Le riviste

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Francesco Stella
SCE:13 Cover ebook Storia della civilta-72.jpg

Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Strumenti prediletti tanto dai raffinati autori del modernismo quanto dalle avanguardie più iconoclaste e poi impiegate come mezzi utili sia alla lotta politica sia all’industria culturale, le riviste vivono nel Novecento una stagione di straordinaria fortuna, al punto da essere indicate da critici autorevoli come un genere letterario autonomo e multiforme.

Riviste grosse e riviste sottili

È difficile dire se la straordinaria fortuna delle riviste nel Novecento – una fortuna che non trova eguali nelle epoche precedenti – sia da accreditare alla natura spontaneamente ibrida, flessibile e provvisoria di questo particolare spazio letterario oppure al sorgere di un nuovo gusto, di un nuovo pubblico e di un diverso spirito comunicativo fra letterati e intellettuali. Neppure il diffondersi dell’industria culturale, con i suoi strumenti produttivi sempre più veloci e raffinati, appare sufficiente a spiegare i motivi di un’avventura tanto lunga e polimorfa, che ha visto le riviste passare con intatto spirito inventivo dalle sfide delle avanguardie all’entertainment cosmopolita del villaggio postmoderno, dalle battaglie etico-politiche promosse da piccoli gruppi di letterati dispersi nella clandestinità delle province, alla tradizione internazionale delle pubblicazioni accademiche e militanti.

Certo, l’Ottocento aveva già visto nascere riviste di ogni genere, dagli organi istituzionali ai piccoli fogli impegnati, dai periodici divulgativi ai giornali d’attualità culturale, magari arricchiti di cronache mondane e feuilleton. Alcuni autori di indole metropolitana, come il vittoriano Charles Dickens, che ha esordito a Londra come reporter politico, avevano addirittura immaginato una nuova forma di prosa, il super-romanzo, consistente in tanti romanzi intrecciati e paralleli da pubblicare in diverse annate sotto forma di rivista. Ma la storia ottocentesca racconta soprattutto di un crescente successo della rivista come occasione di lettura popolare, oppure di alcuni progetti grandiosi elaborati da personaggi particolarmente acuti e innovatori, come Carlo Cattaneo con la sua idea di “un’applicazione del sapere umano agli usi della più culta convivenza”, subito tradotta in pratica nei fascicoli mensili del “Il Politecnico” (1839-1844; 1859-1868). Ad affascinare il Novecento, invece, sono qualità legate molto più profondamente al modello strutturale della rivista, delle virtù peculiari insite nel mezzo come l’apertura spontanea alla mescolanza di generi e stili, la garanzia di un intervento tempestivo sulla realtà e sulle opinioni correnti o ancora la possibilità di usufruire di un oggetto editoriale capace di trasformarsi radicalmente a ogni nuova uscita pur mantenendo una sua identità forte e riconoscibile, e capace addirittura di entrare in contatto simultaneamente con diversi livelli di pubblico, fra masscult, midcult e cultura d’élite.

La tipologia dello scrittore da rivista, dunque, è un patrimonio del Novecento. Il tipo perfetto corrisponde all’intellettuale-umanista, in seguito affiancato dall’intellettuale-scientifico, capace di dividersi fra critica e scrittura creativa, fra saggistica e dilettantismo, fra esperienze private e passioni civili. Ma la storia concreta delle diverse esperienze redazionali appare tanto magmatica ed eclettica che perfino la mente più lucida e intuitiva del formalismo russo, quella di Victor Šklovskij, al momento di definire “la rivista come forma letteraria” esita, rifugiandosi di fatto in una classificazione straniante. A parere di Šklovskij le riviste moderne si possono distinguere esclusivamente in due tipologie: le “riviste grosse” e le “riviste sottili”, alle quali si aggiunge, come un caso anomalo, il tipo della “rivista-diario”, che sembra rispondere a un nuovo bisogno manifestato da alcuni scrittori, quello di scrivere una rivista interamente da soli, al modo di un monologo poliedrico suddiviso in innumerevoli variazioni di tono e di temi. Tale criterio empirico e apparentemente grossolano, che sembra abbassare la rivista al rango di un qualsiasi contenitore materiale, giudicabile in base alla sua capienza e alla sua organizzazione interna, è in realtà un paradosso ricco di conseguenze analitiche, utile al critico russo per suggerire anzitutto alcune distinzioni storiche e funzionali. Le riviste grosse, precisa Šklovskij, sono quelle che prendono a modello le enciclopedie, quelle che tendono a sostituirsi alle biblioteche incaricandosi di divulgare materiali eterogenei per migliorare gli scambi fra i centri culturali e le loro periferie. Le riviste sottili, invece, più gradite al gusto novecentesco, sono quelle che non si reggono solo sull’interesse suscitato dalla singole parti, ma sull’interesse suscitato dal nesso fra le parti, proponendosi ai lettori come opere coerenti e organiche, da leggere in quanto tali.

La succinta fenomenologia di Šklovskij potrebbe naturalmente essere corretta e integrata secondo molte prospettive ma conserva il merito di indirizzare l’analisi su alcuni fattori concreti che identificano la rivista come progetto. Non a caso, anche secondo Edmund Wilson, il decano dei critici-recensori angloamericani e, come tale, portavoce di una tradizione che vuole anche per il lavoro culturale una professionalità assoluta, una rivista non è altro che un sistema organico di rapporti, un vero e proprio organismo mantenuto in vita dal rapporto di scambio che si crea fra la redazione e i suoi lettori. Prima ancora che dai contenuti o dai collaboratori illustri, una rivista è identificata per l’influsso di due fattori sostanziali. Il primo è il tempo ciclico delle pubblicazioni, che impone un lavoro costante di selezione e ricerca dei materiali da pubblicare, pena la rottura del rapporto con il pubblico. Il secondo è il ruolo svolto da quella sorta di autore sovraindividuale che è la redazione, funzionante come una microsocietà intersoggettiva e gerarchica ma responsabile unitaria e diretta del taglio e delle linee editoriali di ogni numero. Se ci si pensa bene queste due trasparenti caratteristiche tecniche risultano del tutto anomale rispetto al normale scorrimento dei processi creativi. Una volta entrata in contatto con la logica delle riviste, l’esperienza libera e solitaria della scrittura è chiamata a misurarsi da una parte con un ritmo di lavoro estraneo, regolato da esigenze esterne, dall’altra con le esigenze editoriali del gruppo redazionale, che essendo un vero e proprio spazio pubblico produce sempre una serie di discussioni e giudizi. Proprio da questa interferenza deriva la forza propulsiva delle riviste, la loro capacità di offrirsi come uno spazio di prova e di sperimentazione, come luoghi di passaggio, di confronto e di conflitto. È grazie a questa funzione insieme impersonale e aggregativa che le riviste hanno contribuito più di altri strumenti a modificare ciò che sta intorno al singolo fatto letterario, a creare un contesto favorevole per l’attesa del nuovo, prendendo così parte attiva alla “lotta per una nuova cultura”, come piace dire, fra etica ed estetica, ad Antonio Gramsci in Letteratura e vita nazionale.

Fra modernismo e avanguardia

Per avere un’idea concreta della funzione attiva delle riviste, intese come spazio e come ambiente letterario, basterebbe pensare al ruolo da esse svolto nella storia compositiva ed editoriale di uno dei capolavori che a inizio secolo sconvolgono la tradizione del romanzo europeo, l’Ulisse (Ulysses, 1922) di James Joyce. Le riviste inglesi e francesi non solo permettono all’inquieto maestro irlandese di presentare alla comunità internazionale i primi risultati del suo lavoro, ma si comportano anche come voci in grado di influenzare, se non la nascita di un testo, certamente la sua vita e la sua identità socio-culturale. Sebbene, infatti, Joyce cominci a lavorare seriamente al romanzo fin dal 1914, la stesura segue un ritmo molto irregolare fino al 1918, quando Margaret Anderson e Jean Heap accettano di pubblicarlo a puntate sulla “Little Review”, un periodico assai diffuso in Inghilterra e in America. Da quel momento Joyce comincia a lavorare sul testo con intensa assiduità, impegnandosi per completare ogni episodio in tempo per l’uscita dei numeri della rivista. Egli si sforza di mantenere la cadenza regolare delle pubblicazioni perché nutre la speranza che l’interesse suscitato dalla comparsa periodica porti a un’edizione inglese del romanzo. Per certi versi accade di meglio, perché dopo la pubblicazione di quattro numeri la “Little Review” viene sequestrata e denunciata per diffusione del vizio, scatenando così un intenso botta e risposta di critiche e recensioni sulle principali riviste dell’epoca, da “The Dial” alla “English Review” di Ford Madox Ford, il che permette all’intraprendente editrice Sylvia Beach, attiva a Parigi, di cavalcare lo scandalo, trasgredendo i divieti e montando una vera e propria campagna stampa al fine di favorire la pubblicazione di Ulysses, avvenuta nel febbraio del 1922 per la casa editrice parigina Shakespeare and Company. In seguito, mentre la Beach continua a istigare i critici più ascoltati come lo stesso Madox Ford passato alla “Transatlantic Review”, il caso attira l’attenzione di alcune delle principali riviste francesi, arbitre del gusto letterario europeo fin dall’Ottocento. Prima la quasi centenaria “Revue des Deux Mondes”, seguita dal “Mercure de France”, la rivista fondata nel 1889 e frequentata prima da Jules Renard e Alfred Jarry, e poi fra gli altri da Proust, Apollinaire e Léautaud, che pubblica un articolo di Ezra Pound su Joyce e Flaubert, finché, nell’aprile del 1922, un esauriente saggio sugli enigmi di Ulysses pubblicato dallo scrittore francese Valery Larbaud sulla principale rivista letteraria francese del secolo, la “Nouvelle Revue Française”, dà una sostanziale conferma dell’importanza di Joyce nelle lettere contemporanee, aprendo la strada a numerose ristampe parigine del romanzo.

La “Nouvelle Revue Française”, fondata nel 1909, si impone subito come il più autorevole e innovativo punto di riferimento nella cultura critica europea, dando un contributo decisivo al superamento del gusto simbolista e all’affermarsi del nuovo movimento moderno. Mentre la scena parigina è dominata dall’impeto tribunalizio delle riviste reazionarie di Charles Maurras, Léon Daudet e altri, come l’“Action française” o la “Revue universelle”, l’esordio della “Nouvelle Revue Française” introduce un diverso modo di discorso, molto più ampio e culturalmente articolato. I fondatori sono intellettuali del calibro di André Gide, Jacques Coupeau e soprattutto Jacques Rivière , animatore principale della rivista di cui è direttore unico fino alla sua prematura scomparsa. Ai fondatori si aggiunge ben presto una generazione di critici straordinari, da Albert Thibaudet a Charles Du Bos, da Ramon Fernandez ad André Suares, nei quali l’interesse per la letteratura e in particolare per la critica e il romanzo prende spontaneamente un’inclinazione filosofica, fra Freud e Bergson, così come l’indagine concreta del testo si apre ai nuovi metodi delle scienze sociali, soffermandosi non solo sui valori estetici ma anche sui poteri conoscitivi dell’operazione letteraria. Questa linea redazionale si conferma con spirito inventivo anche nelle successive generazioni di autori e direttori del periodico, a partire dall’epoca drammatica di Drieu La Rochelle e Jean Paulhan fino ad oggi, quando la rivista persiste al modo di un’istituzione, nella forma di un’ampia rassegna internazionale. L’esperienza della “NRF” si presenta insomma come un vero e proprio modello nobile di rivista moderna.

Intorno alla “NRF” e al suo felice connubio con l’editore Gallimard, che impone anche una nuova misura di eleganza editoriale e serialità grafica (logo rosso su carta marroncina), si crea una vera e propria comunità letteraria di respiro europeo. Al modello francese si rifà esplicitamente nel 1923 la “Revista de Occidente”, nata a Madrid intorno al principale saggista e filosofo spagnolo del secolo, José Ortega y Gasset . Pubblicata fino al luglio del 1936, la rivista è l’organo di espressione dei settori più evoluti dell’intellettualità borghese spagnola sulla base di un preciso e chiaro programma formulato nel “Proposito” del primo numero: aprirsi senza diffidenze al contatto con la cultura occidentale e nuova e contribuire al suo sviluppo con una ricerca autonoma. Non a caso negli anni seguenti la rivista si apre all’arte d’avanguardia e in particolare alle proposte delle riviste surrealiste di André Breton, come “Littérature” e “La Révolution surrealiste”.

Più indipendente, ma sempre legata alla “NRF” da un concreto rapporto di scambio culturale, è l’esperienza del “Criterion”, il periodico di poesia e critica culturale voluto dal poeta americano, ma residente a Londra, Thomas Stearns Eliot. “The Criterion” esce nel 1922 e prosegue le pubblicazioni fino all’alba della seconda guerra mondiale, il 1938, quando l’ombra del patto di Monaco fra Hitler e Chamberlain ne provoca la chiusura per motivi sia tecnici (la difficile reperibilità del materiale internazionale), sia morali. Davanti allo spettro della guerra, infatti, la rivista vede fallire il suo progetto più profondo. Come annota Eliot nell’ultimo numero del periodico, “la ‘Mente europea’, che qualcuno aveva erroneamente pensato si potesse rinnovare e fortificare stava scomparendo dalla vista”. La rivista di Eliot, organo principale del modernismo anglosassone, difende risolutamente i valori della tradizione secondo lo stile pragmatico e sapienziale inaugurato nel secolo precedente da Matthew Arnold, ovvero impegnandosi a raccogliere tutte le esperienze più nuove che compaiono sulla scena europea, pubblicando quindi, oltre alle poesie e ai grandi saggi su Dante e sulla civiltà europea scritti dallo stesso Eliot, anche opere di Virginia Woolf, William Butler Yeats, Aldous Huxley e Wyndham Lewis, insieme con traduzioni da Marcel Proust, Paul Valéry, Eugenio Montale; e aprendosi addirittura nelle sue ultime fasi alla nuova corrente di poeti filomarxisti come Wystan Hugh Auden e Stephen Spender, per certi versi inconciliabili con il cosmopolitismo cattolico e tradizionalista del movimento eliotiano. Nell’imminenza della guerra, infatti, la Kulturkritik di Eliot viene soppiantata da una forma di aperta ribellione all’establishment che vede Auden, Spender, Cristopher Isherwood e altri intellettuali (i cosiddetti “trentisti”) promuovere periodici nettamente antifascisti come “New Writing” diretto fra 1935 e 1941 dal bloomsburyano John Lehmann.

Fra le altre tradizioni europee la cultura tedesca appare quella più pronta e capace di sviluppare un dialogo con gli autori protagonisti di queste riviste. Basti pensare ai saggi di Ernst Robert Curtius su Eliot e Joyce, alle riflessioni di Walter Benjamin su Parigi e alla capacità propositiva di alcuni circoli berlinesi come quello raccolto intorno al pensatore Georg Simmel. L’eco di queste esperienze viene raccolta invece con un certo ritardo in Italia, in dialogo diretto con Parigi, dove risiedono i nostri migliori lirici e molti futuristi, ma a lungo attardata, quasi per reazione antiavanguardista, sui modelli neoclassicisti di riviste come “La Ronda” (1919-1922) di Emilio Cecchi e Vincenzo Cardarelli. A riprendere, anche graficamente, il modello della “NRF” è soprattutto “Solaria”, una piccola rivista fondata a Firenze nel 1926 da alcuni intellettuali di vocazione europea come Alberto Carocci, Alessandro Bonsanti, Giansiro Ferrata ed Elio Vittorini che la tengono in vita autofinanziandola fino al 1936. Da “Solaria” si dipartono poi quasi tutte le altre riviste letterarie attive in Italia sotto il fascismo e fino alla seconda guerra mondiale, dalla “Riforma Letteraria” (1936-1939) di Giacomo Noventa a “Letteratura” (1937-1968), e poi le piccole riviste fiorentine dell’ermetismo cattolico, come “Il frontespizio” (1929-1940), “Campo di Marte” (1938-1939), seguite da altri gruppi di poeti e artisti, come i lombardi raccolti a Milano nella redazione di “Corrente di vita giovanile” (1938-1939). Su una linea di discreta apertura alla tradizione del nuovo, nel tentativo di una conciliazione, si pone anche la rivista “Primato” (1940-1943), ancora di formazione fascista, ma diretta con piglio un po’ più democratico da Giuseppe Bottai.

A ben vedere, però, il contributo più originale dato dall’Italia non è certo quello legato al modello illustre della rivista di cultura internazionale. La tradizione italiana può invece contare su un sicuro primato nel campo delle riviste d’avanguardia e su un passato recente fatto di autorevoli pubblicazioni filosofiche e di impegno intellettuale. Il battage promozionale organizzato negli anni Dieci da Filippo Tommaso Marinetti su periodici e quotidiani per diffondere le idee e i manifesti del neonato futurismo segna l’inizio di un periodo di massimo rinnovamento anche nella cultura delle riviste, non da ultimo per le inedite configurazioni del mezzo, sottoposto a un iter di estreme sperimentazioni grafiche e visuali. Nel 1905 Marinetti fonda fra Parigi e Milano la rivista internazionale “Poesia”, che si afferma negli anni successivi soprattutto come casa editrice ufficiale del movimento e che fornisce una specie di modello espressivo a un numero infinito di più o meno grandi gruppi di avanguardisti europei.

La prima rivista in esplicito contatto con il futurismo è la spagnola “Prometeo” di Ramon Gomez de la Serna, che nel 1909 riprende il Primo manifesto marinettiano, prima di chiudere improvvisamente le pubblicazioni nel 1912, lasciando così il campo all’eclettismo effimero dell’avanguardia ultraista che ha il suo periodico nella rivista sivigliana “Grecia” chiusa nel 1920. La rivoluzionaria tipografia futurista trova un’interpretazione molto originale nelle riviste dei cubofuturisti sovietici Chlebnikov e Majakovskij, bollettini come l’“Iskusstvo Kommuny” (1918-1919), ma anche riviste grosse come il “Fronte di sinistra dell’arte”, ovvero la “Lef” (1922), in cui trovano ampio spazio linguaggi tipici della stampa periodica, come le vignette. Più tradizionali invece i periodici russi della lussureggiante stagione postsimbolista, come la rivista “Apollon” degli acmeisti Anna Achmatova e Osip Mandel’štam. Un forte impatto visivo viene ricercato anche dalle riviste d’avanguardia inglesi come “BLAST”, l’organo ufficiale dei vorticisti negli anni Dieci, che ostenta un titolo esplosivo sullo sfondo di una copertina dai colori molto accesi. In Italia, invece, a parte “Poesia”, la rivista più indipendente e propositiva è la fiorentina “Lacerba” di Giovanni Papini e Ardengo Soffici, nata nel 1913 dopo una clamorosa scissione dalla linea di Marinetti, e rimasta attiva fino al 1915. Con “Lacerba”, lo stile avanguardista si riallaccia alla tradizione di impegno civile della più importante rivista intellettuale italiana di inizio secolo “La voce”, diretta da Papini e Giuseppe Prezzolini (e in una seconda fase da Giuseppe De Robertis), che pur contribuendo a diffondere un gusto letterario di matrice lirica ed espressionista, si caratterizza soprattutto come strumento di riflessione politica e di analisi dei processi di modernizzazione sociale, avviando un dialogo conflittuale, fra epigonismo e polemica, con la filosofia idealista di Benedetto Croce. Anche altre figure eroiche della cultura intellettuale italiana come il torinese Piero Gobetti, fondatore e direttore della “Rivoluzione liberale” (1922-1925) e del periodico letterario “Il Baretti” (1924-1928), avviano un confronto profondo con le posizioni di Croce, il quale curando e scrivendo quasi completamente da solo la sua personale rivista napoletana, “La Critica”, rafforza l’egemonia del suo modello estetico esprimendosi sull’etica liberale ininterrottamente dal 1903 al 1944, compilando una sorta di grande diario antimoderno interrotto solo dal compiersi della seconda guerra mondiale.

Dal tempo delle riviste politiche al postmoderno

Nel secondo dopoguerra, una svolta decisa alla storia delle riviste viene ancora una volta dalla Francia dove si è ormai affermato il movimento degli intellettuali esistenzialisti, che vede in prima fila le voci autorevoli di Jean-Paul Sartre, Albert Camus, Maurice Merleau-Ponty. Nel 1945 Sartre fonda con Merleau-Ponty “Les Temps Modernes”, la rivista dell’impegno, in cui trovano espressione le tre esperienze fondamentali della sua vita: quella filosofica, quella letteraria e quella politica. “Les Temps Modernes” (“Tempi moderni”) riunisce in un unico gruppo redazionale i nomi più illustri della classe intellettuale francese (fra cui, oltre ai citati, anche Raymond Aron e Simone de Beauvoir). È sulle pagine di questa rivista che Sartre elabora e mette in pratica il suo concetto di impegno. “Che cos’è scrivere?”, “Perché si scrive?”, “Per chi si scrive?”, queste sono le tre domande di fondo alle quali Sartre cerca di rispondere proponendo la sua idea di “impegno” dello scrittore. Sartre si scaglia contro ogni forma autonoma, ludica e indifferente di scrittura, dichiarandosi in favore di una letteratura utile e schierata in difesa dei diritti dell’uomo.

Il monito di Sartre viene molto discusso e a volte comprensibilmente rifiutato ma si impone a tutti i letterati europei come un termine di confronto imprescindibile.

Restringendo il discorso su questo periodo al caso esemplare dell’Italia, è necessario sottolineare anzitutto il forte elemento di discontinuità introdotto dal crollo dei totalitarismi occidentali. Con la caduta di Mussolini e l’epilogo del conflitto armato la vecchia vita letteraria appare infatti conclusa per sempre. La nuova realtà smentisce i riti culturali del Ventennio spingendo i poeti e i narratori verso un’idea della scrittura come impegno etico e politico, tentando un dialogo attivo con il potere e con l’ideologia. Questo accadde soprattutto nell’esperienza di Elio Vittorini e del suo “Politecnico”, che negli stessi anni di “Temps Modernes”, dal 1945 al 1947, segna l’episodio più generoso e più esemplare, anche nell’insuccesso, della ricerca di una mediazione non passiva fra l’intellettuale scrittore e l’avanguardia. Anche negli anni seguenti, mentre l’industria culturale si diffonde in maniera sempre più spregiudicata e pervasiva, l’universo della letteratura pur battendo le strade di uno sperimentalismo più estremo e per certi versi disperato, non abbandona il modello della scrittura engagée. Negli anni del boom economico, tre riviste militanti molto diverse nell’impianto e nelle motivazioni tentano di riaprire il discorso dell’innovazione espressiva restando al di fuori tanto del formalismo ermetico quanto del suo avversario realistico. Sono la bolognese “Officina” (1955-1959), fondata da Pier Paolo Pasolini e Roberto Roversi, “Il Verri”, attivo a Milano dal 1956 e poi passato a Bologna sotto la direzione del filosofo Luciano Anceschi, che è il principale organo critico del Gruppo 63 (ospitando Sanguineti, Balestrini, Porta, Giuliani, Eco, Spatola e molti altri) e poi “Il Menabò” (1959-1967), fondato da Italo Calvino e dallo stesso Vittorini. Nonostante il loro ruolo di primo piano, queste forme di milizia letteraria non esauriscono certo il catalogo delle pubblicazioni più influenti di questi anni. Sul piano strettamente letterario, per esempio, a Roma si affermano due riviste particolarmente attente alla tradizione della narrativa europea. Sotto la direzione di Giorgio Bassani esce dal 1948 al 1960 la rivista “Botteghe oscure”, il periodico di vocazione più spiccatamente internazionale del secondo dopoguerra, mentre Alberto Carocci e Alberto Moravia cominciano a pubblicare nel 1953 “Nuovi Argomenti”, una delle riviste più longeve del nostro panorama culturale. Esperienze di taglio diverso, maggiormente votate all’interdisciplinarità fra le scienze umane sono “Comunità”, la rivista del movimento sociale di Adriano Olivetti, fondata nel 1946 e particolarmente attenta ai progressi del pensiero architettonico e urbanistico, “Paragone”, periodico di critica d’arte fondato e diretto da Roberto Longhi nel 1950, “il Mulino”, attivo a Bologna a partire dal 1951 e infine la rivista della nuova sinistra extraparlamentare, “Quaderni piacentini” (1952-1980).

Negli anni Sessanta e Settanta, prima l’avvento e poi il tramonto dei modelli di critica antropologica e scientifica elaborati dallo strutturalismo, e poi l’affermarsi del cosiddetto pensiero postmoderno, con il suo spirito ludico, frammentario e aperto alle contaminazioni del mondo globale, portano a due conseguenze distinte. Da una parte si assiste al sorprendente trasferimento dei gruppi d’avanguardia all’interno delle università da cui prendono vita delle vere e proprie riviste accademiche di letteratura militante, rappresentate al massimo livello dalle testate francesi, “Tel quel” (1960-1982) e “Poétique” (1970), entrambe fortemente influenzate dal lavoro interpretativo compiuto da Roland Barthes alla metà degli anni Settanta. Sullo stesso piano, anche se più sensibili alle istanze del postmoderno, si pongono anche i periodici legati alla tradizione anglosassone degli studi culturali e postcoloniali, riviste ancora molto influenti come “Cultural studies” e “Cultural critique”. Da un altro punto di vista, invece, alla fine del Novecento sembra affievolirsi la presenza delle riviste di ricerca creativa che appaiono sempre più ridotte o a fenomeni provinciali o ad appendici editoriali dei nuovi media. Non a caso le poche riviste ancora in grado di affermarsi su scala cosmopolita seguono ormai il modello neutro dell’inventario editoriale, offrendo ai lettori una campionatura di ciò che si scrive nel mondo o attraverso numeri monografici compilati per temi, come fa la rivista di narrativa “Granta Press” stampata contemporaneamente a Londra e New York, o raccogliendo la voce di alcuni esponenti di spicco della geografia del romanzo globale, come fa il “Journal of Commonwelth Litterature” divenuto luogo di testimonianza e di confronto, a volte anche molto polemico, sui diversi destini del romanzo.

TAG

Filippo tommaso marinetti

Nouvelle revue française

Seconda guerra mondiale

Ramon gomez de la serna

Révolution surrealiste