «dove le voci risuonano come nei corridoi di una casa, dove la gente circola con un’andatura che sembra come scansare gli spigoli dei mobili e non consuma mai le suole, la città sembra un immenso appartamento collettivo, dove Piazza San Marco è l’angolo più ornato e i palazzi e le chiese, per il resto, fan la parte di grandi divani per il riposo, di tavolate per l’intrattenimento, di superfici decorative. E in qualche modo quello splendido domicilio comune, familiare, domestico e risonante, assomiglia anche a un teatro, con gli attori che scalpicciano sui ponti e saltellano per le fondamenta in ordine sparso [...]» (pp. 251-253).

9. Milano 1993.

10. Milano 1989.

11. Milano 1957.

12. Milano 1965.

13. Roma 1983.

14. Trento 1985.

15. Vicenza 1999. Ricordiamo anche Diario veneto, Venezia 1983; Veneto segreto, Venezia 1985; Il doge è morto, Venezia 1993; I giorni della merla, Vicenza 2000.

16. I silenzi di Venezia, testo di Gian Antonio Cibotto, fotografie di Giustino Chemello, Treviso 1992 (Ponzano 19942).

17. Vicenza 1995.

18. Torino 1990.

19. Venezia 1992

20. Venezia 1998.

21. Venezia 1998.

22. Il titolo esatto è In gita a Venezia con Tiziano Scarpa, Torino 1998.

23. H. James, Il carteggio Aspern. Sul significato, in generale, del romanzo in rapporto a Venezia, scrive Sergio Perosa nell’Introduzione: «Quest’Italia, e in particolare questa Venezia, sono impervie all’indagine in profondità dello scrittore perché permeate dal fascino, ma anche gravate dal peso, del passato. Anche qui, come altrove in James, la presenza ‘tangibile, immaginabile, visitabile’ del passato si carica di un duplice valore: abbaglia gli occhi e la mente, stimola ed esalta alla ricerca intellettuale, affascina e soggioga sentimentalmente i ‘pellegrini appassionati’, ma poi soverchia e sconvolge per lo spessore eccessivo, le troppe luci e la troppa ricchezza, l’accumulo di profondità e di suggestioni, il peso morto del tempo che è impresa quasi sempre destinata al fallimento o alla rovina cercare di sollevare» (p. 11).

24. «Guillaume Apollinaire ha pubblicato L’Oeuvre du patricien de Venise Giorgio Baffo nella collana di letteratura erotica ‘Les Maîtres de l’Amour’ per i tipi della Bibliothèque des Curieux. Verso la fine dell’Introduzione definisce Venezia ‘sesso femminile d’Europa’». Cito da S. Chemotti, Il ‘limes’, p. 200.

25. Milano 1991.

26. La frase, forse, è stata pronunciata a voce. Bettin così si esprime: «Ha detto una volta Jean Cocteau [...]» (Dove volano i leoni, Milano 1991, p. 15).

27. V. Fernand Braudel, Amar Venezia per capirla, in Storia della civiltà veneziana, a cura di Vittore Branca, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 1979, p. 17: «Armonia, fusione, atemporalità, per queste ed altre ragioni tutto, a Venezia, è nel contempo defunto ed attuale e dunque vivo». E ancora Id., Venezia, in Id.,  Il Mediterraneo, Milano 1987 [Paris 1985], p. 244: «Sortilegio, illusione, inganno, specchio deformante, ecco quel che è, quel che le chiediamo di essere […]. È la sua irrealtà a creare gli incanti, i miti, il fascino di Venezia. Mondo a metà visto a metà sognato, si richiude su di noi come per virtù propria […]. Una città al tempo stesso irreale e reale. Forse perché sembra nascere dal nulla, tra l’acqua e il cielo [...]». Le immagini di Braudel sembrano richiamare quelle del filosofo Georg Simmel (1858-1918), come osserva lo stesso Bettin (Dove volano i leoni) a p. 21, senza però darne la fonte bibliografica: «qualcosa che non appartiene né alla terra né all’acqua, ma città che la decadenza ha ridotto una scena senz’anima con la sola ingannevole bellezza della maschera [...] la superficie ha perduto le sue radici. Qui nell’apparenza non vive più l’essere».

28. «Venezia essendo una città tutta edificata dall’uomo, a cominciare dallo stesso suolo consolidato ed arginato per potervi erigere le proprie dimore»: Sergio Bettini, Venezia come mito e come realtà, in Id., Venezia. Nascita di una città, Milano 1978, p. 11. E ancora ibid., p. 19: «È vero ch’essa dà l’impressione dell’artificiale, cioè di essere poco natura e molto creazione dell’uomo: ma questa è la sua verità, dopo tutto […] a Venezia, non soltanto le piazze e le strade, i palazzi e le chiese sono stati, come dovunque, costruiti dalla mano dell’uomo: è il terreno stesso, su cui queste forme si innalzano, che è stato ‘fatto’ dall’uomo […]. Possiamo dire dunque che Venezia sia la ‘città’ [...] più città che esista».

29. Alvise Zorzi, Venezia scomparsa, Milano 1972.

30. Roma 1985.

31. Milano 1996. Il titolo di Mann è stato, forse, ripreso da Maurice Barrès in Amori et dolori sacrum. La mort de Venise, Paris 1902.

32. In Hugo von Hofmannsthal, Narrazioni e poesie, Milano 1980.

33. Ibid.

34. In Arthur Schnitzler, Opere, Milano 1988.

35. In H. von Hofmannsthal, Narrazioni e poesie.

36. Milano 1996.

37. Milano 1987.

38. In Vincenzo Cardarelli, Poesie, Milano 1942.

39. Milano 1987.

40. In Per conoscere Marinetti e il futurismo, a cura di Luciano De Maria, Milano 1973.

41. Ibid.

42. Ibid.

43. Milano 1963.

44. I-III, Milano 1983.

45. Milano 1976.

46. Firenze 1969.

47. Milano 1972.

48. Milano 1982.

49. Milano 1981.

50. In Neri Pozza, Processo per eresia, Firenze 1969.

51. Ibid.

52. Ibid.

53. Milano 1935.

54. Milano 1998.

55. Milano 1977.

56. Milano 1978.

57. Milano 1997.

58. Bari 1993.

59. Milano 1993.

60. Roma 1965.

61. Milano 1967.

62. Milano 1967.

63. Milano 1976.

64. Torino 1958.

65. Milano 1966.

66. Milano 1967.

67. Milano 1999.

68. Milano 1985.

69. Questa e tutte le altre poesie citate, in Diego Valeri, Poesie (1910-1960), Milano 1962.

70. In Domenico Varagnolo, Opere scelte  di poesia e di teatro in dialetto veneziano, Venezia 1967.

71. Questa e tutte le altre poesie citate, in Giacomo Noventa, Versi e poesie, in Id., Opere complete, I, a cura di Franco Manfriani, Venezia 1986.

72. Venezia 1955.

73. Milano 1982.

74. Milano 1997.

75. Milano 1993.

76. Milano 1994.

77. Milano 1966.

78. Padova 1958.

79. Roma 1959.

80. Milano 1964.

81. Milano 1968.

82. Milano 1983.

83. Venezia 1996.

84. Milano 1983.

85. Milano 1993.

86. Milano 1986. Ricordiamo anche La taverna del doge Loredan, Milano 1980.

87. Milano 1988.

88. Milano 1968.

89. Milano 1988.

90. Venezia 1990.

91. Venezia 1992.

92. Milano 1972.

93. Milano 1982.

94. Milano 1991.

95. Milano 1980.

96. Milano 1984.

97. Milano 1985.

98. Milano 1979.

99. Milano 1986.

100. Torino 1996.

101. Torino 1998.

102. Torino 1996.

103. Torino 1998.

104. L’erede Pietro Maso, una storia dal vero, Milano 1992.

105. Milano 1997.

106. Milano 1989.

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