Le politiche per il Mezzogiorno

L'Italia e le sue Regioni (2015)

Le politiche per il Mezzogiorno

Paola Casavola

Necessità e obiettivi delle politiche per il Mezzogiorno

La necessità di politiche per il Mezzogiorno d’Italia ha una storia lunga, ma certamente il Mezzogiorno nel corso di 150 anni di unità nazionale di cui quasi 70 di repubblica è molto cambiato, anche per effetto dell’intervento pubblico. Visto sulla lunga distanza il Mezzogiorno è mutato insieme all’Italia intera. Il progresso su molte dimensioni civili ed economiche è stato importante, anche se non sempre continuo e lineare.

fig. 1

Pur nella prolungata difficilissima fase che si protrae dalla crisi avviatasi nel 2008 e che vede l’intero Paese in grandi difficoltà, il Mezzogiorno è comunque un’area che può essere giudicata a medio reddito sullo scenario mondiale, cioè non è in assoluto un’area povera (fig. 1).

Al 2011 in termini di Prodotto interno lordo (PIL) pro capite in dollari correnti rispetto a tutte le altre aree mondiali, il Mezzogiorno fa comunque parte dell’area di maggior reddito (sopra i 20.000 dollari per abitante, laddove anche le grandissime economie nuove protagoniste dello scenario globale, come Brasile, India e Cina rimangono molto sotto questi dati e con incommensurabili squilibri interni) e soprattutto ha raggiunto condizioni medie di avanzamento sociale di base molto avanzate. Come spesso viene ricordato, rispetto agli indici di salute fondamentali (speranza di vita, tasso di mortalità infantile) che misurano il grado di sviluppo sociale, il Mezzogiorno si colloca perfettamente sulle ottime posizioni registrate nelle aree più progredite del mondo.

fig. 2

In termini relativi e guardando solo alle aree di maggior progresso economico assoluto, esso mantiene invece un minor livello di sviluppo economico, in parte derivante dal fatto che le regioni meridionali sono nell’insieme periferiche rispetto al centro sviluppato dell’Europa, il sistema geopolitico e di declinazione della regolamentazione economica di riferimento con cui le regioni meridionali si confrontano (fig. 2).

Questi dati suggeriscono che dagli ultimi due decenni del secolo scorso con l’Europa progressivamente più unita nel mercato ‒ in cui il Mezzogiorno è presente come parte di un’area economica integrata che non è il Mediterraneo ma che ha un baricentro molto più a Nord ‒ vi sono forze notevoli che agiscono a sfavore delle regioni periferiche del sistema. Si tratta di forze che si irrobustiscono e non declinano naturalmente con l’integrazione e che, quindi, richiedono politiche di contrasto. Infatti, alla fine degli anni Ottanta, il Rapporto Delors nell’aprire la strada all’unione monetaria segnalava con forza questo aspetto: «l’esperienza storica suggerisce che in assenza di politiche di riequilibrio, l’impatto complessivo (dell’integrazione economica) sulle regioni periferiche potrebbe essere negativo. I costi di trasporto e le economie di scala tendono a favorire lo spostamento delle attività economiche dalle regioni meno sviluppate, specialmente se si trovano alla periferia della Comunità, verso le aree più sviluppate, al centro. L’unione economica e monetaria dovrebbe incoraggiare e guidare gli aggiustamenti strutturali che possono aiutare le regioni povere a ridurre le distanze da quelle più ricche» (Commissione Europea 1989, p. 18).

fig. 3

Visto a distanza più ravvicinata il Mezzogiorno è, però, anche un’area internamente differenziata; lo è in parte sempre stata, ma con il passare del tempo e con l’avanzare della modernità e degli esperimenti di policy lo è divenuta ancora di più. Differenze importanti sussistono non solo tra le otto regioni che compongono il Mezzogiorno geografico (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria sulla parte cosiddetta continentale e Sicilia e Sardegna, le più grandi Isole del Mediterraneo), ma anche al loro interno. Tra le regioni e internamente a esse, diversa è la composizione dell’attività economica, delle specializzazioni prevalenti e della loro densità; alcune di queste differenze sono originarie, altre sono state indotte dall’intervento pubblico, indipendentemente dai suoi successi o insuccessi di lungo periodo. Gli effetti della localizzazione di grandi poli industriali impiantati molti decenni fa dall’industria pubblica hanno lasciato eredità pesanti in termini di impatto ambientale di lungo termine, ma anche esperienze, competenze e istituzioni più abili a confrontarsi con il mercato in alcuni luoghi; così come in certi casi permangono invece vantaggi comparati e specializzazioni più antiche e, in altri, singole aree più dinamiche, spesso confinanti con zone rimaste fragili e vuote di struttura economica di mercato. Anche in termini di tassi di occupazione, tra le province del Mezzogiorno ci sono diversità fino a oltre 20 punti, pur all’interno di valori sempre inferiori a quelli medi del Paese. A questi livelli differenti corrispondono reazioni specifiche in risposta a shock esterni comuni, come dimostra la crisi avviatasi nel 2008, durante la quale le varie aree non hanno reagito tutte al medesimo livello di intensità (fig. 3).

Ci sono molte motivazioni dietro queste diverse strutture e dinamiche. Un punto importante però, già intuito molti decenni or sono, riguarda il fatto che il Mezzogiorno necessita di una politica complessiva ben inquadrata nel percorso nazionale, ma anche di un’attenta declinazione rispetto alle sue specificità territoriali. Ciò veniva messo in evidenza con chiarezza già nel 1962 da Ugo La Malfa (1903-1979) che, come ministro del Bilancio, presentò alla Camera la sua Nota aggiuntiva, sostenendo l’esigenza di un’accentuazione della considerazione delle specificità regionali della politica di intervento nell’area, pur da inquadrare in una visione globale: «Appare […] necessario individuare e attuare su scala regionale indirizzi e interventi che risultino attenti alle varietà delle soluzioni locali e che siano d’altra parte conformi agli obiettivi della programmazione nazionale» (U. La Malfa, Nota aggiuntiva, 1962, p. 41).

Oggi, forse più che in passato, tra le differenze da considerare ci sono anche quelle derivate dai tentativi, dalle acquisizioni positive e dagli errori delle politiche pregresse.

Come molti Paesi a medio reddito su scala mondiale, il Mezzogiorno si presenta soprattutto come un’area complessa, in cui convivono modernità e arretratezza, classi sociali ricche e povere, istituzioni democratiche e rigurgiti di dispotismo locale, fenomeni criminali persistenti e forte mobilitazione di porzioni avanzate di società civile, tensione alla normalità e desiderio di uguaglianza, insieme a forze più perverse che la normalità temono, contando sul fatto che la società resti molto diseguale. Nell’insieme questi caratteri e forze disgiunte restituiscono però un quadro che negli ultimi decenni è di persistente insufficienza rispetto a quello che dovrebbe e potrebbe essere. I dati e le esperienze dirette fanno emergere, in particolare, due punti che segnalano come quella del Mezzogiorno sia una condizione inaccettabile. Il primo è storicamente compreso assai bene dalla generalità degli osservatori: la necessità che le politiche individuino leve per innescare o ampliare l’attività economica di mercato. Il secondo è di definizione più recente come obiettivo proprio di politica di sviluppo: la necessità che le politiche assicurino comunque il dignitoso funzionamento dei servizi pubblici a tutela dei diritti fondamentali dei cittadini, della loro fiducia nell’azione collettiva e nello Stato.

Lo sviluppo per il lavoro.

Nel Mezzogiorno si realizza un grande spreco di risorse non solo economiche, ma anche di esperienze umane, perché i livelli di occupazione sono molto bassi. La condizione di difficoltà lavorativa si estende, pur con connotazioni diverse, anche a chi possiede titoli di studio elevati. L’obiettivo teorico primario da diversi decenni – pur superate certamente le arretratezze storiche assolute – è quello di ottenere una maggiore attività economica di mercato, cioè maggiore sviluppo economico, quale necessaria soluzione alla strutturale difficoltà dell’area di offrire occasioni di lavoro ai suoi residenti. Il tema dello sviluppo economico del Mezzogiorno, in epoca di cui si abbia memoria storica come contemporanei, parte dall’idea che nel Mezzogiorno il lavoro, e il lavoro di mercato, sia veramente troppo poco. Con poche opportunità di lavoro, le persone più intraprendenti vanno via e se sono veramente pochissime vanno via anche le persone di intraprendenza media. L’area si depaupera ulteriormente. Il bisogno di lavoro è così generalizzato e la risposta così incerta che tutte le relazioni sociali ne risultano contaminate; la libertà individuale è compressa; si è più inclini ad accettare compromessi, se offerti, e la società finisce per dimenticare altre questioni fondamentali. L’obiettivo della maggiore occupazione e la sua strutturale urgenza sono evidenti. C’è una domanda forte di politiche per l’occupazione, perché nell’esperienza di tutti le tendenze naturali non producono risposte soddisfacenti, ma c’è anche un’esigenza pressante di soluzioni di occupazione che non si manifestano come richiesta di politiche nel senso alto del termine.

Non esistono ricette semplici o scorciatoie ovvie per innescare lo sviluppo economico dove non c’è o sostenerne l’espansione dove non ce n’è abbastanza. Se la teoria e l’esperienza empirica hanno ormai dimostrato che nelle aree arretrate è necessario intervenire con politiche dedicate, perché non si può contare su una convergenza spontanea, non ci sono però uguali certezze su cosa funzioni dal punto di vista dell’intervento attivo. Sicuramente gli equilibri di ‘sottosviluppo’ sono resistenti e alla lunga contano molto i contesti e il capitale umano, ma non sempre si sa come fare per ottenere risultati nei casi concreti (Seravalli 2006).

Servizi pubblici di cittadinanza

In moltissime aree del Mezzogiorno, le persone ricevono di frequente una scarsa tutela dei loro diritti e vivono – non solo da tempi più recenti in cui le risorse finanziarie pubbliche si sono assottigliate assai un po’ ovunque e i servizi pubblici generalmente peggiorati o ridotti – una condizione di cittadinanza minoritaria. Sebbene il Mezzogiorno non sia certamente più nelle condizioni di arretratezza sociale di un tempo, accanto al suo sviluppo economico appare opportuno definire come ancora assai cogente un obiettivo di sviluppo civile. Tale obiettivo, rappresentato dal raggiungere pienamente quei diritti di cittadinanza di base (legalità, salute, istruzione, servizi sociali, ambientali e di mobilità) appartenenti a ogni comunità moderna, va quindi perseguito parallelamente a quello economico, nonostante le condizioni di sviluppo nel Mezzogiorno siano ancora inferiori a quelle di altre aree e, forse, destinate a restare tali ancora a lungo.

Il tema dei diritti di cittadinanza è relativamente più recente nel dibattito delle politiche per il Mezzogiorno, in altre parole è di più nuova concettualizzazione nell’impostazione di policy. Probabilmente ciò dipende, da un lato, dal fatto che la misurazione di queste dimensioni ha una storia più prossima, mentre è del tutto probabile che il problema dei diritti di cittadinanza sia di più lunga lena. Dall’altro, esso affonda le sue radici in un complesso problema teorico e politico: la buona amministrazione pubblica deve anticipare o seguire le condizioni di sviluppo economico? In ogni caso, se sul tema dello sviluppo economico la capacità (non la necessità) dell’intervento di policy può essere considerata oggi più controversa, lo dovrebbe essere assai meno su quello dei diritti di cittadinanza. La gran parte di questi diritti ha a che vedere con il funzionamento ordinario delle istituzioni pubbliche, che all’interno di un sistema unitario hanno tendenzialmente uguali responsabilità a dispetto delle condizioni di contesto. Se in questi casi occorre superare arretratezze e routine inefficaci, su servizi pubblici e tutela dei diritti di cittadinanza si possiede una maggiore conoscenza, anche a livello di tecnologia, e si hanno molti più elementi per l’impostazione delle politiche necessarie.

La condivisione ‘difficile’ delle politiche per il Mezzogiorno

Affinché uno schema ordinato di azione pubblica possa essere innanzitutto definito, è necessario che l’obiettivo sia condiviso dalle forze politiche, sociali ed economiche rilevanti che sorreggono l’esistenza dell’azione pubblica tutta, e non solo che il problema o gli obiettivi siano tecnicamente identificati come rilevanti dagli specialisti e dai tecnici.

Guardando i dati disponibili che sono oggi abbondanti, il Mezzogiorno necessita certamente ancora di politiche dedicate o, almeno, attente alle sue specifiche necessità e opportunità di crescita economica e di tutela dei diritti di cittadinanza. L’argomento rimane valido pur all’interno della lunga crisi strutturale in cui l’Italia intera versa in modo visibile da almeno due decenni, a partire cioè dai primi anni Novanta, e che anticipa la prolungata recessione in atto dal 2008. Non è certo quindi solo il Mezzogiorno ad avere bisogno di politiche attente, ma questa circostanza non dovrebbe tecnicamente modificare il quadro.

A questo riguardo, un punto molto rilevante è che il grado di condivisione nazionale sulla stessa necessità di avere politiche per il Mezzogiorno, o almeno politiche attente al Mezzogiorno, si è molto attenuato a partire certamente dalla fine degli anni Ottanta del Novecento e forse anche prima. Per circa quarant’anni, dall’avvio dell’Italia repubblicana seppur con stagioni molto diverse, il Mezzogiorno era stato un elemento cruciale e stabile dell’impostazione delle politiche economiche. Queste politiche sono state in una fase iniziale più colte e meno compromesse dalle esigenze di consenso della politica, e senza dubbio nel loro progressivo involversi hanno anche danneggiato le prospettive se non dell’intero Mezzogiorno, almeno di alcune aree. Tuttavia la presenza, anche se forse formale e di maniera, di uno spazio di intervento per il Mezzogiorno nell’impostazione delle politiche aveva mantenuto l’argomento vivo nell’agenda nazionale.

Finché il Centro-Nord del Paese è stato un’area abbastanza dinamica e in relativo progressivo arricchimento e il Mezzogiorno procedeva comunque in modo tendenzialmente integrato con il resto d’Italia, la permanenza di divari anche significativi di reddito relativo del Mezzogiorno giustificava il ragionevole stimolo a fare di più e a interrogarsi su come superare gli errori o le sfortune delle scelte compiute in passato, dal momento che l’area non si è mai di fatto avvicinata a superare i suoi squilibri più dolorosi che attengono soprattutto alla dimensione del lavoro. In ogni caso, la stessa permanenza del divario interno sembrava di per sé una giustificazione sufficiente all’intervento.

La politica nazionale sentiva di dover ricercare una soluzione. In altri termini, dal secondo dopoguerra e fino forse a tutti gli anni Settanta, il tema di fondo delle politiche per il Mezzogiorno era condiviso dalle politiche nazionali quale necessario riequilibrio interno al Paese su un sentiero di crescita integrata da cui tutti potevano trarre vantaggio. In quel modello, infatti, la crescita del Mezzogiorno era tra l’altro funzionale a imprimere ulteriori stimoli di crescita dell’altra area. Trasferimenti correnti e investimenti pubblici nel Mezzogiorno avevano la funzione contestuale sia di incrementare il benessere materiale, la struttura industriale e la produttività del Sud sia di costituire domanda per le imprese del resto d’Italia. Si trattava di un modello costoso, in termini di risorse da investire e da trasferire, ma era teoricamente sostenibile alla lunga qualora le politiche di investimento avessero effettivamente avuto successo. Inoltre, poche potevano essere le alternative migliori anche per l’altra area, dove comunque l’investimento pubblico non era affatto assente. Quindi, anche se le condizioni esterne delle politiche erano molto diverse tra il periodo 1959-1973/4 e quello successivo fino alla fine degli anni Ottanta (crisi petrolifere, necessità di riconversione dell’apparato produttivo del Nord), il modello di fondo, in una sorta di ‘trascinamento’, pur depauperatosi progressivamente di teoria e di incisività, nonché di metodo e di etica, reggeva, sebbene precariamente.

Tuttavia dall’avvio più deciso dell’integrazione europea, dell’impetuosa globalizzazione e del declino italiano la questione si è fatta assai più delicata.

Dall’inizio degli anni Novanta, infatti, lo scenario è molto mutato. Anche volendo per un momento tralasciare il tema degli squilibri di finanza pubblica, che pure ha giocato un ruolo determinante, l’integrazione europea e la globalizzazione hanno fatto venire meno un dato di fondo. Non è stato più vero, nella percezione generale e nella sostanza di alcune aree, che per il benessere del Centro-Nord fosse realmente così importante la crescita del Mezzogiorno. Il mercato interno di riferimento per le imprese del Centro-Nord si è potenzialmente allargato; la spinta al risparmio sui costi ha portato a guardare a occasioni di delocalizzazione anche all’interno dell’area europea, ormai molto vasta e differenziata, ben più convenienti di quanto potesse offrire il Sud, oppure a prodotti acquisibili a prezzi irrisori da molto lontano e assai più accessibili dei contoterzisti del Sud; la presa di coscienza che anche il Centro-Nord aveva accumulato un grosso deficit di produttività e innovazione ha spinto a concentrare maggiormente nell’area l’investimento pubblico o comunque l’attenzione. L’abbassamento generalizzato della crescita e il fatto che fossero venuti al pettine dello scrutinio europeo gli squilibri di finanza pubblica cumulatisi nel ventennio precedente hanno quindi generato, nemmeno troppo gradualmente, l’idea (esposta talora in modo rude e approssimativo) che il Paese non si potesse più permettere di fare molti altri tentativi a vuoto.

La dimensione delle politiche specialmente dedicate allo sviluppo del Mezzogiorno, nel lungo periodo che va dal secondo dopoguerra al secondo decennio degli anni Duemila, non è di facile quantificazione. In generale il riferimento principale è alle risorse finanziarie (definite quali aggiuntive o straordinarie) espressamente finalizzate a dotare l’area di una base di capitale pubblico e privato più adeguata a innescare processi di sviluppo autonomo e a stimolare, attraverso incentivi di vario tipo, l’impiego di lavoro. Una nuova ricostruzione in quantità finanziarie dell’intervento straordinario e aggiuntivo è stata operata dall’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (SVIMEZ), valutabile in media attorno allo 0,8% del PIL nazionale tra il 1951 e il 2007; sono stati presi in considerazione dal 1951 al 1992 gli interventi della Cassa per il Mezzogiorno, poi quelli specificamente dedicati alle aree depresse e dal 1998 anche il contributo derivante dai programmi dei fondi strutturali comunitari (con una probabile sovrastima non piccola di quest’ultima componente).

La Cassa per il Mezzogiorno fu costituita come ente speciale nel 1950 per gestire, con un elevato grado di autonomia decisionale e operativa, le risorse straordinarie per lo sviluppo delle regioni meridionali sostenute da prestiti della Banca mondiale. La Cassa doveva originariamente operare solo per un decennio, ma la sua operatività fu poi prorogata più volte. Fu posta in liquidazione nel 1984 e in qualche modo riconvertita nel 1986 nell’Agenzia per lo sviluppo per il Mezzogiorno, soppressa definitivamente nel 1992. Con la chiusura dell’intervento straordinario collegato all’operatività della Cassa del Mezzogiorno prima e dell’Agenzia per lo sviluppo del Mezzogiorno poi, l’intervento si attenuò molto senza però del tutto interrompersi, proseguendo in nuove forme per tutte le aree depresse del Paese (l. 9 dic. 1992 nr. 488).

I programmi dei fondi strutturali comunitari, che acquisiscono maggior peso dall’inizio degli anni Novanta, sono programmi di sviluppo di medio termine attuati dagli Stati membri nell’ambito di cicli di programmazione pluriennali. Utilizzano risorse provenienti dal bilancio comunitario destinate in parte prevalente alle regioni in ritardo di sviluppo (nel caso italiano soprattutto quindi alle regioni del Mezzogiorno). Alle risorse provenienti dal bilancio comunitario, gli Stati membri aggiungono una propria quota di cofinanziamento. Le modalità di funzionamento dei programmi comunitari consentono però di chiedere a rimborso contributi dal bilancio anche per progetti inizialmente finanziati con altre fonti finanziarie qualora questi rispettino alcuni requisiti: l’Italia, al fine di non perdere le risorse del bilancio europeo, ha fatto ampio utilizzo di questa modalità, motivo per cui è assai probabile che la dimensione dell’intervento aggiuntivo tra il 1998 e il 2007 risulti sovrastimata.

Complessivamente si tratta comunque di entità abbastanza significative in termini di focalizzazione su obiettivi di sviluppo (seppure molto piccole in termini di spesa pubblica complessiva nell’intero Paese che, per dare un’idea degli ordini di grandezza, arriva a ben oltre il 40% del PIL), anche se il loro carattere aggiuntivo rispetto al complesso dell’intervento pubblico in conto capitale nell’area non è davvero definibile con precisione.

È utile chiarire che lungo l’intero arco temporale di interesse la dimensione dell’intervento specificamente dedicato allo sviluppo della base economica delle regioni del Mezzogiorno non è ricostruibile con precisione per l’assenza di fonti sistematiche sulla territorializzazione dell’intervento pubblico. Peraltro anche durante l’operatività della Cassa, proseguivano interventi ordinari a titolarità delle amministrazioni pubbliche e di altri enti, nonché per un periodo non breve indirizzi cogenti sull’indirizzo nel Sud delle attività di investimento delle imprese pubbliche. Le disposizioni legislative di interesse sono assai numerose (Carabba, Claroni 2011), ma va sottolineato che la maggior parte di queste non ha prodotto anche fonti ordinate sull’entità delle spese realizzate. Ancora oggi, quasi a metà del secondo decennio degli anni Duemila, pur disponendo di numerose ricostruzioni realizzate a partire dal 1995-96, manca un quadro chiaro che copra tutto il periodo dagli anni Cinquanta e che aiuti a distinguere le varie componenti dell’intervento pubblico per le regioni dell’area. Più semplice è la ricostruzione dell’intervento straordinario della Cassa per il Mezzogiorno che ha lasciato ampia documentazione dei programmi impostati e realizzati.

Figura 4 Pil pro capite

L’intervento complessivo non va sopravvalutato in termini dimensionali assoluti: esso ha certamente costruito molto e non ha solo causato sprechi, ma non ha potuto o saputo mettere il Mezzogiorno su un cammino sicuro.

Infatti, una questione da tenere ben presente è che, a meno di circoscrivere e precisare l’indagine, le politiche per il Mezzogiorno di epoca repubblicana, al di fuori del perimetro temporale delle iniziative della ‘prima’ Cassa (Radici storiche ed esperienza, 1996), non hanno mai potuto vantare grandi successi sistemici.

fig. 5

Benché sia in parte veramente non corretto utilizzarle come poi si fa, le evidenze sui trend di sviluppo di lungo periodo dal secondo dopoguerra indicano che il Mezzogiorno ha mantenuto divari costanti nel PIL pro capite (fig. 4) e peggioramenti nell’impiego di lavoro (fig. 5).

A partire dal dopoguerra il prodotto pro capite del Mezzogiorno in relazione a quello del Centro-Nord non è davvero rimasto costante e, anzi, ha mostrato andamenti differenti anche a seconda della capacità delle politiche di imprimere impulso all’area (fig. 4a). Seppure sia vero che in sessant’anni non ha mai superato di molto il 60% del reddito dell’altra area, è anche vero che sotto un’apparente staticità – l’intera dinamica relativa è rimasta compressa in cinque punti percentuali (fig. 4b) – i livelli assoluti sottostanti sono molto cambiati. I dati relativi traggono, infatti, molto in inganno e non danno ragione immediata né dell’eccezionale recupero degli anni Cinquanta e Sessanta, quando il reddito del Centro-Nord cresceva a tassi tumultuosi, né delle allarmanti tendenze dell’ultimo decennio in cui le regioni settentrionali hanno perso molto in termini relativi rispetto alle altre regioni europee e quindi il mantenimento della differenza relativa è più preoccupante che consolatorio. Ferme restando queste qualificazioni, che tra l’altro segnalano tutta la fragilità della categoria del divario, rimane però vero che salti duraturi di più ampia portata non si sono realizzati.

Pochissimo si è prodotto soprattutto in termini di capacità di soddisfare l’esigenza di lavoro nell’area.

Al di là delle oscillazioni dovute ai grandi andamenti ciclici – che peraltro hanno interessato l’intero Paese – i tassi di disoccupazione del Mezzogiorno si sono mantenuti elevati in assoluto e senza evidenti segnali di riduzione strutturale nemmeno nelle fasi in cui le dinamiche dell’attività economica sono state più favorevoli (fig. 5).

Semplificando ancora una volta la questione, si può quindi dire che un ostacolo alla condivisione dell’importanza delle politiche per il Mezzogiorno è che si tratta di politiche non solo teoricamente, ma palesemente ‘difficili’. Indipendentemente dal condividere o meno la considerazione che le politiche per il Sud siano state inefficaci, anche se abbondanti, per impossibilità o incapacità di individuare la strategia più corretta di impiego delle risorse disponibili o che siano state inefficaci perché insufficienti e sostitutive, non v’è dubbio che sia il primo sia il secondo giudizio, pur così divergenti, restituiscono un’idea di difficoltà estrema dell’azione pur necessaria. Per portare avanti politiche difficili, perché in sé complesse da costruire e perché ostacolate sistematicamente da forze avverse consapevoli o meno, è necessaria una condivisione molto forte sulla loro necessità e una mobilitazione significativa di energie diverse.

Una spinta nazionale, più ampiamente partecipata forse non solo per senso di rispetto nei confronti dell’altissima figura del proponente, è stata riproposta solo dalla non lunga stagione di rilancio della ‘nuova programmazione’ a opera dell’allora ministro del Tesoro, Bilancio e Programmazione economica, Carlo Azeglio Ciampi, che così la definì il 1° ottobre 1998 nell’esposizione alla Camera dei deputati della relazione previsionale e programmatica per l’anno successivo (La nuova programmazione e il Mezzogiorno 1998). Nel corso del 1998, Ciampi – all’indomani dell’accelerato e faticoso processo di rientro di alcuni parametri fondamentali di finanza pubblica che avevano guadagnato all’Italia la possibilità di ingresso nell’area dell’euro – manifesta, nei documenti di politica economica nazionale e nelle azioni di riorganizzazione del Ministero, l’intento di rilanciare l’impegno per lo sviluppo del Paese e, soprattutto, del Mezzogiorno; il consenso che ne riceve è notevole.

Tuttavia, quella stagione di condivisione – pur apparentemente fortemente sentita dalle forze sociali all’indomani di un faticoso e probabilmente troppo rapido risanamento finanziario – è stata assai breve, durando poco meno di due anni e si è rapidamente rarefatta sia a livello nazionale sia addirittura a livello locale.

Su questo punto è interessante la ricostruzione di Fabrizio Barca, diretto protagonista di quel periodo essendo stato richiesto da Ciampi di assumere la direzione del Dipartimento per le politiche di sviluppo (DPS), all’atto della sua costituzione nel 1998 nel processo di riordino del Ministero del Tesoro, e di guidare quindi gli aspetti tecnici del rilancio dell’impegno sul Mezzogiorno. «Dopo una fase iniziale, nel 1998-99 appunto, di forte guida politica, la condivisione e l’impulso hanno continuato a essere cospicui da parte di sezioni delle classi dirigenti locali e di singole figure della classe dirigente nazionale di entrambi gli schieramenti politici. Ma in generale, il sostegno del confronto culturale-politico è stato assai scarso. Ciò ha prodotto “un assordante silenzio” sul mezzogiorno e sulla nuova politica in atto, manifestatosi talora in un distaccato scetticismo sul “generoso tentativo”, talora nella “rimozione” della sua esistenza» (Barca 2009, p. 231) e «già dopo un anno dall’avvio della nuova programmazione, cioè dalla fine del 1999, il consenso politico attorno alla nuova strategia era venuto meno. Anzi, negli anni che seguono l’azione politica nazionale creerà spesso ostacoli alla nuova strategia o se ne sentirà comunque infastidita» (Barca 2010, p. 176).

In parte il diradarsi del consenso è stato dovuto alla ripresa di forza di segmenti contrari al cambiamento a livello nazionale e locale. In parte forse anche alla difficoltà di trovare un punto di caduta comune su ciò che fosse opportuno fare nell’ambito delle diverse posizioni intellettuali che pure condividevano l’importanza di una ripresa di azione. Tuttavia si è assistito anche al ritirarsi repentino di molte energie di fronte alla consapevolezza che le politiche rimanevano molto difficili e che qualunque obiettivo avrebbe richiesto molto tempo per essere raggiunto. Da quella fase in poi, l’abbassamento progressivo di tensione sul Mezzogiorno è dimostrabile in molti modi, ma una prova incontrovertibile è data dallo spazio sempre più residuale (e separato) che il tema ha assunto nei documenti ufficiali di politica economica dei governi in carica dalla seconda parte del decennio Duemila.

Non si ritroverà facilmente un’affermazione come quella contenuta nel Documento di programmazione economica e finanziaria (DPEF) presentato dal governo a giugno 1999 a sostegno dell’avvio di quella ‘nuova programmazione’ che si esprimeva in questi termini: «Lo sviluppo del Mezzogiorno è la grande priorità, la missione, della politica economica italiana; così come lo è stato il raggiungimento dei parametri di convergenza per la moneta unica. Assicurare una crescita economica accelerata al Mezzogiorno è la condizione necessaria per una duratura, forte crescita dell’intera economia nazionale» (DPEF per gli anni 2000-03, p. 97). Nel DPEF del luglio 2009 (per gli anni 2010-13) non vi è più nessun riferimento allo sviluppo del Mezzogiorno e il termine non ricorre mai nell’intero documento. Nel Piano nazionale per il Sud, di fine 2010, si manifesterà certamente una ripresa di volontà al miglioramento degli investimenti per lo sviluppo a risorse già assegnate, ma il Mezzogiorno è visto soprattutto come un’area di intervento a sé stante piuttosto che una priorità per il Paese intero. Una ripresa più sostanziale di attenzione è certamente avvenuta di recente a opera del ministro Barca (che molta esperienza in materia aveva accumulato negli anni in cui era stato chiamato a dirigere il DPS), ma la natura dell’impegno nazionale, anche per le circostanze molto particolari della formazione e del limitato mandato del governo tecnico insediatosi a fine 2011 e chiamato soprattutto a gestire una emergenza di stabilità finanziaria, piuttosto che a definire una nuova traiettoria lunga di sviluppo, non può dirsi tale da prefigurare una svolta stabile.

Vi sono molte ragioni per cui la crescita del Mezzogiorno – al di là dell’evidente motivo per cui è importante per l’area e per gli effetti di spill over di domanda che continuerebbe certamente ad avere come nel passato sulle altre aree – continua a essere importante per l’Italia intera e forse ha anche accresciuto il suo rilievo. In primo luogo vi è la questione degli squilibri della finanza pubblica. Il Mezzogiorno, proprio perché ha grandi risorse inutilizzate, ha spazi teorici di crescita più elevati e pertanto potrebbe fornire un contributo decisivo nel lungo periodo al riequilibro del rapporto debito/PIL il cui livello assai elevato costituisce un vincolo generale alla formulazione dell’intera politica economica negli attuali assetti europei che hanno dato al tema del consolidamento fiscale dei singoli Stati membri un rilievo assoluto.

Vi è poi l’argomento che, anche se in contrazione, il Mezzogiorno riceve comunque consistenti trasferimenti interni che è difficile quantificare con precisione. La questione incrocia il cosiddetto tema dei residui fiscali (cioè la differenza tra entrate fiscali e spese pubbliche) che è di complessa ricostruzione a livello territoriale. Le ricostruzioni disponibili di questo indicatore o quanto si può indirettamente desumere dall’andamento delle cosiddette importazioni nette della contabilità economica territoriale (differenza tra totale dei consumi e investimenti rispetto al prodotto dell’area) segnalano univocamente che nel tempo l’area ha assorbito o impiegato più risorse di quanto sia stata in grado di produrne direttamente. Questo non deve meravigliare, perché le aree in ritardo di sviluppo nei sistemi unitari ricevono sempre trasferimenti dal resto del sistema e certamente questi non potrebbero mai essere eliminati. Quindi è nell’interesse generale che questa esigenza sia controbilanciata nel tempo da uno sviluppo più autonomo non tanto al fine di dare più risorse al Centro-Nord, ma di consentire lo spazio per iniziative sistemiche per il Paese intero. A questo fine dovrebbe anche essere di interesse diffuso che i trasferimenti necessari abbiano una importante componente di vero orientamento allo sviluppo piuttosto che essere destinati esclusivamente a mantenere le cose come stanno.

Ancora più rilevante è l’argomento che la ripresa di un interesse nazionale per la crescita del Mezzogiorno consentirebbe di affrontare in chiave meno localistica alcune grandi questioni che pesano molto sul futuro dell’Italia, innanzitutto il tema energetico, ma anche una gestione intelligente dei flussi migratori.

Vi è poi il delicatissimo tema delle organizzazioni criminali, che è stato recentemente sollevato proprio in connessione con il tema della crescita del Sud, invertendo un argomento tradizionale (Trigilia 2012). Solo con una maggiore attenzione alla crescita del Mezzogiorno, si potrebbero alla lunga minare le basi di accettazione sociale di organizzazioni criminali che agiscono ben oltre i confini territoriali originari, ma che ancora hanno le sedi di spinta più rilevanti in alcune zone del Sud e traggono linfa e sostegno dalle condizioni precarie dell’area e dall’assenza di lavoro regolare.

Un ulteriore ragionamento, più importante ma più complesso, riguarda una questione molto diversa. In questo schema interpretativo al centro dell’argomentazione non vi è il Mezzogiorno, ma l’Italia e la sua difficoltà evidente a riprendere un percorso di intenzionalità complessiva sul suo sviluppo futuro. In questo ragionamento il Mezzogiorno è solo un sintomo di un problema più ampio e il discorso suggerito è che se il Paese riuscisse a ritornare a ragionare sul suo destino nazionale, superando le divisioni territoriali che si sono manifestate, riconoscerebbe la necessità di affrontare in modo più diretto le sue questioni più fondamentali, tra le quali il Mezzogiorno è la più immediatamente evidente.

Tutti questi argomenti non sono nuovi e vengono spesso riproposti in modo anche autorevole da personalità molto accreditate, ma non risultano di per sé sufficienti a coagulare consenso. Al di là del clima culturale e del dibattito politico dell’ultimo decennio degli anni Duemila, giudicati non senza ragione come caratterizzati a tratti da elementi di vero e proprio rigurgito contro il Sud (Viesti 2009), le politiche per il Mezzogiorno appaiono però soprattutto come un’impresa rischiosa, con perdite di percorso molto probabili e rendimenti potenzialmente molto elevati, ma anche assai incerti.

Le politiche aggiuntive per il Mezzogiorno dalla fine degli anni Novanta

Dall’inizio degli anni Novanta lo sforzo di risanamento finanziario per entrare nell’euro e la definitiva chiusura della Cassa avevano molto ridotto la dimensione dell’investimento pubblico nel Mezzogiorno (fig. 6), che aveva accusato anche da questo un colpo macroeconomico non piccolo.

A questo si era aggiunta anche la sostanziale eliminazione delle decontribuzioni salariali per adeguarsi alla disciplina comunitaria in materia. Tra gli interventi per facilitare l’impiego di lavoro nel Mezzogiorno hanno avuto, infatti nel passato, un ruolo rilevante diverse misure di contenimento del costo del lavoro attraverso forme di sgravio contributivo. Queste misure già all’inizio degli anni Novanta hanno prodotto però contenziosi con la Commissione europea in quanto giudicate lesive della concorrenza. Nel 1995 un accordo (cosiddetto Pagliarini-Van Miert) ha chiuso quel contenzioso prevedendo però un declino molto rapido degli sgravi considerati in violazione della normativa comunitaria. L’importo degli sgravi, nella ricostruzione della SVIMEZ (2011), era stato molto rilevante soprattutto tra il 1971 e il 1993, arrivando a valere circa due volte e mezzo i contributi all’investimento delle imprese in quel periodo.

Sia per queste motivazioni, sia per altri fattori macroeconomici rilevanti, per la gran parte del decennio Novanta gli andamenti nel Mezzogiorno erano stati più che negativi, soprattutto sotto il profilo dell’occupazione che aveva registrato un vero e proprio crollo nel 1992 (anno di avvio di una profonda recessione in tutta Europa) e non si era successivamente ripresa. Tuttavia alcuni segnali di rafforzamento di sistemi territoriali, una significativa rinascita di energie politiche locali che sembrava prodromica a un rinnovamento più ampio delle classi dirigenti, la ripresa di protagonismo di importanti città del Sud e, infine, l’emergere di quella nuova intenzionalità politica nazionale sul rilancio dello sviluppo all’indomani dell’entrata nell’euro, avevano creato un clima piuttosto ottimistico negli osservatori e nei protagonisti diretti.

Figura 6 Investimento pubblico

«Alla fine degli anni Novanta, la situazione sociale ed economica del Mezzogiorno conserva aspetti di marcata debolezza. Ma una parte di questa debolezza – stagnazione dei consumi, legata al cedente sussidio esterno; riduzione di occupazione, legata al risanamento di imprese ex-pubbliche – è segno dell’inizio di un processo di rinnovamento. E, soprattutto, dietro questa generale debolezza si delinea una situazione di movimento, di trasformazione, l’emergere di nuovi gruppi dirigenti pubblici e privati, quale mai si era verificata nell’ultimo quarto di secolo» (Ministero del Tesoro 1999, p. 19).

Tuttavia dal punto di vista delle politiche per il Mezzogiorno non si riavvia una vera e propria riflessione generale, ma si punta ancora una volta su politiche speciali, o meglio ‘aggiuntive’, come da quel momento in poi verranno denominate. Si trattava quindi di rinnovare le politiche speciali per lo sviluppo territoriale esistenti.

Il contesto di tali politiche presentava in quegli anni una duplice esigenza: da un lato la necessità urgente di avvio del ciclo di programmazione dei fondi strutturali 2000-06 nel rispetto della consolidata logica comunitaria di intervento per programmi pluriennali a disegno stabile; dall’altro quella di riorganizzare l’intervento nazionale per lo sviluppo territoriale, assai frammentato in strumenti diversi e affaticato negli scopi dalla lunga e incerta stagione che aveva fatto seguito alla chiusura dell’intervento straordinario. A una prima modifica di tale aspetto, nel 1998 – ancora su iniziativa del Ministro del Tesoro Ciampi – viene parzialmente riformato il modello di finanziamento degli interventi per lo sviluppo territoriale con l’aggregazione dei principali flussi finanziari di scopo nel fondo per le aree depresse e l’avvio del rifinanziamento annuale del fondo stesso da parte della Legge finanziaria. Si tratta di una mossa importante, perché un Fondo unico consente una migliore programmazione delle sue destinazioni.

Il rilancio dell’intervento per lo sviluppo avviene però utilizzando soprattutto lo spazio della costruzione dell’intervento dei fondi strutturali comunitari nel Quadro comunitario di sostegno obiettivo 1 (2000-06), che copre quasi l’intero Mezzogiorno. Il Quadro comunitario di sostegno (QCS) è l’unico documento formale che offre la possibilità tecnica di esplicitare in un programma ampio le intenzioni, i metodi, i fini e le condizionalità di successo dell’intervento, tra cui l’indispensabile rinnovamento delle capacità delle amministrazioni pubbliche e la necessità di processi più ampi di riforma nelle politiche pubbliche e nel funzionamento dei mercati. Contestualmente viene anche riavviata l’architettura dell’intervento nazionale speciale che, malgrado l’avvio delle Intese istituzionali di programma Stato-regioni, rimane però ancora molto diversificato negli strumenti e meno chiaro nella direzione, non potendo essere basato – poiché l’impianto normativo non lo prevede e i finanziamenti attribuiti su base annuale non lo consentono – su programmi strategici, quadri finanziari unitari e obiettivi espliciti di medio termine.

L’impostazione strategica che confluisce poi nel QCS obiettivo 1 2000-06 è basata contemporaneamente su una visione e sulla natura degli strumenti che si possono mettere in campo. Questi rimangono per lo più di spesa in conto capitale. Anche se, però, i fondi comunitari (attraverso il Fondo sociale europeo) consentono di intervenire, pur con minori risorse, anche con interventi formativi, di istruzione e per politiche attive del lavoro e sociali, che sono interventi a natura di spesa corrente ancorché finalizzati all’accumulazione di capitale umano.

La visione è basata sull’idea che il Mezzogiorno non sarebbe privo di vitalità propria, ma soffre in modo superlativo di diseconomie di contesto che ne abbassano la produttività potenziale, impedendo alle energie locali di esprimersi quando ci sono, oscurando le potenzialità di valorizzazione delle dotazioni (asset) presenti e inibendo l’investimento esterno. Non vi è una idea precisa delle direzioni più promettenti nel concreto delle singole realtà territoriali, ma vi è l’intuizione che occorra incrementare l’offerta di beni pubblici e la loro funzionalità alle esigenze delle strutture produttive e sociali interne e per l’attrazione di risorse esterne. Questa strategia diventerà nota per l’importanza che conferisce alle ‘politiche di contesto’ rispetto alle politiche di promozione diretta dello sviluppo e soprattutto al sostegno indiscriminato e poco selettivo all’investimento privato individuale. L’idea è che, sebbene si consideri ancora necessario sostenere individualmente le imprese, l’impresa singola può poco se agisce in un ambiente molto sfavorevole, dove tutto è più difficile e costoso, perché mancano buoni collegamenti, sufficienti servizi, le strutture formative sono poco adeguate e il territorio è poco organizzato e regolato.

La strategia dà un grande peso teorico alla mobilitazione innovativa della conoscenza locale aggregata nella individuazione di progetti territoriali che possano combinare diverse tipologie di investimento verso una comune finalità di sviluppo locale. A questo fine viene enfatizzato il concetto di integrazione, cioè il fatto che per modificare l’ambiente in cui operano le imprese o semplicemente per porre le condizioni di adeguata valorizzazione delle risorse, sia necessario agire con interventi collegati da una logica comune che deve essere rintracciata innanzitutto richiedendo agli attori locali di progettare non in isolamento e di disvelare così la propria conoscenza sulle molteplici necessità di funzionamento e di investimento del territorio in cui operano.

Non minor peso, però, è dato alla salvaguardia e all’incremento di beni pubblici generali: grandi collegamenti, sicurezza, ricerca, scuola che richiedono l’impegno e le conoscenze delle grandi amministrazioni nazionali, che il programma vuole comunque continuare a mobilitare.

L’impianto, pur tematizzato in settori, ha però una natura eminentemente metodologica. La strategia generale rimane nei fatti poco attenta alle specificità territoriali che, sebbene molto invocate, sono poco conosciute dal nuovo centro di programmazione appena riorganizzato; la loro cura è demandata alla concretizzazione dell’attuazione da parte soprattutto delle regioni il cui peso politico e strategico aumenta sensibilmente nel periodo ed è incoraggiato dall’impianto organizzativo prescelto.

Si tratta quindi di un impianto complessivamente ambiziosissimo che mira a muovere contemporaneamente molte leve. Questa ampiezza è però necessaria, perché l’obiettivo primario della strategia non è tanto l’incremento immediato del tasso di crescita (che pure è un po’ improvvidamente annunciato, anche perché richiesto formalmente dalle esigenze regolamentari dei Fondi comunitari), ma una radicale e rapida modifica delle aspettative e dei comportamenti di tutti gli operatori privati e dei cittadini, ottenibile solo se vi è una diffusa percezione dell’avvio di un cambiamento o, come all’epoca si dirà, di una ‘rottura’ con gli equilibri pregressi.

Una maggior crescita rimane però certamente l’obiettivo finale per l’area che gli strumenti speciali non possono certamente raggiungere da soli se non come veicoli di innesco di processi più ampi. Permane comunque la convinzione che l’area debba riprendere un processo di accumulazione di capitale pubblico a ritmi più sostenuti e si stabilisce pertanto che per l’intero arco temporale di attuazione del programma definito, anche altri investimenti finanziati non su risorse speciali debbano essere convogliati nell’area.

Riprendendo la logica dei vincoli quantitativi sperimentati nella stagione dell’intervento straordinario (per indirizzare gli interventi degli enti e aziende sottoposti alla vigilanza del Ministero delle Partecipazioni statali dalla fine degli anni Cinquanta), i documenti di programmazione avevano stabilito che il complesso della spesa pubblica in conto capitale della Pubblica amministrazione (PA) si attestasse per il 45% nel Mezzogiorno, con un percorso da definire in via programmatica e da monitorare stabilmente negli anni (attraverso uno strumento definito ad hoc e da incorporare nei documenti di programmazione nazionali: il Quadro finanziario unico pluriennale di cassa, QFU). Per ancorare quell’impegno a dati assoluti, vi era anche la previsione programmatica che l’intera spesa in conto capitale della PA per tutto il Paese si mantenesse stabile nel tempo attorno a valori del 4% del PIL (che avrebbero su questo aspetto mantenuto l’Italia in linea con quanto avveniva nelle economie europee già consolidate). Questo, in pratica, significa che rispetto al passato l’impegno nell’accumulazione da parte dell’attore pubblico nel Mezzogiorno deve per un periodo non breve aumentare molto.

La perdita di impulso allargato e di consenso politico degli anni successivi, di cui si è detto, ha avuto effetti rilevanti sull’effettiva attuazione di quella strategia (come poi si dirà meglio), ma non ha però impedito alle politiche speciali per il Mezzogiorno di evolversi dal punto di vista concettuale e tecnico dopo la prima stagione di impostazione. Se l’impianto strategico è rimasto abbastanza immutato nel tempo in relazione al rilievo di intervenire sulle condizioni di contesto (malgrado le crescenti evidenti difficoltà alla sua realizzazione), è possibile rintracciare ed esplicitare alcune linee generali di trasformazione.

Innanzitutto, le politiche speciali hanno nel tempo preso maggiormente atto della loro impossibilità ad agire efficacemente in isolamento attraverso un mero meccanismo di contaminazione. A relativamente pochi anni di distanza dall’impostazione del QCS, tra il 2005 e il 2006, in preparazione di un nuovo ciclo di interventi dei fondi strutturali (per il periodo 2007-13) l’impostazione considera in modo più esplicito il ruolo delle politiche ordinarie.

Nella prima parte del 2006, mentre i programmi di sviluppo definiti all’inizio del decennio sono in corso di attuazione, gli sforzi di ripensamento dell’impianto di politica di sviluppo condotti dai tecnici e dal partenariato avviati già dall’inizio del 2005 hanno prodotto un impianto di proposte strutturate sui contenuti e gli assetti organizzativi della politica regionale 2007-13. Esito di queste riflessioni è, da un lato, una ampia condivisione sul fatto che le politiche di sviluppo devono perseverare, e anche rafforzare, nella loro missione di promozione dell’accumulazione di capitale fisso sociale (beni pubblici locali, e localizzati dove mancano, da rendere disponibili all’azione di imprese, collettività e istituzioni). Dall’altro, si esprime una più realistica considerazione del fatto che molti nodi e difficoltà del Mezzogiorno non solo trascendono la capacità di indirizzo della politica regionale speciale e dei suoi protagonisti, ma anche la condizionano e che quindi è bene che il nuovo impianto espliciti chiaramente ruoli e responsabilità delle politiche ordinarie (a livello centrale e regionale), sia di regolazione sia di spesa.

Si tratta di un’autovalutazione interessante, perché manifestata assai prima che un giudizio importante, e da allora sempre ripreso, venga espresso autorevolmente dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi nel 2009: «Le politiche regionali possono integrare le risorse disponibili, consentirne una maggiore concentrazione territoriale, contrastare le esternalità negative e rafforzare quelle positive. Ma non possono sostituire il buon funzionamento delle istituzioni ordinarie».

L’impianto complessivo sarà poi ridefinito formalmente nel 2007 all’interno del documento quadro per la programmazione dei fondi strutturali 2007-13 e delle altre risorse aggiuntive dedicate (quelle del cosiddetto Fondo nazionale per le aree sottoutilizzate, FAS). Tale documento – Quadro strategico nazionale QSN 2007-13 – intende superare da un lato la frammentazione programmatica interna alle politiche aggiuntive richiedendo una ‘programmazione unitaria’ delle stesse e, dall’altro, sottolineerà in più punti che prima di procedere all’investimento aggiuntivo vengano chiarite le responsabilità e le direzioni di intento delle politiche ordinarie, sia a responsabilità centrale sia regionale.

Quell’impianto aveva, infatti, alle spalle una riflessione articolata e coraggiosa sulle difficoltà, le resistenze e le contraddizioni che erano state incontrate dalle politiche di sviluppo nella prima metà degli anni Duemila, riassunta nei documenti preparatori al QSN elaborati dalle Amministrazioni centrali e dalle regioni del Mezzogiorno (Ministero dell’Economia e delle Finanze 2005), predisposti con il coordinamento del DPS e resi disponibili al pubblico. Molte delle critiche esterne a quanto effettivamente realizzato fino a quel momento sono compiutamente anticipate in quella autovalutazione collettiva dei principali protagonisti attivi.

Una importante evoluzione di quella fase si registra però soprattutto nel maggior peso e nel ruolo cruciale che viene assunto dal tema dei servizi pubblici essenziali. Se quindi l’impianto del QCS manteneva per così dire una tradizione produttivista assoluta in cui quello che conta è soprattutto l’espansione dell’attività economica, l’impianto successivo del QSN assegna una particolare valenza per credibili prospettive di sviluppo al funzionamento dei servizi di cittadinanza di base. Punto qualificante e impegnativo è, pertanto, rappresentato dalla definizione di traguardi espliciti in tema di servizi per i cittadini del Mezzogiorno cui le regioni si impegnano formalmente.

Tali ‘obiettivi di servizio’ riguardano i livelli di competenze che l’istruzione effettivamente riesce a dare agli studenti; l’adeguatezza della gestione del servizio idrico a fornire buone condizioni di depurazione per gli aggregati civili e a evitare le perdite di rete; la capacità della gestione dei rifiuti urbani di progredire nella differenziazione del rifiuto, nel suo riutilizzo e nella riduzione dell’uso del territorio come discarica; la disponibilità in termini di effettiva presa in carico dei servizi sociosanitari a favore della popolazione anziana e socioeducativi per la prima infanzia. Si tratta di ambiti assai rilevanti, sia perché significativi per valutare l’effettiva capacità di cambiamento delle condizioni di vita nei territori interessati (e quindi la loro stessa potenzialità attrattiva), sia per l’integrazione tra politica regionale e politiche ordinarie necessaria per il loro raggiungimento. Nessuno di quegli obiettivi è raggiungibile solo costruendo più cose, pur necessarie, quando mancano (che è quello che la politica di sviluppo basata su interventi in conto capitale fa), ma richiedono tutti anche di gestire meglio i beni capitali disponibili, o incrementati, attraverso un attento riesame di come le cose si utilizzano e, soprattutto, di come si utilizzano i flussi di risorse destinati alla loro gestione nel tempo.

Gli obiettivi di servizio, seppure non esauriscano la strategia, costituiscono un passo in avanti teorico per l’intera impostazione della politica di sviluppo. Infatti essi esprimono una promessa concreta di maggiore benessere da realizzarsi attraverso la disponibilità di servizi reali e non subordinata al solo raggiungimento della crescita economica, anzi essi si pongono quale condizione per ottenerla; impegnano le amministrazioni su traguardi reali misurabili, spostando l’attenzione e il giudizio sul raggiungimento degli obiettivi rispetto alla capacità di spendere le risorse; offrono un terreno concreto per porre in una relazione finalizzata le politiche regionali di sviluppo con le politiche ordinarie. Si tratta di una evoluzione importante perché è proprio la gestione, la politica ordinaria di spesa e di organizzazione dei servizi pubblici che conta tanto nelle grandi differenze che si riscontrano tra aree più arretrate e aree più sviluppate.

Quella innovazione, certamente rilevante in sé per i temi che ha affrontato, ha però anche un altro significato destinato a essere rilanciato solo assai più tardi. Un grave problema dell’impostazione strategica è sempre stato quello della sua astrattezza. Per quanto affascinanti, i messaggi principali erano difficili da tradurre in un racconto pratico e non meno accessibili e comprensibili erano le finalità effettivamente perseguite dalla programmazione di dettaglio (ponderosissimi documenti in cui non si arriva quasi mai a dire che cosa in pratica si vuole modificare, perché e dove). Gli obiettivi di servizio sono un modo più semplice e diretto di esprimere un racconto di trasformazione, perché attraverso l’espressione di uno scopo concreto e limitato hanno restituito realtà a un impianto rimasto a lungo sfuggevole. Non si esprimono infatti come mere dichiarazioni di miglioramento tendenziale, ma si spingono a stabilire traguardi di avanzamento. Per es. l’obiettivo del miglioramento dei servizi all’infanzia è espresso come raggiungimento al 2013 di una quota di bambini di età 0-3 anni presi in carico pari almeno al 12% della popolazione di quella fascia d’età.

Su questo tenore sono tutti i traguardi di trasformazione (target) previsti su 11 indicatori pertinenti. Gli impegni assunti dalle regioni in questi ambiti erano resi più cogenti dalla presenza di meccanismi premiali per circa 3 miliardi di euro (definiti con una delibera del CIPE, Comitato interministeriale per la programmazione economica, dell’agosto 2007) che si prevedeva di assegnare (con una verifica intermedia al 2009 e una definitiva al 2013) non sulla base di soli dati di avanzamento formale, bensì in relazione all’effettivo raggiungimento dei valori target, che rappresentano standard minimi di equità di accesso effettivo ai servizi e di efficienza nella loro erogazione, in coerenza con obiettivi normativi posti dalle leggi o piani di settore o dai processi di coordinamento a livello europeo.

Questa linea di chiarimento delle ambizioni concrete delle politiche e delle loro motivazioni, anche al costo di qualche delusione da parte di chi si aspetta un globale intervento risolutivo di ogni difficoltà, riaffiorerà in almeno alcuni degli interventi definiti dalla massiccia operazione di riprogrammazione dei fondi comunitari 2007-13 nelle più grandi regioni del Mezzogiorno avviata a fine 2011. Benché anche questa operazione (Piano di azione coesione, PAC, definito nel corso del 2012) non abbia resistito del tutto alla tentazione di porsi anche obiettivi più indeterminati, ha certamente avuto il merito di riproporre con forza un tema metodologico antico della teoria della programmazione, relativo al nesso sequenziale tra definizione esplicita dei risultati cui si aspira prima e identificazione successiva dello spazio operativo per l’azione, ma ha soprattutto compiuto un passo interessante in direzione dell’avvicinamento tra impianto strategico e decisioni operative.

Un problema con cui si è scontrato l’impianto strategico negli anni è che una strategia operativa di policy – che non è solo un esercizio accademico, ma ha l’ambizione di guidare concretamente l’azione amministrativa – non può limitarsi a esporre principi e criteri astratti, ma deve confrontarsi con i dettagli scomodissimi di montare gli interventi adeguati allo scopo e attuarli. Gli scopi devono essere specifici e delimitati. Rispetto alle esperienze dei documenti di programmazione di inquadramento precedenti, il PAC affronta meno temi, ma propone un metodo di programmazione compiuta che arriva fino a definire i requisiti completi per l’attuazione di programmi e progetti tematici chiaramente identificati. Non è più quindi una programmazione di orientamento, ma è una programmazione di azione diretta. A differenza del QCS e del QSN, il PAC non è un documento di alta strategia che lascia ad altri programmi e strumenti l’interpretazione esecutiva, ma è esplicitamente un documento operativo in cui si rintracciano i temi di intervento, le finalità di dettaglio, le localizzazioni, gli strumenti, le responsabilità di attuazione e le risorse.

Dal punto di vista delle leve concrete su cui operare, l’impianto strategico implicito nel PAC, appare forse ancora una volta meno attento alle questioni dello sviluppo locale (dei luoghi) che rimangono però un argomento di fondo con cui confrontarsi per le traiettorie future del Mezzogiorno. Tali questioni – più apertamente in agenda per la definizione dell’impianto strategico da affidare alla prossima programmazione dei fondi strutturali 2014-20 – rimangono le più difficili perché impongono di far progredire l’impianto dalla posizione ancora, dopo molti anni, astratta sul rilievo delle politiche basate sui luoghi (place-based) alla dolorosa e difficile sequenza che conduce alla identificazione delle situazioni reali, necessariamente circoscritte, in cui l’intervento può sperare di essere proficuo. Su questo aspetto, però, forse non molto ci si può attendere dall’evoluzione, pur auspicabile, dell’impianto strategico generale che rimane affidato ai contenuti normati dei documenti formali che non prevedono (ancorché non impediscano e per certi versi di recente anche incoraggino) di raccontare una storia prospettica per luoghi reali e per attività economiche ben identificabili.

Rispetto all’impostazione – molto neutrale sulle traiettorie tematiche dello sviluppo economico – del QCS maturato tra 1998 e 1999 e del QSN del 2007, da parte di molti si ritiene che sia necessario avanzare una proposta più compiuta di ‘politica industriale’ basata sulle molte analisi disponibili che riguardano sia le dotazioni e le capacità effettive del Mezzogiorno, sia gli andamenti globali di specializzazione e di domanda. Tra le varie vocazioni di specializzazione del Sud che incontrano la recente dinamica della domanda mondiale e le sue caratteristiche, è certamente da riproporre con maggiore attenzione strategica la questione dell’agricoltura e dell’agroindustria. Si tratta di una vocazione antica e diffusa dell’area, troppo a lungo negletta nelle strategie di modernizzazione del Mezzogiorno, che ha mostrato una capacità di resilienza notevole ancorché non favorita dalle scelte di politica generale in tema di trasporti e logistica (La nuova occasione, 2012).

La mancanza di un racconto compiuto sulle traiettorie di sviluppo possibili da declinare in maniera differente per i luoghi diversi all’interno di una grande visione d’area e che vada oltre importanti indicazioni di metodo rimane il grande assente, per molti osservatori esterni, dell’impianto strategico pur progredito negli anni.

Il Mezzogiorno è un’area vasta e differenziata e una ripresa di strategia reale per lo sviluppo non può essere trattata al medesimo modo con cui si affronta la questione dei diritti di cittadinanza che deve interessare tutte le aree. Scelte più puntuali sono necessarie. Il tema, però, non è solo da ricondurre a un difetto cognitivo (che pure non va sottovalutato), ma piuttosto al fatto che le diverse responsabilità coinvolte non sono sin qui riuscite a accordarsi a monte sulle scelte. Nella realtà dei fatti l’intervento avviene sempre in qualche luogo specifico, che nella definizione di una strategia deve essere scelto prima e non lasciato all’interpretazione esecutiva casuale o solo nascosta.

Intervento ordinario o speciale, centrale o decentrato?

In epoca a noi più vicina, cioè dalla chiusura prima sospesa (nel 1984) e poi definitiva (nel 1992) dell’intervento straordinario, le politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno hanno quindi le seguenti caratteristiche:

a) sono ricomprese all’interno di un intervento ‘addizionale’ per tutte le aree in difficoltà di sviluppo o di crisi del Paese (denominate aree depresse prima, aree sottoutilizzate poi);

b) sono programmate e gestite dalle amministrazioni ordinarie (ministeri, amministrazioni regionali);

c) sono molto dominate dalle modalità di intervento e di impostazione operativa proprie delle politiche di coesione comunitarie dei fondi strutturali;

d) utilizzano sia i fondi strutturali comunitari, sia i fondi nazionali dedicati (il Fondo per le aree depresse, poi rinominato nel 2002 Fondo per le aree sottoutilizzate, FAS, e ancora rinominato nel 2011 Fondo per lo sviluppo e la coesione, FSC), in entrambi i casi si tratta di risorse speciali per politiche dedicate in primo luogo all’individuazione di punti critici su cui agire per la riduzione delle differenze territoriali nello sviluppo;

e) l’intervento è, per costruzione, limitato finanziariamente, temporalmente e nello scopo, con il mandato non di prendere in carico l’intera direzione dell’intervento pubblico, ma di agire a sostegno ulteriore di questo. Gli interventi aggiuntivi hanno lo scopo di ribadire il rilievo degli obiettivi generali di tendenziale parificazione delle opportunità economiche, sociali e di qualità della vita offerte ai cittadini indipendentemente dai luoghi in cui essi vivono, ma presuppongono una politica generale attiva sottostante;

f) l’intervento si realizza in un contesto di progressivo decentramento e devoluzione di responsabilità alle regioni per molti ambiti di competenza (avviatosi con le disposizioni di decentramento amministrativo di fine anni Novanta e poi consolidatosi con la riforma del titolo V della Costituzione definita nel 2001 che ha demandato alle regioni competenze esclusive, o al più concorrenti con lo Stato centrale, in sostanzialmente tutti i campi di azione dell’operatore pubblico);

g) dal 1998 è attivo un punto di coordinamento e indirizzo strategico centrale per tutte le politiche di sviluppo regionale (DPS) responsabile anche di mantenere rapporti stabili con la Commissione europea per le politiche di coesione comunitarie. Al Dipartimento costituito nel 1998 nel quadro della riorganizzazione del Ministero del Tesoro è affidata la missione di coordinamento dei contenuti delle politiche di sviluppo economico e sociale regionale. Il Dipartimento è stato poi trasferito nel corso del 2006 a un Ministero di settore (il Ministero per lo Sviluppo economico, storicamente responsabile in tema di interventi sull’industria), perdendo in identità ma, sebbene gradualmente depauperato in articolazione e risorse, continuando a svolgere una funzione di coordinamento.

Il modello di intervento in cui si sono inserite le politiche per il Mezzogiorno è quindi molto particolare. Non è certamente un modello centrale, ma non è nemmeno un modello del tutto decentrato. È un modello affidato alle amministrazioni ordinarie, ma per via del grande peso che in esso hanno avuto i fondi strutturali europei che hanno procedure speciali e richiedono strutture dedicate alla gestione dei fondi stessi, non è un modello del tutto ordinario.

A questo modello reale e spurio si è sovrapposto a lungo un dibattito su ipotesi polari, interessante, ma che però guardava soprattutto indietro. Vale la pena di ripercorrerlo sommariamente, perché è di qualche utilità nel comprendere pregi e difetti, opportunità e rischi del modello realizzato.

Di fronte a problemi di particolare complessità e che richiedono uno sforzo costante e prolungato, l’idea di avere un’organizzazione speciale che si caratterizzi per competenza, flessibilità e autonomia (dalla politica che ha orizzonti per sua natura limitati e dalle burocrazie che sono per definizione rigide nei processi esecutivi) è molto attraente e ha una sua forte razionalità. D’altro canto questa soluzione ha un prezzo elevato, perché le altre organizzazioni, quelle ordinarie, non ricevono alcuna spinta a occuparsi del problema e quindi le strutture speciali funzionano davvero solo se gli si affidano compiti molto circoscritti oppure ben delimitati e di natura strettamente tecnica. Ma il tema del Mezzogiorno è un tema per così dire generalista: è un’area molto vasta, con un terzo della popolazione del Paese e si tratta di un’area moderna in cui comunque operano tutte le amministrazioni ordinarie e vi è una fortissima densità istituzionale. Dopo l’esperienza della Cassa, indipendentemente dalla deriva della sua lunga fase terminale ma considerando anche le grandi difficoltà di coordinamento che si venivano realizzando con l’ampliamento dello scopo delle sue attività, si è progressivamente consolidata l’idea che fosse necessario investire più pienamente l’amministrazione ordinaria del tema dello sviluppo territoriale e del Mezzogiorno. In un sistema in cui lo Stato, nelle sue varie articolazioni, è molto pervasivo è infatti da un lato necessario che la sensibilità per i nessi tra funzionamento dell’amministrazione e sviluppo siano percepiti in modo allargato e dall’altro che interventi speciali possano innestarsi su consapevolezza e collaborazione dell’intervento ordinario che è preponderante. Per una qualche stagione, quindi, la discussione si orientava decisamente verso un ritorno all’ordinarietà degli attori. Tuttavia le difficoltà poi incontrate hanno a tratti modificato l’orientamento prevalente, e si è invocato un miglior trattamento della specialità delle questioni e la necessità di prevedere una maggiore componente strategica dedicata nell’agire.

In tema di centralizzazione rispetto a decentramento, la questione non si presenta meno complessa. Da un lato gli organismi centrali hanno per posizione la dovuta distanza per immaginare strategie di più ampio respiro ed evitare la cattura da parte degli interessi locali più avversi all’innovazione e al cambiamento (nelle politiche di sviluppo, il cambiamento è per definizione una necessità), dall’altro conoscono meno le situazioni reali, l’orografia umana e la storia recente dei territori e le stesse opportunità di cambiamento, e rischiano di ripetere errori di interpretazione. A un certo punto dell’esperienza storica dell’intervento per il Mezzogiorno, la bilancia della discussione pendeva decisamente verso un riequilibrio a favore del livello più vicino al territorio, sia perché si cumulavano gli errori strategici del centro sia perché non sembrava affatto così vero che un intervento dominato dalla responsabilità centrale puntasse sull’innovazione piuttosto che sul mantenimento dello status quo sostanziale in cambio di mero consenso politico. Al momento in cui, con cambiamenti di peso avvenuti (assai parzialmente peraltro), difficoltà operative ed errori strategici hanno ripreso a manifestarsi, la discussione è ripartita, al contrario. Contro alcune miopie localistiche e indecisioni regionali si è reclamato dagli osservatori un maggiore potere del centro della cui capacità a far meglio, peraltro, non sempre c’era prova.

La discussione accademica, astratta e talora ingenua nei suoi ricorsi, segnala però, indirettamente, che il modello spurio che si è venuto realizzando nel caso italiano delle politiche per il Mezzogiorno dopo l’intervento straordinario, per quanto per certi versi accidentale, è un modello interessante, perché tendenzialmente equilibrato tra ordinarietà e specialità e tra centro e periferia. Si è però costruito in un contesto piuttosto sfavorevole che non ha facilitato una sua evoluzione che consentisse di utilizzare le sue caratteristiche multiformi intorno al coordinamento per la soluzione di problemi ben identificati, questione che richiedeva e richiede un rinnovamento più profondo. Il modello si è realizzato in una situazione di forte pressione al contenimento della spesa pubblica derivante dall’attuazione delle regole europee sulla sostenibilità delle finanze pubbliche, che si è manifestato concretamente in Italia attraverso manovre di stanza restrittiva sul bilancio nazionale e nella previsione di severi vincoli di spesa e/o di saldo finanziario per gli enti decentrati (il cosiddetto Patto di stabilità interno). Gli effetti cumulati di questi interventi, nella difficoltà di restringere oltre un certo limite la spesa corrente e in presenza di una forte spesa per interessi sul debito, hanno da un lato compresso soprattutto la spesa in conto capitale e quindi la spesa per investimento strategico, generando tensioni ricorrenti in tema di allocazione delle risorse e dall’altro non hanno favorito il necessario rinnovamento dell’amministrazione ordinaria che non poteva essere affrontato solo con riorganizzazioni a parità o addirittura con progressiva sottrazione delle risorse umane e strumentali esistenti.

La carenza di competenze tecniche

Un punto fondamentale, peraltro poco analizzato nel dibattito accademico, ma assai presente nella discussione operativa, è il tema delle competenze.

Le politiche di sviluppo o per lo sviluppo hanno bisogno di molte competenze cognitive e tecniche, diversificate e sofisticate. La questione riguarda tutti i livelli di responsabilità, sia centrali sia territorali. Le politiche di sviluppo sono complesse (o difficili, come le si è definite in precedenza) e lo sono da vari punti di vista: strategico, perché lo sviluppo non è inducibile con facilità ed è necessario dotarsi di una teoria per l’azione e di capacità di perfezionare la teoria alla prova dei fatti, dei dati e della esperienza diretta; operativo, perché richiedono abilità organizzative per poter montare le macchine di risorse umane necessarie; tecnico e giuridico specialistico di settore operativo, per poter tradurre la strategia in azioni concrete, progetti e procedure; comunicativo, per poter spiegare quello che si vuole fare e interloquire con le rappresentanze degli interessi che dal cambiamento si gioverebbero; tecnico-politico, per interloquire o sostenere i percorsi cognitivi e di dibattito delle rappresentanze democratiche.

Questa caratteristica del primato delle competenze era stata propria della prima Cassa che sopperiva in parte alle carenze storiche di molti enti locali. «La struttura organizzativa era estremamente agile costituita in maggioranza da tecnici tra i quali molti altamente qualificati – agronomi e soprattutto ingegneri – nel settore delle bonifiche e delle opere idrauliche; questi tecnici avevano retribuzioni elevate, proporzionate del resto alle loro capacità. Ci si può domandare [...] perché una istituzione essenzialmente finanziaria alla quale la legge istitutiva assegnava il compito di trasferire fondi sulla base di concessioni amministrative per i progetti presentati dai cosiddetti Enti Concessionari (Comuni, Province, Enti di Bonifica) avesse bisogno di tanti tecnici. In effetti quasi sempre il livello di competenza degli Enti Concessionari era bassissimo anche per assoluta mancanza di esperienza. Perciò la “Cassa” oltre che al finanziamento dei progetti doveva poi per la loro redazione ed esecuzione fornire una intensissima opera di assistenza tecnica da parte dei suoi funzionari» (S. Petriccione, La cassa per il Mezzogiorno come io la vidi, «L’Acropoli», 2011, 4, p. 308).

Una paragonabile mobilitazione di competenze tecniche non si è invece prodotta con uguale intensità nel modello successivo all’intervento straordinario e in cui tutt’ora si opera. Le competenze non sono ovviamente del tutto assenti e occasionalmente sono anche di livello importante, ma il modello realizzato non è particolarmente pieno di saperi cognitivi e tecnici. L’esigenza assoluta e la pluralità di questi sono certamente aumentati nel tempo, perché il sistema in cui si interviene è più complesso, assai di più di quello degli anni Cinquanta del secolo scorso. È un sistema che richiede teorie interpretative più complesse; più affollato di prerogative ordinamentali e di poteri interdettivi; è un sistema più costruito sul terreno con assai minori spazi vuoti, il che complica programmazione e progettazione; è un sistema con più storia e più nodi da sciogliere o da tagliare; è un sistema più regolamentato e con più requisiti di legittimità da rispettare per procedere. Muoversi in questo mondo e con finalità strategiche richiede molti saperi, teorici e pratici. La prova della loro scarsità, di là di errori strategici che possono sempre prodursi, è soprattutto che il modello opera in modo lentissimo.

Opera lentamente innanzitutto nella realizzazione delle opere infrastrutturali (che pure sono mediamente più lente che altrove in tutto il Paese). Nelle analisi compiute dall’Unità di verifica degli investimenti pubblici (UVER) del DPS in relazione ai tempi di progettazione, realizzazione e messa in esercizio delle opere si evidenziano tempi più lunghi nelle regioni del Centro-Sud: «L’analisi territoriale, condotta al fine di isolare le performance regionali dagli altri fattori condizionanti la durata di esecuzione delle opere, evidenzia una significativa differenza tra le prestazioni delle regioni settentrionali e quelle delle regioni centrali e meridionali» (DPS, Rapporto annuale 2011 sugli interventi nelle aree sottoutilizzate, p. 251). Carenze specifiche si sono rivelate nel tempo soprattutto sulla qualità della progettazione, causa principale ancorché non unica della lentezza con cui procedono gli investimenti finanziati: «Vi sono evidenze che segnalano che la qualità della progettazione nel Mezzogiorno risulta sistematicamente inferiore a quella del Centro-Nord con frequente necessità di aggiustamenti. In particolare in tema di compatibilità con i requisiti della normativa ambientale» (Ministero dell’Economia e delle Finanze 2005, p. 56).

Ma tempi assai dilatati si registrano anche su moltissimi altri aspetti che vanno dalla predisposizione degli strumenti di pianificazione di settore alla prontezza con cui si risponde all’interlocuzione inter-amministrativa o si procede alla valutazione delle proposte progettuali per i bandi o anche, semplicemente, all’assorbimento nella legislazione regionale di norme di principio. Si è riscontrata, inoltre, anche una maggiore lentezza o scarsa attenzione con cui il medesimo ente nazionale opera qualora l’istruttoria riguardi il Mezzogiorno. «In alcuni ambiti, anche per la progettazione a titolarità di grandi enti [nazionali] (soprattutto per i trasporti) appare esservi anche una minore quantità di progettazione, probabilmente ascrivibile a una percezione di non urgenza degli interventi su reti non considerate profittevoli» (p. 57).

L’intuizione che gli interventi per lo sviluppo necessitassero di ampie competenze cognitive e tecniche è sempre rimasta elevata, ma anche per le crescenti difficoltà di poter reclutare nuove energie nelle amministrazioni ordinarie per via delle restrizioni di bilancio non si è realizzata adeguatamente. Né ha giovato, in una fase così restrittiva di bilancio, l’ampio decentramento avvenuto e il concentrarsi sul modello della programmazione comunitaria. Ciò sia per gli effetti di dispersione, prevalenti su quelli di conoscenza, in amministrazioni multiple che però non potevano disporre appieno di risorse stabili per irrobustire la loro azione sia per la richiesta e la pressione che il modello di programmazione comunitaria impone sulla gestione finanziaria di programmi multisettoriali vasti (ma piuttosto generici) che ha finito per lasciare assai meno energie alla progettazione e attuazione di dettaglio delle iniziative finanziate sul terreno.

La questione è ed è stata comunque sempre molto chiara e presente alle amministrazioni coinvolte che non hanno mai celato nelle sedi partenariali di discussione le proprie difficoltà a operare. Il tema diventerà poi dirompente quando la Commissione europea predisporrà per il Consiglio – che ne sancirà l’approvazione nel luglio 2012 – una specifica raccomandazione nell’ambito della gestione dei fondi strutturali nel Sud, interessati da una straordinaria operazione di riprogrammazione dei fondi 2007-13 destinati alle più grandi regioni del Sud, dovuta all’esiguità di utilizzo delle risorse disponibili. «il Consiglio dell’Unione Europea […] raccomanda che l’Italia adotti provvedimenti nel periodo 2012-13 al fine di: [ …] perseguire un miglioramento duraturo dell’efficienza e della qualità della spesa pubblica mediante la prevista spending review e l’attuazione del Piano di Azione Coesione del 2011 per migliorare l’assorbimento e la gestione dei fondi dell’UE, in particolare nell’Italia meridionale» (Raccomandazione del Consiglio del 10 luglio 2012 sul programma nazionale di riforma 2012 dell’Italia e che formula un parere del Consiglio sul programma di stabilità dell’Italia 2012-15).

Un elemento, invece, poco apertamente discusso (ma molto chiaro agli addetti ai lavori) è che in questo modello in cui le strutture di programmazione e attuazione sono state mediamente deboli, hanno contato moltissimo le identità delle responsabilità apicali. Nell’amministrazione ordinaria, organizzata in strutture gerarchiche e poco permeabile all’innovazione dal basso che ha scarsissime probabilità di scalare la gerarchia o determinare le decisioni anche se meritevole, la dirigenza formale ha un ruolo molto pervasivo. Momenti più positivi, così come improvvise interruzioni di processi che sembravano ben avviati, ovvero componenti del sistema che non hanno mai decollato, sono da riferire per una quota importante alle singole individualità che hanno avuto responsabilità di direzione (al centro così come nelle regioni). Le modalità con cui queste sono state individuate, mantenute o sostituite hanno molto segnato la capacità del modello di funzionare. La modesta tradizione meritocratica e l’accresciuta pratica di ridefinizione delle attribuzioni apicali ai cambi di governo centrale e regionale in un clima politico molto contrastato hanno molto influenzato, e spesso non con effetti positivi, le modalità di selezione delle responsabilità.

Il ruolo del centro, delle regioni, dei soggetti locali e del partenariato sociale

Come si è detto, l’impostazione dell’intervento realizzata dalla fase in cui si è ripresa una politica di sviluppo per il Mezzogiorno è stata basata sul paradigma delle politiche di coesione europee che prevedono una programmazione per cicli di intervento medio-lunghi, collegati alla tempistica e alla sequenza necessaria di azioni per un intervento strutturale con effetti di lungo termine e, pertanto, da realizzarsi all’interno di un disegno: di medio periodo stabile e coordinato negli strumenti; credibile nel rapporto tra mezzi messi in campo e fini perseguiti; compreso e condiviso nelle sue finalità, struttura e aggiustamento dai soggetti che ne sono i destinatari ultimi; ragionevolmente certo nella dimensione finanziaria (e di conseguenti azioni da realizzare) di modo che le amministrazioni attuatrici possano organizzarsi e strutturarsi per portarlo a compimento.

In questo paradigma si è irrobustita nel tempo l’idea (peraltro mutuata o comunque cresciuta insieme con altre esperienze e teorie sulle politiche di sviluppo a livello globale) che sia indispensabile, per aspirare a ottenere risultati, coniugare tecnica con democrazia, visione allargata con conoscenza locale, metodo generale con applicazione pragmatica e assimilazione delle pratiche in modo diffuso, democrazia rappresentativa con democrazia partecipativa e mobilitazione allargata.

Le politiche di coesione devono pertanto essere attuate con un metodo di gestione collaborativa tra vari livelli di governo e di ascolto costante delle istanze dei destinatari. Questa gestione collaborativa è necessaria perché, se queste politiche si contraddistinguono metodologicamente per una particolare attenzione ai territori in cui s’innestano, richiedono sia conoscenza e contatto con le concrete realtà territoriali (che solo i livelli di governo più vicini al territorio possiedono e possono praticare), sia guida e promozione di innovazione (che spesso richiedono un intervento o uno stimolo più esterni, tipici delle responsabilità di governo più ampie).

In questo modello, inoltre, per nessun livello di governo è ipotizzata una conoscenza assoluta di cosa sia meglio fare. L’elemento che rimane forse il più rivoluzionario del modello comunitario di intervento per lo sviluppo è il principio del partenariato. L’individuazione dei bisogni, degli obiettivi più rilevanti e l’attuazione degli interventi in contesti caratterizzati da difficoltà necessitano della collaborazione e della condivisione delle conoscenze non solo tra molti soggetti istituzionali, ma anche di società civile. Le regole dei fondi strutturali chiedono pertanto che sia dato ascolto e ruolo a una compagine vasta di attori.

I tempi dell’intervento per lo sviluppo, inoltre, travalicano di norma legislature e consiliature democraticamente elette. È necessario, quindi, proteggersi da repentini mutamenti di indirizzo politico, cioè è necessario proteggere un programma di sviluppo di tempi attuativi medio-lunghi dalle ‘crasi’ improvvise di orientamento politico che sovente è più alla ricerca di un consenso di breve termine che propenso ad accollarsi la fatica di interventi a effetti a più lunga distanza. Il modello comunitario, quindi, nella consapevolezza che la durata di un ciclo programmatorio non è coincidente con quella del ciclo politico medio adotta nella definizione del disegno e delle sue regole di attuazione un modello partecipativo in cui il ruolo della rappresentanza politica è assai rilevante, ma non è l’unico. Tale modello partecipativo costruisce il disegno in modo da tenere conto delle intenzioni, punti di vista, capacità e delle assunzioni di responsabilità delle collettività che dovranno beneficiare dell’attuazione del disegno stesso. Ciò ha la funzione, almeno in teoria, di rendere il programma definito relativamente più robusto al ciclo politico.

Si tratta di un modello teorico evolutissimo che implica da un lato adesione e fiducia reciproca tra i diversi livelli di governo e dall’altro capacità di tutti i livelli di governo di mettersi in una condizione di ascolto delle rappresentanze degli interessi che l’intervento va a toccare. Le potenzialità di questo modello sono evidentemente notevoli e per questo motivo l’Unione Europea lo persegue con determinazione, ma lo sforzo di costruzione di capacità di esercitare il proprio ruolo, l’equilibrio e la collaborazione richiesti a tutti i titolari di responsabilità perché i benefici si realizzino sono anch’essi molto elevati. Tale sforzo, equilibrio e collaborazione sono richiesti non solo per addivenire a una impostazione strategica solida e teoricamente promettente, ma anche per trovare le migliori soluzioni tecniche che rendano realistica l’attuazione e che consentano, se necessario, di correggere o adeguare l’azione senza ritardi eccessivi. Se questa collaborazione si realizza effettivamente, la gestione diretta dell’intervento non è così rilevante e perde in parte di significato l’antica disputa se sia meglio un intervento più centralizzato o più devoluto. La responsabilità strategica è collettiva e la responsabilità attuativa deve essere attribuita in base a quello che si decide di fare e alla capacità di farlo al meglio.

fig. 7

La pratica, però, non può che solo aspirare ai modelli teorici e solo molto alla lunga li realizza completamente. Nell’insieme, la nuova impostazione di policy che comunque si era dotata di una strategia generale assai diretta dal centro richiedeva, nell’attuazione, un maggior coinvolgimento rispetto al passato di amministrazioni più legate al territorio. Il passaggio al QCS 2000-06 che mira a una responsabilizzazione della classe dirigente territoriale si concretizza essenzialmente nel nuovo ruolo attribuito alle regioni nella definizione e attuazione delle strategie operative. Oltre il 70% delle risorse è attribuito ai programmi operativi regionali (rispetto a meno del 50% del precedente ciclo 1994-99, fig. 7).

Il maggior ruolo attribuito alle regioni è da collegare, sia con l’assunto, proprio dell’impostazione del QCS, che le istituzioni decentrate fossero meglio in grado di quelle centrali (che non grande prova avevano dato nella fase conclusiva, e immediatamente successiva, dell’intervento straordinario) di dirigere i processi di sviluppo che riguardano i loro territori, sia con il processo di decentramento e di aumento della responsabilità politica diretta dei presidenti delle regioni che si andava avviando nella fase di formulazione del QCS.

Con poche modifiche, questa distribuzione di responsabilità attuative viene riproposta anche nel QSN 2007-13 per quanto riguarda la componente dei fondi strutturali. Del resto all’epoca della impostazione del QSN, l’intervento del QCS aveva solo pochi anni di storia attuativa che segnalavano non particolarmente diverse le capacità di intervento operativo del livello regionale e centrale.

fig. 8

Peraltro, nel medesimo periodo di attuazione del QCS, un atteggiamento assai più conservativo era stato mantenuto in quanto a responsabilità dell’attuazione di programmi e progetti sulle risorse nazionali aggiuntive dedicate allo sviluppo, rimaste in parte abbondante nella disponibilità di amministrazioni centrali, soprattutto per programmi di incentivazione alle imprese. Considerando il complesso delle risorse assegnate per gli interventi di sviluppo speciale nel Mezzogiorno tra 2000 e 2006 (pari a circa 105 miliardi di euro a dati correnti tra fondi strutturali, cofinanziamento nazionale ai fondi e risorse nazionali per lo sviluppo del fondo aree depresse prima e aree sottoutilizzate poi) le responsabilità di amministrazioni centrali e regioni appaiono sostanzialmente paritetiche (fig. 8).

Assai più contenuto di quanto, invece, solitamente si creda è stato il ruolo dei soggetti locali che hanno avuto responsabilità, a vario titolo, per progetti ideati e gestiti a livello locale per entità finanziarie modeste (tra il 10 e il 12% delle risorse assegnate dal 2000 al 2006, fig. 8). Non è pertanto fondata la convinzione – implicita in molte discussioni sulle caratteristiche, risultati e difficoltà delle politiche di sviluppo territoriale rilanciate alla fine degli anni Novanta – che agli strumenti di sviluppo locale in senso stretto e quindi alle politiche definite effettivamente dal basso (bottom up) sia stata assegnata una quota prevalente delle risorse finanziarie disponibili per le politiche di sviluppo (Bianchi, Casavola 2008).

Nell’impianto originario di programmazione unitaria di tutte le risorse aggiuntive del QSN 2007-13 – che sarà poi assai modificato in sede di attuazione per il venir meno, a seguito di decisioni del Governo centrale, di larga parte delle risorse finanziarie inizialmente previste – permane un ruolo equilibrato di responsabilità attuativa tra amministrazioni centrali e regioni, nell’assunto che per il Mezzogiorno debba prodursi ancora a lungo una sinergia tra sguardo interno e sguardo nazionale.

Figura 9 Evoluzione

Le vicende dalla metà del 2008, a un nuovo cambio di legislatura, segnano innanzitutto il venire meno del centro come soggetto interessato alla costruzione strategica per il Mezzogiorno. Le risorse per gli interventi speciali nell’area saranno progressivamente ridotte e saranno eliminati, prima ancora di formularsi e avviarsi, molti programmi a titolarità centrale previsti per il Mezzogiorno. Ciò avviene certamente anche a seguito delle necessità di contenimento della spesa pubblica diventate complessivamente più urgenti, ma che saranno inizialmente affrontate soprattutto riducendo le ipotesi programmatiche di investimento pubblico nazionale e in particolare i fondi per lo sviluppo del Mezzogiorno. Le riduzioni drastiche delle manovre di finanza pubblica di quegli anni colpiranno ugualmente fondi generali destinati a tutto il Paese e su destinazioni essenziali quali le politiche sociali, la salute e la scuola, ma nel caso del Mezzogiorno segneranno anche un solco profondo tra centro e responsabilità territoriali che comunque ancora non avevano raggiunto la fiducia reciproca e i canali privilegiati di colloquio permanente che il modello teorico di ispirazione comunitaria aveva postulato. In questo contesto anche le pratiche di ascolto partenariale che ancora non si erano del tutto consolidate in modo diffuso, si ridurranno gradualmente e nella maggior parte dei casi finiranno per divenire solo un momento formale. In non poche occasioni ai cambi di responsabilità politica avverranno fasi di ripensamento radicale dei programmi impostati, problema che toccherà lo stesso impianto generale proposto nel QSN. L’apprendimento dei diversi soggetti al modello collaborativo e di ascolto reciproco si interrompe.

Le promesse mancate e le prospettive

Con gradi diversi, la storia dell’attuazione delle politiche speciali per il Mezzogiorno dalla fine degli anni Novanta è caratterizzata dalla difficoltà a mantenere le promesse da parte di tutti i soggetti coinvolti.

Questo è riscontrabile, innanzitutto, nelle assai mutevoli ipotesi programmatiche per la spesa pubblica in conto capitale complessiva (fig. 9). Nelle previsioni del primo Quadro finanziario unico (QFU) del 1999, essa doveva realizzarsi nel Mezzogiorno come crescente lungo tutto il periodo di attuazione del QCS, poiché – sebbene la strategia impostata postulasse arditamente un rapido innesco di processi di crescita endogena – ampia era la consapevolezza che molto era da recuperare anche sul lato della modernità e adeguatezza del capitale pubblico disponibile. Considerando le realizzazioni effettive a solo tre anni di distanza, nel 2002, il QFU – che è anche uno strumento di monitoraggio – segnalava che la spesa era stata assai inferiore alle ipotesi programmatiche, posponendo però solo in avanti nel tempo il suo recupero. In occasione delle definizione del QSN nel 2007, un nuovo QFU sanciva definitivamente che per l’intero periodo del ciclo precedente la spesa aveva mancato le sue promesse di incremento, ma con l’avvio di un nuovo ciclo di programmazione ipotizzava ancora una volta una ripresa di medio periodo. Considerando il QFU del 2012, appare invece evidente che le complesse vicende del quadro di politica economica generale hanno implicitamente eliminato ogni ambizione dal lato delle quantità addizionali di spesa in conto capitale nel Mezogiorno, che non si ipotizza più in crescita significativa fino al termine del ciclo.

Figura 10 Spesa in conto capitale

Osservando anche la spesa storica in conto capitale pro capite realizzata dall’intero Settore pubblico allargato (SPA, che considera anche le società e gli enti collegati alla PA) nelle due macroaree del Centro-Nord e del Mezzogiorno si evidenzia che la direzione della spesa non ha favorito una ripresa privilegiata dell’accumulazione nel Mezzogiorno come nelle intenzioni iniziali, poiché la spesa pro capite è stata più elevata nel Centro-Nord (fig. 10).

I dati chiariscono anche che non si può propriamente parlare di uno sforzo aggiuntivo delle politiche speciali nel periodo. Dopo una prima crescita fino al 2001, la spesa in conto capitale pro capite nel Mezzogiorno si riduce progressivamente fino a valori che arrivano a essere inferiori nel 2010 a quelli di inizio della serie omogenea nel 1996, anno in cui la spesa per il Sud aveva già raggiunto un punto di minimo rispetto ai decenni precedenti.

fig. 11

Soprattutto, osservando più in dettaglio le medesime fonti si nota che la maggiore promessa mancata riguarda lo sforzo sulle ‘politiche di contesto’, cioè sullo spostamento progressivo di impegno sul lato dell’investimento pubblico, così come era ipotizzato nelle intenzioni originarie di riequilibrio della composizione dell’intervento a favore del miglioramento e dell’ampliamento di beni pubblici. Mentre nel tempo i trasferimenti alle imprese private si sono ridotti, non si è prodotto un commensurabile incremento degli investimenti (fig. 11).

Dietro questi andamenti più aggregati vi è certamente sia la caduta di attenzione per il Sud da parte dell’attore centrale sia anche il peggioramento del quadro complessivo delle disponibilità finanziarie che ha ridotto gli investimenti in tutto il Paese. Nell’intero periodo, però, gli investimenti pubblici più rilevanti come per es. quelli per le grandi strutture di rilievo nazionale e destinati al potenziamento della rete ferroviaria e all’alta velocità non hanno interessato che assai marginalmente il Mezzogiorno.

Tuttavia va anche riconosciuto che l’investimento pubblico nel Mezzogiorno è cresciuto meno delle disponibilità finanziarie disponibili (non scarsamente significative fino almeno alla metà degli anni Duemila) anche per la notevole lentezza con cui operano nell’area le amministrazioni e di cui si è detto. Le mancate promesse sono pertanto una questione composita che non può essere attribuita solo alla scarsa coerenza e determinazione dei soggetti centrali.

Non è però improbabile, ancorché certamente non dimostrabile, che se le strategie fossero state più sostenute nel merito dalla politica nazionale si sarebbero potute produrre dinamiche migliori dal punto di vista dei risultati reali. I meri dati in quantità di spesa aggregata non danno infatti ragione né dei non pochi casi d’area in cui, anche in un periodo non brillante nell’aggregato, si sono registrati avanzamenti e addirittura successi ancorché circoscritti, né delle marcate differenze nella costanza di attuazione anche delle politiche speciali da parte sia di soggetti nazionali sia regionali sia locali.

fig. 12

Alcuni progressi, per es. sugli indicatori degli obiettivi di servizio del QSN 2007-13, rispetto ai dati di base del periodo 2004-06, non sono di poco conto per l’area del suo complesso (fig. 12), ma soprattutto celano andamenti assai differenziati nelle singole realtà regionali e subregionali dove alcuni soggetti hanno guidato salti di miglioramento decisamente importanti (DPS, Rapporto annuale 2011 sugli interventi nelle aree sottoutilizzate).

È tuttavia certamente mancata negli attori regionali di maggior livello la capacità di impostare un’azione collettiva comune più decisa. Di fronte alle incertezze prima e all’arretramento poi della politica nazionale, le regioni del Mezzogiorno non sono riuscite ad avanzare con forza una propria comune strategia d’area pur non mancandogliene le prerogative.

Va però anche riconosciuto sia che il modello regionale è ancora relativamente giovane sulla scala temporale lunga in cui queste dinamiche si misurano, sia che il quadro ordinamentale costruito contiene in sé incentivi a chiudersi nelle realtà regionali singole.

Il dibattito di questi anni ha chiarito che le politiche speciali non potrebbero comunque da sole, anche se assai meglio funzionanti, modificare le cose perché di dimensione troppo modesta. Continuano, però, a offrire un quadro metodologico molto evoluto sia per impostare strategie più d’attacco sia per organizzare meglio l’agire collettivo e collaborativo di cui l’azione per lo sviluppo, se si persegue, non può fare a meno. Il modello di riferimento delle politiche speciali che vede la necessaria compresenza di protagonisti diversi ciascuno dotato di un ruolo essenziale da svolgere, anche se complicato e ancora in attesa di trovare un suo equilibrio bilanciato tra i molti attori, può offrire ancora molto per costruire un intervento più efficace. Ma non sono le risorse speciali (che pure servono moltissimo) la via maestra, che rimane quella di essere in grado di costruire un racconto credibile per il futuro di cui si vuole essere protagonisti non solitari.

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Si vedano inoltre i Rapporti annuali del Dipartimento per lo sviluppo e la coesione (vari anni).

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