TRIESTE, Leopoldo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 96 (2019)

TRIESTE, Leopoldo

Paolo Puppa

– Nacque a Reggio Calabria, il 3 maggio 1917, da Giuseppe e da Santa Barresi, originaria di Scilla, sopravvissuta miracolosamente al terremoto del 1908.

Soprannominato Libero in famiglia, ebbe due sorelle: Iole, sua gemella, e Vera, maggiore d’età.

A dieci anni perse il padre, ferroviere, socialista in pieno fascismo, di origine mitteleuropea, morto di polmonite. Il lutto precipitò la famiglia in piena indigenza economica. Dal padre Leopoldo ereditò la passione per le librerie antiquarie e le biblioteche, e un’idea di fratellanza nutrita verso gli scrittori amati, ecletticamente allargata alle discipline scientifiche, dall’astrofisica alla geologia. Fu lo zio paterno, Turi, ufficiale della Marina mercantile che viveva a Trieste, e in grado di leggere l’Ulisse di James Joyce in originale (sconosciuto all’epoca in Italia), ad aiutarlo moralmente ed economicamente nella sua vocazione di drammaturgo precoce, quand’era ancora studente al liceo Campanella. A tale scopo, spinse la cognata a spostarsi a Roma nel 1935 per consentire al nipote di seguire il palcoscenico più qualificato in quegli anni, e iscriversi all’università.

In tal modo Trieste venne a frequentare la numerosa comunità di intellettuali meridionali operanti nella capitale, tra cui Salvatore Quasimodo, già conosciuto da adolescente a Reggio Calabria quando partecipava alle serate musicali a casa di Trieste, dove la sorella Vera suonava il piano, oltre a leggere con simpatia i suoi temi ginnasiali.

Leopoldo amò molto il calcio e le donne, da buon meridionale, senza mai sposarsi, al punto da meritarsi il titolo di Casanova calabrese: leggenda vuole che si trovò a fare il provino felliniano per lo Sceicco bianco sulle tracce di una ballerina.

Conseguì la laurea a Roma nel 1939 con Natalino Sapegno, secondo relatore Mario Praz, discutendo una tesi su Luigi Tansillo, poeta cinquecentesco, che gli valse il premio Corsi e l’iscrizione agli studi di perfezionamento. L’etnologo Raffaele Pettazzoni gli fece assegnare una borsa di studio per Boston, ma lo scoppio della guerra vanificò questa opportunità.

Sempre nel 1939 si iscrisse al corso di regia nel Centro sperimentale di cinematografia, inseguendo la giovane attrice Adriana Benetti di cui s’era invaghito, e che lo introdusse nella scuola. Chiamato alle armi, passò dalla fanteria in quel di Fossano in Piemonte, destinata al Montenegro, al genio cinematografico in Sicilia, filmando i bombardamenti delle chiese, a uso della propaganda dell’Asse. Nel 1944, divenuto sergente, disertò e rientrò a Roma viaggiando su treni colpiti dagli aerei anglo-americani, in un clima da tregenda, con un cognome che poteva identificarlo come ebreo.

Federico Fellini lo incontrò quand’era ancora era dissociato tra inclinazioni diverse, restio a farsi risucchiare da una sola direzione. Innanzitutto, la carriera di ricercatore accademico, incerto tra studi letterari e antropologici, quella di commediografo tra i più considerati nella nuova generazione all’indomani della seconda guerra mondiale, infine quella di regista cinematografico.

Come autore di copioni, già a diciotto anni aveva scritto almeno sette commedie, tutte nella misura dei tre atti, ma il primo testo rappresentato fu solo nel 1945 al Quirino di Roma: La frontiera, per la regia di Mario Landi e scene di Domenico Purificato. Il dramma, edito sul mensile Teatro (n. 10, 1946), si avvalse di una breve nota di Luigi Squarzina che ne sottolineò l’animalità vitale e la curiosità sul mondo, al di là della vita morale confinata in pochi personaggi. La trama, ambientata in un’osteria, durante una violenta tempesta, vedeva un vecchio, chiamato straniero, ossessionato nella ricerca dello stupratore della figlia, mentre intorno la gente frugava per la fame tra le macerie, e le case crollavano. Intanto un reduce tornava colmo di disamore, disposto a convivere con una prostituta incinta e collusa con i nemici, provocando il suicidio della fidanzata trascurata. Il plot era immerso in un esasperato clima espressionista, sino all’abbraccio finale, nonostante impulsi collettivi al linciaggio, in quanto tutti avrebbero avuto le mani macchiate di sangue versato.

Seguì un’intensa drammaturgia, apprezzata sia dalla critica sia dal pubblico, del tutto legata alla storia incombente. Tant’è vero che nel 1946 Trieste scrisse: «Quest’epoca feroce ci dà in pasto le sue viscere calde, e non è ammessa anemia» (Cronaca e tragedia, p. 2), e si parlò di bombe lanciate in platea come alle prime pirandelliane. Nelle sue opere tutto veniva scandito da dialoghi secchi, contrapposizioni violente e fini contrappunti tra caratteri ben sbalzati. In particolare, Cronaca, il primo copione italiano a parlare di Olocausto, varato a Milano nel 1946, nel 1952 (dopo aver sfiorato Broadway) trasformato in film, Febbre di vivere, regia di Claudio Gora, con Marcello Mastroianni protagonista, di nuovo in circolazione sulle scene tedesche nel 1995. Qui, Daniele ebreo scampato alla Shoah torna dal suo amico d’infanzia, il fascinoso e corrotto Massimo, che ha fatto i soldi denunciandolo alle SS, anche per invidia delle sue ricchezze, e adesso traffica in film porno. Vorrebbe capirne le ragioni più intime ed è anche attratto dal suo fascino, così come la sorellastra Lucia. Intorno, tumultuanti piazze romane monarchiche e antimonarchiche. Espliciti i rimandi a Ugo Betti, maestro di diritto processuale, al sartriano Huis clos e al Kammerspiel tedesco. N.N., dato a Roma nel 1947 con la regia di Gerardo Guerrieri, e la giovanissima Anna Proclemer, presentò la dissoluzione dei valori legata alla catastrofe bellica. Sem Benelli in camerino gli gridò che la fiaccola del teatro era ormai passata nelle sue mani. Capriccio in la minore, radiotrasmesso nel 1948, revisionato quasi mezzo secolo dopo, fu insignito nel 1990 con il premio Flaiano. Qui, due coppie incrociate di giovanetti, tra cui il geniale musicista enfant prodige, poi scomparso in un dirupo, intessono fra di loro un ambiguo e spregiudicato gioco di attrazioni erotiche e di voglia di amicizia, e in mezzo aborti letterali e metaforici circa la carriera di musicista. Un lungo flashback adolescenziale ritmato da cadenze liriche incastrato tra prologo ed epilogo collocati in un realistico commissariato. Più che di un noir banale, si trattò però di un apologo sull’artista in tempo di guerra, la dinamica dei rapporti condensata emblematicamente nello spartito stesso.

Nel mondo dei film Trieste entrò all’inizio come soggettista e sceneggiatore in una trentina di titoli, collaborando tra gli altri con Suso Cecchi d’Amico, Mario Monicelli e Cesare Zavattini, e lavorando con registi vari, da Pietro Germi (Gioventù perduta, 1948) a Claudio Gora (Il cielo è rosso, dal romanzo di Giuseppe Berto, 1950). Girò firmandoli come autore due film di esito controverso e scarsi incassi, ma valorizzati in un secondo tempo, anche in versione fotoromanzo, sia italiana sia francese: Città di notte, fatto circolare nel 1957-58, quando ottenne uno dei cinque premi di qualità della cinematografia italiana, nato come dramma radiofonico in cui rovesciò le sue personali osservazioni maturate negli insonni giri notturni, un neorealismo in chiave onirica, e L’assegno, tra il 1959 e il 1961, vicenda di una minorenne sedotta con tentativi di comprarne il silenzio, film privato degli aiuti ministeriali perché considerato apolide, essendo la protagonista corsa. In entrambi si ritagliò due particine ironicamente autobiografiche, nel primo alludendo al suo passato di commediografo, mentre nel secondo teneva squinternate conferenze da teosofo in una località turistica e in una boutique alla moda leggeva versi di William Wordsworth.

Fu Fellini, che lo esaltava nei suoi affettuosi disegni caricaturali chiamandolo Poldino, a scorgerne il lato lunare e gogoliano. Gli occhi sporgenti, biglie rotanti messe in moto da una voce cantilenante e lamentosa che ne facevano una risposta arruffata e parlata allo Harpo Marx americano, gli conferivano un’aura da maschera antica. Il regista lo scritturò per il ruolo dello sposino Ivan Cavalli, pusillanime e melenso all’inseguimento della consorte persa dietro i fantasmi fumettistici nello Sceicco bianco del 1952, sfruttandone in modo sorprendente cupezza, timidezza e goffaggine della persona. L’anno seguente, nonostante il flop di mercato, lo richiamò per I vitelloni, nel ruolo di un patetico aspirante commediografo, Leopoldo, circuito dal vecchio guitto di provincia. Ebbe inizio, così, una carriera di oltre cento film (singolare il suo caparbio rifiuto a recitare sul palcoscenico, dal vivo, lui che aveva iniziato come commediografo), con una varietà sterminata di tipologie umane, sempre sul punto di lasciarla in quanto non si considerava professionista, ma solo provvisorio. E nondimeno sfoggiò una serie di toccanti interpretazioni e di cammei geniali, tra untuosi pretini e mafiosi squinternati, sordidi maggiordomi e scienziati matti, giudici canaglieschi e candidi anarchici, spesso con contributi personali nella improvvisazione e nella fissazione della battuta. Anche nelle parti più eticamente negative sapeva trovare risvolti che ne abbassavano la sgradevolezza.

Si fece notare soprattutto nell’eroe pauroso in Un giorno da leoni di Nanni Loy del 1961, nel fragile Carmelo Patané irretito entro la diabolica macchinazione dell’adultero Mastroianni nel coevo Divorzio all’italiana di Germi, nel sudicio barone Rizieri, ridotto in miseria, un dente annerito a simularne l’assenza e risolini autistici, in Sedotta e abbandonata, sempre di Germi, del 1964 (Nastro d’argento l’anno dopo), nel maritino malaticcio e geloso visitato da un Alberto Sordi più intento a scrutare le forme esuberanti della di lui consorte che auscultarne la schiena in Il medico della mutua di Luigi Zampa del 1968, nell’usuraio Roberto, borioso e poi all’improvviso in disarmo davanti alla ben diversa durezza di Don Vito, in Godfather part two di Francis Ford Coppola del 1974, nel medico Belcredi nell’Enrico IV di Marco Bellocchio del 1984 (altro Nastro d’argento), nel filosofo greco Chilone assunto con disinvoltura e autenticità nella produzione televisiva di Franco Rossi, Quo vadis? del 1985. Lavorò inoltre con registi internazionali, recitando in più lingue, da Charles Vidor (in Addio alle armi del 1957) a Jean-Jacques Annaud e a René Clément.

Negli ultimi anni non disdegnò la televisione, dove però aveva già lavorato da sceneggiatore, ad esempio nel 1956 per Cime tempestose di Mario Landi, in cui aveva sfoderato la consueta perizia nel montaggio delle scene e nella tessitura dialogica, o come semplice attore in diverse fiction dal 1965 al 2000. Per il grande schermo, in fondo alla carriera, privilegiò registi giovani, da Giuseppe Tornatore (Nuovo Cinema paradiso, del 1988, in cui rifulse nel prete armato di campanella per oscurare i baci nelle pellicole da visionare prima di concedere il visto per il pubblico, e L’uomo delle stelle del 1996, che gli valse il Nastro d’argento e il David di Donatello come miglior attore non protagonista) ad Alessandro Di Robilant (Il giudice ragazzino, del 1994, dove interpretava il padre dimesso e accorato di Rosario Livatino, il giovane magistrato ucciso dalla mafia) e a Roberto Andò (Il manoscritto del principe del 2000, in cui era il poeta esoterico Lucio Piccolo). Nel frattempo, progettava la revisione dei suoi copioni teatrali giovanili a ritentarne il contatto con la ribalta.

Morì nel sonno, a 85 anni, per arresto cardiaco, presso il policlinico Umberto I di Roma, il 25 gennaio 2003.

La famiglia ne rese noto il decesso il 27 gennaio. Nel 2004 venne istituito il premio nazionale Leopoldo Trieste Non protagonisti, a Caulonia, in provincia di Reggio Calabria, poi sospeso. Nel 2017, nel centenario della nascita, gli fu intitolata una piazza nella sua città nativa.

Opere. Importante l’intervento sulla propria scrittura teatrale, a proposito di Cronaca, nel suo articolo Cronaca e tragedia, in Quarta parete, 10 gennaio 1946, pp. 1 s.; Capriccio in la minore (seguito da articoli vari), in Hystrio, 1990, n. 4 (ottobre-dicembre), pp. 92-109; V. Bonaventura - L. Trieste, Il teatro nel cassetto, Catania 1991. Si veda inoltre: L. T., a cura di C. Zinnato, vol. 2, con una prima selezione di scritti teatrali e cinematografici (comprende: La frontiera; Cronaca; Capriccio in la minore; Trio a solo; Un blocco di ghisa; Città di notte; Racconto d’amore; Quello della notte), Catanzaro 1999.

Fonti e Bibl.: M. Bontempelli, Di una vecchia parola: ‘il teatrale’, in Il Dramma, XXIII (1947), 31-32, p. 57; L. T.: un intruso a Cinecittà (con scritti di M. Bontempelli, F. Fellini, T. Kezich, G. Saltini e disegni di Fellini, e tra altri materiali anche il dramma Cronaca), Torino 1985; C. Zinnato, L. T. Inseguendo sirene: tratti biografici, I, Catanzaro 1999; G. Angelucci, Introduzione a L. T., in Profili di scena, Roma-Bari 2003, pp. 435-447; M.P. Fusco, Addio a L. T. volto bizzarro e felliniano, in la Repubblica, 28 gennaio 2003; G. Pizzonia, Il mito di L. T., Reggio Calabria 2013.

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