Le strategie di sussistenza nelle societa preagricole

Il Mondo dell'Archeologia (2002)

Le strategie di sussistenza nelle società preagricole

Francesca Giusti
Samou Camara
Lanfredo Castelletti
Egidio Cossa
Antonio Tagliacozzo
Francesca Balossi Restelli
Massimo Vidale
Susan G. Keates
Ian Glover
Patrick Plumet
Duccio Bonavia
François Rodriguez Loubet
Anna C. Roosevelt
Dominique Legoupil
Gaetano Cofini

Dai primi comportamenti alimentari al modello preistorico della caccia-raccolta

di Francesca Giusti

Sin dagli inizi delle ricerche in questo campo, una dieta almeno potenzialmente onnivora è risultata una caratteristica di molti primati non umani. In particolare, gli studi etologici condotti sugli scimpanzé hanno dimostrato che essi integrano una dieta fondamentalmente vegetariana con modeste quantità di proteine animali ricavate dal consumo di vari tipi di insetti, ma anche con la carne di piccoli mammiferi ottenuta attraverso comportamenti di predazione. Negli anni Sessanta e Settanta la proposta di includere gli Ominidi in un ordine di Primati onnivori tentò di attenuare il salto da "vegetariani" a "carnivori", che sarebbe avvenuto nell'evoluzione umana quando ancora sembrava che in tale processo la caccia avesse rappresentato la forma di adattamento ancestrale. In realtà, la definizione di primate onnivoro, applicata sia agli antenati più o meno lontani dell'uomo, sia alla nostra stessa specie, permette di cogliere meglio il quadro assai articolato delle differenti strategie alimentari associate alle varie specie di ominidi, il cui numero e le cui forme di adattamento appaiono moltiplicarsi, complicando quello scenario dell'evoluzione umana che era sembrato inizialmente caratterizzato da uno sviluppo relativamente lineare. È ormai accertato che i primi passi di questa evoluzione sono avvenuti in ambito forestale, dove con ogni probabilità le varie forme di australopitecine, nonostante un'andatura fondamentalmente bipede, mantenevano ancora abitudini arboricole. È ovvio che in questa situazione le strategie alimentari non dovevano differire di molto da quelle degli scimpanzé, mantenendosi prevalentemente vegetariane: è comunque difficile stabilirne la composizione, anche se le radici presenti in aree più aperte potrebbero aver completato la tradizionale componente a base di foglie e frutti. Non sarebbe inoltre mancata l'integrazione con proteine animali grazie ad attitudini e a comportamenti analoghi a quelli degli scimpanzé, ai quali ci lega una stretta parentela evolutiva e un altissimo grado di condivisione del patrimonio genetico. Un profondo mutamento rispetto a questo modello ancestrale dovette realizzarsi circa due milioni di anni fa, quando vari primati bipedi, classificabili in almeno due generi di ominidi, si adattarono all'ambiente di savana: si tratta di tutti gli esemplari di australopitecine robuste e delle primitive forme del genere Homo. Per circa un milione di anni queste due tipologie di Ominidi convissero, ricavandosi nicchie ecologiche diverse in un habitat comune fino all'estinzione degli australopiteci robusti, la cui strategia alla fine dovette rivelarsi perdente. La savana richiedeva infatti nuove scelte alimentari, dato che durante la fase di forte aridità la vegetazione è estremamente ridotta e costituita quasi unicamente da grosse radici sotterranee. Su questo cibo si concentrarono le strategie adattative delle australopitecine robuste, dotate di un potente apparato masticatorio che consentiva loro di consumare la polpa dura e fibrosa delle radici. Queste ultime costituivano un cibo relativamente abbondante, ma di bassa qualità, che richiedeva un notevole apporto quantitativo e un apparato digestivo adeguato. È difficile dire se per scavare le radici venissero impiegati utensili rudimentali, anche se l'ipotesi, pur in mancanza di testimonianze certe, sembra quanto meno plausibile. Sull'uso dei primi utensili litici di cui abbiamo testimonianza si basava invece l'adattamento degli ominidi più evoluti appartenenti al nostro stesso genere, adattamento che si fondava sul ricorso ad un cibo di alta qualità e fortemente energetico come la carne. Questa trasformazione della dieta può essere supposta anche sulla base di indizi indiretti di carattere anatomico: l'espansione del cervello (organo che richiede un alto apporto energetico non solo all'individuo adulto, ma anche e soprattutto alla madre durante la gravidanza) e la contemporanea riduzione dell'apparato digestivo. Un alimento più facilmente digeribile come la carne avrebbe permesso una riduzione del tratto digerente, fornendo così un surplus energetico diretto e indiretto che poteva essere impiegato per sostenere l'espansione cerebrale (Aiello - Wheeler 1995). Più problematico risulta ricostruire come gli antichi ominidi pliopleistocenici si procurassero la carne; una notevole percentuale doveva essere ricavata attraverso il cosiddetto scavenging, l'attività di "sciacallaggio" sulle carcasse di animali già morti, i cui resti si incontrano frequentemente nella savana. Non dotate di denti e di artigli idonei a lacerare la carne, queste arcaiche forme di Homo di oltre due milioni di anni fa costituiscono le più antiche specie a cui, allo stato attuale, è possibile associare con certezza la produzione e l'uso di utensili in pietra necessari per rimuovere la carne dallo scheletro delle carcasse; schegge e frammenti affilati costituiscono dunque non un prodotto di scarto, ma lame intenzionalmente staccate dai nuclei che hanno lasciato segni da taglio identificabili sulle ossa degli animali scarnificati, soprattutto in prossimità delle parti più ricche di carne. Lo scavenging, l'uso di utensili, i lunghi spostamenti sul territorio alla ricerca di pietre e carcasse hanno notevolmente alterato il quadro originario di un uomo primitivo il cui sistema di vita era basato sulla caccia, sull'uso di un campobase e sulla spartizione del cibo, un modello che rendeva possibile ipotizzare la precoce insorgenza di una socialità tipicamente umana, caratterizzata da uguaglianza, intensi legami cooperativi e forse anche da monogamia. Resta comunque aperto il problema se lo scavenging fosse una strategia quasi esclusiva o se fosse affiancato da rudimentali tecniche di predazione e di caccia. Il dibattito verte su molti elementi e riguarda sia l'ecologia della savana e la reale presenza, nelle condizioni climatiche del tempo, di così abbondanti carcasse, sia l'effettivo grado di competitività tra ominidi e carnivori. Da quest'ultimo fattore dipenderebbe in buona parte non solo l'ampiezza delle strategie di predazione, ma anche la necessità di forme di cooperazione sociale e di modalità di occupazione del territorio necessarie a sostenere una vasta gamma di comportamenti che potrebbero spaziare dalla difesa ad azioni concertate per l'appropriazione opportunistica (Blumenschine - Cavallo 1992; Tappen 1995; Rose - Marshall 1996) . Fino a qualche anno fa il salto tecnologico associato ad Homo erectus, pur non contemplando l'esistenza di uno strumentario adatto ad attività venatorie, sembrava almeno suggerire un aumento della capacità di predazione, magari rafforzato da caratteristiche associate alla nuova struttura anatomica, come la velocità nella corsa o le attitudini cognitive più elaborate. Ciò avrebbe in parte spiegato le nuove capacità adattative che avrebbero reso possibile le lunghe migrazioni fuori del suo habitat originario. In tempi recenti ulteriori dati e problemi in parte insoluti articolano e complicano più che mai il quadro evolutivo. In particolare, l'esistenza di Homo ergaster, predecessore di Homo erectus e fornito di utensili non dissimili da quelli di Homo habilis, non solo ci pone di fronte a un quadro migratorio più complesso (Tattersall 1997), ma rimette in qualche modo ancora una volta in discussione l'associazione così netta tra tecnologia primitiva e scavenging, una strategia di sussistenza che sembrava dover essere confinata, da un punto di vista geografico, ai soli ambienti di savana. Il fatto che ominidi caratterizzati da una differente struttura anatomica, ma dotati di una tecnologia non dissimile da quella dei loro predecessori, abbiano occupato ambienti ecologicamente assai differenziati pone nuovi e non pochi problemi anche in relazione alle strategie di sussistenza. Si ripropone infatti la possibilità di interpretazioni a favore di una caccia precoce effettuata con mezzi non interamente noti o con armi costruite in materiali deperibili. Allo stato attuale delle conoscenze si deve tuttavia ammettere che le prime testimonianze di un'attività specializzata di caccia a grandi mammiferi restano di fatto confinate all'Europa glaciale. In questo scenario ai Neandertaliani si avvicendò l'uomo moderno, che dalla sua culla africana era partito per occupare l'Europa e gran parte del mondo, soppiantando le specie che ancora erano in vita. Per i Neandertaliani la caccia era forse un'impresa ad alto rischio, in cui probabilmente individui di grande forza e possanza ricorrevano spesso allo scontro ravvicinato con le loro prede. L'uomo moderno non solo era in grado di abbattere con le sue armi da getto i grandi mammiferi dell'era glaciale, ma aveva sviluppato la tecnologia e la pianificazione necessarie per sfruttare anche animali di piccola taglia o risorse acquatiche da inserire in complesse e diversificate strategie di sopravvivenza. Il discorso sulle modalità di insediamento, sulla struttura sociale e sullo stile di vita che accompagnava la caccia degli esseri umani moderni è estremamente complesso. Al riguardo, si impone una revisione del tradizionale modello secondo cui le attività di caccia avrebbero caratterizzato fin dalle fasi più antiche il comportamento umano, alle quali si sarebbe associato un preciso modello di vita basato sulla piccola banda estremamente mobile e sulla divisione sessuale del lavoro. La vita dei maschi, dediti alle attività venatorie, e quella delle femmine, occupate nella raccolta dei vegetali nonché nella cura dei piccoli, avrebbero trovato nel campo-base un momento di confluenza e di incontro in cui si sarebbero radicati i rapporti cooperativi e le origini stesse di un legame di coppia. Questo quadro della socialità primitiva nasceva dalla fiducia di poter integrare i dati etnologici sui cacciatori-raccoglitori moderni (erano privilegiate popolazioni, come i !Kung del deserto del Kalahari, che vivevano a latitudini tropicali) con i dati anatomici e archeologici che riguardavano la nostra evoluzione, probabilmente a partire dalla comparsa del genere Homo. Lo scenario cooperativo ed egualitario in cui collocare il nostro passato sembrava dunque configurarsi in un mito scientifico delle origini. Attualmente molti elementi portanti del modello tradizionale risultano mutati (Giusti 1994): la caccia-raccolta coprirebbe, secondo una stima recente, non più del 5% dell'intero percorso evolutivo (Foley 1988) e non si collocherebbe nelle savane africane, ma in paesaggi glaciali. La comparazione tra dati etnografici e testimonianze archeologiche richiede cautela, anche in considerazione del fatto che i primi provengono da un settore di ricerca che non solo ha enormemente accresciuto e sistematizzato le proprie conoscenze sulle popolazioni di cacciatori- raccoglitori, ma ha anche vissuto al proprio interno un intenso e spesso lacerante dibattito che ha irreversibilmente modificato l'immagine stessa dell'oggetto di ricerca. Si è oggi di fronte a un quadro composito di società le cui strategie alimentari e i cui modelli sociali variano enormemente, sia in relazione a fattori ambientali (decisiva sembra la latitudine in cui si collocano), sia in rapporto a fattori ideologici e culturali. La tipologia della piccola banda mobile ed egualitaria resta associabile ad ambienti prevalentemente tropicali e si applica integralmente solo a una ristretta minoranza di casi. Proprio queste società sono inoltre oggetto di un forte movimento di revisione che nega loro ogni forma di radicamento in un lontano passato, considerandole invece la conseguenza di un assorbimento entro società più avanzate e la manifestazione di un degrado culturale. Al contrario, numerose sono tra i cacciatoriraccoglitori moderni le popolazioni con un sistema sociale relativamente complesso in cui esistono forme di immagazzinamento del cibo e di investimenti lavorativi, che praticano la sedentarietà e conoscono al loro interno forme di differenziazione o di stratificazione sociale (Burch - Ellanna 1994). Anche le evidenze archeologiche provenienti dal Paleolitico superiore europeo e dal più tardo Mesolitico rimandano l'immagine di gruppi di cacciatori-raccoglitori complessi, piuttosto che quella di bande mobili ed egualitarie, e forniscono la testimonianza di uno stile di vita diversificato e mutevole. Le nette distinzioni esistenti negli adattamenti regionali, i modelli di mobilità articolati sul territorio che si alternano a soluzioni stanziali, i segni di incipienti stratificazioni sociali sono tutti fattori indicativi della grande complessità delle società dei cacciatori-raccoglitori preistorici. Associato all'Homo sapiens sapiens non vi è dunque lo stereotipato modello della caccia, ma mutevoli assetti di vita che indicano come già avvenuta la rottura di un legame di tipo esclusivamente adattativo al mondo circostante e segnalano la possibilità che le attività legate alla sopravvivenza si intreccino ormai strettamente in un contesto cerimoniale e simbolico. Molte delle caratteristiche tradizionalmente associate alla produzione del cibo si rivelano, dunque, espressioni di modi di vita attuati grazie a quella complessità cerebrale che ha fatto parlare di "rivoluzione umana" per la comparsa della specie alla quale apparteniamo (Mellars - Stringer 1989).

Bibliografia

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La caccia, l'utilizzazione delle risorse vegetali e lo sfruttamento degli ambienti acquatici: africa
la caccia

di Samou Camara

Dal regime di caccia-raccolta, durato circa due milioni di anni, a quello agricolo e pastorale, affermatosi a partire dall'VIII millennio a.C., la ricerca di cibo è stata una delle maggiori preoccupazioni dell'uomo preistorico. Due tecniche fondamentali di acquisizione delle risorse dovettero essere praticate dai cacciatori-raccoglitori: la raccolta "opportunistica", o sciacallaggio, e la predazione selettiva, basata sullo sfruttamento intensivo di risorse limitate durante un dato periodo, oppure su quello di un'ampia varietà di risorse in ambienti caratterizzati da grande diversità ecologica. A partire dal Neolitico, ad esempio, in diversi siti sono stati rinvenuti arponi in osso a uno o due uncini, utilizzati per la pesca, insieme a strumenti litici spesso finemente lavorati. Le evidenze faunistiche sono generalmente associate a industrie litiche, ma nella maggior parte dei casi è difficile distinguere tra resti di caccia e resti di sciacallaggio, o accertare se gli accumuli presenti in alcuni siti, soprattutto ripari, siano essenzialmente di origine animale, umana o mista. In Africa orientale i giacimenti del Paleolitico inferiore in cui sia stata rilevata un'associazione certa tra resti ossei animali e manufatti litici sono molto scarsi e generalmente rappresentati da siti di macellazione (butchering sites); tra i più importanti si segnalano i due siti con resti di ippopotamo individuati in Kenya (HAS a Koobi Foora e Banda a Olorgesailie), i tre di Olduvai in Tanzania (FLK N 6 con Elephas recki, FLK N con Deinotherium e BK II con Pelorovis), il sito con resti di ippopotamo di Gomboré II a Melka Kunturé in Etiopia e quello con Elephas recki di Barogali a Gibuti. A Melka Kunturé in numerosi suoli di abitato compresi tra 1,7 milioni di anni e 700.000 anni fa sono state rinvenute forti concentrazioni di manufatti su ciottolo riferibili all'Olduvaiano, all'Olduvaiano evoluto e a diverse fasi dell'Acheuleano. In due dei suoli più antichi sono presenti un omero (Gomboré I) e una mandibola di Homo erectus (Garba IV), associati a manufatti su ciottolo e schegge, con fauna di ippopotamo, elefante, Bovidi, antilopi e Suidi. Alcune ossa recano tracce di tagli e di impatti con manufatti litici, mentre altre appaiono intenzionalmente spaccate a scopo alimentare. Attività di macellazione di grossi mammiferi sono attestate in diversi altri siti, come ad esempio nel Bed I di Olduvai. Un contesto analogo è quello di Barogali (Gibuti), in cui i resti di un elefante (Elephas recki), datati a oltre 1 milione di anni fa, di manufatti utilizzati per la sua macellazione. Nel sito di Gomboré II a Melka Kunturé, riferibile all'Acheuleano medio con una datazione intorno a 700.000 anni, sono stati rinvenuti due frammenti di cranio di Homo erectus: allo stesso periodo è attribuibile un sito di macellazione in cui sono presenti i resti di due ippopotami insieme a pochi manufatti litici. Attività di caccia a mammiferi di medie e grandi dimensioni sono documentate anche in giacimenti riferibili alla Middle e alla Late Stone Age. A Klasies River Mouth (Provincia del Capo), i cui depositi più antichi sono datati a 120.000 anni fa, sono state sfruttate risorse marine e terrestri: la selvaggina più frequentemente cacciata è costituita da bufali e antilopi. Nella stessa grotta, durante la fase di Howienson's Poort, datata tra 90.000 e 50.000 anni fa, un'industria microlitica era utilizzata soprattutto per la caccia a piccole antilopi. Nell'alimentazione degli occupanti del Riparo di Kalemba in Zambia (Middle Stone Age, 40.000-20.000 anni fa) la caccia a specie di grande taglia, come il bufalo e la zebra, lasciò il posto, a partire da 20.000 anni fa, a quella ad animali di dimensioni minori, quali antilopi e altri ruminanti. Nella Grotta di Nelson Bay Cave (Repubblica Sudafricana) gli autori dell'industria, essenzialmente su lamella, del tipo Robberg (19.000- 12.000 anni fa), cacciavano la selvaggina nelle vaste pianure formatesi a seguito dell'abbassamento del livello marino; un successivo innalzamento, avvenuto intorno a 8000 anni fa, ridusse considerevolmente i biotopi dei nuovi occupanti, all'epoca in possesso di utensili di tipo Albany. Nelle grotte di Matupi (Repubblica Democratica del Congo), la cui occupazione risale a 40.000 anni fa, i livelli datati da 22.000 a 13.000 anni fa hanno rivelato la presenza di specie tipiche di ambienti aperti, quali Ourebia ourebi, Hippotragus sp., Kobus kob, Redunca redunca e Phacochoerus aethiopicus. Nella stessa regione la Grotta di Ishango, la cui occupazione si data tra 11.000 e 7000 anni fa, ha fornito soprattutto resti di specie di savana (Damaliscus sp., Taurotragus sp., Redunca redunca, Pelorovis antiquus), oltre a un'industria litica abbastanza rozza, associata ad arponi in osso. Nel sito di Amekni (Hoggar), datato tra l'8670±220 e il 5500±250 B.P. e caratteristico del Neolitico saharo-sudanese, gli animali cacciati (Gazella dorcas, Gerbillus, Phacochoerus aethiopicus, Pelorovis antiquus e Redunca redunca) sono tipici sia di ambienti desertici o semidesertici che di aree paludose, di foreste a galleria e di pianure erbose. Gli occupanti dei ripari rocciosi della Late Stone Age dell'Africa centrale, tra cui quello di Shum Laka (Camerun), cacciavano cercopitechi, cefalofi, oltre a specie di taglia maggiore, quali bufali, rinoceronti ed elefanti. La maggior parte dei siti africani presenta, a partire dal Neolitico recente, un'associazione quasi permanente di resti di fauna selvatica e di fauna domestica. Nel riparo di Laga Oda (Etiopia), la cui occupazione è datata tra 15.000 e 3500 anni fa, sono stati rinvenuti resti ossei di vari animali (giraffe, elefanti, cammelli, ecc.), associati a un'industria microlitica. A Karkarichinkat, nella valle del Tilemsi (Mali), diversi abitati situati presso laghi o paludi oloceniche e datati tra 4000 e 3300 anni fa hanno rivelato la presenza di resti di Redunca redunca, Tragelaphus scriptus, Hippotragus equinus, Ourebia ourebi, Phacochoerus aethiopicus, Giraffa camaleopardalis, oltre che di un gran numero di carnivori. Nella Grotta di Kourounkorokale (Mali), con datazioni tra il 5185±95 e il 1020±105 B.P., sono stati rinvenuti resti ossei di Ovis aries, Capra hircus e di Francolinus sp., oltre a numerose evidenze di caccia e pesca. Nel sito di Fanfannyégèné I nell'ansa del Baoulé (Mali occidentale), datato al Neolitico guineano (2680±120 B.P.), l'attività di caccia, documentata in tutti i livelli da ossa calcinate, riguardava essenzialmente piccoli ruminanti, sebbene resti di un giovane elefante potrebbero attestare che i gruppi neolitici, probabilmente già dediti all'allevamento, cacciavano anche selvaggina di grande taglia. Un'importante attività di caccia è testimoniata anche nel sito di Kawezi (Repubblica Democratica del Congo) da resti di pasto costituiti da ossa di bufali, cervicapre (Kobus defassa), antilopi (Tragelaphus o Liminotragus) e iene. Nella maggior parte dei siti africani della prima età del Ferro, come ad esempio Kumadzulo, nei pressi delle Cascate Vittoria (Zambia) e datato tra 1550 e 1300 anni fa, i resti di fauna sono costituiti da specie selvatiche e specie domestiche (pecore e capre). Oltre che da evidenze dirette, le attività di caccia nel continente africano sono documentate anche da rappresentazioni nell'arte rupestre, attraverso le quali è possibile individuare alcune strategie e modalità di svolgimento delle battute, oltre che le tecniche impiegate (come l'utilizzo dell'arco); tali fonti indirette hanno inoltre permesso di chiarire diversi aspetti delle caratteristiche ecosistemiche degli ambienti frequentati dai gruppi preistorici. Varie incisioni rupestri risalenti agli inizi del Neolitico sahariano mostrano scene di caccia a fauna di grande taglia (elefanti, rinoceronti, giraffe, grandi antilopi); a partire dal III millennio a.C. le rappresentazioni privilegiano la fauna domestica, essenzialmente bovini, segnalando in tal modo sostanziali mutamenti intervenuti nei modi di acquisizione e di produzione delle risorse alimentari.

Bibliografia

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L'utilizzazione delle risorse vegetali

di Lanfredo Castelletti

Durante il periodo würmiano, in particolare nel corso del cosiddetto "ultimo massimo glaciale", le condizioni climatiche dell'Africa furono contrassegnate da un'aridità più accentuata rispetto a quella attuale, mentre nel corso del Tardiglaciale e dell'Olocene antico il sopravvenire di più favorevoli condizioni di temperatura e di umidità ribaltò questa situazione; gli esordi della domesticazione si verificarono pertanto in concomitanza con tale miglioramento climatico. Lo studio dell'impiego delle risorse vegetali durante il Pleistocene superiore e soprattutto nell'Olocene antico acquista dunque il duplice significato di verifica delle modalità e delle tecniche di prelievo delle piante da parte dei cacciatori-raccoglitori e di avanzamento nella conoscenza dei processi culturali che furono alla base dell'origine e dello sviluppo dell'agricoltura. Negli ultimi decenni le tendenze della ricerca sono state quelle di applicare intensivamente le tecniche paleobotaniche (soprattutto analisi polliniche e analisi dei resti macroscopici), tenendo conto del loro diverso peso ai fini interpretativi, e di valutare gli effetti delle variazioni climatiche rispetto sia alla selezione economica delle specie nelle fasi di raccolta, sia alle incipienti forme di allevamento e/o di manipolazione delle risorse vegetali. Le analisi polliniche e quelle dei resti macroscopici, applicate in particolare ai depositi antropici e ai resti fecali, si rivelano molto significative per la caratterizzazione delle modalità di selezione delle piante e delle strategie di utilizzo delle risorse floristiche, non solo a fini alimentari ma anche per scopi complementari o diversi. Tali analisi rivelano anche le strategie di occupazione dei territori aridi (almeno nel periodo attuale) e confermano o smentiscono i numerosi aspetti evidenziati da discipline affini circa gli equilibri fra consistenza demografica, disponibilità di risorse e modalità culturalmente determinate del loro impiego. Le trasformazioni climatiche verificatesi tra il Pleistocene e l'Olocene produssero inoltre mutamenti di natura idrografica nelle zone aride o iperaride odierne, oltre che veri e propri scorrimenti di intere fasce di vegetazione da nord a sud e soprattutto da sud a nord nella regione sahariana. Ciò ebbe il duplice effetto di ridurre notevolmente il plenideserto (quindi di favorire spostamenti in varie direzioni) e di aumentare le opportunità di insediamento, grazie al passaggio da una diffusione lineare e rada delle aree umide lungo i pochi corsi d'acqua perenni sopravvissuti nel Pleniglaciale a una loro diffusione a macchia nell'Olocene antico. Tale diffusione fu anche favorita dal formarsi di bacini idrici chiusi, luogo di accumulo di risorse idriche e biologiche e dunque favorevole all'insediamento. Sebbene frammentari, i dati disponibili lasciano tuttavia intuire la complessità delle strategie di sfruttamento delle risorse vegetali in ambienti comunque severi anche nei periodi relativamente più favorevoli. Carboidrati (soprattutto amido) e proteine vegetali possono essere prelevati da materiale vegetale morbido (rizomi, tuberi, ecc.) o da materiale duro (semi e frutti, cariossidi di Graminacee). Nei siti aridi si possono verificare, specie in depositi sotto ripari o in grotte, opportunità di conservazione allo stato fresco, ma la regola prima della conservazione è la carbonizzazione. Ciò provoca, come è facilmente comprensibile, notevoli discontinuità e perdite di documentazione soprattutto per quanto riguarda le parti consumate fresche e quelle che anche bruciando non lasciano tracce sufficienti per l'identificazione. I "cibi persi" dei cacciatoriraccoglitori, come li ha definiti G.C. Hillman, sono legati alle diverse modalità di scelta e di trattamento e ai processi di conservazione. Si può ipotizzare una preferenza per alimenti di consistenza morbida, i cui resti sono generalmente inusuali nella documentazione archeologica, anche se negli ultimi anni una sempre maggiore quantità di ricerche è stata dedicata al loro recupero e all'identificazione in siti archeologici; inoltre si tratta spesso di resti difficilmente classificabili per mancanza di caratteristiche morfologiche, come frammenti di tuberi, bulbi, ecc. Uno straordinario ritrovamento di materiale commestibile molle è quello di Wadi Kubbaniya, presso un paleoalveo del Nilo nell'Alto Egitto datato al Paleolitico superiore (16.000- 15.000 a.C.), che ha conservato resti di derrate alimentari e di feci carbonizzate, che hanno reso possibile l'identificazione di 25 diversi tipi di piante, fra cui sono stati identificati resti di tessuti vegetali molli. Fra questi rivestono un ruolo importante i tuberi di due specie tipiche di luoghi umidi, il Cyperus rotundus e lo Scirpus maritimus, quest'ultimo scoperto anche in siti preneolitici del Levante; è inoltre presente anche un rizoma di felce. Resti di semi e di frutti sono attribuibili alla palma dum (Hyphaene thebaica), alle due Ciperacee prima indicate, al tribolo (Tribulus), alla Balanites, a Composite, Ninfeacee, Umbellifere, Liliacee e infine al cappero. I tipi riconosciuti sono tutti commestibili e ciascuna delle piante indicate è stata usata come cibo fino a tempi recenti da cacciatori-raccoglitori moderni. I tuberi sopraindicati e probabilmente la felce ricorrono anche in siti più recenti del Neolitico antico, come Nabta Playa, sempre in Alto Egitto. Nel Sahara centrale, nel sito preneolitico sotto roccia di Uan Afuda, insieme a frutti di fico (Ficus cf. salicifolia) sono presenti glume di Graminacee selvatiche in prevalenza Panicoidee, fra cui Cenchrus, nei coproliti umani e in quelli di erbivori semidomestici, confermando la bivalenza delle Graminacee spontanee per l'alimentazione umana e animale ed eliminando qualunque dubbio circa l'uso sistematico di risorse vegetali, come invece si è verificato per Abu Hureyra nel Vicino Oriente. Nella stessa area a Uan Muhuggiag e Ti-n-Torha/Two Caves giocano un ruolo importante le cariossidi di Graminacee oggetto di raccolta sistematica, particolarmente Brachiaria e Unochloa attualmente assenti dalla flora della Libia. Le analisi polliniche infatti dimostrano una maggior ricchezza della flora durante l'Olocene antico, in accordo con una maggiore disponibilità di risorse alimentari, ma registrano un netto decremento già a partire dall'Olocene medio. Per quanto riguarda la fascia africana a nord del Sahara, che comprende anche la zona costiera, attuale sede di vegetazione mediterranea, si può ammettere una migrazione nell'Olocene antico verso sud e quindi la penetrazione in zone montuose ora a clima desertico o semidesertico di un corteggio floristico mediterraneo con frutti commestibili come il tasso (Taxus baccata), la quercia sempreverde, la vite spontanea, i pruni. Queste entità sono documentate nella neolitica Grotta Capeletti in Algeria, che testimonia il perdurare della tradizione di raccolta dei vegetali spontanei.

Bibliografia

J.R. Harlan, Wild-Grass Seed Harvesting in the Sahara and Sub- Sahara of Africa, in D.R. Harris - G.C. Hillman (edd.), Foraging and Farming. The Evolution of Plant Exploitation, London 1989, pp. 79-98; G.C. Hillman, Late Palaeolithic Plant Foods from Wadi Kubbaniya in Upper Egypt: Dietary Diversity, Infant Weaning and Seasonality in a Riverine Environment, ibid., pp. 207-38; K. Wasylikowa, Flora of the 8000 Years Old Archaeological Site E-75-6 at Nabta Playa, Western Desert, Southern Egypt, in Acta Palaeobotanica, 37 (1992), pp. 99-205; Ead., Holocene Flora of the Tadrart Acacus Area, SW Libya, based on Plant Macrofossils from Uan Muhuggiag and Ti-n-Torha/Two Caves Archaeological Sites, in Origini, 16 (1992), pp. 125-52; L. Castelletti et al., Archaeobotanical Evidence at Uan Afuda: Charcoal, Wood and Seeds from the Early Holocene Sequence, in S. Di Lernia (ed.), The Uan Afuda Cave (Tadrart Acacus, Libyan Sahara). Archaeological Investigations of Late Pleistocene and Early Holocene Human Occupations (c.s.); A.M. Mercuri, Archaeobotanical Evidence: Pollen Analysis of the Early Holocene Sequence at Uan Afuda Cave (c.s.).

Lo sfruttamento degli ambienti acquatici

di Egidio Cossa

La relativa semplicità tecnologica che caratterizza le culture dell'Africa subsahariana ha di fatto impedito lo sfruttamento delle ricche risorse degli oceani che circondano il continente; ancora oggi pochi sono i gruppi tradizionali che osano affrontare il mare aperto, benché ormai forniti di piroghe a motore. Ma la pesca e la caccia-pesca nei laghi, nelle lagune costiere e nei fiumi è stata praticata fin da tempi antichissimi. Intorno a 10.000-8000 anni fa l'Africa godeva di un clima decisamente più umido di quello attuale; la presenza di laghi, paludi e fiumi più numerosi e vasti favorì l'affermarsi, fin dagli inizi del VII millennio, di un sistema di vita strettamente correlato con l'acqua e con lo sfruttamento alimentare di prodotti ittici che interessò una vasta area, dal Sahara meridionale alla costa atlantica e alla valle del Nilo (passando per il bacino del Ciad, la cui estensione doveva essere di quattro-cinque volte maggiore rispetto ad oggi), fino alla regione dei Grandi Laghi. Questa "civiltà acquatica", secondo la definizione di J.E.G. Sutton, si affermò in concomitanza con un periodo particolarmente umido che determinò l'innalzamento del livello dei laghi e potenziò la portata dei fiumi, regolarizzando anche quelli stagionali; essa si caratterizza per il perfezionamento delle tecniche di pesca e per la costruzione di imbarcazioni più adatte a navigare in specchi d'acqua di notevoli dimensioni. I gruppi umani portatori di questa tradizione risiedevano in villaggi semipermanenti situati sulle rive di corsi d'acqua o di bacini lacustri e si dedicavano prevalentemente alla pesca e alla caccia di animali acquatici, utilizzando a tale scopo lance e arponi d'osso fabbricati con utensili di pietra. Evidenze archeologiche di questo peculiare modello di sfruttamento dell'ecosistema compaiono in siti sparsi su un'immensa area compresa tra gli altopiani del Sahara e la Rift Valley. Dal VII al II millennio a.C., a sud del Tibesti, del Tassili n'Ajjer e dell'Hoggar, come pure nella porzione meridionale dell'odierna Mauritania, la presenza di laghi e fiumi di notevole portata favorì il sorgere delle prime culture neolitiche che basavano la loro dieta proteica principalmente sulle risorse ittiche. Ad Amekni (Hoggar) sono stati raccolti resti di ossa di Siluridi (Clarias sp.), di Perciformi (Lates sp.) e di Molluschi acquatici (Unio, Mutela miletica); rinvenimenti analoghi sono stati effettuati anche nell'Adrar Tiouyne (sulle sponde dello Wadi Amded), a In Guezzam (a sud dell'Hoggar), a Meniet (nel Tidikelt) e a Dogonboule (vicino a Fachi), così come nei coevi siti dell'Erg d'Admer, a sud del Tassili n'Ajjer. Prove dell'importanza della dieta ittica, testimoniata dal ritrovamento di resti di pesci e di arponi in osso, sono state evidenziate anche più a sud, nel sito di Karkarichinkat, ai margini settentrionali del Sahel, e a Kourounkorokale, nei pressi di Bamako (Mali). Lungo il litorale atlantico, invece, la dieta era principalmente basata sul consumo dei molluschi provenienti dalle lagune costiere, anche se si conoscono evidenze di un'attività di pesca vera e propria praticata negli ampi specchi d'acqua a ridosso dell'oceano. Nella porzione orientale del continente la grande tradizione dei pescatori africani è in stretto rapporto con la tradizione nota come Capsiano del Kenya o Eburrano (12.000-5600 anni fa), che secondo alcuni autori rappresenterebbe l'espansione a sud-est della "civiltà acquatica" del Sahara meridionale. Nel Rift occidentale essa è evidente a Ishango, un giacimento situato sulla riva nord-occidentale del Lago Edoardo e datato tra 11.000 e 7000 anni fa: qui sono stati rinvenuti numerosi arponi in osso nei quali si può osservare una netta evoluzione, dagli esemplari con due file di seghettature degli strati inferiori a quelli con una sola fila dei livelli più recenti. I resti di fauna ittica mostrano una prevalenza di Siluridi (Silurus sp.), Ciclidi (Cichlidae sp.) e Prototteri (Protopterus sp.). Nel Rift orientale reperti di questo tipo sono stati ritrovati a Gamble's Cave, un riparo sotto roccia non lontano dal Lago Nakuru. Il ritrovamento negli insediamenti di questa zona di lische di pesce e di valve di molluschi, nonché di resti di mammiferi e di rettili acquatici, attesta la centralità della pesca e della caccia-pesca nelle attività acquisitive, senza naturalmente escludere l'importanza della caccia ad animali terrestri e della raccolta di vegetali spontanei. È inoltre documentata una certa elaborazione delle tecniche di reperimento e di preparazione del cibo, come indicano la finezza degli arponi in osso e i resti ceramici: gli arponi erano fissati su aste di legno mediante legature di fibre vegetali e utilizzati scagliandoli dalle piroghe o dalla riva, mentre la ceramica era decorata con lische di pesce o con conchiglie con motivi wavy line o dotted wavy line. Nessuna evidenza archeologica prova che le popolazioni di questa tradizione, legate allo sfruttamento dei bacini d'acqua, fossero, né in Africa orientale né altrove, in possesso di conoscenze agricole; nondimeno esse si discostano dalle tipiche culture di caccia-raccolta della Late Stone Age per la particolare perizia tecnologica e per la loro capacità di diffusione culturale. Anche se non si ha la certezza che questi gruppi fossero realmente sedentari, è altamente probabile che la relativa abbondanza di cibo assicurata dai bacini idrici e il particolare adattamento all'ambiente abbiano favorito soluzioni comunitarie più vaste e durature rispetto ai loro predecessori, creando i presupposti sociali e intellettuali per lo sviluppo di una tecnologia più complessa e di un modo di vita più evoluto.

Bibliografia

L.S.B. Leakey, The Stone Age Cultures of Kenya Colony, Cambridge 1931; J. de Heinzelin de Braucourt, Les fouilles d'Ishango, Bruxelles 1957; G. Camps, Amekni, Néolitique ancien du Hoggar, Paris 1969; Id., Les civilisations préhistoriques de l'Afrique du Nord et du Sahara, Paris 1974; Id., The Prehistoric Cultures of North Africa: Radiocarbon Chronology, in F. Wendorf - A.E. Marks (edd.), Problems in Prehistory. North Africa and the Levant, Dallas 1975, pp. 182-92; J.E.G. Sutton, The African Aqualithic, in Antiquity, 51 (1977), pp. 25-34; F. van Noten, The Archaeology of Central Africa, Graz 1982; Id. Preistoria dell'Africa centrale, in J. Ki-Zerbo (ed.), La Preistoria, Milano 1987, pp. 565-84; T. Shaw, Preistoria dell'Africa occidentale, ibid., pp. 621-42; J.E.G. Sutton, Preistoria dell'Africa orientale, ibid., pp. 477-508; A.E. Marks - A. Mohammed-Ali (edd.), The Late Prehistory of the Eastern Sahel, Dallas 1991; R. Vernet, Climats anciens du nord de l'Afrique, Paris 1995; I. Caneva, The Influence of Saharan Prehistoric Cultures in the Nile Valley, in G. Aumassip - J.D. Clark - F. Mori (edd.), The Prehistory of Africa, Section 15, XIII International Congress of Prehistoric and Protohistoric Sciences (Forlì, 8-14 settembre 1996), Colloquium XXX, Forlì 1996, pp. 231-39.

La caccia, l'utilizzazione delle risorse vegetali e lo sfruttamento degli ambienti acquatici: europa
la caccia

di Antonio Tagliacozzo

Uno dei problemi riguardanti i più antichi Ominidi è quello di stabilire se essi fossero in grado di cacciare. Nei loro giacimenti la presenza di ossa animali può essere interpretata in modi diversi: 1) ossa portate in un sito da cacciatori; 2) ossa introdotte nei siti da uomini che si sarebbero limitati a sfruttare animali morti per cause naturali o predati da carnivori; 3) ossa accumulate da agenti naturali, in particolare trasporto fluviale o grandi predatori. Studi tafonomici, pur permettendo di escludere che si tratti di tane di carnivori o di accumuli naturali, non consentono di stabilire se gli animali siano stati o meno cacciati. Lo studio dell'età di morte degli animali è spesso uno strumento per ottenere indicazioni sull'applicazione di determinate strategie di caccia; tra gli Ungulati, però, modelli di mortalità simili possono risultare per cause diverse, quali predazione umana generalizzata, carestie, malattie, predazione di grossi carnivori, commistione di resti in grotte occupate alternativamente da carnivori e dall'uomo. Un solo modello, che sembrerebbe invece tipico della caccia selettiva per agguato condotta esclusivamente dall'uomo, vede rappresentati nel campione faunistico prevalentemente i resti di animali giovani-adulti, in grado di fornire maggiori quantità di carne, pelle, grasso e materie prime di buona qualità. Le tecniche, i dispositivi e gli equipaggiamenti variano notevolmente nei diversi ambienti, soprattutto in funzione dell'etologia animale. Profonde differenze sono evidenti soprattutto tra: 1) caccia alle prede gregarie e migranti (renne, cavalli, bisonti, gazzelle), tipiche dei paesaggi aperti a tundra, steppa e prateria, in cui si cerca di convogliare le mandrie in passaggi obbligati e in trappole artificiali o naturali (falesie, rupi, paludi); 2) caccia alle grosse prede in piccoli branchi (elefanti, rinoceronti, ippopotami, bovini), che si basa su agguati nelle zone di abbeveraggio o sulla cattura di individui isolati, perché feriti o malati; 3) caccia alle prede di ambiente forestale, solitarie (maschi di alci, cervi, megaceri, cinghiali) o in piccoli gruppi (femmine e giovani maschi), catturate per appostamento o mediante trappole. Queste tecniche, ognuna con numerose varianti, hanno caratterizzato la caccia durante il Pleistocene e tutte, almeno fino all'adozione dell'arco, presuppongono una stretta cooperazione tra diversi membri del gruppo umano. L'uomo ha praticato la caccia con armi di sua fabbricazione: si tratta di strumenti atti a spaccare (clave, bastoni da lancio, pietre per fionde) o a forare (lance, arponi, frecce), ai quali si aggiungono vari sistemi finalizzati alla cattura (inseguimenti, camuffamenti, trappole, reti, bolas). Per i periodi anteriori al Paleolitico superiore si ignora quasi totalmente quale fosse l'equipaggiamento; al riguardo, è possibile che alcuni bifacciali più elaborati (Acheuleano superiore e finale) e le punte musteriane potessero essere immanicati e utilizzati come armi da lancio penetranti. Generalmente si pensa però all'uso di lance appuntite in legno, come sembrano confermare rari rinvenimenti in giacimenti del Paleolitico inferiore europeo, quali Torralba (Spagna), Clacton-on-Sea (Inghilterra) e Lehringen (Germania). In quest'ultimo sito tra le costole di un Elephas antiquus è stata trovata una lancia di 2,4 m circa con la punta indurita dal fuoco. Con il Paleolitico superiore si registra una serie di innovazioni tecnologiche: le lance in legno venivano armate con punte in osso o corno di cervide (arponi), separabili e recuperabili, o con punte rafforzate da armature litiche per renderle più efficienti; sovente erano lanciate con un propulsore che aumentava la potenza di penetrazione. Alcune pitture parietali attestano l'uso della lancia (bisonte ferito che attacca il cacciatore del "corridoio" di Lascaux). La presenza dell'arco nel Paleolitico superiore è probabile (piccole punte peduncolate in giacimenti del Gravettiano russo e del Solutreano spagnolo), ma non certa, anche se su numerose figurazioni animali sono sovente disegnati elementi interpretati come frecce (bisonte e cavallo dipinti nella Grotta di Lascaux; bisonti in quella di Niaux; un cavallo, un bovide e un cervo incisi su un osso proveniente da Grotta Paglicci). Le testimonianze più antiche dell'uso dell'arco (Dryas III) provengono da Stellmoor, in Germania, dove sono state rinvenute aste di freccia in legno e punte, una delle quali è conficcata in una vertebra di renna. Nei siti di ambiente umido del Mesolitico dell'Europa settentrionale si sono rinvenuti archi in legno di diversa tipologia e frecce con armature microlitiche ancora fissate con resina. L'aumento nella cacciagione delle piccole prede (uccelli e mammiferi) e le raffigurazioni pittoriche del Levante spagnolo attestano un ampio utilizzo dell'arco durante il Mesolitico. Dal punto di vista dell'equipaggiamento, fino all'età del Ferro non si verificarono sostanziali innovazioni tecnologiche: l'arco continuò ad essere l'arma principale ed è attestato l'uso della faretra e del bracciale d'arciere; le punte delle frecce, anche dopo l'acquisizione dei metalli, erano in selce con alette laterali che conferivano loro maggiore precisione. Le innovazioni potrebbero aver riguardato l'uso del cane e forse del cavallo durante le battute di caccia, ma non esistono prove certe al riguardo. Nel Paleolitico inferiore (800.000-130.000 anni fa) in tutto il Vecchio Mondo, oltre a siti di macellazione (Notarchirico di Venosa in Basilicata, Aridos 1 e 2 in Spagna) e forse siti di caccia e macellazione (Torralba e Ambrona in Spagna e Lehringen in Germania), tutti con resti di elefante, diventano comuni i "suoli di abitato" o i "livelli di frequentazione intensiva", in cui resti ossei di numerosi animali sono associati a manufatti (Isernia La Pineta, il livello A di Loreto e i livelli α ed E di Notarchirico di Venosa, Castel di Guido, Terra Amata, Tautavel, Bilzingsleben, Vertesszőllős). Ipotesi relative alla caccia di questi animali sono state avanzate e suffragate da rinvenimenti di armi (Torralba, Clacton-on-Sea, Lehringen), dall'utilizzo di vere strategie (fuoco e trappole naturali a Torralba) o di specializzazione (bisonti catturati e macellati con tecniche ricorrenti ad Isernia). Tali ipotesi sembrano coerenti con lo sviluppo psichico di Homo erectus, capace di diffondersi e penetrare nelle più varie regioni, e con l'alto numero e il ripetuto utilizzo degli insediamenti, che rivelano spesso un'organizzazione spaziale; ma le prove addotte non appaiono a tutti definitive. È possibile che, almeno per le prede più grandi, sia continuato lo sfruttamento delle carogne, ma che si siano parallelamente sviluppate le tecnologie atte alla caccia propriamente detta, anche se non specializzata. Con l'affermazione della specie Homo sapiens, sin dal Paleolitico medio la caccia assunse progressivamente forme specializzate e fu senza dubbio la principale fonte di reperimento di proteine animali e di materie prime (pelli, tendini, ossa, corna). In genere il passaggio da una caccia generalizzata, in cui veniva abbattuta qualunque preda, ad una specializzata in cui il cacciatore selezionava branchi di animali particolari e prede in base al sesso e all'età, viene messo in relazione con l'affermarsi di Homo sapiens sapiens rispetto a Homo sapiens neanderthalensis. Questo schema, sebbene indubbiamente coerente, non va inteso in modo assoluto, in quanto ci sono esempi di caccia specializzata già prima del Paleolitico superiore ed è provato che il carattere più o meno specializzato della caccia dipende sostanzialmente dalla natura delle risorse, dalla loro densità, varietà e mobilità. Nel Paleolitico medio sono testimoniati siti di uccisione e macellazione di grandi animali (mammut e rinoceronte lanoso di La Cotte de Saint-Brelade) e siti con spiccata specializzazione: Mauran e Livernon in Francia (dove venivano uccisi in prevalenza uri) o Erd in Ungheria (in prevalenza orso delle caverne). In genere prevalgono però insediamenti con occupazioni ricorrenti, con spettri faunistici legati all'ambiente circostante piuttosto che a scelta umana, e in cui dominano animali di taglia medio-grande (stambecchi, bovini, Cervidi ed Equidi), con più rare catture di grandi pachidermi e di carnivori, questi ultimi uccisi soprattutto per le loro pellicce. Le ricerche archeologiche e lo studio dei modelli di mortalità condotti in aree geografiche delimitate (ad es., nell'Italia centrale e nella Francia meridionale) hanno messo in luce per il Paleolitico superiore la progressiva specializzazione nella scelta delle specie animali, nella selezione dell'età e del sesso e nei modelli insediamentali (stazioni di caccia stagionali e insediamenti più stabili residenziali). Fondamentali in questo ambito sono gli studi sui cacciatori maddaleniani di renne, in Francia, che hanno portato a riconoscere almeno otto diverse regioni di caccia, corrispondenti ad altrettante aree di migrazione delle renne, con vari insediamenti stagionali la cui localizzazione seguiva il movimento delle mandrie. Caccia specializzata di cavalli, tra l'Aurignaziano e il Maddaleniano, è testimoniata tra l'altro a Solutré, dove è stato ipotizzato che le mandrie, artificialmente spaventate, venissero fatte precipitare da dirupi. La caccia al mammut ha avuto un ruolo importante nel Paleolitico superiore dell'Europa orientale, dell'Ucraina e delle steppe russo- asiatiche: la cattura di questi Proboscidati forniva cibo e materie prime impiegate per la preparazione di armi, oggetti artistici e perfino abitazioni (Molodova V, strati 3 e 2, e Riparo di Mezirič, nella valle del Dnepr). Durante il Mesolitico, in risposta alle trasformazioni ambientali che seguirono la fine delle glaciazioni, la caccia, in un quadro più generalizzato di acquisizione del cibo, mostra ovunque l'ampliamento delle specie predate e l'aumentata importanza della caccia individuale favorita dall'uso dell'arco. L'adesione ai modelli di economia produttiva non determinò comunque una repentina riduzione della caccia: tradizioni di caccia mesolitiche (a cervo e cinghiale) sopravvissero infatti per lungo tempo all'interno delle comunità di agricoltori-allevatori che si diffusero nel corso del VI-IV millennio a.C. nell'intera Europa.

Bibliografia

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L'utilizzazione delle risorse vegetali

di Lanfredo Castelletti

Le indagini sull'utilizzo delle risorse vegetali nel Pleistocene recente e nell'Olocene antico, oltre a verificare tecniche e modalità di prelievo delle piante da parte dei cacciatori-raccoglitori, mirano ad affinare le conoscenze dei processi che sono alla base dell'origine dell'agricoltura. Esistono tuttavia difficoltà nel fare il punto sulla situazione dell'alimentazione vegetale delle comunità preneolitiche: i siti dei cacciatori-raccoglitori, infatti, offrono minori opportunità di conservazione dei resti botanici rispetto agli insediamenti degli agricoltori, più complessi, talvolta con livelli di distruzione che consentono più facilmente la conservazione dei resti vegetali. Inoltre il disparato materiale botanico dei raccoglitori, costituito spesso dalle parti tenere di piante commestibili quali foglie, bulbi e tuberi, ha scarse possibilità di trattamento diretto sul fuoco e quindi di adeguata conservazione allo stato carbonizzato. Esistono infine dubbi sulla effettiva appartenenza dei resti di semi carbonizzati a specie vegetali utilizzate per l'alimentazione e non piuttosto, come ad esempio in alcuni siti preneolitici del Vicino Oriente, a sterco di erbivori usato come combustibile. Le nostre conoscenze possono migliorare utilizzando accurate tecniche di campionatura insieme a indagini anatomiche e istologiche atte a riconoscere e determinare avanzi carbonizzati mal conservati o di difficile interpretazione. Inoltre le informazioni dirette sull'alimentazione, costituite da semi e frutti, nonché da resti di feci umane, vengono integrate mediante l'esame di fitoliti, di pollini, di carboni e anche attraverso l'analisi molecolare del materiale vegetale archeologico. In particolare i carboni, fornendo indicazioni sulla flora legnosa locale, sono fonti indirette di informazione sulla disponibilità di alcuni alimenti vegetali prodotti, in prevalenza sotto forma di frutti, da alberi e cespugli della flora spontanea. A dispetto del perdurare dell'opinione che la maggior parte del cibo fosse, almeno durante le fasi climatiche più critiche del Paleolitico superiore e dell'Epipaleolitico, di origine animale, anche le aree europee meno favorite nell'Ultimo Pleniglaciale, come la taiga o la tundra-steppa, sembrano aver offerto possibilità di approvvigionamento di materiale vegetale ad uso alimentare stando ai dati dei pollini, dei carboni e di altre parti di piante; perfino nelle fasi e nelle aree più aride è possibile individuare sistemi fluviali e lacustri con aree umide o foreste a galleria con possibilità di sviluppo di piante acquatiche eduli. In siti paleolitici dell'Europa orientale sono stati rinvenuti resti carbonizzati attribuibili a radici, tuberi o rizomi, a Dolní Věstonice II (Repubblica Ceca), in particolare, sono stati trovati probabili resti di radici di Composite datate a 26.000 anni fa. L'ipotesi che questa famiglia di piante sia stata utilizzata trova conferma nelle ampie possibilità alimentari fornite dalle sue parti sotterranee e nel fatto che le Composite aumentarono notevolmente con la diffusione di steppe e di steppe-tundre, proprio durante i periodi di raffreddamento climatico dell'Ultimo Glaciale. Nella parte settentrionale del Mediterraneo l'esistenza di piante che nel Paleolitico superiore erano in grado di produrre frutti commestibili si ricava dalle analisi polliniche e ancor meglio, per il loro significato strettamente locale, da quelle di carboni: ad esempio a Castelcivita sono stati individuati resti di legno carbonizzato di nocciolo (Corylus), Pomoidee, corniolo, Prunus, quercia e olivello spinoso (Hippophaë rhamnoides), mentre a Grotta Paglicci insieme al carbone di mandorlo selvatico sono stati trovati negli strati dell'Aurignaziano i gusci carbonizzati del frutto. In area mediterranea orientale, nella Grotta di Franchthi in Grecia, fra 25.000 e 13.000 anni fa sono presenti solo semi di Borraginacee. Nei due millenni successivi si utilizzarono invece numerose specie spontanee di foresta o di foresta-parco, come vite, lenticchia, pero, mandorlo e pistacchio, insieme a piante di luoghi aperti, in particolare orzo spontaneo e avena. Nelle fasi seguenti, infine, aumenta ulteriormente la quantità e la varietà di piante spontanee adoperate per l'alimentazione. In Ucraina, in livelli paleolitici di 15.000 anni fa, sono stati scoperti residui di tessuto parenchimatico carbonizzato, riferibile a radici o tuberi non meglio identificati, mentre negli strati mesolitici di Schela Cladovei, in Romania, sono attestati avanzi di tuberi carbonizzati. Il cambiamento climatico globale del Postglaciale, con l'aumento generale di temperatura e l'incremento significativo di umidità anche in aree particolarmente aride, produsse notevoli mutamenti positivi nell'estensione e nella composizione dei biotopi vegetali. Questi giunsero a essere nell'Olocene antico ben più ricchi che nel Pleistocene finale, permettendo ai cacciatori-raccoglitori mesolitici un'agiatezza superiore a quella che avevano conosciuto i loro predecessori, almeno per quanto riguarda la disponibilità di materiali vegetali. Nella foresta temperata nordica, considerata per l'Olocene antico un'area di elevata produttività, vi sono prove dirette dell'impiego di materiale vegetale. Siti mesolitici della Danimarca, come Møllegabet II, hanno conservato, oltre a gusci di nocciole (Corylus), ghiande di quercia e noccioli di Cornus sanguinea, frutti immaturi di biancospino, frammenti di parenchima provenienti forse da radici o tuberi o rizomi, oltre a piccole parti di rovo e prugnolo. Sempre in Danimarca, nel sito costiero di Saltbæk Vig, sono stati rinvenuti gusci di nocciole, frammenti di ghiande di quercia e resti di tessuto parenchimatico. A Colonsay, nelle isole Ebridi, accanto ad abbondanti resti di gusci di nocciole e di tessuto parenchimatico sono stati individuati tuberi e bulbilli del flavagello (Ranunculus ficaria), ricordato nella tradizione popolare fra le piante un tempo utilizzate come alimento. La foresta temperata presenta potenzialmente numerose specie commestibili di facile accesso ai cacciatori-raccoglitori dell'Olocene, fra cui molte Rosacee che producono frutti di melo e di pero selvatico, biancospino, prugnolo, sorbo, rovo, ecc.; per tali frutti esistono precise documentazioni archeobotaniche, prevalentemente a partire dal Neolitico, a proposito del loro uso intensivo e dei processi impiegati per assicurarne la durata e la commestibilità, come il dimezzamento o l'incisione del frutto per la cottura o per l'essiccamento. Nell'Italia mediterranea il sito preneolitico che ha fornito il più largo spettro di piante spontanee alimentari è la Grotta dell'Uzzo in Sicilia, da cui provengono ghiande di quercia, semi di Leguminose spontanee, come pure resti di corbezzolo, vite e olivo selvatico, quest'ultimo testimoniato dai carboni di legno. Per l'intera Europa temperata, compresa quella mediterraneo-montana, è di grande interesse il fenomeno della quasi costante presenza di gusci di nocciole nei siti mesolitici. Questa apparente abbondanza pone diverse questioni sul ruolo effettivamente svolto da questo frutto nell'alimentazione mesolitica e sulla sua reale manipolazione come specie semidomestica da frutto; tale fenomeno è certamente legato alla facile conservabilità dei gusci carbonizzati, ma la sua trasformazione ad opera del fuoco potrebbe essere stata agevolata dalla pratica della tostatura, tesa a migliorare gusto e durata del frutto. Nell'Europa nord-orientale l'incremento del nocciolo nei profili pollinici, verificatosi intorno a 10.000-9000 anni fa, in passato è stato interpretato come la prova di una rapida diffusione della pianta associata al trasporto antropico di nocciole. Ipotesi recenti interpretano invece questo incremento in chiave puramente climatica, collegandolo cioè con la rapida diffusione della specie, dai rifugi glaciali, all'inizio dell'Olocene. Tuttavia studi sui microcarboni nei profili pollinici, ad esempio nel caso del lago di Origlio nella Svizzera meridionale, hanno dimostrato che il nocciolo è una delle specie arbustive più favorite dal passaggio di incendi e mostra un incremento rilevante in occasione dei primi incendi di probabile origine antropica durante l'Olocene antico. Verifiche recenti hanno dimostrato che l'incremento della produzione è determinato soprattutto da una distanza minima sufficiente fra i cespugli e che un simile intervento di diradamento di scarso rilievo energetico avrebbe potuto essere praticato anche dai cacciatori-raccoglitori.

Bibliografia

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Lo sfruttamento degli ambienti acquatici

di Antonio Tagliacozzo

Oltre alla cattura dei pesci, lo sfruttamento degli ambienti acquatici si manifesta anche attraverso la raccolta e la caccia di altri animali, quali Echinodermi (ricci, stelle marine), Molluschi (bivalvi, gasteropodi, seppie, calamari), Crostacei (gamberi, granchi), Rettili (tartarughe), Carnivori pinnipedi (foche, trichechi) e Cetacei (balene e delfini). Il modo di acquisizione di queste risorse permette di trattare complessivamente il processo di cattura degli animali il cui habitat permanente sia acquatico (acque dolci, salmastre o salate) e di differenziarlo dalla caccia agli animali terrestri. Per valutare l'entità dello sfruttamento di tali risorse nell'economia di una popolazione preistorica ci si avvale delle testimonianze fornite dall'arte preistorica, dei resti delle armi e degli attrezzi utilizzati nella pesca e dello studio delle vestigia fossili degli animali catturati. Purtroppo nel corso del Quaternario si sono avute forti oscillazioni del livello marino: pertanto numerosi siti archeologici costieri, dove l'uomo potrebbe aver lasciato testimonianze della pratica e delle tecniche di pesca, si trovano attualmente sommersi. Le ossa dei pesci si conservano meno bene di quelle dei grossi mammiferi e fino a poco tempo fa si disponeva solo di rari studi sull'ittiofauna recuperata negli scavi preistorici. I dati ricavabili dalle rappresentazioni artistiche, d'altro canto, sono in genere lacunosi e le principali indicazioni sulle tecniche di pesca sono fornite dallo studio dei resti delle armi e degli attrezzi, anche sulla base di confronti etnografici. Questi utensili, così come le rappresentazioni figurative, non comparvero in Europa che nel corso del Paleolitico superiore e del Mesolitico; anche per questo motivo la pesca è stata tradizionalmente considerata un'attività di sussistenza praticata solo molto più tardi della caccia. Grazie alle migliorate tecniche di recupero e allo sviluppo di una specifica metodologia di studio (l'archeoittiologia), i recenti rinvenimenti di ossa di pesci in giacimenti paleolitici hanno tuttavia rivelato che lo sfruttamento dell'idrosfera era iniziato già nel corso del Paleolitico medio e inferiore. Vi sono testimonianze molto parziali sulle tecniche impiegate dai pescatori preistorici, in quanto il rinvenimento dell'attrezzatura utilizzata è un fatto del tutto eccezionale, essendo essa in gran parte realizzata in materiali deperibili e di scarsa conservazione (fibre vegetali e legno). Tra le armi utilizzate nella pesca molte sono le stesse impiegate nella caccia (lancia, arco e frecce), ma comune è l'uso di armi specializzate come la fiocina o l'arpone; vengono inoltre utilizzate trappole e insidie varie, quali ami, reti e nasse. L'arpone è un'arma da getto con una punta dentellata, comunemente in corno di cervide o in osso, che ha la caratteristica di staccarsi dall'asta, alla quale resta congiunto da una corda, una volta che ha colpito la preda. I più antichi arponi compaiono in Europa all'inizio del Maddaleniano superiore e secondo alcuni rappresentano lo strumento per eccellenza della pesca ai grossi salmoni; recenti studi tendono però ad avvalorare l'ipotesi che i grossi arponi maddaleniani, rinvenuti a volte in associazione a resti di grossi mammiferi, fossero usati nella caccia alla renna, piuttosto che nella pesca. Certamente utilizzate per la pesca sono le caratteristiche punte dentellate maglemosiane dell'Europa settentrionale, più volte ritrovate in associazione con resti di lucci. In Estonia, presso Kunda, due arponi erano conficcati uno nella testa l'altro nel dorso di due grossi lucci; ritrovamenti analoghi sono segnalati in altri siti mesolitici in Svezia, Danimarca e Germania. L'amo, legato ad una lenza e mascherato da un'esca, rappresenta la più comune delle insidie; può essere di varie dimensioni e forme (a bacchetta diritta appuntita, a losanga con doppia punta, a uncino) e realizzato con vari materiali (osso, corno, legno, selce). Gli ami a doppia punta in osso o corno, a volte con scanalatura mediana per facilitare la legatura con la corda, compaiono in Europa a partire dal Paleolitico superiore antico. L'utilizzazione dell'amo con uncino ad U, stante i rinvenimenti nei livelli aziliani di Pont d'Ambon, Mas d'Azil e Bois Ragot nel Sud-Est della Francia, sembra risalire alla fine del Paleolitico superiore. Allo stato attuale il solo rinvenimento a Mezin, in Ucraina, di un frammento di amo ricavato da una placchetta d'avorio e riferibile al Maddaleniano iniziale (ma con datazioni al ¹⁴C ancora anteriori) sembra più antico. I rinvenimenti di ami a uncino diventano più comuni nel corso del Mesolitico e soprattutto del Neolitico, dove predominano quelli con uncino a V. I ritrovamenti più numerosi di queste insidie si hanno nei giacimenti mesolitici maglemosiani e della cultura di Ertebølle dell'Europa settentrionale e mostrano fogge e dimensioni varie, alcuni con fori o dentellature laterali. Altre insidie certamente utilizzate già in tempi preistorici sono le reti e le nasse. È possibile che le reti fossero già utilizzate nel Paleolitico superiore, come starebbero a testimoniare sia i frammenti di corda in materia vegetale, sia le impronte lasciate sull'argilla nella Grotta di Lascaux, che indicano l'alto grado di lavorazione di fibre vegetali raggiunto nel Maddaleniano. Tuttavia, prove certe dell'utilizzo delle reti da pesca risalgono solo al Mesolitico dell'Europa settentrionale: uno dei più famosi rinvenimenti, datato circa 8800 anni fa, è quello effettuato durante il prosciugamento parziale del Lago Ladoga (Vyborg, Finlandia). Si tratta di 17 galleggianti in corteccia di pino, di forma grossolanamente ovale, lunghi circa 30 cm e con un foro decentrato, associati a resti di rete costruita da corda di fibre di tiglio a doppio filo ritorto e ad una trentina di ciottoli usati come pesi. Questi rinvenimenti appartenevano ad una rete lunga circa 30 m e alta 1,5 m, il cui impiego comportava il lavoro contemporaneo di più pescatori e forse di una barca. Ulteriori rinvenimenti di galleggianti, reti e pesi provengono da siti mesolitici della Svezia (Bare Mosse) e dell'Estonia (Sivertsi) e soprattutto da insediamenti della cultura di Ertebølle, dove le scoperte di reti si moltiplicano e si diversificano. Un esemplare quasi completo, con maglie triangolari o a losanga, proveniente da Rude 2 (Schleswig, Germania) e datato circa 6000 anni fa, mostra una legatura delle maglie ottenuta con "il nodo del pescatore" ancora oggi utilizzato. Rinvenimenti di reti si hanno anche in siti lacustri del Neolitico svizzero e francese. Uno strumento che compare nel Mesolitico dell'Europa settentrionale è la nassa, una trappola simile ad un cesto intrecciato, in genere di forma conica. Al momento la più antica è stata rinvenuta in un sito costiero danese della cultura di Ertebølle, Tybrind Vig, datato circa 7500 anni fa. Altre nasse risalenti allo stesso periodo provengono da Nidlose e Villingebaek, sempre in Danimarca, da Jonstrop in Svezia, da Duvensee e Moorsee in Germania settentrionale. L'utilizzo delle nasse presupponeva la costruzione di barriere per costringere i pesci nella trappola; resti di tali sbarramenti, di probabile età mesolitica, sono stati riconosciuti in diversi siti dell'Europa settentrionale: Vlaardingen (Olanda), Tybrind Vig e Svinninge Velje (Danimarca), Hoyland (Norvegia). I dati archeozoologici confermano che solo nel corso del Paleolitico superiore lo sfruttamento delle risorse acquatiche divenne presso alcune popolazioni un'importante fonte di sussistenza e che è possibile parlare di vere comunità di pescatori solo a partire dal Mesolitico. Vi sono tuttavia prove a sostegno di uno sviluppo dell'alieutica già a partire dal Paleolitico inferiore: resti di pesci marini sono stati trovati nella Grotta del Vallonet in Francia, in livelli datati circa 900.000 anni fa, ma sono dovuti probabilmente ad un deposito naturale. Resti di pesci d'acqua dolce (trote, lucci, barbi, cavedani, anguille) sono presenti in alcuni giacimenti antropici del Pleistocene medio europeo (Isernia, Mas de Caves, Lazaret, Orgnac-l'Aven, Aridos I), ma non si può completamente escludere l'apporto naturale o da parte di animali di queste modeste vestigia. Anche nel Paleolitico medio lo sfruttamento dell'ambiente marino è solo raramente documentato nei giacimenti archeologici: alcune vertebre di pesci marini nei livelli K-G di Grotta Romanelli, in Italia, e resti di un pesce piatto a Tito Bustillo, nel Nord della Spagna. I giacimenti musteriani europei contenenti ossa di pesci d'acqua dolce, in maggioranza Salmonidi, assieme a cavedani, anguille e Ciprinidi, sono relativamente poco numerosi (Grotta di La Carrière e Grotta Vaufrey, in Francia, di età rissiana, Tito Bustillo e Cueva Millan in Spagna, Grotta di Castelcivita in Italia, Vallière, Pair-non-Pair, Frechet, Abri Olha, Grotta di Salpêtre, Saint-Germainles- Vaux, in Francia, tutti di età würmiana). Nel sito di Saint-Germain i rinvenimenti di ossa di pesci in un focolare costituirebbero la prima prova del consumo di pesce da parte dell'uomo. È interessante sottolineare che, sia a Grotta Castelcivita sia a Grotta Vaufrey, l'analisi della stagione di cattura ha evidenziato che gli uomini non utilizzavano una reale strategia stagionale e che la pesca non costituiva un'attività specializzata, ma piuttosto un allargamento delle fonti di sussistenza basate sulla caccia ai mammiferi terrestri. Secondo una recente indagine, che richiede tuttavia ulteriori conferme, indizi sulla pesca anche in assenza di resti di pesci sarebbero forniti dallo studio delle tracce di usura su alcuni strumenti litici forse utilizzati per eliminare le scaglie dal pesce (Grotta Breuil al Circeo). Nel Paleolitico medio i resti di pesce rappresentano ancora una ridottissima minoranza in rapporto a quelli dei grandi mammiferi; la pesca era solo un'attività secondaria, praticata quando l'accampamento preistorico era installato in prossimità di punti d'acqua pescosi. La raccolta di Molluschi costituì in questo periodo un'importante innovazione: Mytilus, Monodonta, Patella e Glycymeris erano oggetto di raccolta e le loro conchiglie sono presenti, sebbene in piccole quantità, in vari giacimenti costieri del Mediterraneo. Con il Paleolitico superiore, grazie anche all'adozione di nuove tecniche, la pesca assume un ruolo più importante nell'attività economica. I giacimenti che hanno restituito resti di pesci sono numerosissimi in Europa e comuni anche in Africa: prevale ancora fortemente la pesca in acque interne, ma lo sfruttamento delle risorse costiere marine appare in crescita. La pesca in mare, attestata solo a partire dal Maddaleniano, sembra svolgersi ancora come una sorta di "raccolta" lungo la fascia litorale, in quanto le specie identificate nei siti antropici vivevano tutte lungo le coste e venivano catturate presumibilmente senza l'ausilio di imbarcazioni. È testimoniata inoltre la raccolta dei molluschi marini per scopi diversi da quello alimentare: nei giacimenti antropici prevalgono in genere le conchiglie utilizzate a scopo ornamentale e decorativo, mentre solo poche di esse possono essere interpretate come avanzi di cibo. Sono segnalate in alcuni siti costieri anche rare catture di foche, mentre non ci sono evidenze di catture di cetacei; l'unica evidenza è un dente di capodoglio scolpito, rinvenuto in livelli maddaleniani al Mas d'Azil. Diverso appare lo sfruttamento delle acque interne che nelle fasi finali del Paleolitico europeo, a partire da 12.000 anni fa, veniva attuato in alcuni giacimenti con vere e proprie strategie specializzate e stagionali. Le catture interessavano in primo luogo i Salmonidi (salmoni, trote e coregoni), migratori anadromi che risalgono numerosi i corsi d'acqua durante il periodo riproduttivo, e le anguille, migratrici catadrome che, viceversa, scendono verso il mare in età adulta e quindi sono più facilmente predabili proprio per le loro abitudini. Ma sono presenti anche resti di numerosi Ciprinidi (cavedani, lasche, carpi, barbi, tinche, ecc.) e lucci, a volte di grandi dimensioni. Alcuni giacimenti sono stati interpretati come veri e propri siti di lavorazione del pesce: nei livelli del Maddaleniano medio del Riparo Bois des Brousses (Francia) numerosi resti di trote, anguille e temoli sono stati trovati in associazione ad una struttura di pietra. L'assenza di ossa della testa e delle estremità della colonna vertebrale suggerisce una preparazione dei pesci, ai quali furono tolte teste e code precedentemente alla loro introduzione nel sito, e una loro possibile affumicatura in relazione alla struttura in pietra. Durante il Mesolitico le tendenze già notate nelle fasi finali del Paleolitico superiore si amplificano e si generalizzano e anche lo sfruttamento delle risorse marine si amplia. A questo periodo risale la formazione dei cosiddetti "chiocciolai", impressionanti accumuli di conchiglie che testimoniano la raccolta intensiva di Molluschi marini (Ostrea, Mytilus, Patella, Cerastoderma, Littorina, Tapes, ecc.). Lungo le coste possono raggiungere diverse centinaia di metri di lunghezza ed uno spessore superiore al metro; nelle grotte e nei ripari sotto roccia assumono l'aspetto di livelli cinerizi ricchi di conchiglie. Alcuni dei più antichi chiocciolai risalgono probabilmente alle fasi finali del Maddaleniano (El Cierro, Balmori, La Lloseta nella Spagna cantabrica), ma è nel corso del Mesolitico che si sviluppano. Numerosi chiocciolai sono localizzati lungo le coste portoghesi, ma soprattutto nella Scandinavia, dove si moltiplicano durante l'Ertebølle. Associati a questi accumuli sono stati trovati spesso resti di pesci marini, la cattura di alcuni dei quali presuppone l'uso di imbarcazioni e reti. Resti di Cetacei, evidentemente arenatisi naturalmente sulle rive, si rinvengono soprattutto in chiocciolai della Scandinavia, ma sono conosciuti anche lungo le coste atlantiche francesi (Téviec e Hoedic). In Italia resti di grossi Cetacei si rinvengono nella Grotta dell'Uzzo in Sicilia, in livelli della fine del Mesolitico databili tra il 7000 e il 6500 a.C. Sono state rinvenute ossa di più individui di tre generi di delfini (Gramphus griseus, Delphinus delphis e Globicephala melaena); qualche esemplare era di grande mole e raggiungeva 9 m di lunghezza. Dischi vertebrali e resti mandibolari e costali appartengono a due dei più grandi Cetacei esistenti, il capodoglio e la balenottera, i quali possono raggiungere oltre 20 m di lunghezza. In questo stesso periodo alla Grotta dell'Uzzo si sviluppa lo sfruttamento delle risorse marine, testimoniato, oltre che dall'alto numero dei Molluschi, dai Crostacei e dall'ampio spettro di specie di pesci pescate, cernie soprattutto, che perdurerà anche nel Neolitico antico. Al contempo, continua e si sviluppa anche la pesca nelle acque interne, in particolare lungo le sponde di laghi, a volte in relazione ad una vera e propria "sedentarizzazione" di alcune popolazioni, presso le quali lo sfruttamento stagionale delle risorse acquatiche rivestiva una fonte importante di alimentazione. È dunque nel corso del Mesolitico e nel Neolitico antico che si ha per la prima volta testimonianza di popolazioni (in Scandinavia, ma anche nel bacino mediterraneo) che basano la loro sussistenza soprattutto sullo sfruttamento delle risorse marine e acquatiche in genere, tuttavia queste non costituirono mai l'unica fonte di approvvigionamento alimentare, ma furono sempre integrate dai proventi delle attività di caccia-raccolta e, successivamente, dall'allevamento e dalle pratiche agricole.

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La caccia, l'utilizzazione delle risorse vegetali e lo sfruttamento degli ambienti acquatici: asia
la caccia nel vicino oriente

di Francesca Balossi Restelli

In passato si riteneva che le comunità preistoriche, soprattutto quelle degli Ominidi precedenti a Homo sapiens, fossero dedite essenzialmente alla caccia; pertanto le piante, per altro difficilmente conservabili, venivano tralasciate dai ricercatori nelle ricostruzioni della dieta dei gruppi più antichi. Tale concezione è stata criticata nel momento in cui si è messa in dubbio la capacità stessa degli Ominidi di cacciare. Attualmente, infatti, si è certi che i primi Ominidi del Paleolitico (Homo habilis e forse anche H. erectus) acquisivano la maggior parte della carne che consumavano dagli scarti delle vittime di altri predatori (ad es., i leoni), anche se è probabile che cacciassero intenzionalmente alcuni animali, seppure in maniera casuale e senza una specifica organizzazione o tattica di caccia. Le proteine quindi non dovevano costituire una percentuale importante della loro dieta, la quale era invece prevalentemente vegetariana. Con gli sviluppi successivi del Paleolitico, il ruolo destinato alla carne nella dieta umana divenne sempre maggiore, fino a essere dominante, mai eliminando però l'apporto dei vegetali. Piante e animali insieme, in proporzioni variabili a seconda della reperibilità delle risorse alimentari e quindi delle condizioni ambientali delle singole regioni, furono la base alimentare di tutti i gruppi preistorici. Trattando della caccia, quindi, va considerato che questa si combinava con la raccolta di piante selvatiche, spesso in un'organizzazione economica, di caccia-raccolta per l'appunto, assai complessa e composita. Il riconoscimento della fauna ritrovata nei siti archeologici può dare importanti indicazioni oltre che sulla dieta dei gruppi preistorici, anche sulle tecniche e sulle strategie utilizzate nella caccia e sull'organizzazione stessa della vita comunitaria. I gruppi di cacciatori-raccoglitori erano generalmente nomadi o seminomadi, essendo i loro spostamenti strettamente connessi con la reperibilità delle risorse alimentari. In quest'ottica, la presenza in un sito archeologico di animali transumanti è un chiaro indizio della stagionalità dell'occupazione del luogo e del movimento dei gruppi stessi; ad esempio, nel sito di Quneitra, nel Golan, datato al Paleolitico medio, la fauna indica una frequentazione limitata esclusivamente ad una stagione dell'anno. Lo stesso avviene durante il Paleolitico superiore (33.000-13.000 anni fa ca.) a Wadi Kubbaniya, in Egitto, dove tra i resti di fauna ne sono stati trovati numerosi di Fulica atra, un uccello che si trova nella regione nilotica solo durante l'inverno; anche la forte presenza di anatre migratrici invernali conferma che l'occupazione del sito doveva essere limitata a questa stagione. Nel Sinai, in un sito di Wadi Feinan (Abu Noshra II), datato anch'esso al Paleolitico superiore, è stato rinvenuto un neonato di capra (Capra ibex), utile indizio per supporre che la zona fosse occupata dai cacciatori in primavera, stagione durante la quale tale specie si riproduce. I movimenti dei gruppi di cacciatori sono quindi spesso legati agli spostamenti di determinati branchi di animali selvatici e alle concentrazioni di pesci in punti specifici dei fiumi in particolari stagioni dell'anno. Questi sono generalmente stagionali, più o meno regolari di anno in anno, il che determina in parte la ciclicità e ripetitività degli spostamenti di queste popolazioni. Gli insediamenti natufiani dell'Epipaleolitico (12.500-10.200 anni fa ca.) del Levante (Palestina, Libano, Giordania, Siria occidentale) sono un esempio di movimento circolare con ritorni periodici al campo-base, ma è probabile che ciò avvenisse anche prima, sebbene non ve ne siano testimonianze certe. Le regioni con notevole varietà ambientale, spesso coincidente con forti variazioni di altitudine, sono caratterizzate da una maggiore mobilità degli animali e quindi dei gruppi umani. I monti Zagros (Iran) e la catena del Tauro (Turchia) ne sono un esempio, mentre nel Levante la maggiore omogeneità ambientale riduce l'attività migratoria degli animali presenti: i branchi di gazzelle selvatiche e gli altri animali che popolano l'area hanno un carattere molto più stanziale. Le capre delle regioni montane degli Zagros e del Tauro hanno invece dei movimenti migratori lunghi, passando dalle piane intermontane (ad es., il Kermanshah) alle alte vette, a seconda delle stagioni. I gruppi di cacciatori-raccoglitori orientali, soprattutto nelle fasi più tarde del Paleolitico e durante l'Epipaleolitico, quando la caccia divenne più intensiva e specializzata, avranno avuto quindi una mobilità molto maggiore di quella delle popolazioni del Levante. L'importanza di questo aspetto a livello organizzativo e insediamentale è soprattutto nelle sue conseguenze: la minore mobilità nel Levante porterà infatti ad una precoce formazione di villaggi stanziali, a strategie di raccolta basate in modo sempre più specialistico sui cereali selvatici e, conseguentemente, allo svilupparsi dell'economia agricola. Riguardo alla scelta degli animali da cacciare, per tutto il Paleolitico inferiore (1,5 m.a. - 100.000 anni fa ca.) e medio (100.000-33.000 anni fa ca.) non si nota alcun tipo di orientamento preferenziale, né nelle specie cacciate, né nell'età o nel sesso delle prede. Infatti, nei siti in cui si registra la maggiore presenza di resti di un animale rispetto a quelli di altre specie, ciò è un semplice riflesso della naturale distribuzione di questo animale nella regione. Così è sicuramente, ad esempio, per Ubeidiya, sito levantino del Paleolitico inferiore (datato a 1,4 m.a. ca.), in cui la presenza dei Cervidi è molto più elevata di quella degli altri animali, quali gazzelle, suini ed equini. Lo stesso è probabilmente anche per i siti libanesi del Paleolitico superiore, in cui domina il daino, mentre nella vicina Galilea, poiché il clima è più secco, la presenza della gazzella è molto più rilevante. Questa differenza tra le tre aree, quindi, è essenzialmente dovuta ai caratteri climatico-ambientali delle stesse. Il vincolo dell'ambiente sulle risorse sfruttate durante il Paleolitico è ancora più chiaro se si confrontano tre aree lontane e fisicamente diverse, come il Levante, i monti Zagros e la valle del Nilo. Fino al Paleolitico superiore la capra è praticamente assente o molto rara nel Levante, regione più pianeggiante e meno varia delle regioni montagnose orientali, dove l'animale più cacciato è la gazzella. I caprovini si trovano invece negli Zagros, regione molto più vicina alla loro naturale distribuzione, sin dalle fasi più antiche del Paleolitico inferiore. Nella regione nilotica il maggiore legame con il fiume e i numerosi laghi e corsi d'acqua stagionali, oltre al clima particolare, ha determinato la presenza di specie assenti o rare nelle altre aree; sebbene non risultino tra i più cacciati, sono documentati infatti resti di ippopotamo, rinoceronte, bufalo e giraffa. Durante il Paleolitico sono documentati alcuni cambiamenti nelle specie animali cacciate: l'ippopotamo e il rinoceronte, ad esempio, attestati nei siti del Paleolitico inferiore dell'Egitto, si rinvengono in questo periodo anche nel Levante (Ubeidiya, Benot Yaaqov) e negli Zagros (regione del Khorasan). Tuttavia, mentre in Egitto queste specie sono presenti per tutto il Paleolitico, negli Zagros scompaiono di fatto con il Paleolitico medio e nel Levante con il Paleolitico superiore. Anche l'alcelafo, tipico dell'Egitto, ma presente anche nel Levante (Azraq), scompare da quest'ultima regione durante il Paleolitico superiore. Le specie più comuni, che si rinvengono in tutte le aree considerate sin dal Paleolitico inferiore, sono Equidi (nel Levante compaiono alla fine del Paleolitico inferiore), Cervidi e, sebbene meno frequenti, Bovidi (Bos primigenius). Nonostante la distribuzione naturale degli animali condizioni fortemente le scelte di caccia delle piccole comunità di cacciatori-raccoglitori, verso la fine del Pleistocene si incomincia a notare una selezione specifica e programmata degli animali da cacciare nell'ambito delle risorse disponibili. Si tratta di una tendenza molto difficile da individuare ai suoi inizi, che però diverrà più chiara con l'Epipaleolitico, come indicano i dati provenienti da molti siti natufiani. Nell'Epipaleolitico, infatti, nei singoli siti si nota una predominanza di una o due specie sulle altre presenti nell'area: a Mallaha dominano i Cervidi, a Rosh Horesha i Capridi, a Mureibet gli Equidi. Non più dunque solo la presenza degli animali nella regione, ma la maggiore conoscenza delle loro caratteristiche e dei loro movimenti determina ora le strategie di sussistenza, che si orientano in modo selettivo, anche se vere e proprie specializzazioni nell'attività di caccia si avranno solo in epoca più tarda, dopo il primo periodo sperimentale di domesticazione. In seguito alcuni gruppi si orienteranno verso un'economia agricola e pastorale, altri, per lo più abitanti di regioni montagnose, intensificheranno l'attività di caccia. Caprovini e suini, così importanti per gli sviluppi più tardi del Neolitico in quanto sono gli animali che verranno addomesticati, meritano un'attenzione particolare. I primi sono attestati nel Paleolitico inferiore solo nelle regioni orientali e montagnose (siti del Khorasan, Grotta di Shanidar), mentre nel Levante fanno la loro comparsa molto più tardi, a partire dal Paleolitico superiore. I suini, invece, sono documentati nel Paleolitico inferiore nei siti anatolici e levantini, mentre negli Zagros le prime attestazioni risalgono solo al Paleolitico medio. Questa iniziale distribuzione di caprovini e suini nel Paleolitico inferiore risulta assai interessante, in quanto coincide con le aree della loro domesticazione in età molto più tarda (circa la domesticazione dei suini in Anatolia va però detto che si tratta ancora di ipotesi basate su recenti scoperte che necessitano di ulteriori conferme). La più lunga tradizione di caccia a tali animali, oltre che il loro particolare adattamento a quei territori, sembrerebbero quindi aver contribuito al processo di domesticazione; infatti negli Zagros i caprovini sono la specie in assoluto più cacciata, come è attestato anche dai siti più antichi. Nel Levante i caprovini rimangono una risorsa di secondo piano per tutto il Paleolitico superiore (momento della loro prima apparizione) e l'Epipaleolitico, mentre viene cacciata soprattutto la gazzella. Solo molto più tardi, con il Neolitico preceramico B (PPN B, 9200-7000 anni fa ca.), la caccia ai caprovini supererà quella alle gazzelle ed è in questa fase che si comincia ad avere attestazioni del loro addomesticamento. Tali dati indicano quanto lunghi, complessi e probabilmente non casuali siano i processi di evoluzione e di trasformazione delle pratiche di caccia. Inoltre, gli stessi processi che hanno portato alla domesticazione dei caprovini negli Zagros sono riscontrabili nel Levante per la gazzella: il lungo "legame", sin dal Paleolitico inferiore, dei cacciatori con tale specie, l'intensificazione del suo sfruttamento e i cambiamenti morfologici negli esemplari risalenti a età più tarda (Epipaleolitico). Quando però sembrano mature le condizioni per la domesticazione della gazzella, questa non avviene; si è parlato infatti di "domesticazione fallita" e i motivi di questo fallimento vanno probabilmente ricercati forse più nei caratteri biologici e comportamentali delle gazzelle, che negli aspetti economici e culturali dei gruppi umani. In Egitto e nel Vicino Oriente durante il Paleolitico, oltre agli animali di taglia più grossa, vengono cacciati anche piccoli roditori, uccelli, pesci e molluschi. Questi animali affiancano le specie maggiori sin dai periodi più antichi, come è indicato dai ritrovamenti effettuati nel sito di Bir Tarfawi (Egitto meridionale), attribuibile al Paleolitico medio; ma è nei siti più tardi di Wadi Kubbaniya, Makhadma e Fayyum che si amplia la varietà alimentare con la presenza di molti di questi piccoli animali. La stessa tendenza si nota in tutte le altre regioni considerate, soprattutto durante l'Epipaleolitico (Ohalo II sul Mare di Galilea; Lagama, Gebel Maghara e Mushabi nel Sinai; Zarzi, Ali Tappeh I, Belt e Hotu in Iran). Lepri, volpi, rettili, roditori, tartarughe, uccelli, pesci e molluschi forniscono un apporto energetico minore dei grossi mammiferi, ma assieme riescono comunque a eguagliare la dieta basata sulle grosse specie. L'allargamento della base alimentare con animali di piccola taglia è uno dei cambiamenti più importanti nella dieta dei gruppi di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico finale e dell'Epipaleolitico e coincide con i profondi cambiamenti climatici della fine del Pleistocene e dell'inizio dell'Olocene (aumento delle temperature nel Tardiglaciale, 14.000-11.000 anni fa ca. e successivo inaridimento tra 11.000 e 10.000 anni fa ca.). La crescente imprevedibilità delle risorse e la loro generale diminuzione, dovuta alle difficoltà climatiche di queste fasi, hanno portato all'utilizzo di tutti i tipi di risorse disponibili e quindi all'aumento del consumo di animali di piccola taglia (lo stesso vale per l'ampliamento della varietà delle piante raccolte), caratteristica che proseguirà anche nelle prime fasi del Neolitico. Gli strumenti utilizzati nella caccia dovevano essere vari e realizzati soprattutto in materiali deperibili che non si sono conservati fino ai giorni nostri, come si può ipotizzare sulla base delle realtà conosciute a livello etnografico. Nel repertorio archeologico dei periodi più antichi, come il Paleolitico inferiore, gli unici strumenti rinvenuti sono quelli litici, le cui forme non risultano molto differenziate. Essi si articolano maggiormente nelle fasi successive e solo nel Paleolitico superiore divengono riconoscibili dal punto di vista funzionale. Nell'industria di questo periodo dominano le punte e i grattatoi o raschiatoi: le prime, applicate su bastoni servivano per cacciare, mentre i secondi erano utilizzati nella lavorazione della carne e delle pelli o per altre attività simili. Il Paleolitico superiore mostra un enorme ampliamento nella tipologia degli strumenti, di varie forme e complessità, parallelo ai cambiamenti notati nelle scelte e nelle tattiche di caccia. Compaiono infatti gli strumenti compositi, formati cioè con più materiali e più elementi litici (ad es., diversi microliti inseriti in un manico in legno od osso); inoltre compaiono anche strumenti in osso, tra cui punte, che sono molto comuni in alcuni siti degli Zagros, come Zarzi. Questi cambiamenti nell'industria litica e la comparsa di strumenti in altro materiale corrispondono ad una specializzazione nella produzione dello strumentario, che riflette anche un miglioramento delle tecniche per il reperimento delle risorse di sussistenza. Questa tendenza si accentua nell'Epipaleolitico e nel successivo Neolitico, quando la quantità e la particolarità delle punte di freccia sono tali che la sequenza culturale e cronologica del Levante viene addirittura basata sulla presenza o assenza di determinati tipi di punte (punte di El-Khiam, Harif, Aswad, Biblo). Le prime specializzazioni notate nelle strategie di caccia di alcuni siti epipaleolitici (come la scelta prevalente di una specie sulle altre) sono dunque associate a un generale miglioramento nelle tecniche e negli strumenti.

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L'utilizzazione delle risorse vegetali nel vicino oriente

di Lanfredo Castelletti

Un certo numero di siti del Vicino Oriente ha permesso di seguire le tracce dell'alimentazione umana preolocenica ma, nonostante le sempre più conclusive evidenze sull'origine e lo sviluppo dell'agricoltura, troppo poco si sa ancora sul ruolo dell'alimentazione vegetale nel Paleolitico e nel Mesolitico di quest'area. Si possono quindi fornire informazioni piuttosto frammentarie e per ora insufficienti ad apportare conclusioni adeguate. Nel sito di Douara Cave in Siria, nel Paleolitico medio, sono stati trovati noccioli di Prunus insieme a bacche di bagolaro (Celtis australis). A Hallan Çemi in Anatolia, nel Paleolitico superiore, la dieta includeva frutta secca, ossia semi di mandorlo selvatico e pistacchio, nonché Leguminose spontanee e semi di Scirpus maritimus e di poligono (Polygonum). Sembra anche che si sia fatto un tentativo di estrarre grasso vegetale dai semi della Gundelia tournefortii; nello stesso periodo, in zone più favorite dalle precipitazioni, sono presenti anche giunchi di palude come lo Scirpus maritimus. Ad Ohalo II, sulla riva del Mare di Galilea, sito all'aperto datato approssimativamente 19.000 anni fa, compaiono resti di orzo selvatico (Hordeum spontaneum) e frumento dicocco spontaneo (Triticum dicoccoides), di mandorlo, olivo (Olea europaea var. sylvestris), pistacchio (Pistacia atlantica) e vite selvatica, insieme a piccoli semi di Graminacee spontanee e di pisello selvatico. Il tutto inserito in un ambiente di foresta-parco a querce caducifoglie che orlava il Mare di Galilea in quel periodo. Un altro sito coevo della Palestina, Nahal Oren, ha fornito, nei livelli datati fra 18.000 e 16.000 anni fa, veccia selvatica, fico e anche Graminacee non meglio identificate. Nel sito del Neolitico Preceramico di Atlit Yam in Israele, attualmente sommerso a poca distanza dalla costa, sono stati riconosciuti oltre a cereali coltivati, carici e giunchi di palude, i cui semi possono essere usati come alimento, e inoltre fico, vite selvatica, carrubo e mandorlo. Ad Hayonim Cave nella Galilea occidentale si verifica sempre la presenza di frutta secca (il mandorlo) insieme ad orzo e Leguminose spontanee, fra cui grandi quantità di lupino. Senza dubbio queste indicazioni sono limitative, sia per le fasi mesolitiche, sia per le fasi di agricoltura incipiente, nei riguardi dell'effettiva raccolta e consumo di piante spontanee. Più illuminanti, anche se fonte per ora di innumerevoli dubbi, sono i siti fra l'Antitauro e le steppe della Siria. Nel sito epipaleolitico di Abu Hureyra furono utilizzate poche piante forestali per i focolari, tutte provenienti dalla foresta perifluviale dell'Eufrate, mentre sono presenti in grande quantità cereali, Leguminose spontanee e un vasto spettro di altre piante, prevalentemente erbacee, ammontante a circa 150 specie. Secondo una prima interpretazione, questa flora rappresenterebbe la sicura traccia di una raccolta intenzionale rivolta a selezionare, fra le piante della steppa, quelle utilizzabili oltre che per la dieta umana, per uso medicinale, per tingere o colorare e come allucinogeni, secondo una stringente comparazione con i dati forniti dall'etnobotanica, ossia dall'uso moderno delle specie vegetali di raccolta ad opera di gruppi umani diversi. Questa prima interpretazione mette in risalto la purezza delle tecniche di raccolta, ossia l'assenza di una preagricoltura, anche se i cereali selvatici, cioè il monococco spontaneo e una forma annuale di segale, costituiscono una parte considerevole dei resti vegetali. Secondo un altro punto di vista i semi di Abu Hureyra e di altri siti collocati in aree attualmente steppiche, dove la foresta di querce avrebbe fatto solo una fugace comparsa prima del 9000 a.C. per poi svanire, sarebbero da riferire a piante utilizzate da erbivori selvatici, prevalentemente gazzelle, il cui sterco veniva raccolto come combustibile: la carbonizzazione rendeva così possibile la conservazione di grandi quantità di semi. Altre spiegazioni e controdeduzioni sono state formulate per sostenere l'una o l'altra di queste teorie. Ad esempio, l'assenza di resti riconoscibili di sterco ad Abu Hureyra e la difficoltà di raccogliere quello disperso dagli erbivori selvatici sono argomentazioni a sostegno della prima spiegazione. A favore della seconda c'è la possibilità di interpretare la flora carbonizzata del sito di Ali Kosh (Neolitico antico) come un residuo di combustioni dello sterco di pecora e di capra, confermando la tendenza verso una progressiva riduzione di disponibilità della legna da ardere. Queste opinioni possono essere utilmente confrontate con i risultati delle ricerche a Uan Afuda, in Africa, nei quali il ritrovamento di coproliti sia di umani che di erbivori sembra fare propendere per un largo utilizzo delle Graminacee selvatiche anche nella dieta umana, semmai facendo scivolare la questione sul piano tafonomico, ossia su quello della conservazione archeologica dei resti botanici.

Bibliografia

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Lo sfruttamento degli ambienti acquatici nel vicino oriente

di Francesca Balossi Restelli

Nello studio sulle società di cacciatori-raccoglitori del Vicino Oriente lo sfruttamento delle risorse acquatiche (pesci e molluschi) è stato in passato sottovalutato. Eppure la vicinanza a fonti d'acqua era una prerogativa imprescindibile per qualsiasi occupazione umana; tali fonti erano spesso costituite da fiumi, magari stagionali, come nel caso delle antichissime attestazioni degli Ominidi in Africa centrale (Olduvai, Koobi Fora) e dei più tardi insediamenti egiziani (Wadi Kubbaniya) e vicino- orientali, ma anche da zone lacustri, come in molti insediamenti delle regioni desertiche dell'Egitto (Bir Tarfawi, Bir Sahara, Fayyum) e del Vicino Oriente (Ohalo II sul Mare di Galilea). È dunque irrealistico pensare che queste popolazioni, la cui economia di sussistenza si basava su caccia e raccolta, non sfruttassero nella maggior parte dei casi le risorse acquatiche. Testimonianze di pesca si hanno infatti sin dal Paleolitico inferiore (Ubeidiya nel Levante, Yarimburgaz in Anatolia), ma la minore conservazione delle ossa di pesce rispetto a quelle animali, così come la loro minore visibilità perché di dimensioni molto piccole, ha fatto sì che per lungo tempo si sottovalutasse questa presenza; recenti scoperte (Ohalo II) hanno riportato in primo piano questo aspetto. Nei monti Zagros le prime attestazioni sicure di pesca sono molto più tarde: infatti il primo sito ad averne dato testimonianza è quello epipaleolitico di Zarzi (13.000-10.000 anni fa ca.). Anche molti siti sul Mar Caspio (Ali Tappeh I, Belt, Hotu), sul Mar Nero (Ağaçli) e sul Mar di Marmara documentano, per questa fase, l'esistenza di attività legate alla pesca. Riguardo alla raccolta di molluschi, le prime attestazioni risalgono all'occupazione di Ubeidiya; inoltre, la presenza di conchiglie e molluschi marini insieme a quelli di acqua dolce, già in molti siti del Paleolitico medio (100.000-33.000 anni fa ca.) nel Levante e poi anche in Anatolia (Öküzini) ed Egitto, indica contatti delle regioni interne con il mare. La pesca, assieme alla raccolta di molluschi e di altri animali acquatici, non costituiva nel Vicino Oriente una strategia economica a sé stante, ma rappresentava una delle tante risorse sfruttate dai singoli gruppi a fini alimentari. La distinzione della pesca dalla caccia non ha per il Vicino Oriente il valore che ha per il Paleolitico superiore europeo, in cui sui grandi fiumi che attraversano il continente si sviluppano società complesse di pescatori di salmoni. Qui, sebbene la pesca assuma in alcune regioni, come lungo il Nilo, un'importanza fondamentale nell'ambito delle risorse di sussistenza, non si hanno società esclusivamente basate e specializzate su tale attività. È però vero che dal Paleolitico superiore la pesca divenne un importante elemento dell'economia di moltissimi gruppi: in aree come Wadi Kubbaniya, Isna e l'oasi di Kharga in Egitto e il Mare di Galilea nel Levante la quantità di ossa di pesce rinvenute è elevatissima. In particolare, Ohalo II (19.000 anni fa ca.) per il Paleolitico superiore e il Fayyum (Egitto) per l'Epipaleolitico e poi per il Neolitico esemplificano l'attività di pesca in queste regioni: le migliaia di lische recuperate testimoniano infatti come queste aree fossero abitate prevalentemente da popolazioni di pescatori. Piccoli accumuli di ossa di pesce, rinvenuti a Ohalo II, sul pavimento all'interno di capanne, sono da interpretarsi probabilmente come resti di pasto. La pesca, come la caccia, dipende fortemente dalle caratteristiche climatico-ambientali: le fluttuazioni stagionali delle acque dei fiumi determinano infatti gli spostamenti dei banchi di pesci. A Bir Tarfawi, in Egitto (Paleolitico medio), il rinvenimento di Clarias e Tilapia indica che la frequentazione del sito doveva avvenire in primavera, con l'acqua alta, quando i pesci erano abbondanti, e in autunno, nel momento in cui le acque si ritiravano e numerosi pesci rimanevano intrappolati nelle pozze, divenendo così più facili da prendere; nel Mare di Galilea (Ohalo II), invece, i pesci erano reperibili per quasi tutto l'anno. Rispetto ad altre risorse utilizzate dai cacciatori-raccoglitori, i pesci, una volta seccati al sole, sono più facilmente conservabili, elemento questo molto importante nello sviluppo della sedentarizzazione. La capacità di conservare cibi per lunghi periodi di tempo permette infatti una maggiore stanzialità delle popolazioni, in quanto assicura una base alimentare anche per i momenti di minore reperibilità di risorse. È possibile che la maggiore stanzialità degli abitanti di Ohalo II, indicata dal rinvenimento di vere e proprie capanne, rispetto a quanto avviene nei coevi siti del Kebariano (periodo in genere caratterizzato da una elevata mobilità dei gruppi), sia dovuta proprio a questa sua particolare economia e quindi alla possibilità non solo di reperire pesce per gran parte dell'anno, ma anche di conservarlo. Clarias era la specie più pescata in tutti i siti egiziani: si tratta di un pesce molto resistente a condizioni idrologiche avverse, come lo erano quelle della regione nilotica, e lo stesso dicasi per Tilapia; inoltre, Clarias era molto facile da pescare: nei periodi di acqua alta, quando le concentrazioni di questo pesce erano molto elevate, si poteva catturare persino con le mani. Con l'aumento del ruolo della pesca in aree come il Fayyum e Ohalo II si andarono moltiplicando ovviamente anche le specie presenti; nel Fayyum Clarias, pur diminuendo dal punto di vista numerico, rimase la specie più frequente, ma sono documentate anche Lates e Synodontis, mentre nel Mare di Galilea (Ohalo II) la specie più pescata era Barbus. In nessun contesto archeologico vicino-orientale ed egiziano precedente al Paleolitico superiore sono stati rinvenuti strumenti per la pesca, ma si può immaginare l'uso di ami in materiale deperibile, spine, trappole in vimini, canne e reti. Questo strumentario doveva essere simile a quello impiegato nelle altre parti del mondo e attualmente ancora in uso presso moltissime popolazioni dell'Africa e dell'Oceania. Al Paleolitico superiore sono invece datati i primi ami/arponi in osso, alcuni dei quali con una cruna fissata con materiale vegetale; mentre l'uso di reti è attestato dal rinvenimento nell'insediamento epipaleolitico di Mallaha di pesi in argilla, interpretati proprio come pesi da rete. Purtroppo i dati circa le tecniche di pesca utilizzate in queste regioni sono ancora molto scarsi, per cui la maggior parte delle ipotesi si basa su confronti con le contemporanee situazioni in Europa e con i moderni casi etnografici.

Bibliografia

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La caccia nel medio oriente

di Massimo Vidale

Benché la caccia abbia rappresentato nelle regioni del Medio Oriente una risorsa primaria per la sopravvivenza e l'evoluzione sociale degli Ominidi e dei tipi umani più recenti, le ricerche archeologiche ed etnoarcheologiche degli ultimi decenni indicano con chiarezza che presso i gruppi di cacciatori- raccoglitori della preistoria almeno il 60-80% dell'apporto proteico era fornito da specie vegetali. Non è affatto chiaro in che modo il semplice e multifunzionale strumentario litico del Paleolitico inferiore (l'unico riconoscibile nei contesti archeologici) fosse legato alla caccia e alla macellazione degli animali, né che ruolo avesse nella dieta il consumo di carne di grandi animali morti per cause naturali. A ciò si aggiunge la scarsissima conservazione di resti ossei nei siti archeologici: informazioni sulla fauna del Paleolitico sono spesso fornite da depositi naturali coevi, quali letti alluvionali fossiliferi. Tra il 35.000 e il 10.000 a.C. gruppi nomadici di cacciatoriraccoglitori, dai rilievi afghani alle valli aride del Deccan, hanno lasciato tracce di insediamenti stagionali. Tra le specie cacciate nelle regioni nord-occidentali vi erano certamente gli antenati selvatici dei caprovini, come l'urial (Ovis vignei o orientalis), la pecora selvatica del Baluchistan, dell'Afghanistan e dell'Asia Centrale, l'argali (Ovis ammon), il bezoar (Capra hircus aegagrus), la capra selvatica del Sind (Capra hircus blythi) e i bovini selvatici. Vi erano inoltre il nilgai (Boselaphus tragocamelus), cioè l'antilope grigio-azzurra, altri tipi di antilopi e Cervidi, la gazzella, l'onagro, il bufalo d'acqua, il maiale selvatico, la volpe, il gatto selvatico e probabilmente il rinoceronte e l'elefante. Tra il 10.000 e l'8000 a.C. erano in atto i primi processi di sedentarizzazione. Il sito di Mehrgarh (Pakistan), presso l'estrema propaggine settentrionale della piana dell'Indo, mostra nel corso del VII millennio un processo di graduale ma rapida domesticazione dei caprovini selvatici e dell'uro e una corrispondente diminuzione dell'importanza della principale specie cacciata, la gazzella. Intorno al 6500 a.C. si datano alcune sepolture con resti di capre e pecore sacrificate ritualmente: trattandosi di forme transizionali tra quelle selvatiche e quelle domestiche, non si può tuttavia stabilire se il rituale fosse incentrato sulla caccia o sul consumo di individui allevati. Mancano a Mehrgarh indizi certi sugli strumenti usati nella caccia, con la possibile eccezione di microliti, come lunati, triangoli e trapezi, che ancora perpetuano le antiche tradizioni mesolitiche. L'importanza della caccia nel Subcontinente indiano è illustrata dalle raffigurazioni rupestri di ripari come quelli di Bhimbetka e Pachmarhi, nel Madhya Pradesh (India), con scene di caccia collettiva, forse ritualizzata, ad animali di grossa taglia. Una scena comprende ben 80 cacciatori alle prese con cinghiali, bufali, daini; un'altra un daino in una trappola quadrata colpito da frecce; in un'altra ancora, gli animali vengono sospinti oltre un dirupo. I cacciatori sono muniti di bastoni, lance, archi e frecce; alcune immagini mostrano armi da getto armate con file di microliti. La frequentazione di questi ripari da parte di gruppi di cacciatori-raccoglitori si è protratta ininterrottamente sin quasi ai giorni nostri, chiaro esempio della millenaria convivenza e della parziale integrazione, nel mondo indiano, di culture, modi di vita e tecnologie dai livelli tecno-economici più disparati. Le prime punte di freccia, di varia tipologia, sono databili al Paleolitico superiore (35.000-10.000 a.C. ca.); a partire dal Mesolitico (10.000-4000 a.C. ca.), ad esse si affiancano efficienti punte-proiettile ricavate da schegge di ossa lunghe e corno, le quali cominciano a comparire anche nelle sepolture, e palle da fionda sferiche in pietra (valle del Gange). Durante l'età della Regionalizzazione della tradizione culturale dell'Indo (5500-2600 a.C. ca.), in un contesto proturbano di crescente segmentazione sociale, la caccia continua a rappresentare un'attività secondaria, ma ancora importante. Malgrado una generale scarsità di reperti interpretabili come armi, mentre persistono le punte in osso, compaiono punte e coltelli in bronzo. A Mehrgarh, tra il 3500 e il 2500 a.C., oltre agli ultimi microliti venivano usate anche punte di freccia in selce a forma di foglia di lauro, di tradizione turanica; nel III millennio a.C. lo stesso strumento è attestato a volte nella valle dell'Indo. A partire dagli ultimi secoli del IV millennio a.C. compare sulle ceramiche l'immagine di una creatura immaginaria con testa umana e corna di bufalo selvatico, simbolo di fertilità e virilità, forse legato all'ideologia della caccia. Allo stesso periodo risalgono segni incisi con l'immagine dell'arco armato di freccia, che diventerà, nei secoli successivi, uno dei segni della scrittura harappana. Tra il IV e il II millennio a.C. nelle regioni della penisola del Deccan, dove l'agricoltura e l'allevamento si affermano con maggior lentezza, i cacciatori continuano a utilizzare palle da fionda in pietra, punte di freccia microlitiche in pietra scheggiata ed esemplari in osso. Nel bacino dell'Indo la caccia rimane un'attività importante anche nella successiva fase urbana, detta "età dell'Integrazione" o "fase harappana" (2600-1900 a.C.). Lo studio dei resti faunistici indica in diversi casi una crescente presenza di resti di specie selvatiche (caprovini selvatici, Cervidi, antilopi e gazzelle, cinghiale, rinoceronte, elefante, orso, gaviale e tartarughe). Nelle zone costiere il fenomeno assume la forma di una crescente dipendenza dalle risorse marine. Gli animali selvatici (tra i quali la capra selvatica, la lepre, diversi tipi di uccelli, la tigre, il rinoceronte, il bufalo, il gaviale) hanno un grande spazio nell'iconografia harappana, accanto a temi antropo-teriomorfi e a immagini che sembrano suggerire una complessa mitologia incentrata su scontri con animali. Gli scavi di Harappa e Mohenjo Daro hanno restituito proiettili da fionda, sia sferici che ovali, e probabili pesi da rete in terracotta. Le punte di lancia sono piatte, senza nervatura centrale, con un codolo da inserire nell'asta, mentre le punte di freccia tipiche di questo periodo, almeno nei centri maggiori, sono in bronzo, a forma di V, prive di peduncolo. Secondo alcuni si tratterebbe di punte avvelenate assemblabili a supporti in osso destinati a distaccarsi dopo l'impatto con prede di grossa taglia; oltre a queste punte sono attestati esemplari in osso e avorio a forma di fuso. In altri centri minori coevi, nel frattempo, continuavano ad essere usate punte microlitiche in pietra scheggiata o punte in osso di tradizione mesolitica. Figurine di cani in terracotta, steatite e faïence, inoltre, indicano la presenza di piccoli cani a pelo corto, apparentemente adatti alla caccia, nella foresta di ripa che si sviluppava vicino ai centri maggiori; a questo riguardo, i testi mesopotamici della fine del III millennio a.C. fanno riferimento a cani pregiati che venivano importati via mare dalla regione indiana.

Bibliografia

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L'utilizzazione delle risorse vegetali nel medio oriente

di Massimo Vidale

È ben noto che le popolazioni che vivono di caccia e raccolta hanno accumulato nel corso dei millenni una conoscenza approfondita e diversificata dei possibili usi, alimentari e non, di un ampio spettro di risorse vegetali; per la preistoria del Subcontinente indiano, tuttavia, questo aspetto dell'adattamento delle società umane resta in larga misura non documentabile. Allo stato attuale delle ricerche, le più antiche tracce archeologiche di una parziale dipendenza dalle risorse vegetali provengono da alcuni siti recentemente scavati nello Sri Lanka: dai livelli del Riparo sotto roccia di Beli-Lena, datati fra 10.500 e 8500 anni fa, proviene una quantità di resti vegetali, identificati come frutti di banano selvatico (Musa cfr. acuminata e balbisiana), gusci di canario (Canarium cfr. zeylanicum Bl.) e frutti di albero del pane selvatico (Artocarpus cfr. nobilis). Questi ultimi, presenti a Beli-Lena in livelli ancora più antichi, sono attestati anche nel Riparo sotto roccia di Batadomba, in livelli datati tra 28.500 e 11.500 anni fa. Sembra inoltre che il consumo di diverse specie di riso selvatico (Oryza rufipogon Griffith e spontanea Rosc.) fosse comune nell'India del Nord in periodo mesolitico (siti di Chopani-Mando, Mahadaha, Riparo sotto roccia di Lekhania). Il passaggio dalla raccolta alla domesticazione di specie vegetali è testimoniato dal sito di Mehrgarh, dove l'agricoltura sembra prendere avvio da una varietà locale di orzo nudo esaploide, probabilmente ottenuta da un tipo locale di orzo selvatico; quanto al grano, anche se la pianura di Kachi si trova al di fuori dell'area di originaria distribuzione del Triticum, gli studiosi ipotizzano l'ibridazione di varietà ottenute dall'Ovest con specie di cereali selvatici locali. Gli sviluppi agricoli dell'VIII o VII millennio a.C., in altre parole, presuppongono millenni di esperienza precedente nell'ambito della raccolta e dell'agricoltura incipiente. La generalizzata assenza di dati archeologici è tuttavia bilanciata dalla vasta messe di informazioni che archeologi ed etnoarcheologi possono ancora oggi desumere dallo studio delle popolazioni odierne che, in diverse regioni del Subcontinente, basano tuttora la propria economia sulla caccia e sulla raccolta. Attualmente in India vivono almeno 40 milioni di individui organizzati in comunità tribali, concentrate soprattutto nelle zone montuose degli Aravalli, Vindhya, Sathpura, sui Ghat occidentali e orientali, nell'altopiano di Chota Nagpur e nei rilievi dell'India nord-orientale, oltre la valle del Brahmaputra. Le tribù raccolgono nella giungla prodotti di origine animale e vegetale (miele, radici, tuberi, erbe, ecc.), i quali vengono poi distribuiti nei mercati urbani; alcune tribù si sono specializzate anche nella raccolta del succo della palma coltivata, dalla cui fermentazione si ottiene una specie di birra. In zone meno ricche e più aride, come i deserti nord-occidentali, la raccolta dei vegetali si concentra su specie che recano semi o piccoli frutti nutrienti, come il cappero o alcune varietà di acacie, di Cucurbitacee, di rampicanti, anche se questi alimenti richiedono lunghi processi di cottura per essere consumati. Altre importanti informazioni si possono acquisire attraverso lo studio degli ecosistemi in cui si svilupparono importanti insediamenti preistorici. È stato stimato, ad esempio, che nelle zone boschive che circondano i ripari di Bhimbetka (Madhya Pradesh) vi sono attualmente almeno 30 specie di arbusti e piante con frutti commestibili (tra cui il tamarindo e alcune varietà di Ficus, giuggiolo e palma) e molte altre con radici e tuberi edibili. Ancora oggi, nei mesi primaverili, i gruppi tribali traggono quasi esclusivamente dalle foreste le risorse per il proprio sostentamento. Senza incorrere nella tentazione dell'analogia acritica, è presumibile che molti di questi usi alimentari e delle relative tecniche di acquisizione e trasformazione del cibo siano stati sperimentati a partire dall'età preistorica; anche l'interazione sistematica, quasi "simbiotica", tra i gruppi tribali di cacciatori-raccoglitori e i mercati urbani rispecchia, con ogni probabilità, una situazione di origine molto antica.

Bibliografia

V.N. Mishra, The Acheulean Industry of Rock Shelter III F-23 at Bhimbetka, Central India: a Preliminary Study, in Puratattva, 8 (1975-76), pp. 14-78; D.P. Agrawal, The Archaeology of India, London 1982; D.R. Raju, Stone Age Hunter-Gatherers, Poona 1988; V.N. Misra,Van Vagris, Nomadic Hunters of Western Rajasthan, in Changing Perspectives of Anthropology in India, New Delhi 1989, pp. 285-311; M. Nagar - V.N. Misra, Hunter-Gatherers in an Agrarian Setting: the Nineteenth Century Situation in the Ganga Plains, in Man and Environment, 13 (1989), pp. 65-78; M.D. Kajale, Plant Resources and Diet among the Mesolithic Hunters and Foragers, in G. Afanas´ev et al. (edd.), The Prehistory of Asia and Oceania, Section 16, XIII International Congress of Prehistoric and Protohistoric Sciences (Forlì, 8-14 September 1996), Colloquium XXXIII, Forlì 1996, pp. 251-53.

Lo sfruttamento degli ambienti acquatici nel medio oriente

di Massimo Vidale

È quasi un luogo comune, nell'archeologia del Subcontinente indiano, lamentare che i microambienti sedimentari acidi che sembrano predominare nel Sud della regione non abbiano consentito la conservazione di resti organici. È certo che lo sfruttamento delle risorse marine da parte delle comunità costiere dell'India risale ad alcune fasi del Paleolitico inferiore: amigdale acheuleane e altri strumenti sono stati trovati, ad esempio, in diversi siti costieri della penisola del Deccan. Mancano tuttavia, come si è detto, i resti ossei e malacologici necessari a ricostruire la dieta di queste antiche comunità. L'abbondanza di siti costieri di età mesolitica testimonia comunque l'ampiezza del processo di diversificazione delle basi economiche delle società umane all'inizio dell'Olocene e il ruolo centrale rivestito in questo processo dalle risorse marine. Sulle fasce costiere occidentali del Subcontinente, dal Makran al Gujarat, abbondanti cumuli di resti di pasto, formati da ostriche e da altre specie di Molluschi, sono associati a resti litici di datazione ancora imprecisata, ma che potrebbero risalire a 35.000-10.000 anni fa circa. Nel versante orientale, sulle coste del Tamilnadu, dell'Andhra e dell'Orissa, vi sono importanti concentrazioni di abitati mesolitici. Sulla costa di Visakhapatnam (Orissa) lo strumentario microlitico in pietra scheggiata, tipico di questo periodo, è integrato da tavolette e anelli perforati in pietra levigata, identici agli analoghi strumenti ancora oggi usati come pesi da rete dalle locali comunità di pescatori. Il sistema di vita di questi gruppi di pescatori- raccoglitori preistorici continuò a prosperare, tramandandosi sino alle comunità tribali contemporanee. Agli inizi dell'Olocene dobbiamo immaginare che la navigazione costiera e d'alto mare avesse fatto importanti progressi, facilitando e ampliando l'accesso allo sfruttamento delle risorse marine. A partire dal 10.000 a.C. circa, in età mesolitica, in alcune regioni del Subcontinente sono presenti conchiglie di Dentalium, usate per fabbricare semplici perline. A Mehrgarh, in età neolitica, tra VII e VI millennio a.C., già si producevano diversi tipi di ornamenti con i gusci dei Molluschi dei generi Dentalium, Spondylus, Conus, Cardium e Pinctada, a testimoniare la forte intensificazione dei contatti tra le coste e l'entroterra, ma anche una significativa integrazione delle comunità di pescatori-raccoglitori costieri in una realtà sociale vasta e articolata: la raccolta dei Molluschi a scopo alimentare permetteva infatti a queste comunità di attivare anche un circuito di scambi a lunga distanza. A questo periodo risalgono inoltre i primi esempi di bracciali ricavati dal guscio del grande gasteropode Turbinella pyrum (shank), che diventeranno nei millenni successivi uno degli ornamenti e dei simboli più importanti del mondo indiano.

Bibliografia

D.P. Agrawal, The Archaeology of India, London 1982; J.M. Kenoyer, Shell Working Industries of the Indus Civilization: a Summary, in Paléorient, 10, 1 (1984), pp. 49-63; K. Thimma Reddy, Coastal Ecology and Archaeology: Evidence from the East Coast of India, in Man and Environment, 19, 1-2 (1994), pp. 43-55.

La caccia nell'estremo oriente: cina, corea e giappone

di Susan G. Keates

Sulla base delle testimonianze archeologiche finora acquisite, è difficile accertare se gli Ominidi del Paleolitico praticassero attività venatorie; ciò è dovuto sia alla natura dei dati pervenutici, sia alla difficoltà di identificare le testimonianze di tali attività. L'equipaggiamento usato per la caccia resta infatti un'incognita, probabilmente perché realizzato per lo più con materiali deperibili. La presenza o l'assenza di tracce di impatto di strumenti di caccia sulle ossa animali non costituisce del resto un indizio sufficiente, dal momento che non si può escludere la semplice predazione di carogne, né modi di consumo che non lasciano segni evidenti sulle carcasse, come ad esempio l'uso, ancora oggi attestato dalle ricerche etnografiche, di cuocere l'animale intero, senza alcuna operazione di scuoiatura e squartamento. Per quanto riguarda l'Estremo Oriente nel suo complesso, la maggior parte delle testimonianze archeologiche sull'attività di caccia degli Ominidi proviene dalla Cina, anche se metodi spesso inadeguati di scavo, di registrazione e di analisi della fauna fossile ne hanno compromesso il valore. Le testimonianze più antiche sono state documentate in due siti del tardo Pleistocene inferiore (1 m.a. ca.) nel bacino di Nihewan, nella Cina settentrionale, dove sono stati rinvenuti manufatti litici associati a ossa di mammiferi segnate da fratture intenzionali. La scarsa quantità di manufatti e ossa combuste portata alla luce nella cosiddetta Località 13 di Zhoukoudian (Cina settentrionale) fa supporre che gli Ominidi di questo sito dell'inizio del Pleistocene medio praticassero una limitata economia di sussistenza. Per il Pleistocene medio in Cina la più ampia base di documentazione è fornita tuttavia dalla Località 1 di Zhoukoudian, che ha restituito una grande quantità di manufatti associati a reperti faunistici appartenenti a cavalli, Bovidi e Cervidi; l'indagine tafonomica condotta su piccoli campioni di ossa e denti suggerisce l'ipotesi che i rappresentanti di Homo erectus evoluto che popolavano il sito si procacciassero gli animali sia con la caccia, sia con la semplice predazione sulle carogne. Alla stessa conclusione rimandano i dati forniti dai reperti faunistici del tardo Pleistocene medio rinvenuti a Hexian, nella Cina centrale. Nel Pleistocene superiore il numero minimo di individui (NMI) rinvenuto nei siti all'aperto di Xujiayao (120.000 anni fa ca.) e di Shiyu (29.000 anni fa), nella Cina settentrionale, indica una preferenza per talune specie di mammiferi e, secondo alcuni archeologi, la pratica della caccia. A Xujiayao si è rilevata una predominanza di Equus przewalskyi (NMI = 91) e Coelodonta antiquitatis (NMI = 11), a Shiyu di Equus przewalskyi (NMI = 120) ed Equus hemionus (NMI = 88). Cenere e ossa carbonizzate portate alla luce a Xujiayao e dozzine di ossa combuste rinvenute a Shiyu attestano inoltre la pratica della cottura. I fossili animali e il contesto culturale del deposito della Grotta Superiore di Zhoukoudian, datato alla fase tarda o finale del Pleistocene superiore, indicano che gli animali non costituivano soltanto una risorsa nutrizionale, ma fornivano anche la materia prima per la fabbricazione di utensili e ornamenti. Di grande importanza per la documentazione del Pleistocene finale è la cosiddetta Località 73101 di Hutouliang (Cina settentrionale), appartenente ad un complesso di sette siti approssimativamente coevi, ricchissima di resti faunistici e di cultura materiale. Il rinvenimento di tre focolari con resti ossei carbonizzati, uova di struzzo e pezzi di carbone, ai quali si associano tracce di fabbricazione e uso di strumenti litici, avvalora l'ipotesi che in quest'area si praticasse la cottura di alimenti di origine animale. In Giappone una vasta gamma di proiettili per armi da getto, tra cui microlame destinate probabilmente ad armare aste di legno appuntite, attesta la pratica di attività venatorie nelle fasi finali del Paleolitico; va tuttavia tenuto conto della scarsa conservazione della fauna fossile in Giappone, dovuta all'acidità del suolo, di origine vulcanica nella maggior parte del territorio, con la sola eccezione della fascia meridionale. La pratica di attività venatorie è invece sicuramente attestata nei siti del periodo Jomon antico (databili a 10.000 anni fa ca.) dall'abbondanza di punte di freccia. In diversi siti paleolitici nella Corea si conservano tracce della fabbricazione e dell'uso di strumenti litici; tuttavia, allo stato attuale delle ricerche, non è possibile valutare con esattezza l'entità dello sfruttamento delle risorse animali.

Bibliografia

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La caccia nell'estremo oriente: sud-est asiatico

di Ian Glover

Le particolari condizioni geo-biologiche del Sud-Est asiatico, in quanto zona umida tropicale, hanno fatto sì che la caccia, intesa come cattura di animali a scopo alimentare, abbia sempre ricoperto un ruolo di minore importanza nell'alimentazione dell'uomo rispetto a quello avuto in altre regioni situate a latitudini più settentrionali. La zona è stata caratterizzata fino a tempi recenti da una cospicua forestazione: di conseguenza molte specie arboricole erano meno esposte alla cattura da parte dell'uomo rispetto alle grandi mandrie di Ungulati che popolavano le vaste savane africane o le pianure europee nelle ultime fasi del Pleistocene. La grande ricchezza di vegetali commestibili, come la frutta, le noci del cocco e di altre palme, i cereali, come il riso o il miglio, le radici e i tuberi, quali la colocasia (Colocasia esculenta) o le Dioscoreacee (Dioscorea spp.), offriva alle popolazioni la possibilità di una dieta variata, in cui i vegetali da sempre hanno rappresentato l'elemento fondamentale. Il favorevole rapporto tra sviluppo delle coste e aree interne consentiva inoltre di disporre di abbondanti risorse marine alimentari, quali pesci, Crostacei e Molluschi. I dati archeologici attestano che solo a partire dal Pleistocene superiore, 40.000 anni fa circa, era largamente praticata la caccia ad un'ampia varietà di Mammiferi di dimensioni medio-piccole, sia arboricoli che terrestri. Queste specie, come è documentato dai dati forniti dalle caverne delle zone interne a forestazione più densa, comprendevano il maiale, il cervo, alcuni piccoli ruminanti, il gibbone, la scimmia, il bassarisco e lo scoiattolo, insieme a roditori, serpenti e alcune varietà di varano. Raramente sono stati rinvenuti depositi ossei di specie più grandi, quali l'elefante, il rinoceronte, il gaur (bue delle giungle) e la tigre. Informazioni circa gli strumenti e i metodi di caccia vengono più dalla moderna etnografia che dall'archeologia, in particolare da quelle comunità che hanno mantenuto i sistemi tradizionali di caccia e raccolta e che ancora sopravvivono nelle foreste montane del Kalimantan (Borneo), in Malesia, nelle Isole Andamane, in parte delle Filippine e lungo i confini della Thailandia, del Laos e del Vietnam. Gli strumenti per la caccia, che erano costruiti sostanzialmente in materiali organici, quali il legno e il bambù, comprendevano la lancia, l'arco e le frecce, la balestra, un tipo di arco elastico che lanciava pietre o proiettili di terracotta e la cerbottana, con cui si potevano lanciare frecce avvelenate per la caccia di piccoli Mammiferi e di Uccelli nelle zone a densa vegetazione. Venivano impiegate anche reti, trappole e tagliole; trappole a fossa erano usate per la cattura di grandi Mammiferi. Strumenti più specializzati per la caccia sono rari prima dell'età dei metalli, mentre punte di freccia e di lancia sono frequenti in alcuni siti archeologici di Giava e di Sulawesi; a partire dalla metà del II millennio a.C. circa nel Sud-Est asiatico continentale furono infine utilizzate lance e punte di freccia in bronzo.

Bibliografia

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L'utilizzazione delle risorse vegetali nell'estremo oriente

di Susan G. Keates

Studi etnografici sui modi di sussistenza hanno dimostrato che gli alimenti vegetali costituiscono la componente dietetica primaria degli odierni gruppi di cacciatori-raccoglitori; lo stesso si deve presumere per la preistoria, anche se lo sfruttamento umano delle risorse vegetali resta scarsamente documentabile per la maggior parte del Paleolitico. In tre siti di Zhoukoudian (Cina settentrionale), Località 13 (inizio del Pleistocene medio), Località 1 (metà del Pleistocene medio) e Località 15 (tardo Pleistocene medio), sono state rinvenute bacche di bagolaro (Celtis sp.), di cui non è chiara tuttavia la connessione con l'economia degli Ominidi. Bacche allo stato combusto, rinvenute in cospicue quantità nella Località 1, hanno suggerito ad alcuni studiosi l'ipotesi che gli Ominidi usassero il legno di bagolaro per accendere fuochi. Testimonianze più significative sulla paleoeconomia in Cina sono documentate per il Pleistocene superiore (tra 15.000 e 11.000 anni fa), epoca in cui sembra aver avuto luogo una transizione verso la raccolta intensiva di cereali, quali il miglio. Nei depositi culturali di questo periodo fanno la loro comparsa anche le macine, la ceramica e il riso. Per quanto concerne l'Estremo Oriente, è ancora la Cina a fornire le più antiche evidenze archeologiche di domesticazione di specie vegetali. Intorno al Neolitico medio (9000-7000 anni fa ca.), periodo in cui si registra la nascita dei primi insediamenti agricoli nella Cina settentrionale e meridionale, non cessano comunque di essere praticate la caccia, la raccolta e la pesca. La perpetuazione di modi di vita che erano stati predominanti nei periodi precedenti è documentata da diversi tipi di utensili in pietra scheggiata, da microliti e da resti di fauna selvatica. Le ricerche condotte nella zona terrazzata lungo il fiume Layihai, nella provincia di Qinghai, hanno portato alla luce microliti, macine, pestelli e coti, datati con il metodo del radiocarbonio a 6745±85 anni B.P., i quali rappresentano indizi diretti della manipolazione di vegetali. In Giappone è probabile che alcune macine datate al tardo Pleistocene superiore fossero utilizzate per il trattamento di sostanze vegetali di origine selvatica. Durante il periodo Jomon, il cui inizio è fissato a 10.000 anni fa circa, erano in uso vasi con fondo arrotondato, destinati probabilmente alla cottura di diverse specie di ortaggi, quali taro e igname, e alla disidratazione di certi tipi di noci al fine di renderle commestibili. In alcuni siti si conservano tracce di attività di cottura, come ad esempio pietre spaccate dal fuoco rinvenute all'interno di buche. Si è ipotizzato inoltre che per la manipolazione di noci e radici si utilizzassero macine e mortai, utensili che nel corso del periodo Jomon compaiono in quantità sempre maggiori. In alcuni siti del Jomon medio, quali Idojiri e Togariishi, nel Honshu centrale, è stato portato alla luce un cospicuo numero di macine e pestelli in pietra e di grandi contenitori ceramici per la conservazione dei cibi. Negli strati neolitici più antichi del chiocciolaio di Sangnodaedo, su un'isola prospiciente la costa meridionale della Corea del Sud, sono state rinvenute alcune macine a sella in pietra destinate probabilmente alla manipolazione di ghiande e grano. Molti siti del Sud-Est asiatico continentale e insulare hanno restituito utensili compatibili con la preparazione di alimenti vegetali, anche se indizi diretti di tale funzione sono piuttosto rari. Nel sito di Spirit Cave, nella Thailandia settentrionale, dove l'occupazione umana si protrasse fra 11.550 e 7500 anni fa, sono stati rinvenuti noccioli, bacche e chicchi di 22 specie di piante, tra cui alcune Leguminose, noci e frammenti combusti di bambù, oltre a grosse pietre discoidi monofacciali, con evidenti tracce d'uso riferibili alla lavorazione di alimenti vegetali. Nei ripari sotto roccia di Tanjung Pinang, nelle Molucche settentrionali (Indonesia), sono venute alla luce numerose incudini di pietra (datate 5390-3390 anni fa), verosimilmente utilizzate per il trattamento delle noci. In altri siti di questa regione, datati con il radiocarbonio a un periodo compreso tra il Pleistocene superiore e l'Olocene medio, è possibile che alcuni particolari manufatti litici su ciottolo servissero per la manipolazione di ortaggi, ma la mancanza di elementi di riscontro rende incerta tale interpretazione.

Bibliografia

R.B. Lee - I. De Vore, Man the Hunter, Chicago 1968; C.F. Gorman, The Hoabinhian and after: Subsistence Patterns in Southeast Asia during the Late Pleistocene and Early Recent Periods, in WorldA, 2 (1971), pp. 300-20; P. G ai - K.D. Wang, Excavation Report on a Mesolithic Site at Layihai, Upper Yellow River, in ActaAnthrSin, 2 (1983), pp. 49-59; P. Sohn - S.-C. Shin, A Shell-midden on the Island of Sangnodaedo. A Neolithic Site off the Southern Coast of Korea, in BIndoPacPrehistAss, 10 (1991), pp. 109-17; G.L. Barnes, China, Korea and Japan: the Rise of Civilization in East Asia, London 1993; J.E. Kidder - H. Kobiki, An Introduction to Japanese Archaeology, Tokyo 1993; P. Bellwood et al., 35,000 Years of Prehistory in the Northern Moluccas, in ModQuatResSouthAs, 15 (1998), pp. 233-75; D.J. Cohen, The Origins of Domesticated Cereals and the Pleistocene-Holocene Transition in East Asia, in RArch, 19 (1998), pp. 22- 29; S.G. Keates, The Nihewan Basin and Early Northern Chinese Hominid Localities (c.s.).

Lo sfruttamento degli ambienti acquatici nell'estremo oriente

di Susan G. Keates

Lo sfruttamento delle risorse marine da parte dell'uomo è documentato soltanto a partire dalla fine del Pleistocene, dal momento che all'inizio dell'Olocene l'innalzamento del livello dei mari ricoprì probabilmente i siti ubicati lungo l'antica fascia costiera. Conchiglie marine forate sono state rinvenute in depositi della fase tarda o finale del Pleistocene superiore nella Grotta Superiore di Zhoukoudian (Cina settentrionale); la distanza del sito dalla costa (200 km ca.) fa supporre uno sfruttamento stagionale delle risorse marine o l'esistenza di una rete di scambi su lunga distanza. Nella Cina meridionale conchiglie marine sono state rinvenute in diversi siti databili alla fine del Pleistocene superiore: uno di tali siti è la Grotta di Taohua (Prov. di Guizhou), dove sono state raccolte conchiglie forate associate a manufatti in pietra e in osso. Nei siti costieri dell'Estremo Oriente chiocciolai e strumenti per la pesca diventano sempre più comuni nel periodo postglaciale; lungo le coste della Cina meridionale chiocciolai datati all'inizio dell'Olocene appaiono associati a una quantità sempre più copiosa di arponi per la pesca e a coltelli-falcetto a dorso forato ricavati da conchiglie. In Giappone le riserve ittiche marine furono sfruttate a partire dal periodo Jomon (10.000 anni fa ca.). I chiocciolai più antichi sono stati individuati nella pianura di Kanto e in essi sono presenti, oltre alle conchiglie, lische di pesce e ceramiche decorate con impressioni a corda. Per il periodo Jomon medio (5000-4000 anni fa ca.), la presenza di ami, pesi di pietra e arponi attesta in maniera diretta la pratica della pesca. Nella baia di Tokyo, nel chiocciolaio di Kidosaku, del periodo Jomon tardo, sono state rinvenute 22 specie di Molluschi di battigia associate a lische di pesce e ossa di Mammiferi. Gli studi eseguiti sulla stagionalità dei molluschi a Kidosaku dimostrano che essi costituivano una risorsa alimentare fondamentale, disponibile tutto l'anno. Nella Corea del Sud gli strati più antichi (8150-5573 anni fa) dei siti costieri di Osanni hanno restituito lische di pesci marini di profondità e gambi di grossi ami che indicano l'uso di imbarcazioni. Ancora più antico è il chiocciolaio di Sangnodaedo, situato su un'isola prospiciente la costa meridionale e databile approssimativamente all'inizio dell'Olocene; negli strati inferiori e superiori di questo chiocciolaio sono stati rinvenuti i resti di 49 specie di Molluschi (tra cui ostriche e mitili, che costituivano la risorsa alimentare più rilevante), diverse specie di pesci, fauna marina di grosse dimensioni, tra cui leoni marini, e fauna terrestre, associati ad ami ricavati da ossa e conchiglie e a strumenti litici con e senza ritocco. Nel Riparo sotto roccia di Lang Rongrien (Thailandia sud-occidentale), datato al Pleistocene superiore, nei tre livelli dello strato più antico (con una datazione al radiocarbonio di 38.110-28.171 anni fa) sono venuti alla luce resti di Molluschi associati a manufatti. I Molluschi appartengono prevalentemente a specie mesolitorali, anche se la distanza odierna dalla costa meridionale e da quella settentrionale è rispettivamente di 12 e 25 km. Nel Vietnam settentrionale sono stati identificati lungo le coste chiocciolai relativi al periodo neolitico. Nel Sud-Est asiatico insulare si conoscono chiocciolai in diverse regioni, tra cui Sumatra e Sulawesi meridionale. Negli enormi chiocciolai di Sumatra, molti dei quali danneggiati o distrutti dagli scavi eseguiti per la raccolta di fertilizzanti, sono stati rinvenuti spesso utensili hoabinhiani, datati al Paleolitico finale o all'inizio dell'Olocene. In diversi siti delle Molucche settentrionali si sono conservate tracce evidenti di sfruttamento di Molluschi marini: per il Riparo sotto roccia di Tanjung Pinang la datazione al radiocarbonio attesta un'occupazione in periodo preceramico, tra 8860 e 4090 anni fa. In questo sito sono stati rinvenuti resti di varie specie di molluschi provenienti dalla barriera corallina e dalla laguna circostante, tra cui conchiglie carbonizzate associate a carboni e a una grande quantità di nuclei e scaglie di pietra. Scavi condotti nella Grotta di Golo, ubicata in un'altra isola di questo arcipelago, hanno individuato un'ininterrotta sequenza occupazionale, relativa agli strati preceramici, da 31.030 a 7400 anni fa, con abbondanti tracce di sfruttamento di molluschi marini, associate a strumenti litici, a sporadiche asce in conchiglia e a quelle che sembrano pietre di focolare; molte delle conchiglie rinvenute negli strati più antichi appaiono bruciate. Lo sfruttamento dei Molluschi sembra subire un costante incremento durante il periodo preceramico: gli strati superiori mostrano un'enorme concentrazione di conchiglie marine, a fronte di una quantità trascurabile di resti di fauna ittica.

Bibliografia

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La caccia e lo sfruttamento degli ambienti acquatici: regioni artiche

di Patrick Plumet

Solo durante l'Olocene le risorse marine acquisirono un ruolo importante nelle strategie di sussistenza di alcuni gruppi preistorici. L'innalzamento eustatico del livello marino avvenuto in seguito allo scioglimento dei ghiacci aveva sommerso estese fasce costiere, riducendo lo spazio disponibile per l'occupazione umana e frazionando le aree più elevate in territori insulari, mentre la lunghezza delle coste era aumentata. Nella regione beringiana la riapertura di uno stretto tra l'Eurasia e l'America, effettiva a partire da 10.000 anni fa, creò zone di intensa produttività di risorse marine, in particolare tra la banchisa polare e la costa settentrionale dei continenti. Tali zone apparvero dopo lo scioglimento dei ghiacciai intorno alla Groenlandia meridionale, lungo le coste del Labrador fino alla foce del San Lorenzo e intorno alla Penisola Scandinava. Per i gruppi umani la reperibilità di risorse in queste aree era da 10 a 15 volte superiore rispetto a quella delle regioni di foresta e da 2 a 3 volte superiore a quella garantita dalle attività agricole. Nelle regioni artiche europee la ritirata degli inlandsis finnoscandinavi aveva liberato, a partire da 13.000 e forse anche da 15.000 anni fa, una stretta fascia litoranea a sud della Norvegia, rapidamente occupata da renne e alci. Poco dopo 12.500 anni fa, essa si estendeva fino alla Penisola di Kola e raggiungeva la regione di Murmansk, risparmiata dai ghiacci del Weichseliano superiore; le condizioni di vita e il paesaggio dovevano essere simili a quelli attualmente riscontrabili in Groenlandia. I cacciatori di renne, di cui testimonia l'Ahrensburgiano a sud, sarebbero stati i pionieri di questa regione; essi iniziarono lo sfruttamento dei mammiferi marini e produssero le industrie mesolitiche di Komsa e di Fosna. Sebbene i giacimenti più antichi siano probabilmente sommersi, piccoli giacimenti komsaiani, attualmente posti tra 90 e 30 m s.l.m. per l'innalzamento isostatico, testimoniano all'estremo nord la presenza di piccoli gruppi che sfruttavano foche e trichechi come fonti di alimenti e di materie prime. Quando i ghiacciai scomparvero dalle regioni interne, lasciando il posto alle foreste, le popolazioni del Mesolitico occuparono questo nuovo spazio, fino a quel momento povero di selvaggina, e lo sfruttamento delle risorse marine divenne stagionale. Fino alla fine del Neolitico un modello di sussistenza fondato sulla pesca e sulla caccia ai Mammiferi marini, integrato da risorse terrestri e associato a una relativa sedentarietà, coesistette con quello dei cacciatori-pescatori delle foreste. Più a est, dalla Penisola di Kola fino alla foce del fiume Ob, che delimita al di là degli Urali la Penisola di Jamal, l'entroterra è piatto e acquitrinoso, la linea costiera mal definita, le rocce assenti. Dopo il raggiungimento dell'optimum climatico postglaciale, le popolazioni seguirono la risalita delle foreste, che in certi luoghi raggiunsero il litorale artico; tali gruppi avanzarono fino alla costa attraverso i corsi d'acqua, cacciando renne e oche selvatiche e praticando la pesca. Lo sfruttamento delle risorse marine fu tardivo (successivo a 4000 anni fa), episodico e stagionale; dalla foce dell'Ob a quella del Kolyma nessun giacimento testimonia lo sfruttamento del mare. Nell'Isola di Jokhov, una delle più settentrionali dell'Arcipelago della Nuova Siberia, il giacimento mesolitico scoperto recentemente da V. Pitul'ko (1993) attesta solo incursioni molto settentrionali di cacciatori di renne in un'epoca (8000 anni fa) in cui l'innalzamento del livello marino non aveva ancora creato l'isola. In conseguenza della grande ricchezza ecologica già citata, la situazione dovette essere del tutto diversa ad est del Kolyma e lungo la costa del Pacifico. Dalla foce dell'Amur nel Mare di Okhotsk fino all'arcipelago della costa nord-occidentale americana si sviluppò un'economia di estuario, che sarebbe divenuta in seguito costiera, fondata probabilmente su scambi tra gruppi litoranei, le cui vestigia sono oggi in gran parte sommerse. I più antichi siti costieri, datati a partire da 9000 anni fa, si trovano a sud-est dell'Alaska e contengono un'industria di microlame affine a quella del Paleoartico americano: Hidden Falls nell'Isola Baranof e altri giacimenti dell'Arcipelago di Alexandre. Il giacimento di Anangula, nelle Isole Aleutine (datato a 8000 anni fa), mostra maggiori affinità con il Paleoartico siberiano. Lungo il Mare di Okhotsk, in Giappone, i primi chiocciolai apparvero intorno a 7000-6000 anni fa a Hokkaido, a sud dell'area occupata dalla banchisa invernale, e sono attribuiti alla fine del Jomon antico. Oltre che dalla pesca, la sussistenza era assicurata dalla caccia ai marsovini, al delfino, alla foca, al leone marino e alla balena. Apparvero in questo contesto le più antiche teste d'arpone basculante a cella aperta, che successivamente gli Eschimesi avrebbero perfezionato. Più a nord, nel bacino inferiore dell'Amur, a partire da 6000 anni fa l'attività maggiormente praticata sembra essere stata la pesca. In una fase successiva a 3000 anni fa, attorno al Mare di Okhotsk, nelle Isole Curili e nella Kamčatka vari complessi ceramici e aceramici testimoniano uno sfruttamento delle risorse marine, in alcuni casi limitato a pesci e molluschi, ma comprendente in altri anche mammiferi marini. In Alaska, a nord della Penisola di Seward, intorno a 5000 anni fa i gruppi portatori della Tradizione Microlitica dell'Artico iniziarono a sfruttare piccoli Mammiferi marini come integrazione stagionale della caccia al caribù. Appena apparsa, questa tradizione si manifestò in diversi complessi archeologici che permettono di seguire la rapida espansione dei pionieri dell'Artide fino al Nord della Groenlandia e successivamente fino alle regioni interne della Subartide canadese, lungo la costa del Labrador. È questa la prima fase del Paleoeschimese, caratterizzata dal Denbighiano in Alaska, dall'Independanziano, dal Predorsetiano e dal Sarqaquiano più a est, nel corso della quale l'adattamento culturale alle risorse marine dell'Artide si ampliò e portò alla formazione del Dorsetiano nell'Artide orientale. In Alaska i complessi Choris, Norton e Ipiutak, che sembrano avere conservato elementi della Tradizione Microlitica dell'Artico associati a influssi siberiani (in particolare la ceramica), attestano l'orientamento di diversi gruppi verso uno sfruttamento sempre più specializzato e intensivo dei mammiferi marini. Sebbene le relazioni tra questi complessi debbano essere ancora chiarite, essi crearono le condizioni per lo sviluppo dell'ultima fase di specializzazione nella caccia ai mammiferi marini di taglia più grande, corrispondente al Neoeschimese. Su entrambi i lati dello Stretto di Bering il processo può essere seguito attraverso l'Okvikiano, il Vecchio Beringiano, il Birnirkiano, il Punukiano e il Thuleano. Seguendo le balene, preziosa fonte di cibo e di materie prime, i Thuleani e senza dubbio i Punukiani, antenati degli odierni I nuit, andarono a loro volta diffondendosi nell'Artide orientale agli inizi del II millennio d.C., facendo scomparire il modo di vita e forse la popolazione del Paleoeschimese.

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La caccia, l'utilizzazione delle risorse vegetali e lo sfruttamento degli ambienti acquatici: americhe
la caccia

di Duccio Bonavia

I primi gruppi umani giunti nelle Americhe erano cacciatori specializzati del Paleolitico superiore. Il dibattito suscitato negli anni Sessanta dall'ipotesi di A.D. Krieger, secondo cui sarebbe esistito un orizzonte Pre-Projectil Point in cui le punte di proiettile erano assenti dallo strumentario, si configura attualmente in termini diversi, in quanto si preferisce formulare ipotesi sul contesto e sull'attendibilità delle datazioni più che sull'aspetto meramente tecnologico. Esistono divergenze tra studiosi che accettano l'ipotesi di un'occupazione pre-Clovis con datazioni superiori a 12.000 anni fa (come W.N. Irving e A.L. Bryan) e studiosi che invece la rigettano (D.F. Dincauze, R.C. Owen, B.M. Fagan, D.J. Meltzer e Th.F. Lynch). Occorre segnalare che in America Settentrionale vi è una serie di siti con datazioni controverse comprese tra 50.000 e 19.000 anni fa ed esistono inoltre giacimenti non datati, le cui industrie sembrerebbero possedere notevole antichità. Dopo decenni di ricerche, negli Stati Uniti e in Alaska non sono state comunque rinvenute evidenze pre-Clovis attendibili; non sussistono invece dubbi sulla cosiddetta "tradizione Paleoindiana", definita da G.R. Willey "tradizione dei Cacciatori di Megafauna". I gruppi che ne furono portatori occuparono nel tardo Pleistocene le pianure americane, raggiungendo l'Arizona, i deserti del New Mexico e le regioni orientali dell'America Settentrionale. Tra 12.000 e 9000 anni fa in quest'area si svilupparono principalmente tre tradizioni: Clovis, Folsom (e forme collegate) e Plano. Quando il clima pleistocenico mutò e l'ambiente si fece più caldo e più secco ebbe luogo una serie di processi adattativi e i gruppi della tradizione Plano continuarono a cacciare i bisonti moderni fino a circa 6000 anni fa. La tradizione Clovis è rappresentata principalmente dalle classiche punte di lancia scanalate; le lance erano probabilmente scagliate contro gli animali con l'aiuto del propulsore, oppure infisse su lunghi pali per trafiggere le prede. I gruppi Clovis si specializzarono nella caccia a mammut, Camelidi, cavalli e bisonti: le strategie di caccia prevedevano l'inseguimento e l'accerchiamento dei branchi di animali, che venivano poi uccisi in successione, mentre i siti preferiti per gli agguati erano laghi e acquitrini in cui i grandi Mammiferi potevano impantanarsi. I resti di quest'epoca si concentrano negli altipiani, nel deserto del Sud-Ovest, nel Texas Panhandle, sulle coste del Golfo del Texas e, ad est, nell'area del Mississippi, nell'Ohio, nel Tennessee, nel Cumberland e lungo le coste atlantiche, dalla Florida alla Nuova Scozia. La tradizione Folsom, con le sue caratteristiche punte scanalate, ebbe invece un'area di diffusione molto più circoscritta, localizzata principalmente nelle Grandi Pianure dell'America Settentrionale. I suoi portatori erano specializzati nella caccia al bisonte successivamente estintosi, sebbene uccidessero anche mammut e Camelidi utilizzando probabilmente le stesse tecniche dei gruppi Clovis; i branchi di animali potevano anche essere costretti ad entrare in passaggi obbligati o in trappole artificiali o naturali. L'ambiente in cui la tradizione Folsom si sviluppò era composto essenzialmente da savane con valli a vegetazione d'alto fusto e da zone pantanose con piccoli corsi d'acqua. La tradizione Plano, sviluppatasi soprattutto nelle Grandi Pianure dell'America Settentrionale, è invece rappresentata da vari tipi di punte non scanalate, di forma lanceolata, larga e allungata, realizzate con un'accurata tecnica a pressione e destinate in particolare alla caccia al bisonte. In Mesoamerica le evidenze dei primi cacciatori-raccoglitori sono relativamente scarse: nelle alteterre, nei giacimenti pleistocenici della Valle di Messico, nella sierra del Tamaulipas e nella valle di Tehuacán (Puebla) sono stati individuati siti attribuibili a questi gruppi, con datazioni che rimontano fino a 9000 anni fa. Alcuni rinvenimenti di punte scanalate nel Nord del Messico attestano contatti con l'area settentrionale: i ritrovamenti effettuati a Santa Isabel Iztapan (Valle di Messico), associati a resti di mammut, sono quelli che mostrano maggiori affinità con la tradizione delle Grandi Pianure dell'America Settentrionale. In America Meridionale il dibattito relativo ai primi cacciatori- raccoglitori è ancora più complesso. Forse il maggiore problema è quello delle relazioni tra i primi cacciatori-raccoglitori sudamericani e i gruppi identificati in America Settentrionale: non è infatti a tutt'oggi chiaro se essi siano da riconnettersi con i Paleoindiani della tradizione Clovis, oppure con gruppi pre-Clovis successivamente diversificatisi in America Meridionale. Attualmente si tende a ritenere che la continuità tra nord e sud sia piuttosto debole e che le industrie litiche rappresentino altrettante risposte diversificate in funzione dell'ambiente naturale e sociale. I resti archeologici evidenziano l'esistenza, tra 11.000 e 10.500 anni fa, di vari modelli che riflettono forme distinte di organizzazione socioeconomica. La maggior parte dei giacimenti più antichi presenta datazioni tra 12.000 e 11.000 anni fa, ma vi è un piccolo gruppo di siti con datazioni anteriori, che rimontano fino a 50.000 anni fa, anche se la loro collocazione all'interno del contesto generale della preistoria sudamericana è ancora poco chiara. Occorre considerare che, nonostante l'ambiente e la composizione biotica dell'America Meridionale fossero diversi durante il Pleistocene, una parte dell'ecosistema generale dovette essere comunque simile a quella dell'Olocene, con l'eccezione della presenza della megafauna nelle fasi più antiche. Uno degli aspetti su cui mancano studi è quello paleoambientale. Tutto sembra indicare che durante l'ultima glaciazione vi furono intervalli più caldi intorno a 60.000, 45.000 e 33.000 anni fa, mentre le condizioni di clima freddo si accentuarono intorno a 30.000 e 14.000 anni fa. Nelle aree non coperte dai ghiacci il clima fu probabilmente più caldo e secco, come nel caso della costa del Pacifico, mentr e le aree montane delle Ande furono molto più soggette ai mutamenti verificatisi tra le fasi glaciali e quelle interglaciali. Sembra che nelle basseterre orientali fossero invece predominanti condizioni subtropicali o aride; non si deve dimenticare che durante le fasi glaciali molte zone, come ad esempio la puna, non erano accessibili né all'uomo né agli animali. Quando l'uomo giunse in questa parte del continente vi trovò ancora la megafauna, essenzialmente mastodonti, taxodonti, Palaeolama, cavalli, bradipi terrestri (Mylodon, Megatherium), Scelidotherium, gliptodonti e cervi. Occorre comunque segnalare che la maggior parte delle informazioni proviene dai settori occidentale e meridionale del subcontinente e generalmente le associazioni dirette tra attività antropiche e megafauna sono molto scarse: sulla costa settentrionale del Perù, ad esempio, è stato possibile accertare che gli animali si estinsero poco prima dell'arrivo dell'uomo. Sarebbe impossibile citare tutti gli animali che in America Meridionale furono in qualche modo oggetto di pratiche venatorie da parte dell'uomo all'epoca del suo arrivo; ci limiteremo dunque a segnalare i principali. Senza dubbio, anche se non su ampia scala, venne cacciata la varietà di elefante presente nel subcontinente. Il cavallo, probabilmente in quanto preda facile, venne invece cacciato intensivamente; lo stesso dovette accadere con il bradipo terrestre, animale solitario i cui resti sono molto frequenti nei rifiuti di questo periodo. Benché siano stati rinvenuti anche resti di gliptodonti, non è certo che questi siano stati cacciati, in quanto le associazioni non sono chiare. Le prede più comuni furono Cervidi e Camelidi, che convissero con la megafauna, all'estinzione della quale i modelli di caccia mutarono. Un'altra importante preda fu anche il taruca (Hippocamelus); venivano inoltre cacciati animali di piccola taglia, forse anche mediante trappole. Nei giacimenti più antichi sono stati occasionalmente rinvenuti resti di sariga e di porcospino, animali facili da catturare; inoltre, nei depositi di rifiuti dei cacciatori-raccoglitori sono spesso presenti percentuali considerevoli di un uccello, il tinamu (Tinamidae: Eudromia). Non è chiaro il modo in cui esso era cacciato, anche se probabilmente venivano impiegate trappole e reti; è inoltre possibile che la boleadora fosse già conosciuta in questo periodo. Sulla costa settentrionale del Perù si cacciava il cañan (Dicrodon); venivano inoltre catturati serpenti e si raccoglievano vari animali marini, tra cui i Molluschi. Un buon esempio dei mutamenti tecnologici dei cacciatori come adattamento all'ambiente è la cultura Paijanense (10.700-7900 anni fa) della costa peruviana. Questi gruppi utilizzavano la classica punta a coda di pesce per fabbricare lance; una volta raggiunta la costa, per catturare il pesce essi modificarono il loro strumentario, creando la cosiddetta punta Paiján. La tecnica impiegata, che sarebbe stata abbandonata nelle fasi successive, era comunque quella di infilzare i pesci con le lance. In termini generali, i primi cacciatori sudamericani furono altamente specializzati e acquisirono caratteri comuni nelle epoche successive; sono tuttavia scarsi i dati che consentono di ricostruire in dettaglio le tecniche venatorie, con la sola eccezione dell'inseguimento con il fuoco. Occorre ricordare a questo proposito che la caccia collettiva fu una delle grandi innovazioni del Paleolitico superiore dell'Eurasia, da cui dovette diffondersi anche in America. Uno degli indicatori più chiari per la comprensione della cultura dei cacciatori è dato dall'ubicazione dei giacimenti: molti di essi si trovano nei pressi di fonti d'acqua, a documentare l'esistenza di strategie di sussistenza piuttosto avanzate. I cacciatori non avevano infatti armi a lunga gittata e dunque le prede di grande taglia venivano con ogni probabilità spinte e attaccate nei pressi delle fonti d'acqua o in altri luoghi strategici lungo i percorsi di avvicinamento. Riguardo alla scomparsa della megafauna, i mutamenti climatici sembrano avere svolto un ruolo molto importante, forse più del fattore umano. È stato ipotizzato che i primi gruppi di cacciatori dovettero essere tanto efficienti e poco integrati nel nuovo ambiente da provocarne il depauperamento: sembra infatti che, rispetto ad altre parti del mondo, in America alla fine del Pleistocene si sia estinta una quantità di grandi Mammiferi notevolmente superiore.

Bibliografia

G.R. Willey, An Introduction to American Archaeology, I-II, Englewood Cliffs 1966-71; Th.F. Lynch, The Paleo-Indians, in J.D. Jennings (ed.), Ancient South Americans, San Francisco 1983, pp. 87-137; C. Chauchat, Les Paijaniens, premiers chasseurs cueilleurs du versant pacifique des Andes, in DossAParis, 145 (1990), pp. 42-47; Th.F. Lynch, Glacial-Age Man in South America? A Critical Review, in AmAnt, 55, 1 (1990), pp. 12-36; D. Bonavia, Perú. Hombre e historia. De los orígines al siglo XV, I, Lima 1991, pp. 53-68; T.D. Dillehay - D.J. Meltzer (edd.), The First Americans. Search and Research, Boca Raton 1991; T.D. Dillehay et al., Earliest Hunters and Gatherers of South America, in JWorldPrehist, 6, 2 (1992), pp. 145-204; C. Falguères et al., Datations radiométriques de l'extinction des grandes faunes pléistocènes au Pérou, in CRASc, II ser., 319 (1994), pp. 261-66.

L'utilizzazione delle risorse vegetali: il caso delle culture del deserto

di François Rodriguez Loubet

Nel vasto territorio corrispondente alle regioni comprese tra gli Stati Uniti occidentali e il Messico centrale si svilupparono a partire dal 9000 a.C. circa, perdurando in alcune aree fino a epoca storica, singolari modalità di sfruttamento delle risorse vegetali proprie di un habitat di tipo arido. Tale ecosistema, seppure non contraddistinto da caratteristiche pienamente desertiche, è estremamente arido e corrisponde a una steppa xerofita con una media annuale di precipitazioni tra 200 e 500 mm. Fu J.D. Jennings a definire negli anni Cinquanta come appartenenti alle "culture del Deserto" quei gruppi che avevano elaborato specifiche strategie adattative per lo sfruttamento di tali territori (in gran parte compresi nell'area culturale del Gran Bacino degli Stati Uniti): esse prevedevano un'alta mobilità e l'utilizzazione di una vasta gamma di risorse vegetali selvatiche, tra cui soprattutto i semi di piante desertiche. Le ricerche condotte da Jennings a Danger Cave (Utah) hanno rivelato l'esistenza di depositi stratificati risalenti almeno a 10.300 anni fa, portando inoltre all'identificazione di un centinaio di manufatti per macinare semi e di migliaia di strumenti litici, in corno, osso e conchiglia, oltre a frammenti di cesti e stuoie e ad abbondanti resti faunistici e botanici (soprattutto di Tipha latifolia, una pianta utilizzata per l'alimentazione e la fabbricazione di cordami). La dieta, fondata essenzialmente sullo sfruttamento delle risorse vegetali provenienti da ecosistemi diversi (dalle rive di stagni e piccoli corsi d'acqua alle pianure aride, ricche di cactacee), era integrata dalla caccia a piccoli Mammiferi (soprattutto roditori) e a uccelli, dalla pesca e dalla raccolta di rettili e insetti. La stabilità dell'ambiente in cui le culture del Deserto si svilupparono consentì il perdurare fino a epoca storica di questa tradizione, della quale vengono considerati eredi i Chichimechi. Con questo nome gli abitanti della Valle di Messico identificavano i gruppi nomadi di cacciatori-raccoglitori stanziati nei territori più settentrionali, dei quali temevano le frequenti incursioni ma dai cui territori ottenevano, attraverso scambi, beni suntuari quali pietre preziose, piume, piante medicinali e allucinogene. I Chichimechi traevano un profitto considerevole dalle numerose specie di cactus che coprivano il loro territorio. I frutti del grande cactus cero, o saharo (Carnegiea gigantea), potevano essere consumati in diverse forme (freschi, secchi, in poltiglia, in sciroppo o in bevanda fermentata), i suoi lunghi steli erano utilizzati per costruire capanne e tetti o per fabbricare utensili e le sue spine come aghi. I cactus a "racchetta" del genere Opuntia erano cotti alla griglia o sotto la cenere e i loro frutti essiccati costituivano un'importante riserva alimentare durante la stagione invernale. Il peyotl (Lophophora williamsii ), un piccolo cactus dagli effetti allucinogeni molto potenti, era una sorta di panacea medicinale: aiutava a sopportare le dure condizioni del deserto ed era impiegato nei rituali di caccia e di guerra. Delle agavi si consumavano le spesse foglie, cotte in forni sotterranei, e il succo prodotto da alcune varietà (ad es., Agave atrovirens) al momento della fioritura, mentre con le fibre si fabbricavano reti da caccia, trappole, recipienti di vimini, copricapi, sandali, ecc. Le ricerche etnografiche condotte presso alcune tribù storiche dell'area del Gran Bacino, quali ad esempio i Paiute, integrano la documentazione archeologica. Presso tali gruppi la sussistenza era assicurata da uno sfruttamento delle risorse selvatiche fortemente vincolato alla loro stagionalità: oltre ai fiori, alla polpa e ai frutti di diverse cactacee, venivano consumate ghiande, bacche e radici estratte con bastoni da scavo, mentre gli alimenti erano generalmente cotti entro cesti di arbusti di salice riempiti di acqua e collocati su pietre arroventate.

Bibliografia

P. Kirchhoff, El Norte de México y el Sur de Estados Unidos, in Tercera reunión de mesa redonda sobre problemas de México y Centro América, México 1943, pp. 133-44; J.D. Jennings - E. Norbeck, Great Basin Prehistory. A Review, in AmAnt, 21 (1955), pp. 1-11; J.D. Jennings, Danger Cave, Salt Lake City 1957; F. Rodriguez Loubet, Les Chichimèques, Mexico 1985.

L'utilizzazione delle risorse vegetali: il caso dell'amazzonia

di Anna C. Roosevelt

Le foreste pluviali tropicali sono note per la loro ricca biomassa vegetale e le strategie adattative dell'uomo riflettono questa situazione, basandosi sulle risorse vegetali per l'ottenimento della maggior parte degli alimenti e delle materie prime. Poiché gran parte dell'evoluzione umana ebbe luogo nelle foreste tropicali e nelle savane, è probabile che per gli Ominidi le piante siano state più rilevanti della carne, nonostante l'importanza tradizionalmente attribuita dai paleoantropologi alla caccia a specie di grande taglia. In ogni fase dell'occupazione umana dell'Amazzonia venne data un'importanza diversa alle risorse vegetali, a seconda del tipo di insediamento, della tecnologia e dei modelli sociopolitici; inoltre, i diversi gradi di utilizzazione delle piante influenzarono a loro volta l'entità e le forme di organizzazione dei gruppi. Le tre principali fasi di sfruttamento delle risorse vegetali furono quella della raccolta durante la preistoria antica, quella orticola durante la preistoria media e quella agricola durante la preistoria recente. È stato ipotizzato che nel corso di ciascuna fase la dieta fosse del tutto equilibrata, in quanto solo un ridottissimo numero di scheletri risalenti ai diversi periodi mostra patologie gravi o croniche delle ossa, mentre la statura della maggior parte degli individui studiati è nella norma. Tra 11.000 e 5000 anni fa, lungo il corso principale del Rio delle Amazzoni e nella regione dello scudo brasiliano, all'epoca coperta di foreste, la raccolta di piante proprie dell'ambiente forestale forniva la maggior parte delle calorie, mentre la pesca, la raccolta di molluschi e la caccia alla piccola selvaggina assicuravano cibo supplementare ricco di proteine. Nei siti di questo periodo sono state rinvenute grandi quantità di resti carbonizzati di una vasta gamma di frutti e di noci; tra i resti alimentari più comuni figurano le nutrienti noci della palma areca (soprattutto i generi Attalea e Astrocaryum) e le Leguminose (genere Hymenaea). Mesocarpi di palma (polpa del frutto) ed endospermi (parte commestibile all'interno del frutto) sono ricchi di olio e di vitamine e contengono apprezzabili quantità di proteine, mentre l'arillo e i semi delle Leguminose sono ricchi di proteine, amido e olio. Tra le altre piante sfruttate da questi primi gruppi vi sono la noce brasiliana (Bertholletia excelsa), ricca di proteine e di grassi, e i piccoli frutti zuccherini di molti alberi tropicali. La comparsa dei primi insediamenti stabili e gli inizi della produzione ceramica sembrano aver avuto luogo in Amazzonia durante un periodo di intensificato sfruttamento di pesci e molluschi, tra 8000 e 5000 anni fa (datazioni radiocarboniche). Lungo il corso del Rio delle Amazzoni e nella regione di estuario in Brasile e nelle Guyane gli archeologi hanno rinvenuto numerosi e consistenti depositi di lische di pesce e di conchiglie risalenti a quest'epoca. Tra 5000 e 1000 anni fa molte comunità del Rio delle Amazzoni raggiunsero una relativa sedentarietà, fondando la propria sussistenza sull'orticoltura di radici commestibili, integrata dalla pesca, dalla raccolta di molluschi e, in misura minore, di frutti e dalla caccia. A partire da questo periodo, alcune culture iniziarono a produrre ceramica ben modellata, le cui forme più frequenti sono ciotole per cuocere, giare impiegate forse per la birra e, in alcune aree, piastre in ceramica. Poiché tali piastre erano utilizzate soprattutto per la cottura delle radici di manioca, un arbusto C-3, è stato ipotizzato che queste e altre radici fossero l'alimento principale, come presso numerosi gruppi amazzonici attuali. I resti di frutti sono rari in alcuni giacimenti, ma comuni in altri: alcuni dei più diffusi appartengono a generi che crescono anche in habitat sfavorevoli, quali Astrocaryum e Inga. Probabilmente vennero comunque coltivati anche altri generi, meno adattabili a condizioni avverse, quali Euterpe, che necessita di molta acqua. Sulla base delle ricerche condotte nell'Amazzonia peruviana e brasiliana e lungo l'Orinoco, in Venezuela, nei 500 anni che precedettero la Conquista il mais divenne presso molte comunità l'alimento principale; la dieta era integrata dal consumo di pesci e di legumi non coltivati, che sono scarsamente documentati nei siti. Di conseguenza, la composizione chimica sia delle proteine, sia dei componenti minerali delle ossa umane risalenti a questo periodo attesta un'alimentazione basata prevalentemente su piante C-4. Il rapporto isotopico dell'azoto delle ossa è simile a quello della proteina del mais e, in misura minore, a quello delle proteine animali; i risultati delle ricerche confermano quindi un regime alimentare in cui il mais era la fonte principale di amidi, grassi e proteine. Evidenze archeologiche quali terrapieni, strutture e manufatti indicano che gli insediamenti erano numerosi, vasti e permanenti. Né il pesce né alcun tipo di selvaggina, la cui catena alimentare in Amazzonia è basata su piante C-3, avrebbero pertanto svolto un ruolo significativo nella dieta. Durante quasi tutta la preistoria le piante furono dunque, nelle basseterre tropicali orientali dell'America Meridionale, la principale fonte dei nutrienti più importanti per la dieta umana. Sebbene la fauna fornisse rilevanti supplementi di proteine di alta qualità, di grassi e di minerali, durante quasi tutto il periodo preistorico essa costituì una fonte nutrizionale secondaria rispetto alle piante. Questa predominanza degli alimenti vegetali è riscontrabile anche in altre regioni tropicali: si tratta dunque di un modello adattativo che occorre considerare negli scenari paleoantropologici sull'evoluzione umana.

Bibliografia

A.C. Roosevelt, Parmana: Prehistoric Maize and Manioc Subsistence along the Amazon and Orinoco, New York 1980; N. van der Merwe - A.C. Roosevelt - J.C. Vogel, Isotopic Evidence for Prehistoric Subsistence Change at Parmana, Venezuela, in Nature, 292 (1981), pp. 536-38; A.C. Roosevelt, Population, Health and the Evolution of Subsistence: Conclusions, in M. Cohen - G. Armelagos (edd.), Paleopathology at the Origins of Agriculture, New York 1984, pp. 559-83; Ead., The Evolution of Human Diets, in M. Harris - E. Ross, Food and Evolution: Toward a Theory of Human Food Habits, Philadelphia 1987, pp. 565-78; Ead., Resources Management in the Amazon Basin Before the European Conquest: Beyond Ethnographic Projection, in D. Posey - W. Baleé, Natural Resource Management by Indigenous and Folk Societies in Amazonia, New York 1989, pp. 30-61; A.C. Roosevelt et al., Eighth Millennium Pottery from a Prehistoric Shell Midden in the Brazilian Amazon, in Science, 254 (1991), pp. 1621-24; A.C. Roosevelt et al., Paleoindian Cave Dwellers in the Amazon: the Peopling of the Americas, in Science, 272 (1996), pp. 373-84; A.C. Roosevelt, Excavations at Corozal, Venezuela: Stratigraphy and Ceramic Seriation, New Haven 1997; Ead., Amazonian Hunter-Gatherers, in W. Baleé (ed.), Advances in Historical Ecology, New York 1998, pp. 190-212.

Acquatici: il caso delle ande centrali

di Duccio Bonavia

Questa regione rappresenta un ecosistema complesso e variato, il cui ruolo nello sviluppo delle culture andine è di difficile valutazione se non si comprendono i meccanismi che lo producono. La correlazione tra acque fredde e sviluppo del plancton è alla base dell'alimentazione dei pesci di piccole dimensioni, i quali a loro volta rappresentano il nutrimento di quelli più grandi e degli uccelli; il fenomeno si verifica anche in altri mari, ma mai in forma così massiccia. Dinanzi alle coste dell'odierno Perù si verificano fenomeni molto complessi, che determinano una delle biomasse oceaniche più ricche del mondo: il meccanismo di bioproduzione si fonda su una specie di sardina, l'anchoveta (Engraulis ringens), di cui si cibano pesci, uccelli, mammiferi e invertebrati. L'anchoveta si alimenta di plancton vegetale e occasionalmente di zooplancton; decomponendosi, questi organismi disperdono nell'ambiente una serie di composti minerali che originano nuove molecole organiche. Il fitoplancton impiega questa energia per compiere attività fisiologiche, in tal modo aumentandola; essa è quindi liberata attraverso processi metabolici e viene così trasferita all'anchoveta e allo zooplancton. Il metabolismo vegetale consuma nutrienti nei livelli dell'oceano in cui vi è sufficiente luce, mentre in profondità tende ad accumularsi. Sollevando tali depositi, l'affioramento della Corrente Peruviana provoca entro un'area di 50 miglia dalla costa una bioproduzione eccezionale, con enormi masse di fitoplancton, il cui impiego da parte degli animali di differenti livelli trofici è alla base della ricchezza di pesce caratteristica di queste acque. I primi gruppi umani iniziarono a sfruttare le risorse marine più di 10.000 anni fa, quando dalle regioni montane raggiunsero la costa. Dapprima il fenomeno ebbe entità limitata e si avvalse delle tecniche tipiche della caccia (i pesci venivano catturati infilzandoli con lance); venne però progressivamente sviluppandosi una tecnologia più idonea allo sfruttamento delle risorse marine, con l'invenzione di strumenti specifici per la raccolta di molluschi, di vari tipi di ami e di un'ampia varietà di reti da pesca. Sebbene non siano state rinvenute evidenze dirette dell'esistenza di imbarcazioni, una serie di indizi permette di ritenere che l'impiego del caratteristico caballito de totora (imbarcazione ricavata da Typhaceae o Cyperaceae) risalga a epoche molto antiche. La quantità di resti marini contenuta nei depositi preceramici di rifiuti della costa peruviana è molto elevata: risulta ad esempio dalle fasi preceramiche del giacimento di Los Gavilanes (valle del Huarmey, costa centr o-settentrionale del Perù) che si sfruttavano la fauna e la flora dei fondali sia a fini alimentari sia per altri scopi, come nel caso dei yuyos o cochayuyos (Gigartina) o dei sargassi (Macrocystis pyrifera), impiegati come combustibile. Venivano consumate anche differenti specie di ricci di mare (Echinodermi), una grande quantità di Molluschi (più di 30 famiglie) e di granchi (più di 6 famiglie di Artropodi) e almeno una classe di Tunicati, le ascidie. Si pescavano inoltre moltissimi pesci (più di 23 famiglie), Rettili e tartarughe marine e venivano cacciate più di 10 famiglie di uccelli; tra i Mammiferi marini le prede più ambite erano le otarie e alcune specie di Delfinidi. In molti giacimenti sono stati rinvenuti resti di balene, sebbene esse non fossero cacciate ma si predassero gli esemplari spiaggiati. Dalle fasi preceramiche fino all'arrivo degli Europei, in tutte le culture costiere continuarono ad essere utilizzati su vasta scala prodotti marini, pesce essiccato e alghe, che venivano trasportati in grandi quantità nelle regioni montane. Lo sfruttamento delle risorse marine è attestato nella produzione ceramica da rappresentazioni scultoree e pittografiche, come nel caso dei Moche, che ritrassero scene di pesca su grandi caballitos de totora o l'uccisione a bastonate delle otarie, e in quello dei Nazca, per i quali è documentata la pesca in mare aperto con pescatori sdraiati su otri gonfiati. Negli anni Sessanta E. Lanning formulò l'ipotesi secondo cui sulle coste peruviane le attività di pesca avrebbero permesso l'esistenza di villaggi stabili anche in assenza di agricoltura; la stessa ipotesi, parzialmente modificata, venne riproposta da R. Fung, ma fu M.E. Moseley che negli anni Settanta la rielaborò, sostenendo che risorse tanto abbondanti, localizzate e permanenti potevano essere facilmente sfruttate con una semplice tecnologia di caccia e raccolta. I gruppi costieri avrebbero dunque raggiunto la sedentarietà e sperimentato importanti incrementi demografici, creando società complesse e vasti insediamenti. Solo in un secondo momento, in ragione dell'eccessivo sfruttamento di queste risorse e dell'aumento di popolazione, tale processo avrebbe reso necessario il ricorso alle attività agricole. A differenza del resto del mondo, nell'area andina centrale il fattore principale della nascita della civiltà sarebbe dunque stato rappresentato dallo sfruttamento delle risorse marine e non dall'agricoltura. Questa ipotesi è stata messa in discussione da A.J. Osborn, S. Raymond, D.J. Wilson e D. Bonavia, i quali invece ritengono che non vi siano sufficienti evidenze archeologiche a sostegno della tesi di Moseley. Il precoce sviluppo dell'agricoltura nelle Ande Centrali è inoltre un dato ormai acquisito: sulla costa vi sono indizi di questa attività a partire dal 6000 a.C., mentre dal 4000 a.C. apparve una grande quantità di piante coltivate. L'area andina non costituirebbe dunque un'eccezione, essendo stata anche qui l'agricoltura a favorire la nascita della civiltà.

Bibliografia

E. Schweigger, El litoral peruano, Lima 1964; M.E. Moseley, The Maritime Foundations of Andean Civilizations, Menlo Park 1975; J. Sánchez Romero, Aspectos biológicos y pesqueros del mar peruano, in Historia marítima del Perú, I, Lima 1975, pp. 19-493; A.J. Osborn, Strandloopers, Mermaids and other Fairy Tales: Ecological Determinants of Marine Resources Utilization. The Peruvian Case, in L. Binford (ed.), For Theory Building in Archaeology. Essays on Faunal Remains, Aquatic Resources, Spatial Analysis, and Systematic Modeling, New York 1977, pp. 157-205; J.R. Scott, The Maritime Foundations of Andean Civilizations: a Reconsideration of the Evidence, in AmAnt, 46 (1981), pp. 806-21; D.J. Wilson, Of Maize and Men: a Critique of the Maritime Hypothesis of State Origins on the Coast of Peru, ibid., 83 (1981), pp. 93-120; D. Bonavia, Los Gavilanes. Mar, desierto y oasis en la historia del hombre, Lima 1982; Id., Perú. Hombre e historia. De los orígenes al siglo XV, I, Lima 1991, pp. 166-69.

Lo sfruttamento degli ambienti acquatici: il caso della patagonia

di Dominique Legoupil

Significative evidenze di una popolazione dedita allo sfruttamento delle risorse marine sono state rinvenute sulla costa del Pacifico, lungo gli arcipelaghi della Patagonia e della Terra del Fuoco che si estendono per 1800 km dall'Isola di Chiloé a nord sino a Capo Horn a sud. Questo territorio stretto e allungato è costituito da una complessa rete di fiordi e di canali e da più di 5000 isole e isolotti; esso si caratterizza per la violenza dei venti, per le abbondanti precipitazioni (4000-5000 mm annui) e per un soleggiamento molto debole. Date le avverse condizioni ambientali di quest'area, per lungo tempo si è ritenuto che la sua occupazione non avesse rappresentato che un fenomeno molto recente e marginale in rapporto al popolamento dei vasti altipiani stepposi della Patagonia atlantica (Los Toldos, Grotta Fell) e della Terra del Fuoco (Tres Arroyos), dove le evidenze di presenza umana risalgono a circa 12.000 anni fa. Da questa anteriorità dei gruppi di cacciatori di specie animali terrestri è nata l'ipotesi, frequentemente avanzata, secondo cui lo sfruttamento dell'ecosistema marino in questa regione sarebbe stato il prodotto dei mutamenti economici e culturali avvenuti in una popolazione che in precedenza traeva il proprio sostentamento prevalentemente dalle risorse della terra. Malgrado il carattere insulare della Terra del Fuoco, le occupazioni più antiche non presentano evidenze di un'economia centrata sulle risorse marine: il giacimento di Tres Arroyos è infatti un sito di cacciatori. Recenti studi sull'evoluzione postglaciale della regione hanno rivelato che in quel periodo essa era ancora collegata con il continente da due istmi, forse ghiacciati; questi ultimi avrebbero permesso il passaggio di popolazioni, che sarebbero più tardi rimaste isolate al momento dell'apertura dello Stretto di Magellano. Un fenomeno simile, di cui testimonia il giacimento costiero di Ponsonby, ebbe probabilmente luogo poco più tardi nell'Isola Riesco, dove i cacciatori giunsero al seguito della loro preda preferita, il guanaco (Lama guanicoe): dopo essere rimasti sull'isola a causa dell'apertura del Canale Fitz-Roy, essi si limitarono a integrare con alcune risorse marine la loro alimentazione durante l'ultima fase di occupazione del sito, circa 4000 anni fa. Di fatto questi giacimenti non testimoniano un vero sfruttamento dell'ecosistema marino: essi infatti sono limitati a due grandi isole, dove la sopravvivenza dei cacciatori sembra essere stata condizionata da quella delle loro prede terrestri. Sistematiche strategie di utilizzazione delle risorse marine risalgono alla fine del V - inizi del IV millennio a.C. e sembrano corrispondere a un rapido movimento di popolazioni, forse provenienti dalla costa pacifica a nord degli arcipelaghi: apparentemente in pochi secoli si sviluppò una cultura originale e ben differenziata da quella dei cacciatori delle steppe, che sarebbe durata per circa sei millenni. Nel corso degli ultimi decenni sono stati scoperti numerosi giacimenti costieri dalle caratteristiche economiche tipicamente marittime: i più antichi (circa mezza dozzina) rappresentano un complesso coerente datato tra 6100 e 5900 anni fa. Questi siti sono ubicati in due punti-chiave: nel settore centro-occidentale dello Stretto di Magellano- Mare di Otway e nel Canale di Beagle-Canale Murray. Al primo gruppo appartengono Englefield 1 (6100±110 B.P.) e Bahia Colorada (5900±70 B.P.) nel Mare di Otway, Punta Santa Ana (6020±120 B.P.) e Bahia Buena (5895±65 B.P.) nello Stretto di Magellano. Il secondo gruppo è rappresentato dai siti di Túnel I (6200±100 B.P.) nel Canale di Beagle e di Grandi 1 (6160±140 B.P.) a sud dell'Isola Navarino; quest'ultimo, situato a 55° di latitudine, ben più a sud della Tasmania, della Nuova Zelanda e dell'Africa, rappresenta il giacimento archeologico più australe del mondo. I siti si trovano in alcune delle numerose cale o baie di cui sono costellati gli arcipelaghi, più spesso su terrazze costiere coperte di erbe o di piccoli arbusti. Originariamente ubicati vicino alla riva, i più antichi giacimenti sono oggi localizzati una decina di metri sopra il livello del mare a causa delle variazioni eustatiche e isostatiche oloceniche, mentre i più recenti si trovano sulle spiagge e per questa ragione risultano assai più soggetti all'erosione marina. I nomadi marini degli arcipelaghi, i cosiddetti Canoeros, sono stati tradizionalmente divisi in tre gruppi: Chono, Alakaluf e Yamana. Essi protrassero fino agli inizi del XX secolo il loro modo di vita tradizionale: cacciatori di mammiferi marini, di uccelli acquatici e raccoglitori di conchiglie, non conobbero l'agricoltura o l'allevamento, né la ceramica, l'industria tessile e la metallurgia. Vi sono poche differenze tra gli accampamenti antichi e quelli moderni: la loro densità lungo le coste è bassa e riflette una popolazione molto dispersa; la topografia dei siti è la stessa, così come la loro dimensione e quella delle abitazioni. Anche l'economia e la tecnologia appaiono del tutto analoghe, come è stato messo in evidenza in due giacimenti del Mare di Otway situati ai due estremi della sequenza cronologica, Bahia Colorada (IV millennio a.C.) e Punta Baja (XVII sec. d.C.). I resti animali rivelano un regime alimentare praticamente identico in termini calorici: 93% di Otaridi, 2% di Delfinidi, 3% di cormorani e 1-2% di Molluschi. Ma, soprattutto, in entrambi i casi lo strumentario è pressoché lo stesso: un'importante industria su osso di cetaceo (caratterizzata dalla presenza di arponi e armature multidenticolate), un'industria estremamente specializzata su osso di uccello (punzoni e tubi) e un'industria bifacciale in ossidiana destinata soprattutto alla fabbricazione di punte. Le ricerche archeologiche degli ultimi decenni hanno interessato soprattutto lo Stretto di Magellano, la regione dei mari interni (Skyring-Otway), il Canale di Beagle e l'Arcipelago di Capo Horn. Tali ricerche cominciano a rivelare una complessa organizzazione, articolata in due tipi distinti di siti, che si potrebbero definire campi-base e accampamenti occasionali, ciascuno con marcate peculiarità economiche. I campi-base si trovano nelle baie dai fondali ricchi di Molluschi, spesso situate in punti strategici, soprattutto nella regione del Canale di Beagle-Canale Murray, dove si sviluppò un nucleo di popolazione particolarmente denso. Si tratta di vasti chiocciolai (conchales) che potevano raggiungere centinaia di metri quadrati e uno spessore da 1 a 2 m; i Molluschi, soprattutto mitili, vi svolgevano un ruolo importante, senza dubbio in ragione della prevedibilità di queste risorse in rapporto ad altre, più aleatorie e stagionali. Sulla superficie dei conchales si possono spesso distinguere piccole depressioni circolari di 2-3 m di diametro, corrispondenti a capanne. I giacimenti non rappresentano in alcun modo accampamenti stabili: essi sono infatti costituiti dalla sovrapposizione e dalla giustapposizione di numerose piccole unità di occupazione, utilizzate in forma sempre temporanea, ancorché ricorrente. Più spesso i giacimenti lungo le coste degli arcipelaghi hanno dimensioni minori e corrispondono a piccoli accampamenti occasionali; la superficie supera raramente i 50 m², con uno spessore di 60 cm, e si trovano generalmente in piccole cale dove lo spazio disponibile è appena sufficiente per una o due capanne. L'economia è più variata di quella dei siti di dimensioni maggiori, con specializzazioni regionali, stagionali o di entrambi i tipi (si è visto il caso degli accampamenti del Mare di Otway, a Bahia Colorada e a Punta Baja, specializzati nella caccia ai mammiferi marini). Nel vicino Mare di Skyring sono stati inoltre identificati accampamenti il cui tratto distintivo è costituito dalla caccia ad anatre (Tachyeres pteneres) e amiopotami (Myocastor sp.) e dalla raccolta di conchiglie Pecten. La recente scoperta di una ventina di accampamenti nell'Arcipelago di Capo Horn ha infine rivelato che gli abitanti di queste regioni estreme, arrivati lì circa 1500 anni fa, si dedicavano soprattutto alla caccia ad uccelli marini (procellarie, cormorani, ecc.), alla raccolta di chiocciole di mare (Trophon sp.) e, nei periodi più recenti, alla caccia alla lontra.

Bibliografia

J. Emperaire - A. Laming, Les gisements des îles Englefield et Vivian, in JSocAmer, 50 (1961), pp. 7-75; O. Ortiz Troncoso, Los yacimientos de Punta Santa Ana y Bahia Buena (Patagonia austral), in AnInstPatagonia, 6 (1975), pp. 93-122; L.A. Orquera - E.L. Piana, Composición tipológica y datos tecnomorfológicos y tecnofuncionales de los distinctos conjuntos arqueológicos del sito Túnel I (Tierra del Fuego, Republica Argentina), in RelSocArgAntr, 17, 1 (1986-87), pp. 201-39; D. Legoupil, Bahia Colorada: les premiers chasseurs de mammifères marins de Patagonie australe, Paris 1997.

La caccia, l'utilizzazione delle risorse vegetali e lo sfruttamento degli ambienti acquatici: oceania
la caccia

di Gaetano Cofini

I dati attualmente disponibili non consentono di accertare il ruolo avuto dai gruppi di cacciatori-raccoglitori del Sahul nell'estinzione di numerosi rappresentanti della fauna pleistocenica: tra i Marsupiali, le famiglie dei Diprotodontidi, dei Tilacoleonidi e dei Vombatidi, alcuni generi e specie di canguri (Sthenurus, Procoptodon, Protemnodon, Macropus titan) e un uccello non volatore (Genyornis). Contrariamente ad altri continenti, si lamenta una generale assenza di siti in cui sia inequivocabile l'associazione tra resti animali e testimonianze antropiche, principalmente a causa della relativa affidabilità cronologica e stratigrafica dei contesti. Per ora gli indizi più convincenti provengono dal sito di Cuddie Springs (Nuovo Galles del Sud), dove ossa di Diprotodon, Sthenurus e Genyornis sono state rinvenute insieme a industrie litiche in strati datati fino a 30.000 anni fa. Su alcuni strumenti sono state identificate cellule ematiche e residui di tessuto animale e del pelame di mammiferi, che potrebbero indicare attività di macellazione. Pratiche sistematiche di caccia a canguri (Macropus rufogriseus) sono emerse dalle indagini condotte in grotte nell'area sud-ovest della Tasmania (Warren, Kutikina), che documentano occupazioni presumibilmente temporanee o stagionali risalenti fino a 35.000 anni fa. Le analisi osteologiche hanno evidenziato tracce ricorrenti della rottura intenzionale delle ossa per l'estrazione del midollo e la predominanza di alcune parti degli animali, suggerendo come la macellazione avesse inizio nei luoghi in cui avveniva la caccia. Studi archeozoologici effettuati sui complessi faunistici di Nombe, un riparo sotto roccia degli altopiani di Papua Nuova Guinea contenente depositi culturali datati tra 25.000 e 4500 anni fa, hanno posto in risalto la diminuzione nel tempo delle specie di peso superiore a 5 kg (Diprotodontidi, alcuni Macropodidi, Protemnodon) o inferiore a 300 g (rane, lucertole, Scincidi, opossum, pipistrelli, uccelli) e il consistente aumento nell'Olocene dei resti di animali di taglia media e piccola, compresi tra 5 kg e 300 g (Falangeridi, serpenti, Muridi, uccelli). I mutamenti rilevati nel campione faunistico vengono connessi con le trasformazioni climatico-ambientali che hanno contraddistinto l'apice della fase glaciale e con l'aumento progressivo della frequentazione umana di questi territori. Forme di disboscamento con l'ausilio del fuoco, documentate negli altopiani papuani a partire da 30.000 anni fa, potrebbero aver favorito le attività venatorie, alterando comunque in maniera irreversibile gli habitat delle faune pleistoceniche. A partire da 5000 anni fa, le strategie di caccia degli aborigeni australiani subirono indubbiamente mutamenti significativi in seguito all'arrivo del dingo e all'adozione di nuove tecnologie e strumenti propri dell'Australian Small Tool Tradition, dei quali tuttavia non facevano parte arco e frecce. Testimonianze della rilevanza simbolico-religiosa attribuita alle pratiche venatorie compaiono nelle pitture rupestri dello stile "dinamico" della Terra di Arnhem, in cui vengono ritratte scene di caccia al canguro e cacciatori armati di lance, giavellotti, propulsori, boomerang e accette. Recenti studi dedicati all'analisi degli effetti dell'insediamento umano sui fragili ecosistemi polinesiani hanno evidenziato come l'attività predatoria e la modificazione degli habitat originari siano la causa dell'estinzione di numerose varietà di uccelli. Il caso più emblematico rimane quello dei Dinorniti, i megapodi (moa) della Nuova Zelanda estintisi nel XVIII secolo. Le ricerche paleofaunistiche, pur ridimensionando la rilevanza economica attribuita nel passato ai moa, hanno sottolineato le notevoli variazioni a livello regionale e locale nella distribuzione delle diverse specie; il quadro generale dei dati indicherebbe la caccia prevalente alle specie dei generi Dinornis nell'Isola del Nord e Euryapteryx nell'Isola del Sud. Siti specializzati nella caccia al moa si concentrano prevalentemente nell'Isola del Sud, sia lungo i litorali che nell'interno; alcuni dei più importanti (Rakaia River, Shag River, Moabone Point Cave) sono stati indagati decenni prima dell'avvento delle moderne tecniche di scavo, rendendo così ardua la valutazione dell'apporto fornito dai moa all'alimentazione Maori. Bibl.: J. Davidson, The Prehistory of New Zealand, Auckland 1987², pp. 130-37; D.W. Steadman, Extinction of Birds in Eastern Polynesia: a Review of the Record, and Comparisons with other Pacific Island Groups, in JASc, 16 (1989), pp. 177-205; J.H. Furby et al., The Cuddie Spring Bone Bed Revisited, in M.A. Smith - M. Spriggs - B. Fankhauser (edd.), Sahul in Review, Canberra 1993, pp. 204-10; I. McNiven et al., The Southern Forests Archaeological Project: an Overview, ibid., pp. 313-24; M.-J. Mountain, Bones, Hunting and Predation in the Pleistocene of Northern Sahul, ibid., pp. 123-30; J. Flood, Archaeology of the Dreamtime, Sydney 1995³; H. Lourandos, Continent of Hunter-Gatherers, Cambridge 1997. L'UTILIZZAZIONE DELLE RISORSE VEGETALI La documentazione archeologica sulla raccolta di vegetali spontanei risulta sovente frammentaria, nonostante i progressi compiuti nei metodi d'indagine: le informazioni derivano spesso in maniera indiretta dagli studi paleoambientali attraverso la ricostruzione delle risorse reperibili in un dato territorio. Particolare rilevanza assumono pertanto le scoperte di depositi che hanno consentito la preservazione di resti vegetali: nella Grotta di Kilu (Salomone) e nel Riparo di Balof 2 (Nuova Irlanda), ad esempio, sono stati individuati residui amilacei di Colocasia, Alocasia e Cyrtosperma su industrie datate a partire rispettivamente da 28.000 e 14.000 anni fa. Frutti arborei (acheni e semi di Canarium) sono presenti in siti della fine del Pleistocene nell'area Sepik-Ramu, in Papua Nuova Guinea, e nell'Arcipelago di Bismarck (Pamwak). Sempre a Balof 2 sono state individuate tracce di igname (Dioscorea bulbifera o D. nummularia) su due strumenti inclusi in strati collocati cronologicamente tra 10.400 e 3350 anni fa. Questi e altri ritrovamenti lascerebbero presumere l'esistenza già in epoche pleistoceniche di forme intensive e specializzate di raccolta che costituiscono i presupposti della diffusione nel tardo Olocene dell'orticoltura e dell'arboricoltura nel Pacifico, a eccezione dell'Australia. In Australia gli indizi più antichi dell'utilizzo di vegetali provengono dal giacimento di Cuddie Springs, nel Nuovo Galles del Sud, dove in livelli datati da 30.000 anni fa circa sono stati rinvenuti frammenti di macine con tracce d'uso e residui organici che potrebbero derivare dalla manipolazione di semi o di piante erbacee, o dalla triturazione dei rizomi di Typha. I territori boschivi e acquitrinosi del continente australiano offrivano abbondanti risorse vegetali: alcune, come le radici di Eleocharis e Phragmites o i tuberi di Triglochin e di igname (Dioscorea), ricchi di carboidrati, avevano verosimilmente un ruolo primario nell'alimentazione aborigena. L'importanza economica dell'igname è sottolineata simbolicamente in alcune pitture rupestri della Terra di Arnhem datate al termine del Pleistocene. La raccolta di queste specie venne integrata molto probabilmente da quella dei germogli di Cordyline terminalis e di Livistonia e degli acheni di Macrozamia, la cui crescita potrebbe essere stata favorita, come osservato in contesti etnografici, dall'incendio delle aree dove si riproduceva. L'uso alimentare dei semi di piante spontanee avrebbe inoltre conosciuto un incremento significativo a partire da circa 3500 anni fa. Allo sfruttamento dei semi sembra collegata, a partire da 5000-3000 anni fa, l'espansione demografica delle comunità aborigene nei territori più aridi del continente australiano. Nell'Oceania insulare la varietà di specie commestibili diminuisce gradualmente man mano che ci si sposta verso est e crescono le distanze tra le isole. In Papua Nuova Guinea le indagini etnografiche hanno sottolineato il ruolo centrale dei vegetali spontanei nell'alimentazione. Tra gli Heve dell'Alto Sepik la farina estratta dalla palma di sago forniva un contributo rilevante per la dieta quotidiana, mentre tra i Mae Enga, orticoltori degli altopiani, i prodotti coltivati erano integrati dalla raccolta di numerose specie, tra cui varie erbe, funghi, semi e grandi quantità di frutti appartenenti a due o tre varietà selvatiche di pandano. Sensibilmente ridotto risulta il repertorio di vegetali edibili in Polinesia: nelle Hawaii sono state segnalate poco più di 20 specie, tra cui soprattutto felci arboree (Cibotium spp.) e bacche (Vaccinium spp.). In Nuova Zelanda particolarmente diffusa era la raccolta dei rizomi commestibili di Pteridium esculentum, come testimoniano le tracce individuate nei rifiuti organici scoperti in vari siti e, in forma indiretta, le sequenze polliniche, che indicano il progressivo aumento di questa felce a partire dai primi stanziamenti. Nelle regioni meridionali dell'Isola del Sud (South Canterbury, Otago), dove le condizioni climatiche erano proibitive per l'orticoltura, si raccoglievano, insieme ai rizomi di Pteridium, le radici di Cordyline australis da cui era ricavata una sostanza zuccherina. È stata documentata inoltre la raccolta di numerosi frutti arborei e di semi come Elaeocarpus dentatus, Beilschmiedia tawa, Corynocarpus laevigatus. Ancora minore era la disponibilità di alimenti vegetali spontanei negli atolli polinesiani e micronesiani: tra questi, si segnalano i tuberi di Tacca leontepoledaois e i frutti del pandano.

Bibliografia

J. Davidson, The Prehistory of New Zealand, Auckland 1987²; D.J. Mulvaney - J.P. White (edd.), Australians to 1788, Sydney 1987; D.L. Oliver, The Native Cultures of Australia and the Pacific Islands, I, Honolulu 1989, pp. 240-48; J. Flood, Archaeology of the Dreamtime, Sydney 1995³; H. Lourandos, Continent of Hunter-Gatherers, Cambridge 1997; M. Spriggs, The Island Melanesians, Oxford 1997.

Lo sfruttamento degli ambienti acquatici

di Gaetano Cofini

La rilevanza delle risorse marine per l'economia delle popolazioni oceaniane è documentata archeologicamente dai rinvenimenti di chiocciolai, di resti scheletrici di pesci e mammiferi marini e di numerosi manufatti (ami, arponi, ornamenti, asce e altri utensili). Tra questi ultimi, gli ami sono stati oggetto di attente classificazioni e le loro variazioni stilistiche sono state utilizzate dagli archeologi per definire le relazioni esistenti tra le popolazioni preistoriche del Pacifico. Studi più recenti si sono occupati delle modalità di svolgimento della pesca, sottolineandone il ruolo preminente nei processi di adattamento ai vari ecosistemi insulari; la crescente disponibilità di dati ha quindi consentito di estendere queste ricerche anche a contesti culturali di considerevole antichità. Gli insediamenti Lapita (3600-2000 anni fa ca.) hanno restituito una consistente quantità di ossa e denti attribuibili a un vasto repertorio di faune ittiche, che indicherebbe attività di pesca sia in mare aperto o in acque costiere (Scombridi, Sfirenidi, Serranidi, Luzianidi, Letrinidi) mediante l'impiego prevalente di ami e lenze o di trappole dotate di esche, sia negli specchi d'acqua delle piattaforme coralline (Acanturidi, Scaridi, Balistidi, Diodontidi) con reti, armi o sostanze tossiche. Negli arcipelaghi tropicali polinesiani la pesca si concentrava in prevalenza nelle lagune e nei fondali corallini; vi sarebbero comunque chiari indizi, collocabili nelle fasi preistoriche iniziali o intermedie, dello sfruttamento di un'ampia gamma di ambienti acquatici. Predominante è ad esempio la percentuale di predatori pelagici (Tunnidi, Carangidi) nei complessi faunistici di Faahia (850-1200 d.C.), nelle Isole della Società, in cui compaiono anche alcune specie di testuggini marine, delfini e grandi cetacei. Numerosi reperti ossei di Scombridi sono stati messi in luce inoltre nei più antichi livelli culturali di Hanamiai (1000-1250 d.C. ca.), nelle Isole Marchesi, un arcipelago che si differenzia da molti gruppi insulari della regione per la scarsezza di banchi corallini. Ad Hanamiai si assiste dopo il 1400 d.C. a un rapido declino della pesca d'alto mare, che è indicato dal calo dei resti di pesci pelagici e dalla diminuzione delle varietà e delle dimensioni degli ami. Nelle Isole Hawaii lo sfruttamento intensivo delle risorse marine culminò con la realizzazione di bacini per la piscicoltura, datati a partire forse dal XIV sec. d.C. Piuttosto insolito è il repertorio faunistico rinvenuto nei depositi lagunari di Nan Madol (Pohnpei), in Micronesia: nonostante la prolungata occupazione di questo sito (dal VI al XVI sec. d.C. ca.), non sono state riscontrate infatti rilevanti variazioni nel tempo dei complessi ittici, i quali si caratterizzano altresì per le dimensioni estremamente ridotte delle prede, soprattutto Scaridi e Letrinidi. Il considerevole apporto offerto dai mammiferi marini alla sussistenza delle popolazioni del Pacifico è suffragato sia dalle fonti storiche che dalle testimonianze archeologiche. La cattura di foche, otarie ed elefanti marini coinvolgeva spesso gruppi numericamente consistenti, che si radunavano in insediamenti stagionali vicini ai luoghi di riproduzione. È il caso, ad esempio, di West Point, sulla costa nord-occidentale della Tasmania, dove sono state rinvenute numerosissime carcasse di giovani elefanti marini, catturati probabilmente durante i mesi estivi. Molti siti specializzati per la caccia ai mammiferi marini sono stati individuati anche sulle coste australiane e tasmaniane divise dallo Stretto di Bass, sui litorali della Nuova Zelanda e delle Isole Chatham. Nei depositi archeologici è documentata inoltre la cattura di dugonghi e di varie specie di delfini; peraltro, i rinvenimenti dei resti di balene e di altri grandi cetacei vengono generalmente correlati con l'utilizzazione delle loro ossa per la produzione di manufatti, piuttosto che con il consumo delle carni. Particolarmente intenso è stato lo sfr uttamento dei molluschi, favorito dalla grande abbondanza di queste risorse e dall'assenza di rischi o particolari difficoltà nel loro reperimento. Gran parte dei siti collegati con la raccolta dei molluschi riflette occupazioni temporanee o stagionali; ambienti particolarmente favorevoli, come i grandi estuari e i porti naturali del Sud-Est australiano o del Nord della Nuova Zelanda, hanno consentito comunque lo sfruttamento costante e prolungato di estesi banchi di Mitilidi e di Cardidi. La raccolta di crostacei ha avuto sicuramente una rilevanza pari a quella dei molluschi; tuttavia, la scarsa visibilità archeologica dei loro resti impedisce di valutarne l'effettiva incidenza alimentare.

Bibliografia

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