FERRERO, Leo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 47 (1997)

FERRERO, Leo

Alessandra Cimmino

Nacque a Torino il 16 ott. 1903, da Guglielmo e Gina Lombroso.

La famiglia era delle più note dell'ambiente colto italiano e delle più discusse, godendo, forse, di una più consolidata fama all'estero che in patria: il nonno materno, il positivista Cesare Lombroso, pioniere dell'antropologia criminale, il padre, celebre storico della romanità, la madre, infine, scrittrice anch'essa, particolarmente sul ruolo sociale della donna. Si può dire che, giovanissimo, il F., considerato il principe ereditario di questa dinastia, aiutato da un'intelligenza stimolata precocemente da un'educazione raffinata, fosse già consapevole della sua vocazione d'intellettuale.

Fin dalla primissima età il F. studiò il francese (lingua che possedeva perfettamente, in cui scrisse molti dei suoi lavori), l'inglese, la musica e il disegno; nel 1911 cominciò a frequentare la scuola. Nell'autunno 1916, per il lavoro del padre, si trasferì a Firenze; dal giugno dello stesso anno, conoscendolo solo per via epistolare, e credendolo ben più adulto di quel che non fosse, J. Luchaire, direttore dell'istituto di cultura francese di quella città, aveva voluto il F. presidente della Lega latina della gioventù, un'associazione italo-francese intesa a incrementare interscambi culturali e contatti fra giovani delle due nazioni.

A Firenze i Ferrero si ambientarono facilmente, soprattutto nella cerchia intellettuale dei residenti stranieri e comunque non fiorentini. Il F. frequentò le superiori al "Michelangelo" e fece amicizia con G. Malagodi, N. Rosselli, i fratelli Pavolini, A. Carocci: socievole, non aggressivo, capace di rendersi grato, ebbe sempre molti amici. quasi esclusivamente intellettuali come lui. Dal 1917 aveva cominciato a collaborare alla rivista espressa dalla Lega latina della gioventù, Les Jeunes Auteurs (poi Vita),di cui divenne redattore capo e su cui scrivevano anche i Rosselli, A. Pavolini, P. Gobetti.

Viaggiava molto, spesso con i genitori, che tenevano ambedue cicli di conferenze in Italia e all'estero; dopo un soggiorno a Parigi nel igig, dove aveva conosciuto varie personalità del mondo dello spettacolo, prese a dedicarsi in particolare al teatro. Fra i suoi primi lavori due drammi di argomento mitologico in versi: La favola dei sette colori (1919, forse proposto come libretto al compositore A. Franchetti, padrone di casa dei Ferrero a Firenze) e Il ritorno di Ulisse (1921; pubblicati postumi, Lugano-Ginevra 1940).

Nel 1922 accompagnò il padre in Germania, Svezia, Danimarca e Parigi; fu questo un po' il suo ingresso ufficiale nel milieu intellettuale europeo cui faceva capo il suo clan familiare. A Parigi, tramite il commediografo J.-J. Bernard, il F. prese contatto con un gruppo sperimentale di autori drammatici, il gruppo della Chimère, di cui facevano parte anche P. Géraldy e D. Amiel; si adoperò quindi per crearne uno corrispondente in Italia, e a questo scopo avvicinò C. Alvaro, A. Franci, C. V. Lodovici.

Pur non riuscendo a concretare il suo progetto, il F. cominciava a muoversi con maggiore incisività nel mondo delle lettere. Iniziò a pubblicare qualche articolo sul Secolo di Milano, da principio sotto pseudonimo, quindi, dall'agosto 1923, su Il Mondo di C. Alvaro, con recensioni e critiche d'arte di avvenimenti fiorentini. Intanto continuava a scrivere per il teatro: nel 1923 La chioma di Berenice, l'anno successivo Campagne senza Madonna (pubblicate a Milano nel 1924 con una prefazione di A. Tilgher).

Ambedue i lavori sono in prosa e in tre atti, il primo conserva l'ambientazione d'epoca classica delle prime prove, ed è la rivisitazione del tormentato rapporto tra Catullo e Lesbia negli ultimi giorni di vita del poeta; il secondo si svolge nella campagna toscana ed è la storia di una giovane coppia di sposi contadini, divisi da diverse aspirazioni di vita. I drammi risentono della frequentazione con gli autori della Chimère: poveri di azione, crepuscolari, intimisti, soffusi di elegia.

Campagne senza Madonna fu messo in scena al teatro Niccolini di Roma nella primavera del 1924 e fece buona impressione; sicché quando, sempre nel 1924, S. Landi e 0. Vergani formarono intorno a Pirandello il Gruppo dei dieci (fra cui Lodovici, Alvaro, E. Pea), il F. fuchiamato a farne parte. Nello stesso anno il F. pubblicò anche, a doppia firma con il padre, un saggio sulla storiografia romana, La palingenesi di Roma (Milano), un excursus a grandi linee che partendo dalle origini, con Livio e Tacito, arriva all'Umanesimo e a Machiavelli.

Chiusa ai due Ferrero la collaborazione con Il Secolo, dato il deciso e ben noto antifascismo di Guglielmo, pienamente condiviso dal F. (che, tuttavia, non s'interessava attivamente di politica), questi prese a scrivere sul gobettiano Baretti.

Dal 1921 era iscritto alla facoltà di lettere di Firenze, che frequentò peraltro abbastanza saltuariamente e con scarsa partecipazione. Il F. può essere considerato, culturalmente parlando, un dilettante asistematico che seguiva nello studio i suoi personali interessi, volti in questo periodo soprattutto alla letteratura e all'estetica, sempre conformati, però, in un approccio globale sociologico che era retaggio della tradizione culturale familiare. Dal settembre 1925 al giugno '26 fece il servizio militare nel corpo degli alpini; trascorse quindi l'estate a Parigi, approfondendo la conoscenza della città, di alcune sue peculiari componenti sociali e delle loro interrelazioni, che ne determinavano il ricco e complesso clima culturale, Da ciò trasse una serie di articoli pubblicati sulla Fiera letteraria dall'agosto al settembre di quell'anno.

Rientrando a Firenze, nel tardo autunno del 1926, il F. trovò che il giro di vite impresso dal fascismo proprio in quel torno di tempo si stava facendo minaccioso anche per sé e per i suoi: ai quattro Ferrero (il F. aveva una sorella minore, Nina) venne ritirato il passaporto; fu quindi istituito uno stretto controllo di polizia sull'abitazione e la persona di Guglielmo. Pur senza subire violenze, la famiglia fu socialmente isolata, costretta a lasciare l'abitazione di Firenze (si stabilì all'Ulivello, la tenuta in Chianti acquistata nel 1917) e le collaborazioni giornalistiche subirono un'ulteriore drastica riduzione (nel luglio 1927 il F. si vide chiedere da un imbarazzato U. Fracchia di interrompere il rapporto con La Fiera letteraria).

A Firenze, comunque, il F. poté frequentare gli intellettuali che si incontravano al caffè delle Giubbe rosse, tra cui E. Montale, P. Conti, A. Bonsanti, e fece parte, con l'amico A. Carocci, del gruppo di giovani che diede vita, con la fondazione di Solaria,ad uno degli episodi di giornalismo culturale più interessanti di quegli anni.

Su Solaria (per un elenco dei numerosi contributi del F. si veda L. Ferrero, Ilmuro trasparente...,e Luti) pubblicò poesie, recensioni, brevi saggi, occupandosi in particolare di letteratura italiana, teatro - soprattutto francese -, cinema. Dalla lettura dei suoi articoli sulla rivista, su cui continuò a scrivere anche quando ebbe lasciato l'Italia, come dalle altre collaborazioni precedenti e successive (pubblicò su molti altri giornali per il cui elenco si rimanda a Kornfeld; qui ricordiamo solo Il Piccolo di Trieste, Il Lavoro di Genova, Il Convegno, Comoedia, Les Nouvelles littéraires, Notre Temps, La Revue juive, L'Européen, Figaro, La Dépêche de Toulouse, New York Sunday Times),si evince il pensiero critico del F. e anche, in generale, molta parte della sua elaborazione intellettuale.

Egli fu uno dei principali estensori del programma europeistico di Solaria (siveda in particolare Perché l'Italia abbia una letteratura europea, ibid., 1928,n. 1): convinto che un futuro per la letteratura italiana fosse possibile solo in stretto rapporto con la comune cultura europea, riteneva si dovesse ripartire dalla tradizione del grande romanzo realista dell'Ottocento - dei Balzac, Tolstoj, Dostojevski, Manzoni -, caratterizzato da un forte impegno etico e radicato nel sociale; consapevole, nel contempo, della profonda crisi dell'identità individuale che la letteratura contemporanea più avveduta andava esprimendo, il F. si adoperò per far conoscere la produzione "analitica" del Novecento soprattutto francese (Proust, Gide, Malraux, Valéry) in Italia, dove il suo interesse andava alle voci significanti di Alvaro, Svevo, Montale, Pirandello. Tuttavia non intendeva rinunciare, sulla scia di Gobetti, all'illuminazione della ragione e rifiutava in linea di massima ogni sperimentalismo, conservando una concezione classica dello stile.

Forse, già all'epoca, più conscio di altri dei rischi inerenti una visione troppo ristretta della "repubblica delle lettere", in cui tanti intellettuali borghesi suoi contemporanei si erano rifugiati nell'impossibilità di agire e muoversi liberamente nel sociale, il F., che pure non aveva alcun interesse per la militanza politica, pensò sempre il suo lavoro letterario, e il lavoro letterario in genere, in funzione di una "civiltà", non solo di una letteratura. In questa direttiva concepì un concetto di tradizione (cfr. Lieviti letterari, ibid., 1928,nn. 7-8) - anche come reazione allo sperimentalismo irrazionalistico, agli avanguardismi della generazione immediatamente precedente la sua - fondato su di una serie di riferimenti, di acquisizioni comuni, che egli chiamò "sottintesi", costituenti la basi di ogni autentica civiltà culturale, in grado di garantire la comunicazione fra l'artista e il fruitore dell'opera e, nello stesso tempo, di influenzare, porre dei limiti, quasi inconsapevolmente, all'artista stesso, imponendogli regole formali ed etiche.

Il F. si laureò nella sessione autunnale del 1927 con una tesi in storia dell'arte, in realtà di estetica: "Leonardo o dell'opera d'arte"; sua intenzione, infatti, vista la difficoltà di trovare lavoro nell'ambito più consueto, era quella di tentare un concorso per le soprintendenze. Nel gennaio 1928, però, il F. e la sorella ottennero finalmente il passaporto; partirono quasi subito per l'Inghilterra dove il F. trascorse più di tre mesi. Al ritorno in Italia frequentò per qualche mese (in data incerta) i corsi della Scuola superioie di storia dell'arte tenuti da L. Venturi a Roma, quindi, resosi conto delle difficoltà per lui di svolgere qualsivoglia attività regolare in patria, nell'autunno 1928 decise di trasferirsi stabilmente a Parigi.

Qui andò ad abitare nel Quartiere Latino, riprese la consuetudine con gli amici di sempre, conobbe A. Gide, A. Malraux, P. Claudel; frequentò anche intensamente gli altri italiani di Parigi, per lo più antifascisti: A. Caffi, E. Vittorini, L. De Bosis. Tra il 1931 e il '32 strinse un sodalizio particolarmente stretto con A. Garosci, G. Ferrata, C. Levi.

Gli esordi parigini furono inizialmente fortunati; nel 1929, utilizzando la sua tesi, pubblicò Leonardo o dell'arte (Paris) per il quale ottenne da Valéry una corposa introduzione che gli procurò una qualche notorietà; inoltre l'editore Grasset gli commissionò un saggio su Parigi.

Nel Leonardo il F. interpretava, nella chiave di una vera e propria estetica, gli eterogenei materiali costituenti il cosiddetto Trattato sulla pittura,con un assunto che venne considerato da molti (Croce, Tilgher, lo stesso Carocci) eccessivo ed arbitrario; di fatto egli utilizzava il testo leonardesco per approdare ai problemi fondamentali inerenti la creazione artistica, da sempre al centro della sua elaborazione, e nel far ciò giungeva quantomeno "all'intuizione, del tutto moderna, del carattere artificioso e convenzionale" di quest'ultima (Luti).

Quanto al saggio su Parigi, Grasset si aspettava un libro di impressioni, laddove il F., approfondendo e sviluppando temi e argomenti già toccati sulla Fiera letteraria nel '26 e le sue esperienze della situazione sociopolitica italiana e inglese, gli consegnò, alla fine del '31, un saggio sulla crisi della civiltà europea che venne malamente respinto; dopo una veloce revisione riuscì infine a pubblicarlo con Rieder (Paris, dernier modèle de l'Occident, Paris 1932).

Senza timore delle generalizzazioni il F., sulle orme paterne, classificava le società europee nelle due grandi categorie di società ateniesi (dove predominano l'immaginazione e lo spirito critico, fra cui esemplare è l'Italia) e società romane (in cui predomina viceversa il senso morale e civile, come l'Inghilterra) ambedue per motivi diversi in avanzata crisi; introduceva, quindi, il concetto di élite, in parte mutuato da G. Mosca, e individuava proprio nella crisi delle élites culturali dei paesi europei, ormai incapaci di comunicare al popolo valori condivisibili, la fonte della crisi generale in cui versava la civiltà occidentale. Unica parziale eccezione l'élite culturale parigina che, per la sua apertura intellettuale, per la libertà di cui godeva, manteneva ancora, non solo capacità creative, ma anche la possibilità di comunicare i valori elaborati attraverso l'influenza raggiunta e mantenuta sulle classi dirigenti (finanza, burocrazia, politica). È evidente, anche da un così breve accenno, la prospettiva strettamente intellettuale e borghese di una simile elaborazione che, in particolare, non teneva conto dei fattori nuovi, rappresentati principalmente dall'industrializzazione e dalle masse, emersi dopo il primo conflitto mondiale. Ma proprio questa prospettiva ristretta, come specchio di un'incomprensione che non fu solo del F. ma di larga parte dell'intellighenzia borghese liberale italiana e ne rese parzialmente sterile o ininfluente il dibattito culturale, è uno dei motivi d'interesse del saggio, insieme a singole acute notazioni.

Nei tre anni trascorsi a Parigi, comunque, il F. non era riuscito a concretare un'attività stabile che gli consentisse di rendersi economicamente indipendente dalla famiglia. Tentò allora nuove strade, ottenendo una borsa della Fondazione Rockfeller per l'università di Yale.

Si imbarcò per gli Stati Uniti nel settembre 1932, ma l'impatto non fu positivo. Al F. mancavano proprio sensibilità e interesse per un certo tipo di modernità che s'incarnava concretamente negli Stati Uniti. Nonostante ciò il F. cercò di ottenere un rinnovo annuale che non ebbe. Ebbe invece un prolungamento per una ricerca di tipo antropologico sugli Indiani del New Mexico.

Nel corso del suo soggiorno parigino il F. aveva preso a dedicarsi intensamente anche al romanzo; il proponimento era quello di un ciclo, "La comédie italienne", che illustrasse i momenti significativi della vita italiana tra Otto e Novecento attraverso la storia di una famiglia borghese, velatamente ispirata alla famiglia stessa del Ferrero. Il primo tomo, Le misanthrope de Padoue,terminato nel 1930, fu poi dal F. distrutto. Nel '33, in America, aveva quasi completato il secondo, Espoirs,pubblicato postumo (Paris 1935). In esso il F. affronta il tema di fondo di tutto il lavoro degli ultimi anni, e cioè la crisi della sua generazione, attraverso le vicende di un gruppo di adolescenti, individuando il nucleo della loro problematica nella mancanza di valori certi, nell'incapacità dell'io, entità frammentaria, non monolitica, fragile e variabile, di uscire dall'amore di se stesso, incapacità che lo destina comunque al fallimento. Questi temi sono lo specchio della crisi personale, una vera depressione, che aveva colpito il F. nel 1932 e lo aveva avvicinato alla religione. Dagli scritti e appunti inediti di questo periodo risulta, infatti, come il F. si fosse dedicato, in questa fase, allo studio sia del cristianesimo sia delle civiltà e religioni orientali.

Proprio l'interesse per l'Oriente fece sì che dagli Stati Uniti programmasse un viaggio in Cina. Doveva imbarcarsi a quella volta nel settembre 1933, ma nel New Mexico, a Santa Fe, dove si trovava per la ricerca Rockfeller, il 26 agosto di quell'anno morì in un incidente automobilistico.

Una commedia inedita e trenta taccuini del F. vennero recuperati dopo la morte.

La commedia, o meglio il dramma satirico Angelica (poipubblicato, Lugano-Ginevra 1934 e rappresentato a Parigi nell'ottobre del '36 ai Mathurins dalla compagnia Pitoëff) è una delle cose migliori del F. che l'aveva completata già nel 1929. Vi si tratta di un paese soggetto ad un tiranno, il quale, per godere delle grazie di un'avvenente fanciulla, Angelica appunto, ha ripristinato lo iusprimae noctis;nessuno osa contrastarlo finché non giunge un cavaliere, Orlando, che riesce a risvegliare per un momento gli spiriti assopiti della popolazione e a rovesciare il tiranno salvo scoprire subito dopo di non aver fatto un piacere a nessuno, a cominciare dalla fanciulla: utilizzando le maschere della commedia dell'arte (Pantalone, Brighella, ecc.), il F., in una trasparente metafora - Angelica è l'Italia, - descrive i tipi (il grande industriale, il commerciante, l'alto funzionario, ecc.) e i comportamenti di una società che, in forme diverse e con diversi livelli di consenso e di tornaconto personale, aveva comunque accettato e tratto vantaggio dalla dittatura.

Dai taccuini la madre del F. trasse una serie di pubblicazioni: pur dotate di interesse, sono in parte anticipazioni di elaborazioni confluite nei lavori poi editi e risentono comunque, nella maggior parte dei casi, dell'essere stati emendati, ordinati per argomento, dotati di una struttura coerente che ne permettesse la pubblicazione, da una personalità diversa da quella dell'autore, oltre le intenzioni stesse del Ferrero.

Fra le cose migliori ricordiamo, oltre al già citato Espoirs, Désespoirs (Paris 1937), raccolta varia di prose e versi degli ultimi anni: particolarmente interessante la parte relativa ai "Pensées sur le róle de la morale dans la lutte contre la souffrance et de l'amour dans le christianisme". Inoltre: Meditazioni sull'Italia,Lugano-Ginevra 1939; La catena degli anni. Poesie e pensieri, ibid. 1939; Amérique, miroir grossissant de l'Europe,Paris 1939; Le secret de l'Angleterre,Genève 1941; Appunti sul metodo della Divina Commedia, del dramma, dell'arte classica e decadente,Lugano-Ginevra 1941, frutto di una lettura della Commedia nell'estate 1925; Diario di un privilegiato sotto il fascismo,Torino 1946 (nuova ediz., Firenze 1993). Quest'ultimo, relativo al periodo dall'autunno 1926 al dic. 1927, si conclude con la partenza del F. per l'Inghilterra: non è un diario intimo, non essendoci quasi traccia di avvenimenti personali, è invece la registrazione dei piccoli e grandi fastidi, delle intimidazioni cui il regime sottopose la famiglia Ferrero, dei piccoli e grandi tradimenti, delle manifestazioni di conformismo e di vigliaccheria che si ritroveranno, rivisitati con amaro umorismo, proprio nei personaggi di Angelica.

Fonti e Bibl.: L'archivio del F. è conservato a Fiesole presso la Fondazione Primo Conti; indicazioni complete circa la produzione del F. e la bibliografia a lui relativa in L. Ferrero, Ilmuro trasparente (Scritti di poesia, di prosa e di teatro),a cura di M. Scotti, Milano 1984, e nell'esaustivo saggio di A. Kornfeld, La figura e l'opera di L. F., Povegliano Veronese 1993. Si veda inoltre il necr. di N. Rosselli, Una giovinezza stroncata,in Saggisul Risorgimento e altri scritti,Torino 1946, pp. 415-30 (già in Nuova Rivista storica, XVII[1933]; nn. 5-6); A. Hermet, La ventura delle riviste,Firenze 1941, ad Ind.; L. Fava Guzzetta, Solaria ela narrativa italiana intorno al 1930, Ravenna 1973, ad Ind.; S. Briosi, Il problema della letteratura in Solaria,Milano 1976, ad Ind.; N. Rosselli, Uno storico sotto il fascismo. Lettere e scritti vari a cura di Z. Ciuffoletti, Firenze 1979, pp. 150 s.; G. Luti, La letteratura del ventennio fascista,Firenze 1995, ad Ind.;N.Ajello, Questi squadristi per niente chic, in La Repubblica,29 apr. 1993; Dizionario della lett. ital. contemp. (Vallecchi), s. v.

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