Le persecuzioni antiebraiche

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Dario Ippolito
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

I secoli XIII-XIV si rivelano cruciali nella storia dei rapporti fra l’Occidente cristiano e gli ebrei, perché vengono a maturare i presupposti sociali, religiosi e ideologici che conducono, nel giro di pochi decenni, alla definitiva marginalizzazione della componente ebraica della società europea. Si formalizzano le prime indicazioni generali sull’obbligo d’indossare contrassegni visibili sul vestiario, di risiedere in quartieri separati, di allontanarsi dalle attività artigianali per dedicarsi al prestito o, comunque, ad attività ritenute inadatte o sconvenienti per i cristiani. È l’epoca delle prime grandi espulsioni (Inghilterra, Francia), di nuovi pogrom che, specialmente dopo le persecuzioni seguite alla peste nera del 1348, determinano l’irreparabile crisi della presenza ebraica nel territorio europeo.

Il processo di esclusione

Se ancora nel XII secolo gli ebrei godevano in varie aree di capacità giuridica di acquisto e scambio, nel corso del Due e Trecento un percorso graduale quanto inesorabile – il cui progresso ha modo di svilupparsi contemporaneamente sul versante della concettualizzazione teologica, dell’approccio sociale e della funzione economica – sottrae progressivamente agli ebrei il controllo e spesso anche la partecipazione non solo a numerose attività produttive, ma anche all’intermediazione mercantile, nella quale vanno a inserirsi i ceti emergenti della società cristiana. Tale migrazione di funzioni esemplifica il fatto che l’Europa inizia a spingere fisicamente gli ebrei sempre più all’esterno dei propri confini: processo che si consolida parallelamente alla costituzione del quadro monarchico nel continente europeo. Da una parte, l’affermarsi delle monarchie nazionali richiede una società il più possibile compatta, al cui interno la presenza di un elemento culturalmente o socialmente non allineato all’ideologia della maggioranza è un potenziale pericolo. Spinge d’altra parte nella medesima direzione, almeno per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti degli ebrei, anche la necessità di mantenere rapporti possibilmente equilibrati con il mondo e il potere ecclesiastico: con l’effetto di una rapida mutazione dei poli di riferimento verso i quali l’Europa sceglie di gravitare.

Almeno sin dalla metà del XIII secolo ci si allontana infatti dall’orbita di scambio culturale ed economico con l’area egeo-bizantina, nordafricana e, più in generale, orientale, lasciando dietro di sé la società ancora in parte multietnica del XII secolo, il suo carattere multiculturale, in cui gli ebrei avevano, pur non godendo di tutte le libertà, sufficiente diritto di cittadinanza. Si rende ben visibile la separazione delle sue componenti persino nella forma stessa delle città, in cui si ha una significativa ridistribuzione degli spazi economici e urbani attribuiti alle varie componenti cittadine. È in tale contesto che si afferma su tutto il territorio europeo, benché in maniera difforme sia cronologicamente sia tipologicamente, la possibilità per gli ebrei di continuare a risiedere presso le stesse aree dei cristiani, purché nei limiti di uno spazio separato. Si tratta dell’idea embrionale del ghetto, il cui sviluppo legale, formale e funzionale si compirà solo a metà Cinquecento, ma che già nei secoli XIII-XIV assume, in vari casi, le forme nelle quali resterà noto per tutta la storia dell’Europa moderna. L’inizio di tale provvedimento si fa risalire a Filippo IV di Francia nel 1294; ma altrove, e specialmente in Spagna, i precedenti non mancano: per esempio a Tarragona (Aragona) nel 1243 o a Oviedo (Asturie) nel 1274. Prescrizioni analoghe si registrano, a macchia di leopardo, su tutto il territorio europeo; e comunque non sembra possibile definire in maniera univoca una precisa data di nascita del fenomeno, anche perché va tenuto conto del fatto che, nelle sue attestazioni più antiche – con cui si risale almeno alla fine dell’XI secolo – la necessità di risiedere in una strada, in un vicus o in un quartiere specifico e in qualche modo fisicamente separabile dall’ambiente circostante, non risulta affatto essere stata imposta dall’esterno, ma essere sorta come esigenza difensiva all’interno della stessa comunità ebraica.

Tale esigenza si comprende facilmente soprattutto nell’area franco-germanica, non solo in risposta alle violenze e agli eccidi che si verificano nell’intera stagione delle crociate, ma specialmente nel periodo in cui si diffondono le accuse di profanazione delle ostie (e in seguito, anche di avvelenamento dei pozzi) e le conseguenti rappresaglie: almeno sin dal massacro di Röttingen del 1298, quando un esponente dello strato più alto della società locale, il nobile Rindfleisch, riesce a provocare un processo a catena che conduce alla decimazione di circa 140 comunità ebraiche in Franconia, Baviera e Austria. La strage è poi continuata a intermittenza anche nei decenni successivi, sino agli eventi che circondano il diffondersi della peste nera (1348), di cui sono ben noti i saccheggi e i massacri – che spesso si verificano addirittura in anticipo rispetto alle manifestazioni del contagio – specie in Provenza e in Catalogna. Almeno sin dall’XI secolo, nei casi più estremi e nelle circostanze più tragiche la risposta ebraica alla violenza dei cristiani trova modo di materializzarsi, specialmente nell’area ashkenazita, tramite la pratica del qiddush ha-Shem: ossia nella “santificazione del Nome” (di Dio), che consiste nell’accettare il martirio – spesso tramite il suicidio collettivo – piuttosto che opporre violenza alla violenza, o piegarsi all’apostasia (chiamata per converso chillul ha-Shem, “profanazione del Nome”). Dunque potersi insediare in una strada chiudibile all’occorrenza, se non addirittura in un piccolo quartiere circondato da mura, è in definitiva, in prima istanza, un’esigenza per sopravvivere; che suggerisce ai cristiani la via per compiere ulteriormente il processo di segregazione, ma che per gli ebrei, d’altra parte, costituisce anche un’occasione di relativa indipendenza territoriale, seppure in una dimensione microcosmica. Non desta quindi stupore che tale modalità insediativa si affermi rapidamente e pressoché ovunque (anche laddove agli ebrei è concesso di risiedere liberamente in qualunque luogo della città). Di “ghetto” non si parla ancora, ma la toponomastica medievale si arricchisce con i frequenti riferimenti alla giudecca, indicata in maniera diversa (iudeca, iudaica, aljama, juiverie, judenstrasse ecc.) secondo il periodo e il contesto.

Segni di distinzione

Pur continuando a tutelare l’esistenza del popolo ebraico, necessario alla Chiesa – secondo un’antica definizione – quale “testimonianza vivente” della verità storica del cristianesimo, il mondo ecclesiastico non resta indifferente alla mutata sensibilità del proprio gregge nei confronti della presenza ebraica e, in tal senso, almeno sin dal concilio lateranense III (1179) e poi dal IV concilio lateranense (1215) si prendono misure per favorire almeno il distacco fisico delle rispettive abitazioni. Su tale punto, però, le esortazioni non sortiscono sempre un favore generalizzato e, in genere, il quartiere separato per gli ebrei si concretizza più facilmente quando è richiesto dalle stesse comunità ebraiche.

Un durevole successo ottiene invece l’introduzione, nelle medesime circostanze, di una marca distintiva che gli ebrei sono obbligati ad apporre sul vestiario: misura praticata in alcune località già nel XII secolo, ma solo con l’avallo del IV concilio acquista credito e viene recepita pressoché ovunque. Il “segno” varia da regione a regione, e muterà anche di tempo in tempo; un caratteristico cappello a punta diviene tipico degli ebrei dell’Europa centrale, mentre altrove si ha, più frequentemente, la cosiddetta rota o rotella: un cerchio di panno di misura variabile, giallo o rosso, talora diviso trasversalmente in due colori o da una linea, in maniera da assomigliare a una specie di theta greco; altri elementi sono a volte impiegati per le donne. Va rilevato come anche in questo caso, come già per le abitazioni, la necessità di una distinzione formale fra ebrei e cristiani sia stata avvertita dapprima in ambito ebraico. Si pensi all’uso del capo coperto per gli uomini – a quanto sembra, impostosi nella tarda antichità – o all’uso, generalizzato ma non obbligatorio (e di cui non si hanno indicazioni anteriori al XI secolo) di lasciarsi crescere la barba e pe’ot, i lunghi riccioli che si producono evitando di accorciare i capelli intorno alle tempie, così interpretando un antico costume orientato a differenziarsi dal mondo pagano (Levitico 19,27). Dalla fine del XIII secolo tali elementi infine si fondono e viene a crearsi quell’immagine stereotipica dell’ebreo che lo rende facilmente riconoscibile, fra l’altro, nelle rappresentazioni figurative dell’arte cristiana.

Nello stesso frangente si afferma, come topos negativo, anche il legame fra gli ebrei e le attività feneratizie, dimenticando che il mondo ebraico, laddove superstite, vi è stato sospinto dalla progressiva esclusione da tutti gli altri ambiti lavorativi. Nella società cristiana vi sono, d’altra parte, occupazioni necessarie e bisogni che però, per varie ragioni, non si riesce a soddisfare efficacemente. Se nel caso della medicina è la stessa fama della perizia ebraica a permettere il perdurare della pratica, il coinvolgimento ebraico nel prestito grande e minuto diviene il solo lecito e, per esempio, è sancito da Federico II, che limita l’interesse al 10 percento. A tale riguardo, si deve osservare che l’attribuzione esclusiva del credito agli ebrei rappresenta, nei piani di Federico, anche il tentativo di arginare l’infiltrazione dei banchieri stranieri nel suo impero. La manovra però non riesce. In ogni caso, con le Costituzioni di Melfi del 1231 lo stesso imperatore riafferma anche il legame degli ebrei con l’industria del tessile e in particolare della seta che, monopolizzata, viene vincolata agli ebrei (particolarmente alla comunità di Trani) insieme alla tintoria (specialmente a Capua e a Napoli). È l’occasione in cui, peraltro, si tenta di spostare i proventi delle gabelle sulla tintoria, che da secoli gli ebrei meridionali versano alle autorità ecclesiastiche, all’erario imperiale: manovra che però gli Angioini, debitori del papato, vanificheranno. Con l’imperatore Hohenstaufen si afferma comunque, durevolmente, un altro principio – già precedentemente sancito da Federico Barbarossa– secondo il quale agli ebrei viene riconosciuto lo status di servi regiae camerae, “servi della camera regia”, principio che poi viene seguito presso varie monarchie. Si tratta a suo modo di un riconoscimento separatista, ma non privo di riverberi positivi; e che offre l’opportunità di appellarsi all’autorità regale o imperiale specialmente nei casi, non infrequenti, di abusi civili ed ecclesiastici.

Persecuzione, espulsioni e crisi

Non vi è dubbio che alle radici dell’espulsione degli ebrei dai paesi iberici nel 1492, vi sia l’affermazione della cultura dell’antisemitismo diffusa nell’intera Europa occidentale fra la fine del XII e il XIII secolo, ormai ufficializzatasi in modelli di pensiero e di comportamento: dispute pubbliche, prediche coatte, proibizione del Talmud, obbligo del “segno” distintivo, istituzione di quartieri residenziali separati, limiti nell’esercizio delle professioni e nei contatti con il mondo cristiano.

Nel 1290 gli ebrei vengono espulsi dall’Inghilterra, ov’erano stati stabilmente soltanto per un paio di secoli. Sin dall’insediamento la loro condizione si era però rapidamente deteriorata, passando dallo stato di liberi mercanti a quella di prestatori, sottoposti a ogni sorta di vincoli, costretti infine a cedere alla corona i propri titoli di credito sui prestiti erogati alla nobiltà e al cavalierato. L’espulsione risolve in gran parte i problemi di queste ultime classi, rafforzando contemporaneamente autorità regale e demanio. Una spinta non troppo diversa sembra aver mosso il progressivo allontanamento degli ebrei anche dai domini reali di Francia (principalmente nel 1306 e nel 1322; definitivamente nel 1394), di cui tuttavia la documentazione non ha ancora messo in luce le fasi gestazionali e i principi ispiratori, cui non sono certamente stati estranei argomenti di carattere religioso.

Se nell’area franco-tedesca gli eccidi e le repressioni della metà del Trecento non conducono, stranamente, a un’espulsione generalizzata dall’area germanica, le ragioni delle espulsioni da Francia e Inghilterra accompagnano in gran parte lo sviluppo di tale provvedimento in Spagna, ove la motivazione religiosa assume un rilievo almeno in apparenza ancora più consistente e si ha, in più, il sussidio dei convertiti, particolarmente zelanti nella produzione di argomenti antiebraici. In effetti, l’incessante crescita del malumore nei confronti degli ebrei, unita alla diffusione di accuse di profanazione di ostie e di sacrifici rituali, in Spagna procedono di pari passo con la ricerca di capri espiatori per la crisi economica che ne affligge le principali regioni sin dagli anni Settanta del Trecento. All’apice di una tensione ormai ultradecennale, nell’estate del 1391 si giunge infine a un’intera stagione di eccidi e di conversioni forzate. Contro lo scatenarsi di tali violenze, persino gli sforzi delle autorità si rivelano inutili; a Siviglia, Cordova, Toledo, Barcellona, migliaia di persone vengono uccise, le città diventano teatro di un nuovo campionario di atrocità e si assiste a un nuovo intrattenimento di massa: il battesimo forzato d’intere comunità. I gruppi, molto consistenti, di cristianos nuevos (“nuovi cristiani”) formatisi in tale occasione, contrariamente alle aspettative, costituiranno una delle principali fonti di scompiglio e di preoccupazione in tutta Europa e almeno fino al XVII secolo. Già poco tempo dopo la loro istituzione, grazie all’affrancamento dai vincoli imposti agli ebrei, i conversos s’inseriscono rapidamente nel tessuto economico ispanico, raggiungendo anche quei settori dai quali la presenza ebraica era stata da tempo allontanata. Il sospetto, abbastanza fondato, che essi continuino a praticare segretamente l’ebraismo, graverà tuttavia a lungo su tali famiglie e sulla loro discendenza, fornendo continua materia d’intervento all’Inquisizione che avrebbe fatto della caccia ai giudaizzanti – in seguito meglio noti come marranos, che a causa di tale cattivo esempio restano dei malos cristianos. Ben presto si giunge alla tesi che l’ebraismo alimenti con la sua stessa presenza la pratica del criptogiudaismo, argomento che risulterà centrale nelle persecuzioni del secolo successivo.

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