VAIRO, Leonardo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 97 (2020)

VAIRO, Leonardo

Vincenzo Lavenia

– Nacque tra il 1543 e il 1544 a Magliano Vetere, nel Cilento; non si conoscono i nomi dei genitori.

In tenera età fu istruito da Antonio Sanfelice, erudito francescano. Vestì l’abito di canonico regolare benedettino nell’abbazia di S. Maria delle Grotte presso Vitulano e più tardi si trasferì nel chiostro di S. Sofia a Benevento, dove cominciò a insegnare teologia e dove in seguito avrebbe ricoperto le cariche di priore e di vicario del giovane abate commendatario, il futuro cardinale Ascanio Colonna, di cui sarebbe stato precettore per volontà del padre di questi, Marcantonio.

A causa della risoluta volontà di introdurre un maggiore rigore disciplinare dentro le mura del cenobio, con l’emanazione di alcuni ordini, Vairo si attirò l’ostilità di un gruppo di confratelli che nel 1573 cercarono di avvelenarlo subendo perciò pesanti condanne dopo un lungo processo che coinvolse il teologo. Lo ricordano uno dei sette medici chiamati a curarlo, Orazio Albino – nella lettera gratulatoria che accompagna il suo consulto De veneno del 1579 stampato in appendice al De fascino dello stesso Vairo (Parisiis 1583, pp. 263-265, 266-275) –, e il gesuita Giovanni Camerota in una nota del 1590, sulla base di documenti oggi perduti di Vairo e del confratello Nicolás Bobadilla, che nel 1576 fu inviato a Benevento da Colonna per sostituirvi il priore (Bobadillae monumenta, 1913).

Accolto nel collegio dei teologi di Napoli già nel 1570 Vairo divenne pure consultore di Antoine Perrenot, cardinale di Granvelle e viceré di Napoli dal 1571 al 1575; un contemporaneo che lo conobbe di persona ricorda che svolse le funzioni di cappellano per Filippo II, alludendo così a un soggiorno in Spagna che potrebbe collocarsi negli anni Settanta del Cinquecento, prima di quello ben documentato che sarebbe avvenuto nel 1597 (Capaccio, 1604, Historia, pp. 82 s.). Del resto, il titolo di «cappellano e oratore» del re fu impiegato da Vairo in una lettera del 1593 a Filippo II in cui invocava la protezione del sovrano negli aspri conflitti che lo opposero all’arcivescovo di Napoli (Ambrasi - D’Ambrosio, 1990, p. 439).

Vairo ebbe anche modo di frequentare Roma grazie al legame con Ascanio Colonna, che lo avrebbe promosso arciprete vicario della basilica di S. Giovanni in Laterano introducendolo alla corte pontificia in qualità di predicatore. Infatti, la sua prima opera a stampa è una raccolta di sermoni, le Orationes quinque. Habitae in sacello Summorum Pontificum inter sacra solennia, coram Gregorio XIII (Romae, apud Iosephum de Angelis, 1579), che furono recitati alla presenza del papa in occasione di cinque ricorrenze del calendario liturgico: le feste di s. Giovanni, della circoncisione di Cristo, dell’Ascensione, della Pentecoste e di Ognissanti.

Dedicata ad Antonio Pérez, segretario di Filippo II, l’opera non manca di accenti antigiudaici (nella seconda predica) e rivela la curiosità di Vairo per la filosofia non aristotelica, che si coniugò con il suo interesse per la chimica e la botanica, al punto che il teologo vantò con gli amici una certa conoscenza delle virtù delle erbe e l’abilità nel preparare nuovi farmaci (Capaccio, 1604, Historia, p. 52, De balneis, p. 48).

Fu l’inclinazione per la medicina e la letteratura dei segreti, forse, a spingerlo, qualche anno dopo, a elaborare i tre libri De fascino, in quibus omnes fascini species et causae optima methodo describuntur, & ex philosophorum ac theologorum sententiis scite et eleganter explicantur; necnon contra praestigias, imposturas, illusionesque daemonum, cautiones et amuleta praescribuntur; ac denique nugae, quae de iisdem narrari solent, dilucide confutantur, apparsi nel 1583 a Parigi per i tipi di Nicolas Chesneau in latino e in francese (Trois livres des charmes) e più tardi per quelli di Aldo Manuzio a Venezia nel 1589. Questa seconda edizione latina circolò anche rilegata con il trattato De natura daemonum di Giovanni Lorenzo d’Anania, apparso per la prima volta nel 1581 nel momento in cui il dibattito sui poteri del diavolo si riaccese in tutta Europa con la stampa della Démonomanie des sorciers di Jean Bodin (1580).

Dedicato a Juan de Zúñiga y Requeséns, viceré di Napoli fino al 1582, il De fascino mira a confutare la credenza, diffusa tra i filosofi e i comuni fedeli e testimoniata dalle fonti classiche, secondo cui alcuni uomini e non poche donne sarebbero dotati del potere naturale di causare malefici a persone, animali e cose, per amore o per odio, attraverso gli occhi, le secrezioni, l’alito e il tatto, in virtù della forza immaginativa o di speciali caratteri fisici ereditati dalle madri all’atto di essere concepiti, specie se coniugati con particolari congiunture astrali (libro I). Per Vairo, il potere di fascinare coincide con il potere di maleficiare che gli uomini e le donne possono ottenere solo attraverso il patto con il diavolo. Gli antichi filosofi non hanno compreso l’origine occulta del fascino solo perché non conoscevano la Scrittura. Secondo il teologo – che polemizza con Avicenna, ma non troppo esplicitamente anche con le opere più recenti di Johann Wier e di Levinus Lemnius – né l’immaginazione né l’eccesso di bile nera possono spiegare le alterazioni dell’ordine naturale, i malefici o la capacità di divinare e profetizzare. Il demonio, al contrario, sa ingannare e illude i suoi seguaci di possedere un potere preternaturale; può marchiare la sua stirpe con un segno, quando gli sia consacrata dalle madri (libro II, cap. 7) e può trasportare rapidamente i corpi di luogo in luogo. Che ciò, dopo la venuta di Cristo, accada ancora realmente o sia frutto di prestigio diabolico – si legge – è materia di disputa tra i giuristi e i teologi, tra gli scettici come Giovanni Francesco Ponzinibio e i convinti assertori del volo notturno delle streghe come Paolo Grillando. Vairo pare schierarsi con i primi e con la tradizione risalente a un antico documento noto come il Canon Episcopi: si tratta – scrive – di illusioni favorite dall’uso di unguenti o di sostanze simili al tabacco proveniente dalle Indie, di cui parlano recenti autori come Nicolás Monardes (cap. 13). Il testo, allacciandosi agli scritti di Giovan Francesco Pico, confuta anche gli epigoni di Averroè – allusione a Pietro Pomponazzi – che fanno risalire i fenomeni straordinari all’influsso degli astri (cap. 14). Eppure, nonostante il libro III ribadisca la dottrina teologica del patto diabolico, insista con accenti misogini sui sortilegi sessuali, evochi la realtà mostruosa del coito tra gli esseri umani e i demoni, esalti i rimedi spirituali contro i malefici e chiarisca che i medici non possono curarli con le loro consuete terapie (un nodo ribadito qualche anno dopo nei testi di Andrea Cesalpino e Giovanni Battista Codronchi), Vairo sembra attirato dall’indagine sulla natura e sulle cause occulte delle alterazioni fisiche più che dalla demonologia, che del resto in Italia era destinata a non avere grande circolazione, se si eccettuano i manuali per gli esorcisti, a causa della crescente avversione dei cardinali del S. Uffizio per questo genere di letteratura. Altra cosa che colpisce nel De fascino è l’abbondanza di citazioni da autori come Democrito, Alessandro di Afrodisia, Epitteto, senza contare i versi di Lucrezio. Il trattato di Vairo avrebbe goduto di una certa fortuna grazie ai riferimenti che si ritrovano nelle opere demonologiche della prima età moderna (si pensi alle Disquisitiones magicae di Martín del Rio), nei dibattiti settecenteschi sulla stregoneria e l’immaginazione (si veda Ludovico Antonio Muratori) e nei testi che elaborarono o criticarono il mito della iettatura (come la Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura di Nicola Valletta, Napoli 1777).

Il 7 gennaio 1587, su proposta del cardinale Alfonso Gesualdo, poi arcivescovo di Napoli, Vairo fu nominato da Sisto V vescovo di Pozzuoli, chiesa di patronato regio, succedendo al defunto Giovanni Matteo Castaldo che per oltre vent’anni aveva trascurato il suo ufficio episcopale perché vecchio e malandato. La nomina, forse, fu favorita dall’opera di informazione che Vairo aveva svolto nel 1586 per la corte di Madrid, avvertendo in particolare Filippo II che un irlandese di nome Henry O’Neil e un capitano scozzese di nome Jack Frosel, rifugiatisi nel vicereame come presunti cattolici, svolgevano in realtà il servizio di spie per Francis Walsingham e la regina Elisabetta I detenendo libri proibiti (Carnicer - Marcos, 2005, pp. 138 s.). Una volta raggiunta Pozzuoli Vairo si impegnò subito nella riforma tridentina della piccola diocesi, attuando diverse visite pastorali, convocandovi i primi sinodi, colpendo i crimini del clero, ricostruendo il palazzo vescovile, restaurando la cattedrale e istituendo il seminario (finanziato da un prelievo sui benefici della diocesi che suscitò le resistenze dei canonici e del clero locale). Inoltre, difese i diritti e la giurisdizione della diocesi su alcune chiese campane, finendo in qualche caso per confliggere con la curia napoletana e i suoi arcivescovi. Annibale di Capua non esitò a chiamarlo in giudizio a Roma; il successore Gesualdo gli contestò di interferire nel governo di Procida, dove l’abate commendatario di S. Michele Iñigo d’Avalos già nel 1593, tra il 6 e il 14 marzo, aveva inviato Vairo per compiere una visita allo scopo di disciplinare l’isola. Come avrebbe scritto più tardi al nuovo abate commendatario, Roberto Bellarmino, Gesualdo ritenne Vairo una «persona assai ardita e fastidiosa» (lettera dell’11 gennaio 1602, riportata in Galeota, 1982, p. 232). In qualità di vescovo del vicereame, infine, Vairo operò come giudice delegato del S. Uffizio romano, allora retto dal prelato casertano Giulio Antonio Santorio, istruendo diversi processi, alcuni dei quali per sortilegio. In uno di questi, ai danni di una vecchia di nome Laura di Alessio, accusata di stregoneria e di patto con il diavolo, il cardinale di Santa Severina rilevò non pochi difetti procedurali, stigmatizzando la credulità del vescovo (25 ottobre 1596, Le lettere..., a cura di P. Scaramella, 2002, pp. 207 s.).

Alla fine del 1596 Vairo intraprese un viaggio a Madrid per implorare presso il sovrano il trasferimento dalla diocesi, che disse nuocergli alla salute (D’Ambrosio, 1974, p. 31). Tuttavia da quel soggiorno spagnolo, durato circa due anni (lo sostituì il vicario Marco Antonio Russo), non ottenne quanto sperava, forse per la scomparsa di Filippo II.

Morì a Pozzuoli il 4 gennaio 1603.

Fu sepolto nella cattedrale e l’anno dopo alla guida della diocesi gli sarebbe successo lo spagnolo Jerónimo Bernardo de Quiros. Nel 1633 il vescovo Martín de León y Cárdenas avrebbe ordinato di riesumare i resti di Vairo, che avrebbe fatto trasferire in un nuovo sacello marmoreo su cui fu apposta una lapide in memoria (1634).

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