LEONE Ebreo

Enciclopedia Italiana (1933)

LEONE Ebreo

Giuseppe Saitta

Jehudah Abrabanel, noto sotto il nome di Leone Ebreo, figlio d'Isacco dell'antica e gloriosa famiglia Abrabanel, nacque all'incirca l'anno 1465 e visse a Lisbona fino al 1483. Ma quando il padre suo fu sospettato di congiura contro il re del Portogallo, si rifugiò con tutta la sua famiglia a Toledo, dove rimase per otto anni. Avvenuta la cacciata degli Ebrei dalla Spagna, dopo aver mandato in Portogallo con la nutrice il figlio suo d'un anno, che fu poi battezzato per forza e pianto dal padre nella mirabile Elegia sopra il destino, emigrò a Napoli, e di lì passò a Genova, dove esercitò la sua professione di medico, e poi a Barletta e di nuovo a Napoli, dopo essere stato, sebbene per breve tempo, a Venezia. Da Napoli si recò a Roma e poi di nuovo a Venezia. Della sua morte non si sa nulla di preciso, ma non è improbabile che essa sia avvenuta alcuni anni prima del 1535.

Il nome di L. è legato ai suoi Dialoghi d'amore, i quali per testimonianza di Claudio Tolomei, contemporaneo di lui e amico di Mariano Lenzi che ne fece la prima edizione, furono scritti in "lingua sua" e "tradotti in toscano". In essi il principio dell'amore, trattato come principio cosmogonico, se da una parte si riallaccia alle teorie platoniche, aristoteliche e neoplatoniche, dall'altra rispecchia e svolge motivi fondamentali dello spirito dell'Umanesimo. E però il principio dell'amore assume tutto l'aspetto di una categoria che ha un significato non solo gnoseologico, ma anche logico e ontologico.

Come l'amore in atto rappresenta l'unità dell'amante e dell'amato, così l'intelligenza in atto è l'unità dell'intelligente e dell'intelletto, del soggetto e del suo contenuto. Questa unità che è radicalmente amore non è immediata, ma è mediata, perché la nostra anima è dapprima conoscenza latente e poi lucenza, l'una come possibilità e l'altra come attualità della nostra conoscenza, la quale si viene dispiegando come concentrazione dell'universo, cioè come l'unica realtà. Difatti l'uomo può pervenire, attraverso tutte le cose materiali, i desiderî, gli affetti umani sensibili, alla conoscenza più perfetta che è data dalla coscienza del divino, la quale si raggiunge mediante l'unione dell'anima intellettiva con Dio, dove è riposto l'amore intellettuale, che è il culmine della vita spirituale. Così è naturale che l'uomo si costituisca come compendio dell'universo (microcosmo), i cui tre modi sono il generabile, il celeste e l'intellettuale. Per ciò, come avevano dimostrato i nostri umanisti, l'uomo è il vero dio in terra. Questa immanenza del divino nell'uomo induce L. a riguardare l'universo come effetto dell'amore divino, e la creazione del mondo diventa così il prodotto dell'amore di Dio che è bontà e bellezza. E poiché i gradi della realtà coincidono, secondo L., con i gradi della conoscenza, si vede rispuntare il concetto della realtà come circolarità, cioè come espressione dell'infinito. D'altra parte, se c'è una gerarchia che si risolve in una subalternazione degli esseri, per la quale un essere ha per oggetto un altro, tutti gli esseri sono legati, benché in grado diverso, da un medesimo slancio che è l'amore. Onde l'universo, che è un descensus e un ascensus continui, è la stessa vita di Dio. Così il moto circolare, che è lo stesso moto dell'universo, è senza principio, e ogni sua parte è principio e fine. Pure, in questa concezione cosmogonica dell'amore, L. non perde mai di vista il concetto, che non è l'universo che nella sua materialità ritorna a Dio, bensì è l'universo che si realizza nella nostra coscienza mediante l'intelletto, il quale è il produttore di tutti i beni spirituali, che sono i veri beni, e dell'unione col Sommo Bene, fonte di ogni bellezza, intelligenza ed essere. Pertanto quanto più progrediamo nella via della virtù tanto più diventiamo divini. La più divinità, senza sopprimere ciò che in noi vi ha di umano, è l'ideale ultimo al quale mira L. con la sua teoria dell'amore. Ma questa più divinità, che l'uomo deve continuamente perseguire, è conoscenza sempre più piena, e se conoscere è amare e amare è volere, il processo della spiritualità s'identifica con quello stesso del volere per guisa che l'uomo diventa l'unico e grande artefice del suo bene, che è l'infinito bene.

Ediz.: La 1ª ed. dei Dialoghi è del 1535, stampata a Roma per Antonio Blado d'Assola a cura di M. Lenzi, con questo titolo: Dialoghi d'Amore dî maestro Leone medico ebreo, ed ebbe varie ristampe. Un'edizione eccellente è stata curata da S. Caramella (Bari 1929). Il trattato De coeli armonia, scritto a istanza di Pico della Mirandola, è perduto. Si conservano invece cinque componimenti poetici in lingua ebraica e in distici.

Bibl.: S. Munk, Mélanges de philos. juive et arabe, Parigi 1857; B. Zimmels, Leo hebraeus, Lipsia 1886; E. Solmi, Benedetto Spinoza e L. E., Modena 1903; J. De Carvalho, Leâo Hebreu, filosofo, Coimbra 1918; C. Gebhardt, Spinoza und der Platonismus, Chronicon Spinozanum, I, 1921; id., L. E., 1922; G. Saitta, La filosofia di L. E., in Filos. ital. e umanesimo, Venezia 1928; H. Pflaum, Die Idee der Liebe, L. E., Tubinga 1926; J. Klausner, Don Jehudah Abravanel e la sua filosofia dell'amore, in La Rass. mensile di Israel, 1932, nn. 11-12; J. Sonne, Quale fu la lingua originale dei Dialoghi d'amore di J. A., in Miscellanea in onore di J. Simboni, Berlino 1929, pp. 142-148. Per una più ampia bibliografia vedi il Gebhardt, L. E. (Bibl. Spinoz.), III, Heidelberg 1929, e le monografie citate.