DONÀ, Leonardo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 40 (1991)

DONÀ (Donati, Donato), Leonardo

Gaetano Cozzi

Figlio di Giambattista di Andrea di Antonio e di Paola di Cristoforo Corner, nacque a Venezia il 12 febbr. 1536, probabilmente nella casa di rio terrà S. Marcuola ove la famiglia aveva allora la sua sede.

I Donà (o Donato, come allora si preferiva scrivere) erano un'agiata famiglia del patriziato veneziano, i cui membri integravano l'attività mercantile con il servizio nelle magistrature e nei Consigli della Repubblica. Mercante era stato il padre del D., il quale aveva raggiunto l'apice della sua carriera di governo nel Regno di Cipro, dapprima come consigliere, poi come luogotenente del Regno. Mercanti erano stati i suoi due fratelli maggiori, dedicatisi alla vita di mare, e morti entrambi poco più che ventenni: Andrea era caduto combattendo nella battaglia di Lepanto; anche il fratello minore Nicolò, che si distinguerà per le alte cariche ricoperte in terra ed in mare, eserciterà la mercatura e sarà anzi uno dei testimoni più attenti e consapevoli del decadere della mercatura veneziana tra '500e '600. Ma i Donà, conforme a buona parte delle famiglie patrizie, avevano anche acquistato terre: poco dopo la metà del '400 si era trattato di una piccola tenuta a est di Padova, sul Brenta: all'inizio del '500avevano comprato una proprietà di circa 182 ettari, ad Albaria, nella zona bassa e paludosa a sud della provincia veronese. Per il padre e per i fratelli del D., il reddito della terra integrava quello fornito dalla mercatura.

Il D. invece, che pare essersi dedicato poco e solo da giovane ai traffici, fece dell'agricoltura il fulcro della sua attività economica. Dapprima con il fratello Nicolò, poi da solo, acquistò altri appezzamenti nella Bassa veronese. "Per il 1609, aveva aggiunto un totale di 52 ha alla sua eredità", ha scritto lo storico della famiglia, J. C. Davis (p. 66). Né il D. si limitò a comprare: investi il suo danaro in migliorie nei fondi, soprattutto a riparo dalle acque, nella sistemazione delle case coloniche, senza dimenticare di farsi costruire una "casa dominicale" ove soggiornare quando poteva raggiungere Albaria. Una gestione oculata, dunque, di cui il D. tenne una contabilità minuziosa in una serie di registri: ne sono rimasti quattro, dal 1574 al 1612. A quello agricolo, si aggiungevano per il D. altri cespiti: anzitutto, le obbligazioni per il debito pubblico; una cifra annuale che un consorzio di gondolieri gli pagava per la concessione di gestire un traghetto di sua proprietà; e infine, c'erano gli stipendi corrispostigli per le cariche pubbliche ricoperte. In sintesi, ha scritto il Davis, l'entrata annua del D. nei tre anni precedenti l'assunzione al dogado raggiungeva in media circa 1.400 ducati. Lo stesso Davis valuta che alla fine della sua vita il D. disponesse di un patrimonio dell'ammontare di circa 85.000 ducati (p. 69). In virtù di questa amministrazione accurata e parsimoniosa dei propri beni il D. poté dedicarsi pienamente all'attività di governo e costituire nel contempo un saldo punto d'appoggio per il fratello Nicolò e per i suoi figli, nei quali egli, rimasto scapolo, ravvisava i preziosi continuatori della famiglia.

Il D. si impose per le sue capacità fin da piccolo. "Lunardo impara bene et benissimo, che credo se possi sperar bene da lui", scriveva nel 1540 la madre al padre che si trovava a Cipro quale consigliere del Regno (Seneca, pp. 8 s.). Non è chiaro dove il D. abbia seguito i suoi studi. Un biografò suo contemporaneo, Andrea Morosini, scrive che si sarebbe dedicato alle lettere "nelli Studi di Padova e Bologna", facendosi apprezzare "per l'ingegno e per li costumi" (ibid., pp. 10 s.). Non si addottorò mai, comunque. Ma l'amore per gli studi lo accompagnò, fortissimo, per tutta la vita. Lo attestano non solo i suoi antichi biografi: la dimostrazione più eloquente è data dalla sua biblioteca, di cui il D. stesso ci ha lasciato l'inventario redatto con cura amorosa.

La maggior parte sono opere a stampa, ma non mancano i manoscritti. Gli argomenti, come risulta dall'indice, sono molteplici: "Historici ... Porti ... Vari authori ... Logica philosophia ... Mathematica, cosmographia, corographia... Di Legge ... Di Theologia ... Scritti a mano di varii generi" (Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. P. D., C 2735/2). Inuclei più numerosi sono quelli storici e teologici e questo corrisponde, come si vedrà, col suo impegno civile e religioso. Stupisce che un patrizio veneziano possedesse non solo gli statuti di Venezia e quelli delle maggiori città del Dominio, ma due edizioni delle Pandette e le Istituzioni . giustinianee, nonché manuali notarili e opere di celebri giuristi; colpisce soprattutto la quantità di "tavolae geographicae", d'Italia e d'Europa, e la "Carta di navigar Asia e Africa", "Carta della navigation di tutto il mondo novo", "Carta da navigar dalla Spagna al Perù et al Nombre de Dios", cose che rivelano una straordinaria curiosità intellettuale e insieme il richiamo per i grandi spazi che si andavano via via schiudendo e dai quali sembrava che Venezia dovesse restar esclusa.

Un fervore culturale che si intrecciava strettamente con la volontà di calarsi nell'azione, ne era anzi la premessa e il supporto. Aveva cominciato assai presto a occuparsi della pubblica amministrazione. A soli quattordici anni già collaborava col padre, allora savio alla Mercanzia, sbrigandogli la corrispondenza d'ufficio. In virtù dell'estrazione della balla d'oro, acquisi il privilegio di entrare in Maggior Consiglio a vent'anni. Però preferi fare diretta esperienza di governo a Cipro, seguendo il padre, che vi era stato eletto luogotenente, e trattenendosi con lui per il biennio della carica (estate 1556-estate 1558). Il D. osservava tutto, prendeva nota di tutto, dai problemi dell'agricoltura a quelli, ancor più assillanti, della difesa da una probabile aggressione ottomana, e si tormentava per l'abbandono in cui versava quell'isola che pur un antico luogotenente aveva definito, con parole che egli faceva sue, il luogo "più necessario et el più importante" del Dominio.

In patria andava intanto crescendo la fama di questo giovane patrizio che eccelleva per qualità di studioso e di uomo di governo. Francesco Patrizi, che pubblicava a Venezia, nel I 560, i suoi dieci dialoghi Della historia, vi faceva intervenire tra gli ideali protagonisti il D., a sostenere che più che la filosofia era la storia, col suo bagaglio di esperienze passate, a fornire l'insegnamento più utile per chi doveva svolgere azione politica. Nel 1576 era però un patrizio appassionato di studi filosofici, minore di lui di circa vent'anni, Nicolò Contarini, a dedicare al D. il suo libretto De perfectione rerum, perché egli gli aveva fatto comprendere col suo esempio come dei buoni studi costituissero una premessa utilissima per chi volesse poi impegnarsi nella vita politica. Nel 1577 era addirittura il vescovo di Verona e antico insegnante di filosofia alla scuola di Rialto, Agostino Valier, a dedicare al D. il capitolo "Qua ratione versanduni sit in Aristotele" del suo libro De recta philosophandi ratione.

La carriera vera e propria del D. nel governo della Repubblica iniziò il 29 marzo 1561, quando fu eletto savio agli Ordini. "Poi egli veniva avviato alle cariche giudiziarie e amministrative, che costituivano il tirocinio del futuro uomo politico. Era stato eletto nel settembre 1561 al Collegio dei dodici; poco dopo, nell'aprile 1562, veniva eletto ufficiale al Cattaver; quindi, nell'ottobre 1567, ufficiale alle Cazude, e finalmente, nell'aprile 1569, povveditore di comun" (Seneca, p. 28). Il D. si muoveva con agevolezza all'interno dell'ordinamento costituzionale, non solo in virtù della pratica fatta a fianco del padre, ma perché aveva voluto studiarlo direttamente, facendo annotazioni sulle magistrature che più lo interessavano: sono numerosissimi gli scritti che ci sono rimasti. Il D. poteva vantare una grande eloquenza, grave, serrata nelle argomentazioni, aliena da esibizionismi dialettici, che gli consenti di affermarsi in un consesso sensibile alle virtù oratorie quale il Senato. Il grande riconoscimento venne ben presto. Il 29 luglio 1569, ad appena trentatré anni, fu nominato ambasciatore della Repubblica presso il principe più potente d'Europa, Filippo II, re di Spagna.

Una missione difficilissima. Era la prima, e gli capitava in un mondo a lui sconosciuto, "univers à part", ha scritto suggestivamente Braudel, in cui circolano molte ombre, "Mves, menai;antes, théatrales" e si ha da trattare con un governo che sfugge ad ogni osservazione diretta e indiscreta, e con un re prudente, cortese, enigmatico (Prefaz. a Corrispondenza da Madrid..., p. XV). La situazione si presentava allora quanto mai complessa. Poco dopo che il D. aveva lasciato l'Italia, un chiaus turco era giunto a Venezia e aveva chiesto formalmente in Collegio che la Repubblica cedesse Cipro al sultano Selim Il. Le cose erano precipitate rapidamente: all'inizio di luglio i Turchi erano sbarcati nell'isola e avevano proseguito subito nella loro occupazione, trovando una certa resistenza solo a Famagosta. Era una dimostrazione evidente dell'espansionismo ottomano, volto immediatamente contro il Dominio veneto, ma che si sarebbe proiettato, superato quel primo ostacolo, verso altre terre, in Italia e nel cuore dell'Europa. Bisognava concludere un'alleanza con i maggiori principi della Cattolicità, con il papa, anzitutto, che avrebbe dato alla lega il crisma della fede, e con il re di Spagna, che, oltre ad essere il più forte, era direttamente minacciato, anche se in una zona diversa del Mediterraneo, quella occidentale.

Il fulcro delle trattative di lega si svolgeva a Roma. Ma il D. doveva tenersi costantemente in contatto con un re che si spostava continuamente da un luogo all'altro del suo regno, invitandolo a superare i dubbi da cui era avvolto e a decidere un'azione rapida e vigorosa: era un lavoro diplomatico in cui il D. doveva agire di sua iniziativa, perché da Venezia non giungevano istruzioni e c'era pertanto il rischio di sbagliare, facendo troppo o troppo poco. Pur essendo entrambi obiettivo del Turco, la Repubblica di Venezia e la Spagna avevano interessi divergenti. A vedere degli Spagnoli, bisognava evitare che un'azione comune contro il Turco fosse sfruttata dalla Repubblica per i suoi fini particolari, con qualche conquista nel Mediterraneo, ad esempio in Morea, rafforzando così la propria posizione anche in Italia ai danni della Spagna e della Sede apostolica. A vedere dei Veneziani, bisognava impedire che una lega contro il Turco fosse dominata dalla Spagna e dalla Sede apostolica, così che l'eventuale successo avrebbe giovato soprattutto a loro e la Repubblica, visto che ancora non si muoveva, e che Cipro era ormai in mano turca, avrebbe invece visto incrinarsi il suo prestigio.

Ai primi di marzo 1571 il D. parlò in modo risoluto a Filippo II. Non si illudesse riguardo a Venezia. Essa avrebbe potuto perdere altre parti del suo Dominio: era però una Repubblica nanto ben fondata", "che potrebbe domani ricuperare tutto" (Seneca, p. 72). L'alleanza tra la Repubblica, il papa e la Spagna venne finalmente stipulata il 25 maggio 1571. Essa fu coronata di li a qualche mese, il 7 ott. 1571, dalla grande vittoria navale di Lepanto. Il D. dovette allora adoperarsi con Filippo II perché non desistesse dall'azione, ordinasse di incalzare il Turco, in modo da sfruttare il successo ed impedire al nemico di riprendersi. Non se ne fece nulla, le divergenze di interessi ebbero il sopravvento. Il Consiglio dei dieci e la zonta che, all'insaputa del Senato, nel quale prevaleva il partito favorevole alla guerra, avevano tenuto sempre vive trattative con il Turco, conclusero segretamente il 7 marzo 1573 una pace separata, rinunziando all'isola di Cipro. Il D. ricevette la notizia a Madrid il 17 maggio.

Era una situazione tormentosa. Da un lato il D. doveva difendere la decisione presa dal suo governo, spiegandola con l'isolamento in cui esso si era venuto a trovare e con la gravità dei problemi che gli toccava affrontare. Dall'altra viveva il dramma di chi non condivideva né la decisione né il metodo con cui era stata realizzata. Egli aveva voluto metter le cose in chiaro in una coraggiosissima lettera ai capi del Consiglio dei dieci già quando erano cominciate a circolare voci ufficiose sulla pace separata. Era ambasciatore della Repubblica, e avrebbe certamente continuato a svolgere irreprensibilmente il suo compito anche se la notizia fosse stata vera. Non voleva comunque tacere il suo convincimento personale: riteneva che si sarebbe dovuto continuare la guerra, perché quella che ora si poteva ottenere era "una pace perfida e ingannatrice", che avrebbe significato semplicemente lo scoppio di un'altra guerra di li a quattro anni, con la costrizione umiliante di implorare soccorso da coloro che adesso erano stati lasciati all'oscuro. Nella sua polemica il D. non rinunciava a una punta di sarcasmo: "Io non sono mai stato nel suo Eccellentissimo Consiglio, et conseguentemente non ho mai veduto, come si dice, il fondo della nostra patria et potrebbe essere che vedendo altrimenti parlerei". Ma per quanto lo riguardava personalmente, era disposto a qualunque sacrificio, "a restar a pocco a pocco in camisa più tosto che ricever le conditioni da nessuno, perché in fine l'esser zentil homo d'una republica grande per sé et i posteri suoi è maggior patrimonio che qual si voglia ricchezza di quella città" (Corrispondenza..., introduz. di E. Vitale, I, pp. LIV).

Probabilmente, era in virtù della sua inclinazione a continuare la guerra, della fermezza con cui aveva manifestato il suo dissenso a un organismo come il Consiglio dei dieci e la zonta, la quale faceva sentire più che mai il suo prepotere nel governo della Repubblica, che il D. era ormai designato quale portavoce di una grossa "fáttione" del patriziato veneziano, quella dei "giovani": "giovani", a qualificare non solo la loro età, dato che tra essi c'erano anche patrizi ormai avanti negli anni, ma la baldanza e la mancanza di prudenza tipiche della giovinezza.

Era il gruppo di patrizi che si ricollegava idealmente alla Repubblica quattrocentesca, agli uomini che avevano esteso il suo dominio fin nel cuore della Lombardia e avevano cercato di prendere la Romagna e le coste della Puglia e poi il Triestino, per controllare pienamente l'Adriatico e diventare lo Stato egemone d'Italia, condizione, questa, per garantirsi l'egemonia nel Mediterraneo orientale: il gruppo di patrizi che respingeva la pace di Bologna del 23 dic. 1529 e la politica di neutralità e di buona armonia con la Sede apostolica - in sostanza, di dipendenza da essa - che il suo patrocinatore, Gasparo Contarini, aveva avviato. Nel sec. XV, la Repubblica aveva osato contrapporsi alla Sede apostolica, proprio mentre essa stava assestandosi come grande Stato territoriale e ricuperando il prestigio spirituale offuscato dal lungo periodo di scisma pontificio e di contese con i maggiori principi all'epoca dei grandi concili di Costanza e di Basilea. La Repubblica non aveva contestato il ruolo di guida spirituale della Cristianità che la Sede apostolica aveva sempre svolto. Essa riteneva però, in virtù del carattere sacrale che connotava la sua massima autorità e dei meriti acquisiti ab antiquo a difesa della Cristianità, di aver diritto a determinate prerogative in campo ecclesiastico, e di far sentire la propria voce criticando i vizi diffusi nella Chiesa, il prevalervi di interessi temporali a scapito di quelli spirituali, la corruttela che ne derivava, e incitando a compiere le riforme necessarie: né aveva mancato di levare vibrantemente la sua protesta e di minacciare il ricorso al concilio quando le era parso di esser vittima di prevaricazioni pontificie.

Il D. era profondamente inserito in questa tradizione veneziana, fatta di un sentimento altissimo del legame tra politica e religione, la religione a dare un senso alla politica. Uomo di intensa devozione, il Donà. Il soggiorno in Spagna, che gli aveva fatto conoscere i mistici spagnoli di cui aveva acquistato varie opere (una particolare presa aveva avuto su di lui il teologo Luys de Granada), non poteva che averla accresciuta. L'esperienza di Spagna l'aveva anche reso più consapevole dell'importanza di una politica ecclesiastica che evitasse uno dei guasti maggiori che incrinavano la Repubblica di Venezia, la sudditanza al Papato di molti patrizi che ne avevano ricevuto o contavano di riceverne benefici ecclesiastici. Guasto che era cominciato quando erano stati eletti al pontificato, quasi uno dopo l'altro, tre patrizi veneti, Gregorio XII, Eugenio IV, Paolo II, i quali con concessioni di cariche e di prebende avevano staccato vari patrizi dal preminente dovere di fedeltà verso la Repubblica.

Osservando il governo di Filippo II, il D. era stato colpito dal fatto che "una delle cose che supremamente accrescono la ricchezza, il splendore et il commodo di sua Maestà sia la collatione dei benefici ecclesiastici e delle conimende militari", così che "senza metter mano nella propria borsa spende et dispensa ogni anno un grandissimo tesoro". Filippo II, soggiungeva il D., in Spagna conferisce "tutti li vescovati", e nel Regno di Granata anche gli altri benefici ecclesiastici, "come se fusse pontefice... con inestimabile sua autorità" (Corrispondenza, introduzione di E. Vitale, I, p. LVIII). Quanto alle commende, il D. consigliava alla Repubblica di istituire "qualcosa di simile ... per tenere legata la nobiltà di terraferma" (ibid., p. LIX). Ma per i benefici ecclesiastici, e soprattutto i vescovadi? La Repubblica aveva perso la prerogativa di segnalare i nomi al pontefice a seguito della sconfitta di Agnadello del 1509. La pace di Bologna ne aveva reso ancor più difficile il ricupero: e vari episodi, ad esempio quelli riguardanti il vescovado di Ceneda e il patriarcato di Aquileia, stavano a dimostrare la sempre maggiore gravità del problema.

Una questione che vedeva il D. in primo piano, a difendere il diritto della Repubblica contro la Sede apostolica e il patriarca di Aquileia Giovanni Grimani, era quella concernente il feudo di Taiedo. Dopo il suo ritorno dalla Spagna, avvenuto il 18 nov. 1573, il D. era stato eletto a una serie di incarichi pubblici, in un crescendo di importanza. Savio di Terraferma il 28 dic. 1573; provveditore sopra i Beni comunali il 19 ott. 1574; procuratore sopra gli Atti del sopracastaldo il 12 dic. 1574; ancora savio di Terraferma il 29 sett. 1575; finalmente, il 27 dic. 1576 fu consigliere dei Dieci e il giorno dopo savio del Consiglio. Elezioni, queste, che inorgoglivano molto il D.: "Con assai raro essempio nella nostra Repubblica et in mia grandissima obbligatione di sempre servirla" annotava in un suo registro (Venezia, Fondamenta nove, Archivio privato Donà dalle Rose, reg. L. D. 1574-81, n. 1). Ma un successo altrettanto grosso era l'elezione, nello stesso torno di tempo, ad ambasciatore straordinario presso Rodolfo II d'Asburgo, per congratularsi della sua elezione ad imperatore (di questa missione, ci è rimasta una sua vivace Descrittione del viaggio). Era tempo ormai per l'assunzione di una importante carica nella Terraferma, e il D. l'ottenne infatti con l'elezione, il 23 febbr. 1578, a podestà di Brescia. Vi restò due anni, acquisendovi le conoscenze amministrative che una città difficile come Brescia poteva fornire. Il D. ebbe pure l'occasione di entrare in contatto diretto con il prelato più famoso della Controriforma, Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, che ammirava certamente per lo zelo pastorale e le capacità organizzative, ma del quale temeva probabilmente che diffondesse nel Dominio veneto la sua concezione per cui il potere della Chiesa doveva prevalere su quello dello Stato. Un'esperienza arricchente, comunque: e gli sarà assai utile quando, poco dopo il suo rientro da Brescia, verrà eletto - il 26 nov. 1580 - ambasciatore ordinario a Roma, e si troverà a trattare la spigolosa questione del feudo di Taiedo.

Taiedo era un piccolo feudo situato nei dintorni di San Vito al Tagliamento, conteso per ragioni successorie e poi di compravendite tra membri delle famiglie Altan e Savorgnan. La causa era stata dibattuta al foro patriarcale, poi a quello del luogotenente della Patria del Friuli, finché, a dirimere il problema della competenza, non era intervenuto, nel 1580, il Consiglio dei dieci, il quale aveva deciso che la causa spettava al tribunale del luogotenente della Patria. Contro questa decisione il patriarca di Aquileia Giovanni Grimani era ricorso a Roma, chiedendo che la Sede apostolica intervenisse a tutela della giurisdizione patriarcale. Per il Grimani, Taiedo era un pretesto, che gli consentiva di rivendicare, come aveva già fatto nel 1576, la pienezza della giurisdizione patriarcale contro le pretese della Repubblica.

I Grimani erano una delle famiglie più doviziose della Repubblica. Negli anni difficili dopo Agnadello si erano legati strettamente alla Sede apostolica. Ne avevano avuto cappelli cardinalizi, abbazie, vescovati, nonché il patriarcato di Aquileia, diocesi ambitissima, perché comprendente un vastissimo territorio ai confini nordorientali della Repubblica e, al di là dei confini, altri territori appartenenti al dominio asburgico. Erano pertanto i Grimani - come del resto i Corner, i Pisani, i Barbaro e altre famiglie - che ambivano a ritagliarsi una sorta di autonomia in seno alla Repubblica, approfittando dei sostegno che avevano da Roma e dei grossi benefici ecclesiastici che riuscivano ad ottenere. Gente che il D. e i patrizi del suo gruppo ritenevano perniciosa per gli interessi della Repubblica, ostacolo non solo alla ripresa del ruolo primario che aveva avuto in passato ma alla pienezza stessa della sua indipendenza, tanto più che il suo potere consentiva di aver un ampio seguito tra i patrizi veneziani; e così era soprattutto per Giovanni Grimani.

A Roma il D. fu un avversario irriducibile per il Grimani. Il patriarca, scriveva il D., si era presentato a Roma "con bandiera spiegata ad oppugnar la sua patria" (Seneca, p. 153). Era più pericoloso del papa, capace di minare quanto la Repubblica aveva di più geloso, la compattezza del suo patriziato. Il D. faceva valere le ragioni storiche della Repubblica sul Friuli e sul patriarcato, la conquista fondata sullo iusbelli, il fatto che nei centosessant'anni seguiti alla conquista i patriarchi non si fossero mai ingeriti nella materia feudale, lasciando che fossero i rappresentanti della Repubblica a occuparsene. In realtà, a Venezia non si era disposti a seguire l'ambasciatore con la risolutezza che egli riteneva necessaria. Si temeva di Pregiudicáre i rapporti con il patriarcato, correndo il rischio di favorire gli interessi asburgici; né si voleva arrivare a rotture con la Sede apostolica irrigidendosi troppo sulle proprie posizioni. A conclusione - una conclusione umiliante, che turbò profondamente il D. - il governo decise di affiancare all'ambasciatore ordinario un ambasciatore straordinario, e scelse a tal fine un uomo gradito alla parte "papalina", Giovanni Soranzo, onde arrivare col mezzo suo alla decisione di compromesso che il D. rifiutava. Quando essa sarà presa - il feudo di Taiedo veniva ceduto dalla Repubblica al patriarca - il D. non era più a Roma. Si era ammalato gravemente, aveva dovuto rientrare a Venezia.

La Repubblica, dirà il D., non era uscita perdente, ma altra era la soluzione che egli e i patrizi che lo seguivano, i "giovani", avrebbero auspicato (Pin, p. 107). Il D. sapeva infatti che, risolta la contesa per Taiedo in modo favorevole o accetto al Grimani, egli, o il successore che si sarebbe scelto, ne avrebbe sollevato delle altre, perché il suo vero fine era di prendere le distanze dalla Repubblica, conferendo al patriarcato una specie di sovranità. I fatti gli daranno ragione: fl patriarcato costituirà per tutta la vita del D., e ancora dopo la sua morte, una spina nel fianco per la Repubblica.

Al D. questa esperienza forni un insegnamento importante. Era da evitare il più possibile che dei patrizi veneti ottenessero prelature da Roma. Era capitata pure a lui, nel 1584, l'offerta del cappello cardinalizio e di un vescovato importante quale Brescia. Evidentemente, si voleva togliere di mezzo per quella via il più difficile degli oppositori. Il D. non prese in considerazione l'offerta: diceva in tono scherzoso che non si riconosceva le qualità per diventare un buon vescovo (Cozzi, Il doge, p. 37). I prelati erano tenuti a servire il Papato; anzitutto questo era loro dovere; inoltre, finivano per essere vincolati da interessi economici. Ad avere troppi prelati, dunque, la Repubblica sarebbe diventata una dipendenza del Papato. Cosi, nel dicembre del 1588, quando era giunta a Venezia la notizia che il papa Sisto V intendeva creare due cardinali, e in Senato, anche tra uomini non legati alla parte "papalina", si sosteneva che bisognava adoperarsi perché uno dei neoporporati fosse un patrizio veneto, dati i molti vantaggi che ne sarebbero derivati alla Repubblica, il D. aveva obiettato che avere cardinali veneti sarebbe stato solo un male. Tanto più che un cardinale avrebbe potuto essere eletto al papato: il D. alludeva ai danni che avevano provocato alla loro patria i papi veneti Gregorio XII, Eugenio IV e Paolo II (per il dibattito senatoriale, riportato ampiamente da un protagonista, Alvise Michiel, nei suoi Avisi, mss. in Bibl. naz. Marciana, Mss. It., VII, 1279; cfr. G. Cozzi, Stato e Chiesa: vicende di un confronto secolare, in Venezia e la Roma dei papi, Milano 1987).C'erano nel governo veneziano.1 tra 1584 e 1585, senatori dei più influenti i quali si adoperavano perché la Repubblica si avvicinasse alla Spagna, vedendo un mezzo per risolvere sia il problema della sicurezza nel Mediterraneo di contro all'aggressività ottomana, sia la crisi del commercio veneziano che si sarebbe dovuto volgere dal Levante ai porti controllati dalla Spagna, ove continuavano a giungere le spezie, e Venezia ne sarebbe diventata la distributrice. In pratica era un mettere la Repubblica sotto Pegida spagnola. Scelta che non poteva certo piacere al D., il quale si era già opposto, nel 1583, a una ventilata alleanza con Spagna e Roma.

Una nuova prospettiva di politica estera si schiudeva alla Repubblica quando sembrava che il Regno di Francia stesse per uscire dal lungo travaglio delle guerre di religione. Nel 1585 l'ambasciatore di Francia a Venezia, A. Hurault de Maisse, scriveva che dei senatori veneziani, contrari all'atteggiamento avverso al re di Francia di papa Sisto V, osavano proporre soluzioni assai ardite per il superamento della crisi francese, come il riconoscimento di fatto della religione riformata o la convocazione di un sinodo nazionale francese, per risolvere, in piena indipendenza da Roma, le lotte che sconvolgevano la patria. Era inevitabile pertanto che quando, nel 1589, alla morte di Enrico III, sali al trono di Francia il calvinista Enrico di Navarra e la Repubblica, incurante della minaccia pontificia di scomunica, si affrettò a mandare un suo ambasciatore a Parigi per far ufficio di congratulazione, in Senato si paventasse lo scatenarsi dell'ira di Sisto V. A farla presagire c'era il gesto del nunzio pontificio a Venezia, Girolamo Matteucci, il quale aveva lasciato improvvisamente la città dopo che in Collegio A. Hurault de Maisse era stato accolto quale ambasciatore del nuovo re, Enrico IV.

Il Senato ritenne necessario mandare a Roma un ambasciatore straordinario a spiegare il perché delle scelte diplomatiche della Repubblica: e nessuno poteva farlo meglio del Donà. Questi fu estremamente abile. Trovò Sisto V "audace, precipitoso, terribile", ma alla fine riusci a placarlo. Dopo la sua partenza da Roma, l'ambasciatore ordinario Alberto Badoer scriveva che il D. aveva lasciato di sé "honoratissimo et celebratissimo nome di prudentia, di valor et di destrezza veramente singolare; tutti havevano di quel signore grande opinione anco prima della sua venuta; ma in questo negotio l'ha accresciuta in maniera che non si potrebbe dir di più".

Un uomo di quel prestigio e insieme, è da aggiungere, di quella straordinaria resistenza a ogni fatica, non poteva non essere utilizzato quando bisognava inviare missioni di omaggio. Il D. fu eletto tre volte, nel 1590-91, per andare a Roma a congratularsi con i papi Urbano VII, Gregorio XIV, Innocenzo IX. Missioni subito bloccate, per la morte repentina dei tre nuovi papi. Arrivò a compimento invece la missione compiuta, nel 1592 presso Clemente VIII sempre come ambasciatore straordinario, non solo per congratularsi, ma anche per trattare la questione insidiosa della minaccia rappresentata per lo Stato veneto dal fatto che confluivano in esso fuorusciti dallo Stato pontificio. Verso lo scadere del suo soggiorno romano il D. aveva discusso col papa una questione spinosa, l'estradizione di Giordano Bruno da Venezia, ove era stato incarcerato e processato dal locale S. Offizio, a Roma, per essere giudicato dal tribunale centrale dell'Inquisizione. Da Venezia premevano per l'estradizione il nunzio apostolico mons. Ludovico Taverna e i patrizi, Federico Contarini in particolare, che costituivano il suo punto d'appoggio in seno al governo della Repubblica. A vedere del D., l'estradizione non doveva essere concessa, sia perché si trattava di una innovazione pericolosa date le gelose tradizioni giurisdizionali veneziane, sia perché il giudizio in corso era condotto a Venezia nel modo più rigoroso. Il 10 ott. 1592 il Senato, facendo sue le argomentazioni del D., aveva respinto quasi all'unanimità (107 voti contro 10) la richiesta pontificia. Il nunzio pontificio non si era rassegnato, e, fattosi ricevere in Collegio, aveva dimostrato alle massime autorita della Repubblica che di estradizioni da Venezia a Roma ne erano state concesse parecchie, e anche di recente: aggiungeva che, ad ogni modo, fl procedimento contro il Bruno era stato avviato molto tempo prima a Roma, per cui era logico che si permettesse all'Inquisizione centrale di avocarlo e di portarlo a compimento. Le ragioni di mons. Taverna erano state accolte. Il 7 genn. 1593 i savi del Collegio, tra cui lo stesso D., rientrato da Roma, proponevano al Senato di autorizzare l'estradizione del Bruno: la "parte" Rassava, con 142 voti a favore, 20 contrari, 10 astenuti (i risultati delle votazioni sono in Archivio di Stato di Venezia, Senato, Deliberazioni Roma, reg. 9, cc. 68 e 85).

Nel 1595 il D. veniva mandato a Costantinopoli, a portare le condoglianze della Repubblica in occasione della morte del sultano Muràd II. Era una missione non ambita, perché preceduta troppo da vicino da altre, e per la stanchezza del viaggio e l'impegnatività delle questioni da dibattere. Non si trattava solo di condolersi per il defunto e di complimentarsi per il successore. Bisognava rinnovare l'accordo di pace turco-veneto, ottenendo magari qualche modifica in favore della Repubblica, e affrontare anche il problema della liberazione degli schiavi. Il nuovo sultano era interlocutore difficile, carico di odio non solo verso l'Impero asburgico, con cui era in guerra nell'Europa sudorientale, ma anche verso la Repubblica. Il D. era riuscito a placarlo.

Scrivendo nelle sue Istorie veneziane, Nicolò Contarini faceva alti elogi di questa ambasciata del suo maestro: "La virtù e il sapere di Leonardo Donà, senator eminentissimo, ambasciator in questa occasione, superò tutti questi contrarii, e la capitulazione, nel modo vecchio e con avantaggio, ... fu da Maometto pacificamente sottoscritta" (Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, p. 184). Al ritorno a Venezia, il D. presentava in Senato il 12 marzo 1596 una relazione che, seppur incompleta, offriva un quadro vario e interessante dell'Impero ottomano: essa costituirà ampiamente la base del lungo capitolo che Nicolò Contarini dedicherà ai Turchi nelle sue Istorie (F. Seneca, pp. 263-321 e Storici e politici, pp. 159 ss.).

L'ultima missione diplomatica compiuta dal D. fu quella presso il papa Clemente VIII a Ferrara, nel marzo 1598.

Estinguendosi, con la morte senza eredi di Alfonso II d'Este, la casa dei duchi di Ferrara, quel feudo era devoluto alla Sede apostolica, e il papa era venuto sul Po a celebrare l'evento. Per i rappresentanti della Repubblica, non c'era altro da fare che prenderne atto e complimentarsi. Il papa coglieva l'occasione per ottenere dalla Repubblica anche qualcosa d'altro, appoggiare l'imperatore nella guerra che stava conducendo contro il Turco. La Repubblica non aveva voluto impegnarsi. Nella sua relazione da Costantinopoli di due anni prima il D. aveva scritto che il momento sarebbe stato favorevole per un attacco al Turco, dato che in Ungheria aveva in campo poche forze, e sembrava non esser disposto a muovere la sua armata navale per timore che Veneti e Spagnoli congiungessero le proprie contro di esso. Attacco fattibile, dunque, ma che avrebbe richiesto un consenso tra principi cattolici che non esisteva: "Onde, se piacesse a Dio di mettere in cuore alli principi, che hanno le maggior forze, di dar un pocco di pausa tra essi alli loro rancori ... et se il pontefice si disponesse di fare, come veramente doverebbe, un vehemente sforzo per aiutar l'occasione presente, io credo che le cose della Christianità prospereriano" (Seneca, p. 319).

"Rancori" tra principi cristiani: i rancori, anzitutto, della Sede apostolica, della Spagna, dell'Impero e dell'arciduca d'Austria verso la Repubblica di Venezia: rancori, per altro corrisposti, verso una Repubblica che sembrava riprendere le passate ambizioni di grandezza, che si appoggiava per il suo rilancio commerciale sugli ebrei ponentini e levantini, che guardava con simpatia all'Inghilterra di Elisabetta e poi di Giacomo 1, che aveva rapporti di amicizia con la Francia, la quale, sotto la guida di Enrico IV, era destinata a riproporsi come l'avversario più deciso del blocco asburgico, e poco disposta ad accettare i dettami della Chiesa posttridentina. L'Impero e l'arciduca d'Austria, oltre a sollevare ripetutamente questioni confinarie, contestavano le pretese della Repubblica di dominio sull'Adriatico, favorendo l'azione degli Uscocchi, pirati che avevano le loro basi nel Quarnaro, contro la navigazione veneta. La Spagna minacciava i confini lombardi della Repubblica, lasciando gravare possibilità di attacchi, e costringendola ad armarsi, a riassettare il sistema difensivo, e, in sostanza, a sottoporre il proprio bilancio a un logorante stillicidio di spese militari. Chiudeva la tenaglia la Sede apostolica, assestata com'era a Ferrara, ed era l'avversaria più pericolosa, almeno agli occhi del gruppo dei patrizi cosìddetti "giovani", perché si proponeva di colpire le ambizioni della Repubblica imponendo l'adozione di provvedimenti lesivi della sua indipendenza e sovranità.

Le difficoltà di questa situazione favorivano l'affermarsi sempre più netto del 13.3 il patrizio che esprimeva il nuovo orientamento della Repubblica, e pertanto il più temuto dagli avversari, e in particolare dalla Sede apostolica. Il D. era stato eletto nel 1591 provveditore di S. Marco de citra, carica vitalizia, la più prestigiosa, dopo quella dogale. Nel 1593 andava in Friuli come provveditore generale, a scegliere il luogo dove erigere una grande fortezza a protezione da eventuali attacchi nordorientali (sarà la fortezza di Palmanova). Si succederanno le elezioni a savio del Consiglio: nel 1592, 1593, 1594; una scansione che poi diventerà più lunga, 1602, 1605, a dimostrare probabilmente che anche nel patriziato c'era chi temeva la sua personalità. Nel 1595, in occasione di un'elezione al dogado, gli si era preferita una personalità più moderata, e più accetta alla Sede apostolica, Marino Grimani. Nel 1601 gli si affiderà però una carica biennale assai impegnativa, quella di provveditore generale di Terraferma, e dovrà pertanto spostarsi per tutto lo Stato, mettendo ordine nell'esercito e nel sistema di fortificazioni.

Un'esperienza che gli farà constatare il limite della forza militare terrestre della Repubblica. "A stimato effetto di prudenza il conoscere la propria debolezza et con quella trattenersi in modo che si portino al sicuro le cose proprie", diceva il D.; e ammoniva i Veneziani che non erano "tali da contender con un re tanto potente e tanto formidabile" come il re di Spagna (Storici e politici..., p. LV).

Dopo la terribile alluvione del dicembre 1600, in cui il mare si riversò sulla laguna travolgendo gli argini, il D. fu nominato con altri undici senatori a studiare i provvedimenti da prendere. Egli si oppose alle proposte di adottare metodi esperimentati in Olanda, perché le situazioni erano diverse, e consigliò di non "discostarsi dallo stile per secoli usitato".

"Parlò con gran sodezza le ragioni persuasibili", così che le sue opinioni furono accolte, commentava Nicolò Contarini (Storici e politici..., p. 286). Senso geloso della venezianità, di tutto quell'insieme di tradizioni culturali dalla peculiarità inconfondibile che essa recava con sé. Era un atteggiamento che portava a rifiutare le scelte culturali dei patrizi che, trovando quella venezianità troppo ripiegata in se stessa, suggerivano che Venezia si aprisse alle voci di una cultura dal più vasto respiro: e nulla era meglio del culto umanistico della romanità, soprattutto delle sue espressioni architettoniche. Ma come i primi vedevano in questa attrazione per la novità una crisi di identità e pertanto una disposizione ad accettare un'egemonia esterna, inevitabilmente politica, non solo culturale, così (ed erano in linea di massima patrizi favorevoli alla Sede apostolica, ad esempio Daniele e Marcantonio Barbaro, Giovanni Grimani) coglievano in quel senso intransigente della continuità delle proprie tradizioni culturali le premesse per una visione politica di potenza ormai irrealizzabile. Quando, nel 1577, finita la peste, si decise di erigere un tempio votivo per ringraziare il Redentore, Marcantonio Barbaro propose che lo si erigesse nel cuore di Venezia, e che, progettato da Andrea Palladio, fosse di pianta circolare, alla "romana", "tale da far risplendere la dignità della Repubblica", e che fosse poi affidato ai padri della Compagnia di Gesù. Prevalse l'opinione del D., che preferiva una chiesa di pianta tradizionale, situata alla Giudecca e officiata dai cappuccini. Il parere del D. si affermerà nel 1588 riguardo due altri grandi progetti, il rifacimento del ponte di Rialto e per la "riconfigurazione", in piazza S. Marco, del complesso Libreria-Procuratie nove. Per la seconda questione, c'era il progetto di Vincenzo Scamozzi, "erede della 'vera architettura' palladiana", "'naturale' alleato della cultura patrizia scientista e romanista" ' e patrocinato infatti da Marcantonio Barbaro; anche questa volta prevarrà l'opinione contraria, quella del D., che considerava il progetto scamozziano "blasfemo rispetto alle 1 sacre' preesistenze" (M. Tafuri, pp. 252 SS.). Pure nel 1588, il parere del D. avrà la meglio su quello del Barbaro riguardo al ponte di Rialto. Il Barbaro portava un progetto del Palladio, che, a detta dello stesso architetto, aveva a modello l'antico ponte Elvio romano, e quello di Vincenzo Scamozzi: si sceglierà il progetto assai più semplice e "vernacolo" di Antonio Da Ponte. Meglio "sparagnare il danaro", incitava il D., che suggeriva addirittura di rifare il ponte in legno o di riassettare il vecchio (Tafuri, p. 248). Ci sarà infine, nel 1596, un nuovo dibattito se realizzare o meno un altro progetto dello Scamozzi di rifacimento della piazza S.Marco, progetto sostenuto da un amico del Barbaro, Jacopo Foscarini, e contrastato dal Donà. Il "nuovo" di Vincenzo Scamozzi venne quindi condannato, come sovvertitore di tradizioni e come espressione di un "trionfalismo romanista" avversato dal gruppo dei "giovani" (Tafuri, p. 266).

Nei confronti della Sede apostolica il D. propugnò sempre l'adozione di una linea dura, non aliena da rigurgiti di spiriti di rivincita. Il nunzio apostolico A. M. Graziani rimase colpito da una levata di scudi fatta dal D. il 2 ag. 1596 durante un'udienza nella quale si era discusso sulle capitolazioni imposte da Giulio Il a Venezia nel 1510: "Il Signor Lunardo Donato si levò in piedi et disse ch'innanzi che la Sede Apostolica fusse in Roma, e poi. quasi dichiarandosi, soggiunse, o innanzi ch'avesse queste forze temporali, 1200 sono, questa Repubblica aveva acquistato il dominio del mare col suo sangue. Et ch'haverebbe potuto ritenersi Ravenna et Cervia, liavendo molto ben forze per mantenerle; quasi inferendo ch'haveva errato a restituire" (Seneca, p. 255).

Quando, nel 1596, il papa Clemente VIII promulgò un nuovo Indice dei libri proibiti, ingiunse anche che librai e stampatori giurassero di rispettare le disposizioni pontificie in materia di libri. La questione era particolarmente grave per Venezia, dove la stampa era ancora industria fiorente. Nel corso del dibattito svoltosi in Senato il D. sostenne che bisognava osservare il contenuto dell'Indice, dato che rientrava nelle prerogative papali stabilire quali libri fossero o meno contrari alla fede: il fichiedere quel giuramento era invece un esorbitare dai limiti del magistero spirituale. La Chiesa, secondo il D., controllava già la coscienza dei librai attraverso la confessione. Ulteriori controlli non erano tollerabili, altrimenti i 400 0 500 veneziani addetti all'arte libraria da laici si sarebbero trasformati in sudditi della giurisdizione ecclesiastica (Grendler, pp. 242 e 269-273). Per coerenza con quanto sostenuto nel suo discorso, o per timore che qualche occhio troppo curioso andasse a controllare se egli si era, attenuto alle disposizioni del nuovo Indice, il D. annoterà, nell'inventario della sua biblioteca privata, "abbruciato" accanto ai titoli dei libri proibiti: così per la Bibbia volgare, il Principe e la Vita di Castruccio Castracani di Machiavelli, il Decameron di Boccaccio, la Vanità delle scientie di Cornelio Agrippa, la Cosmographia magna di Sebastiano Munster. Nel caso di edizioni di testi curate da Erasmo, depennerà solo la parte scritta dallo stesso Erasmo.

Assai più grave era la pretesa avanzata da Clemente VIII nell'estate del 1600, che fosse mandato a Roma per esser esaminato sulla sua idoneità ad assumere la prelatura il patrizio che il Senato proponeva al papa per la nomina a patriarca di Venezia. Era, da parte pontificia, la violazione di una prassi antica, sancita dalle capitolazioni tra la Repubblica e Giulio II del 1510: mirava non solo a privare la Repubblica di quel poco che le rimaneva di prerogative sui benefici ecclesiastici, ma a infliggerle un'umiliazione.

La voce più vibrante, durante il dibattito col nunzio pontificio svoltosi in Collegio, non fu quella del doge, ma del D., che disse: "La Repubblica non ha altro che un patriarca, che è patriarca della sua propria città, capo di tutto il Stato: il voler trattar di levarli questo o d'interromperli la giurisditione et privilegio di elleggerselo a modo suo è cosa accerbissima et che non può esser sentita... non solo dalla nobiltà, ma dalla città tutta, che non può patirla" (Seneca, pp. 258 s.). Traendoli da altri discorsi pronunciati in quella occasione, Nicolò Contarini aggiungeva altri argomenti del Donà, nonché la lamentela per la remissività con cui si era accettata la pace di Bologna e per la crescita, maggiore che altrove, della "giurisdizzione ecclesiastica" nell'ambito della Repubblica. Particolarmente espressivo del sentire religioso del D., e del misticismo cui si ispirava, era quanto egli diceva delle qualità necessarie a un patriarca di Venezia: "Alla Repubblica non appartiene che [il patriarca] sappi disputare della giustificazione o del purgatorio o della giurisdizione ecclesiastica, o che sappi delle regole della cancellaria, ma che sia di costumi esemplari, che sia informato della qualità del popolo veneziano, che contemperi il governo spirituale col civile ..." (in Storici e politici veneti, pp. 248-252).La questione della sovranità su Ceneda era, come quella altrettanto annosa e sempre pendente di Aquileia, delle più amare per la Repubblica, in quanto sostenuta contro di essa da uomini che provenivano dal suo patriziato e che anteponevano gli interessi temporali del Papato a quelli della Repubblica. Nel 1603, durante un'udienza in Collegio, il nunzio disse, d'incarico del pontefice, che egli avrebbe senz'altro scomunicato "e capo e soldati" che il governo veneto avesse inviato nella città. Al che, riferiva il nunzio, il D. rispose "che la Repubblica non intendeva che io scommunicassi nessuno senza sua licenza, né essercitassi altro atto di giurisdittione" (Seneca, pp. 256 s.).

La scomunica, l'interdetto, le armi spirituali che la Sede apostolica aveva tante volte brandito contro la Repubblica tra 1 400 e inizio '500 erano di nuovo nell'aria. Il 10 dic. 1605 il papa Paolo V minacciò di colpire con interdetto l'intera Repubblica di Venezia se il suo governo non avesse revocato una legge del 10 gennaio, con cui si ordinava di non erigere chiese, monasteri ed altri luoghi pii senza licenza del Consiglio dei dieci, una legge del 26 marzo 1605 con cui si stabiliva che non si potessero alienare beni stabili ad ecclesiastici, sia a Venezia sia nello Stato, senza autorizzazione del Senato, nonché due decreti giudiziari con i quali venivano tradotti alle carceri e rimessi al giudizio del foro secolare due ecclesiastici imputati di reati comuni. Paolo V voleva dimostrare alla Repubblica proprio all'inizio del suo pontificato che con lui cominciava una politica di assoluta intransigenza. In realtà, non si temevano tanto le innovazioni legislative o giudiziarie di per sé, quanto l'orientamento di governo di cui erano frutto, manifestazione degli intenti del gruppo che, deciso a non subire pressioni pontificie in politica interna e internazionale, ormai prevaleva in seno al governo, tanto che la Repubblica, aveva detto poc'anzi il nunzio O. Offredi, "resta in mano del procuratore Donato, che è di quelle qualità che bene son note ..." (Cozzi, Il doge..., p. 95). Il fatto che, morto nel dicembre del 1605, il doge Marino Grimani, fosse eletto a succedergli il 10 genn. 1606 proprio il D., stava a dimostrare che non sarebbe stato facile far accettare alla Repubblica le ingiunzioni di Paolo V.

Era evidente che non si trattava più di una delle consuete controversie. Henry Wotton, il poeta che Giacomo I aveva mandato nel 1603 a Venezia quale ambasciatore, seguiva attentamente l'andamento delle cose, sperando che il conflitto si attizzasse sempre di più. Il cardinale Davy du Perron vedeva, già nel dicembre del 1605, la possibilità di cogliere l'occasione per un intervento mediatorio della Francia che riaffermasse il suo prestigio politico-religioso. La Repubblica inviò bensi ambasciatori straordinari a Roma, per un tentativo d'accordo destinato presto a fallire. Essa però volle impostare la contesa in solidi termini dottrinali, oltre che giuridici. Chiese la consulenza di uomini di legge e teologi. Affidò il posto fisso di consultore teologo-canonista a fra' Paolo Sarpi dei servi di Maria, veneziano e assai noto a Venezia, con amici tra i patrizi "giovani" e gli uomini di scienza. La Sede apostolica non deflesse. Il 17 apr. 1606 Paolo V emanò un breve in cui stabiliva che se le leggi non fossero state abrogate (alle due di cui si è detto, veniva aggiunta una terza, vecchia ormai di quattro anni, concernente il diritto di prelazione degli ecclesiastici sui beni enfiteutici) e se gli ecclesiastici detenuti non fossero stati consegnati all'autorità ecclesiastica entro 24 giorni, il Senato della Repubblica sarebbe stato colpito da scomunica e tutto il territorio dello Stato da interdetto. Neppure la Repubblica cedette, e allo scadere dei termini sanciti dal breve replicò con un manifesto, o "protesto", in cui definiva lo stesso breve come pubblicato "contro la forma d'ogni ragione naturale e contro ... le divine scritture", e lo considerava "non solo per ingiusto e indebito, ma ancora per nullo e di nessun valore". La Repubblica aveva chiesto ai suoi consulenti se fosse preferibile rispondere alle censure rifiutandole, o ricorrendo contro di esse a un concilio. La maggior parte era stata per la prima soluzione, e il Collegio l'aveva adottata. Paolo Sarpi avrebbe preferito la seconda soluzione, quella che la Repubblica tra '400 e '500 aveva ricercato più volte. Un richiamo allo spirito e alle idee della Venezia quattrocentesca avveniva ugualmente, con la pubblicazione in italiano del Trattato e resoluzione sopra la validità della scomunica, di Jean Gerson. Era stato il Sarpi a proporla, ma l'importante era che avesse il crisma della Serenissima Signoria, ossia dello stesso doge D. (Sarpi, Opere, pp. 119 s.). Nella sua biblioteca personale, il D. aveva solo una delle operette scritte da P. Sarpi in occasione dell'interdetto, Le considerazioni sopra le censure della Santità di papa Paulo V contro la Serenissima Republica di Venezia, uscita in italiano e in latino nell'agosto del 1606 a Venezia, la più organica ed omogenea, imperniata sulla concezione del principe e dello Stato e delle loro prerogative politiche-religiose che dava il senso all'azione veneziana. C'erano passi che avrebbero potuto dire a loro tempo i patrizi impegnati nella lotta quattrocentesca per l'egemonia veneziana, e che pure il D. avrebbe fatto sue: "Questo stato è investito da Dio direttamente dei suoi poteri; proprio per questo, non può rinunciare ad essi, come non può permettere che siano incrinati. Opporsi al loro esercizio, anzi, come ha fatto il papa chiedendo il ritiro delle leggi e fulminando le sue censure, è disobbedire a Dio" (Sarpi, Opere, p. 127).

Il D., che indulgeva spesso all'autocompiacimento, annotava in un suo registro che la sua elezione a doge era stata "udita et ricevuta dall'universale di tutti li ordini della città con grande applauso" (Archivio privato Donà dalle Rose, registro L. D. 1593-1607, n. 5). In realtà, una personalità come quella del D. non poteva non suscitare, soprattutto in un momento così difficile, anche grandi ostilità e preoccupazioni.

Uno dei suoi maggiori oppositori, il patriarca di Aquileia Francesco Barbaro, nella corrispondenza che intratteneva segretamente con Roma, scriveva che "in Venetia non è alcuno che dica altro se non quanto piace al doge, forse più per timore che per amore". Era un dire che si trattava di un tiranno, o avviato per quella via. Il Barbaro non esitava ad "aggiungere che il Doná poteva macchinare qualche oscuro disegno in vista dell'ampliamento dell'autorità dogale" oltre i limiti sanciti dalla costituzione veneziana. Era il D., a vedere del Barbaro, il principale responsabile della frattura creatasi tra Venezia e Roma: e il movente del suo anticurialismo, insinuava il patriarca di Aquileia, riprendendo voci malevoli che il D. aveva respinto sdegnosamente, era dovuto al risentimento per non essere mai stato preso in considerazione per il cardinalato (Trebbi, pp. 429 e 432 s.). In una lunga lettera del 24 luglio 1606 mandata da "un clarissimo senator veneto" ad un altro patrizio (una lettera probabilmente fabbricata e diffusa da nemici del D. come il patriarca di Aquileia) oltre ad accusare il D. di promuovere una politica di avventata megalomania, si insinuava che egli utilizzasse la contesa con Roma per costituire una sorta di dittatura: "avendo la mira a più alti pensieri, esorta tutta la nobiltà e tutto il popolo, con persuasioni secrette e con publiche orationi, a non condescendere giammai alla volontà del pontefice" (Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Fondo Morosini-Grimani 154, p. 8). L'ambasciatore inglese Henry Wotton, che si stava adoperando per la diffusione della Riforma a Venezia, "e si illudeva di riuscirci, scriveva il 16 giugno 1606 al conte di Salisbury di aver riscontrato nel D., come in molti altri veneziani, "a very great degree of illumination in God's Truth", tanto che a Roma si pensava di deferirlo al giudizio dell'Inquisizione (Smith, p. 354). Era evidentemente un'esagerazione: neppure il patriarca Francesco Barbaro arriverà a una simile accusa, mentre definirà "lieresiarca" sulla scia di Martin Lutero Paolo Sarpi (Trebbi, p. 433). E Sarpi infatti sarà deferito all'Inquisizione.

Eppure, in una lettera a Roma dell'autunno 1606 il Barbaro segnalava "il parziale ripensamento del doge Leonardo Donà", il quale era ormai disposto ad accettare il progetto di mediazione proposto da un ambasciatore straordinario del re di Spagna, progetto che prevedeva la pesante condizione che il Senato accettasse di sospendere le leggi contestate (Trebbi, pp. 434 s.). Il Barbaro, d'intesa con altri patrizi del suo orientamento, coglieva l'occasione per intensificare la politica filocuriale e indurre i senatori a cedere. Gli altri, fautori della intransigenza, erano letteralmente sconcertati dall'atteggiamento del Donà.

Parlando in Senato, il doge spiegò che egli era favorevole alla mediazione spagnola, perché la Spagna aveva minacciato che, in caso di fallimento.1 sarebbe ricorsa alle armi e perché, d'altro canto, né la Repubblica era in grado di far fronte né poteva contare su un aiuto esterno, dato che la Francia, deludendo la fiducia, non l'aveva offerto, e che l'Inghilterra, la quale l'aveva offerto, era troppo lontana per darlo efficacemente. Il suo devotissimo amico, Nicolò Contarini, gli rispose che sospendere le leggi era privarsi della libertà e che il pericolo di una guerra, d'altronde molto aleatorio, non lo giustificava. "S'inganna chi crede con il cieder all'inimico di liberarsi dalla sua oppressione", disse il Contarini. Per una volta, il Senato non si schierò con il D., e respinse la proposta di mediazione fatta dalla Spagna (Cozzi, Il doge..., pp. 106 s.). Anche se il D., che sapeva valutare più realisticamente la situazione, temeva che la Repubblica si imbarcasse in una situazione incontrollabile, pure le ragioni della sua opzione in favore della mediazione spagnola potevano essere altre: ossia, che senza la prospettiva di una Repubblica accordatasi con la Spagna, e magari entrata nella sua orbita, la Francia- non si sarebbe mossa. L'ambasciatore francese a Venezia Philippe Canaye de Fresnes si adoperava a tutt'uomo perché lo facesse. Nel febbraio del 1607 il card. F. de Joyeuse era a Venezia, latore di un progetto di mediazione avallato da Enrico IV di Francia: contemporaneamente, il rappresentante del papa e quello della Repubblica avrebbero revocato l'uno le censure, l'altro il rifiuto a riconoscerle. Sarà la soluzione accettata, e sancita il 21 apr. 1607. Neppure su di essa ci sarà accordo tra il D. e i suoi sostenitori ed amici. Realisticamente, il D. non vedeva altra possibilità di conclusione. Nicolò Contarini lo giudicava un compromesso, e come tale un "appuntamento di servitù", non vera pace. Egli, e forse ancor più di lui il Sarpi, avrebbero voluto che la contesa si concludesse con una indiscutibile umiliazione della Sede apostolica, che sarebbe stato l'avvio di un rilancio della Repubblica e la sua riscossa da un "giogo" ormai troppo lungo (Storici e politici..., p. 139).

La conclusione dell'interdetto apriva ben più problemi di quanti non ne chiudesse. La Repubblica guidata dal D. aveva dimostrato al mondo che uno Stato - anche uno Stato italiano -, purché agisse con risolutezza e credesse profondamente a quanto faceva, poteva respingere le censure pontificie. Era una lezione severa, per la Sede apostolica. Roma non poteva comunque chinare il capo. Era da attendersi una sua rivincita. Rivincita che non poteva prendersi se non appoggiata debitamente dalla Spagna, nonché dall'Impero asburgico. D'altronde, la stessa Spagna, la cui mediazione era stata rifiutata, aveva validi motivi per rintuzzare al momento propizio la rinascente protervia veneziana, e quindi doveva insistere nel tener vive le minacce in terra, e cooperare con l'arciduca d'Austria, l'imperatore, la Sede apostolica in mare, per contestare quel dominio sul mare Adriatico che era più che mai il simbolo della grandezza veneziana. I patrizi favorevoli a Roma o alla Spagna, o riluttanti in ogni caso ad abbandonare la politica di neutralità perseguita dalla Repubblica dopo il 1530, incitavano a cercare un'intesa con Spagna e Roma, e ammonivano sui rischi di un confronto diretto con esse. Per contro, gli altri patrizi, ringagliarditi dal successo ottenuto, sostenevano che per non vanificarlo, bisognava stringere legami con la Francia e l'Inghilterra, senza escludere i principi dell'Unione protestante di Halle; un buon alleato poteva essere, in Italia, il duca di Savoia. E quando, nel 1609, le Province Unite dei Paesi Bassi settentrionali si costituiranno in Stato indipendente, quei patrizi riusciranno a farlo riconoscere subito dalla Repubblica, malgrado le proteste spagnole e pontificie.

Il D., pur non identificandosi completamente con questo orientamento, e adoperandosi anzi per frenarne le imprudenze, era più vicino ad esso che non all'orientamento degli altri patrizi. Nelle udienze, l'atteggiamento del D. nei confronti del nunzio pontificio sarà assai duro, a volte addirittura pungente: tanto che il nunzio diraderà le sue visite in Collegio, e nell'ultimo anno e mezzo del dogado del D. non si farà vedere. Fermo, distaccato era solitamente il tono del D. nei confronti dell'ambasciatore spagnolo.

Se a questo poi capitava di protestare, a nome dell'arciduca d'Austria Ferdinando, per l'ostilità con cui rappresentanti della Repubblica trattavano in mare i suoi sudditi, impedendone la navigazione e il commercio, il D., intransigente assertore del dominio di Venezia sull'Adriatico, aveva impennate di sdegno: "Non potemo già lasciar di dire a V. S. che il voler transitare si può dire per queste nostre lagune e con simili robbe proibite, senza quel riguardo che si deve, sono cose che non possono essere tolerate", replicava il doge alla protesta dell'ambasciatore per il blocco di una barca carica di ferro proveniente da Trieste. Tanto che un giorno, l'8 giugno 16 11, lo stesso ambasciatore fece notare che l'ambasciatore di Francia era stato trattato in modo molto più deferente di quello usato con lui.

A giudicare sempre dalle udienze, le maggiori simpatie del D. andavano verso l'ambasciatore del re d'Inghilterra, soprattutto quando il posto sarà preso, nel 1611, da Dudley Carleton, molto più asciutto e fattivo di Henry Wotton. Era costante, da parte del doge, l'evocare l'amicizia tra la Repubblica e il Regno d'Inghilterra, e la gratitudine che essa gli doveva per essersi offerto di aiutarla nei momenti difficili (Arch. di Stato di Venezia, Collegio. Secreta, Esposizione principi, filze 20 e 21). Una prova della fiducia che il D. riponeva nei legami tra la Repubblica e l'Inghilterra era offerta tra primavera ed estate del 1610, quando fu proposta in Senato una legge autorizzante la concessione della cittadinanza de intus et de extra (quella che consentiva di commerciare anche Oltremare sotto bandiera veneziana) a "forestieri", e più precisamente a inglesi ed olandesi.

Tra i promotori dell'iniziativa c'erano Nicolò Contarini e Antonio Donà, nipote del doge, allora savio agli Ordini: e Antonio Donà faceva il suo debutto in Senato con un discorso nel quale sottolineava la necessità di rinvigorire l'esangue commercio veneziano immettendovi energie umane e finanziarie di mercanti d'Oltralpe. Impossibile che il giovane savio agli Ordini andasse a sostenere in Senato una tesi così ardita, senza il consenso dello zio doge (Cozzi, Il doge..., pp. 140-144; il testo del discorso è in Romanin, Storia documentata, VII, pp. 530-535, che attribuisce erroneamente il discorso al fratello di Antonio, Leonardo).

Il problema della differenza di religione (molti di quei mercanti forestieri erano calvinisti) non si poneva, così come non si poneva per i tedeschi del fondaco o per i tanti grigioni che venivano a lavorare a Venezia. Altrettanto era per gli ebrei, che il D. aveva difeso nel 1608 di fronte al nunzio sostenendo che, anche se fossero marrani, dovevano essere ugualmente considerati ebrei, e pertanto non sottoposti al S. Offizio.

Una politica estera ambiziosa quale quella appoggiata dal D. presupponeva una solida politica interna. L'interdetto aveva leso molti equilibri, all'interno del patriziato e nei confronti della Terraferma. Città importanti come Brescia e Verona avevano manifestato la loro devozione alla Sede apostolica; in tutto lo Stato di Terraferma, comunque, l'ordine pubblico era sottosopra e si attentava all'autorità sovrana. Verranno mandati a riassettare le cose tre sindaci e inquisitori, dotati di grandi poteri. Il D. era particolarmente convinto che fosse necessario concludere definitivamente questioni erosive come quella di Ceneda, imponendo senza remore sulla piccola cittadina contestata con la Sede apostolica la sovranità della Repubblica. Altrettanta fermezza ci voleva per spegnere i grossi focolai di dissidenza accesisi nel patriziato. Si aveva cioè la sensazione che ci fosse in esso più che mai chi anteponeva la devozione al papa al dovere verso la patria, e che si fosse arrivati ad intralciare il governo della Repubblica violandone il segreto, e informando di ogni decisione, ad esempio, la Sede apostolica. La reazione del governo era energica, e vi contribuiva certo l'incitamento del doge. Gli inquisitori di Stato diventavano proprio in questo periodo una magistratura di inflessibile severità: essa non esiterà a mandare a morte un ex ambasciatore della Repubblica a Roma, Alberto Badoer, accusato appunto di violazione dei pubblici segreti. Era difficile, comunque, ottenere e conservare il consenso quando si diffondeva la voce, già all'indomani dell'interdetto, che ci fosse a Venezia chi, protetto dal governo, si adoperava con principi protestanti per insediare a Venezia una chiesa riformata.

Chi veniva indicato come collaboratore dei principi riformati e addirittura come personalmente incline alla Riforma era fra' Paolo Sarpi: il consulente e teologo della Repubblica: l'uomo che aveva avuto, e continuava ad avere, la fiducia del doge. Uno degli emissari dei principi riformati, il principe Christian von Dolina, ebbe nel corso dell'estate del 1608 vari colloqui con il Sarpi, nei quali, oltre ad incitare il frate ad adoperarsi per la riforma veneziana, badò ad informarsi delle possibilità di successo che essa aveva. Il personaggio chiave, per realizzarla, era ovviamente il doge. Il 2 agosto il Sarpi spiegava al Dolina che "il doge è un huomo molto prattico e costante. Non si conosce mai se ami o odi una cosa. Per queste occasioni m'ha qualche volta dimandato delle controversie col Papa nella religione. Io gliene ho detto qualche cosa della verità. Mai non ho potuto sentire se l'aggradisse o odiasse tanto è fermo". In realtà il D. credeva fermamente che il rapporto tra politica e religione fosse quanto mai delicato, e che a mutare la religione sarebbe mutato inevitabilmente l'assetto politico. Con la sua consueta sottigliezza il servita avrebbe cercato di convincerlo che c'era mutamento e mutamento di religione. "Quando il Principe mi disse questo che mutazion di Religione mutava il Governo, io dissi: A vero. Certi preti nuovi dimenticando e cangiando la semplicità de' vostri vecchi preti, si sono congiunti col papa havendo stretto corrispondenza seco, etc. questi introducono nova religione, e per tali ultimamente vedeste questo Stato turbato. Certo è, ch'ogni religione che non conosce superiore in terra di voi, non muterà nulla. Ma quelli che ne riconoscono superiore, come i Giesuiti e altri, il papa, da tali bisogna temere mutazione". L'allusione al rischio di eversione dell'autorità dello Stato che le ingiunzioni pontificie avevano fatto correre era estremamente abile. Il D. era però uomo troppo dotato di senso dello Stato, nonché troppo consapevole delle sue responsabilità, per aderire a queste suggestioni. L'argomento più interessante usato dal Sarpi, quello che centrava non solo l'orgoglio, ma la concezione che il D. aveva del ruolo del principe nella Repubblica, era che fosse possibile una "religione", o meglio una Chiesa, la quale non avesse altro superiore in terra di lui, doge. Una concezione non nuova a Venezia: una Chiesa strettamente legata allo Stato, che lo alimentasse delle energie spirituali che solo la religione può dare. Dirà ancora il Sarpi: "Il Doge non è confermato nella Religione [riformata] n'è pero Ateista. Ma huomo tanto intento al suo carico che non cerca le sottigliezze di discernere la religione" (B. Ulianich, Il principe Christian von Dohna: dalla missione veneziana del Dohna alla relazione Diodati (1608), in Annuarium historicum conciliorum, VIII [1976], pp. 492-497).Nel 1609 il D. comperò alle Fondamenta Nove, una zona periferica guardante verso Murano, che anch'egli aveva contribuito a far bonificare attuando una proposta di Cristoforo Sabbadino-, un lotto di terra per costruirvi il palazzo di famiglia. Volle seguire da vicino il progetto e i lavori. Probabilmente, per far sentire di più le proprie idee, non si affidò a un architetto, ma al proto delle Procuratie de citra, Francesco di Pietro, autore, scrive Manfredo Tafuri, di edilizia popolare e assistenziale. Colpisce "la povertà linguistica dell'edificio, l'assenza di ordini architettonici, rozzi cantonali definiscono il palazzo agli spigoli, mentre una schernatica serliana si apre al piano nobile: niente architettura per la casa del doge". Il palazzo, dice M. Tafuri (pp. 8, 284), esprime il "rigorismo etico" del D., quel rifiuto per l'ostentazione e per il lusso che egli aveva in comune con un Nicolò Zen e con gli evangelici veneziani della prima metà del '500. Ma il D., in quello splendido isolamento, intendeva ostentare qualcosa di più, l'orgoglio per quanto aveva operato al servizio della Repubblica, lasciandone memoria ai posteri e alla sua famiglia. Nel suo ultimo testamento, scritto con il piglio autoritario che lo aveva sempre contraddistinto, lasciava eredi del patrimonio e della casa i nipoti Antonio, Leonardo e Girolamo, e dava dettagliatatissime disposizioni affinché la casa restasse sempre proprietà della famiglia Donà.

Morì, a Venezia, di colpo apoplettico il 16 luglio 1612.

"Infermo già molti mesi", dice l'annotazione dei provveditori alla Sanità, che erroneamente attribuisce la morte al 17. Malgrado l'infermità, aveva cercato di recarsi appena poteva in udienza. L'ambasciatore inglese Dudley Carleton narra che c'era andato anche il giorno della sua morte. Conclusa la seduta, si era voluto concedere un po' di svago, facendosi portare, a bordo di una gondola di nuovo tipo, in laguna, davanti alle Fondamenta Nove, per rimirare da una qualche distanza il suo palazzo. Compiacimento che era durato poco: un giovane nobile, che passava li vicino con la sua barca, aveva definito sprezzantemente quel grande edificio una "teza", ossia un capannone. La battuta avrebbe profondamente turbato il doge, collerico per natura, tanto da provocare, al ritorno all'appartamento dogale, un insulto apoplettico (D. Carleton, A summary of the life of L. D., in Londra, Public Record Office, State papers 99, B. 10, c. 119).La scomparsa del D. aveva particolarmente rallegrato il nunzio apostolico a Venezia e gli ambienti del patriarcato di Aquileia. Secondo il nunzio, anche una buona parte della città era soddisfatta, "perché egli era communemente odiato, sebene aveva nella nobiltà la sua particolare fattione che ora si mostra addolorata" (Arch. segr. Vaticano, Dispacci del nunzio a Venezia alla segreteria di Stato, b. 42, lettera del 21 luglio 1612). Quanto al Carleton, aveva avuto invece parole di vivo cordoglio: "A stata perdita di quell'importanza ch'è nota a ciascuno, perché aveva quelle degne qualità che erano proprie di un gran principe" (Ibid., Collegio. Secreta, Esposizione principi, f. 21, 2 ag. 1612).

Il D. aveva voluto essere sepolto a S. Giorgio Maggiore, nella chiesa costruita da Andrea Palladio, architetto che egli a volte aveva osteggiato e che era invece assai caro ai suoi avversari politici. Ma quella chiesa lo incantava. Il suo monumento funebre, nella controfacciata, era opera di allievi di Alessandro Vittoria. Era giusto che riposasse li, nel centro più significativo del Rinascimento veneziano, l'uomo che del Rinascimento veneziano era stato una delle ultime grandi voci.

Fonti e Bibl.: Le fonti documentarie conservate sia all'Archivio di Stato di Venezia, sia alla Biblioteca del Civico Museo Correr, Fondo Donà dalle Rose, sia alla Bibl. naz. Marciana, sia all'Archivio privato della famigha Donà dalle Rose esistente nel palazzo di famiglia alle Fondamenta Nove di Venezia, sono state ampiamente utilizzate da F. Seneca, Il doge L. D., la sua vita e la sua preparazione politica prima del dogado, Padova 1959 e da J. C. Davis, Una famiglia veneziana e la conservazione della ricchezza. I Donà dal '500 al '900, Roma 1980; un'integrazione documentaria è fornita da G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano all'inizio del Seicento, Venezia-Roma 1958, passim. Cfr., in questo stesso volume del Diz. biografico degli Italiani, la voce Donà, Nicolò [di Giambattista], redatta da R. Zago, in cui sono indicate varie fonti riguardanti in particolare i rapporti tra il D. e la sua famiglia. Si aggiungono qui altre fonti documentarie di cui ci si è valsi per questa voce: Venezia, Archivio privato Donà dalle Rose, reg. L. D. 1574-1581, n. 1, e reg. L. D. 1593-1607, n. 5; Ibid., Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. P. D. C 2735/2: Inventario dei libri di L. D. e Fondo Morosini-Grimani n. 168 (= 154): Avvedimento d'un clarissimo senator veneto, scritto ad un suo fratello rettore ... ; Archivio di Stato di Venezia, Collegio. Secreta, Esposizione principi, filze 20 e 21; Provveditori Sanità, Necrologi, reg. 844, e Notarile, Testamenti n. 1250; Archivio segreto Vaticano, Dispacci del nunzio a Venezia alla segreteria di Stato, busta 42; Londra, Public Record Office, State papers 99, B. 10, ff. 113-119 e 130-132. Rimangono due biografie di contemporanei, una di A. Morosini, Leonardi Donati Venetiarum principis vita, Venetiis 1625 e una inedita in Bibl. naz. Marciana, Mss. it. VII, 1864 (8735), di anonimo (G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, p. 37 n. ha affacciato come probabile l'ipotesi, che è invece da scartare, che fosse opera di Fulgenzio Micanzio). Del D. sono a stampa: La corrispondenza da Madrid dell'ambasciatore Leonardo Donà (1570-1573), a cura di M. Brunetti-E. Vitale, Venezia-Roma 1963, mentre la relazione dell'ambasciata spagnola è edita in E. Alberi, Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, s. 1, VI, Firenze 1862, pp. 350 ss. e riedita a cura di L. Firpo, Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, VIII (Spagna 1497-1598), s. 2, Torino 1981, pp. 555 ss. (cfr. anche p. IX dell'introduzione). L. Firpo ha curato pure la riedizione della relazione di Costantinopoli (ibid.), XIII (Costantinopoli), s. 2, Torino 1984, pp. 309 ss. (l'edizione originaria in F. Seneca, Il doge..., pp. 263 ss.). Ampi brani di corrispondenza e di un diario del D. sono riportati da M. Brunetti, Da un carteggio di L. D., ambasciatore a Roma, col fratello Nicolò (1581-1583), in Miscell. di studi storici in onore di A. Luzio, I, Firenze 1933, pp. 121-146 e Id., Il diario di L. D. procuratore di S. Marco de citra (1591-1605), in Archivio veneto, s. 5, XXI (1937), pp. 101 ss. Oltre alle opere di F. Seneca, J. C. Davis e G. Cozzi, importanti notizie biografiche sul D. si trovano in E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, IV, Venezia 1834, pp. 412-433. Cfr. poi, oltre alle dediche al D. del De perfectione rerum, Venetiis 1576 di N. Contarini, di F. Patrizi, Della historia diece dialoghi..., Venetia 1560, e del cap. Qua ratione versandum sit in Aristotele del vol. De recta philosophandi ratione libri duo, Veronae 1577 di A. Valier (c. 54r); W. J. Bouwsma, Venice and the defence of the republican liberty, Berkeley-Los Angeles 1968, pp. 165 s., 233-273, 347-393, 4110 ss., 487-499, 507, 511, 557; Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, a cura di G. Benzoni-T. Zanato, Milano 1982, pp. XXIX, LIII, LV, LXXIX, 136-184, 246-254, 284, 286, 293, 304, 357, 369, 390, 646-649; M. Brunetti, Schermaglie veneto-pontificie prima dell'interdetto. L. D. avanti il dogado, in Paolo Sarpi e i suoi tempi. Studi storici, Città di Castello 1923, pp. 119 ss.; Id., Le istruzioni di un nunzio pontificio a Venezia al suo successore, in Scritti storici in onore di C. Manfroni nel XL del suo insegnamento, Padova 1925, pp. 369 ss.; L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, in Riv. stor. ital., LX (1948), pp. 373-376; G. Cozzi, Cultura, politica e religione nella "pubblica storiografia" veneziana del '500, in Boll. dell'Istit. di storia della società e dello Stato, V (1963), pp. 31, 39, 63; Id., Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, Torino 1979, pp. 22, 52, 58, 63 n., 64 n., 72n., 142, 157, 244 s., 252, 268; Id., Stato e Chiesa: vicende di un confronto secolare, in Venezia e la Roma dei papi, Milano 1987, pp. 13 s., 18-25, 30, 33, 39 s., 42; P. Sarpi, Opere, a cura di G. Cozzi-L. Cozzi, pp. 115, 160 n., 183 n., 469, 475, 480, 593, 623 n., 638 n.; P. Grendler, The Roman Inquisition and the Venetian press, 1540-1605, Princeton 1977, pp. 31, 46, 202-206, 220-224, 242 s., 268-270, 273, 278; Id., The "Tre savi sopra l'eresia" 1547-1605: a prosopographical study, in Studi veneziani, n. s., III (1979), pp. 288 s., 293, 295; C. Pin, Introduz. a P. Sarpi, Venezia, il patriarcato d'Aquileia e le "giurisdizioni nelle terre patriarcali del Friuli", 1420-1620, Udine 1985, pp. 12, 30, 35 s., 60, 87, 94, 104 ss., 110, 117, 171, 213, 270, 273, 276-285, 305, 310, 327, 340, 352, 354, 356; P. Preto, Peste e società a Venezia, 1576, Vicenza 1978, pp. 74, 79, 145 n.; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VII, Venezia 1925, pp. 36, 45, 93, 530; B. Pullan, The Jews of Europe and the Inquisition of Venice1550-1670, Oxford 1983, pp. 19, 27, 189, 193, 207 s.; L. P. Smith, The life and letters of sir Henry Wotton, Oxford 1907, passim; M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Torino 1985, pp. 8, 197, 216, 248 e n., 250, 252 ss., 258, 259 s. e n., 262-271, 280-290, 294, 297; G. Trebbi, Francesco Barbaro, patrizio veneto e patriarca di Aquileia, Udine 1984, pp. 15, 17, 20, 28, 62-65, 231 s., 348, 368, 389, 392, 395-399, 403, 405, 408 s., 416 s., 429, 432-436, 451.

CATEGORIE
TAG

San vito al tagliamento

Senato della repubblica

Repubblica di venezia

Castruccio castracani

Arcivescovo di milano