Letteratura e tradizione classica

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Letteratura e tradizione classica

Massimo Fusillo

Il dialogo che le letterature moderne hanno da sempre istituito con i modelli della tradizione classica assume nel Novecento una pregnanza del tutto particolare, data la distanza fra i due sistemi culturali e dato il definitivo esaurirsi di ogni classicismo e di ogni mitologia romantica. A ciò si aggiunge l'interferenza con altri codici provenienti dalle scienze che in questo secolo hanno improntato l'interpretazione dell'antico, soprattutto la psicoanalisi e l'antropologia. I miti classici si avvicinano sempre più a quelle che H. Blumenberg (1960) chiama "metafore assolute": metafore che condensano nuclei fondamentali dell'esperienza umana, sempre più sganciate dai testi che le hanno prodotte. Tutto ciò risulta particolarmente accentuato nella seconda metà del Novecento, dopo un'ampia fioritura di riscritture dell'antico, che nella prima metà del secolo coinvolge tutti i generi letterari, spaziando dal registro grottesco (J. Cocteau, A. Savinio) a quello tragico (H. von Hofmannsthal, E. O'Neill), dall'impegno ideologico (J.-P. Sartre) al rifacimento psicologizzante (J. Anouilh). Questa ricca rielaborazione modernistica dell'antico contribuisce a potenziare, negli scrittori che hanno affrontato il tema negli ultimi cinquant'anni, il senso di esaurimento della tradizione letteraria - dei suoi temi, delle sue forme - e quindi il senso di essere "postumi" rispetto a essa (Ferroni 1996). Tematizzare questa fine (del mondo moderno) e questa distanza (dalla tradizione classica) sarà non a caso una delle sfide principali della letteratura contemporanea.

Forse proprio a causa di questa sfida le riscritture dell'antico che si sono avvicendate negli ultimi decenni sono di vario tipo e innumerevoli (in parallelo alla grande diffusione di messe in scena e di trasposizioni in altri generi come il cinema e l'opera): ci dovremo perciò limitare solo a suggerire alcuni modelli dominanti e alcuni episodi esemplari. Iniziamo proprio dall'ambito da cui meno ci si potrebbe aspettare la ripresa della tradizione classica, l'avanguardia, analizzando quindi una prima forma di riscrittura sperimentale. Sviluppatosi negli anni Cinquanta e Sessanta, il nouveau roman francese ha propugnato un azzeramento dello psicologismo imperante nel romanzo tradizionale, in favore di una concentrazione assoluta sull'oggettualità del reale e sui suoi aspetti puramente visibili (da cui la denominazione école du regard), ottenuta grazie alla cosiddetta focalizzazione esterna, con cui il narratore finge di spiare l'azione senza coglierne bene il senso, e grazie a un'espansione abnorme della tessitura descrittiva.

Il capofila di questo movimento, A. Robbe-Grillet, ha individuato, come suo obiettivo polemico primario, l'antropocentrismo della civiltà greco-cristiana, esemplato dall'enigma che la Sfinge propone a Edipo, e che nel rifacimento di A. Gide - il dramma Œdipe del 1931 - era diventato il simbolo di un'autoaffermazione narcisistica totale. Ciononostante (o forse proprio per questo) il mito di Edipo è il tracciato latente su cui è costruito il primo romanzo di Robbe-Grillet, Les gommes (1953), storia di un investigatore, Wallas, che indaga sull'omicidio (in realtà mai avvenuto) di un economista, Dupont, omicidio che alla fine compirà involontariamente lui stesso e che si rivelerà parricidio (l'altra grande trasgressione edipica, l'incesto, si limita al desiderio per una cartolaia che si scoprirà sua matrigna). A parte l'identificazione fra inquisitore e colpevole, tipica di molta narrativa gialla, il testo è disseminato di richiami allusivi a Edipo: l'indovinello della Sfinge proposto da un ubriaco, i piedi gonfi di Wallas alla fine della giornata, la rue de Corinthe, le rovine di Tebe spesso evocate come scenario alternativo, un ricamo che raffigura un neonato allattato da una pecora, monumenti e statuette con iconografie del mito, il nome Œdipe che sembra potersi decifrare in una lettera decisiva per il plot e in una gomma, oggetto al centro del romanzo cui dà titolo (Morrisette 1953, p. 294). Questa rete intertestuale, fatta di deboli e degradate tracce mnestiche, sottolinea la distanza dal mito di questa narrativa oggettuale, anche se non manca un tratto comune fra Les gommes e la tragedia sofoclea: la discrasia fra un progetto umano di lettura razionale degli eventi e un principio di realtà imperscrutabile, estraneo a ogni forma di ragione (Paduano 1994, p. 199). Una discrasia che però qui non comporta più nessuna identificazione emotiva con i protagonisti, insondabili e inafferrabili come l'oggetto elusivo che Wallas cerca ossessivamente: la gomma che si consuma lentamente con l'uso.

Se l'avanguardia degli anni Cinquanta e Sessanta mirava a fondare un romanzo del tutto nuovo, privo di introspezione psicologica e basato sulla registrazione visiva del reale (mentre la stessa ansia di novità coinvolgeva anche la poesia e altri generi letterari), la sperimentazione dei decenni successivi scaturisce invece dalla rinuncia a ogni soluzione 'rivoluzionaria' e dal reimpiego esplicito di materiali del passato. Il fenomeno eterogeneo che si suole chiamare postmoderno - allo stesso tempo tendenza filosofica e movimento artistico e letterario - ha fra i suoi nuclei tematici caratterizzanti la frammentazione onnivora del linguaggio e lo scardinamento di ogni idea di linearità e di storicità (Ceserani 1997): non a caso la citazione è la sua tecnica favorita, in quanto procedimento metaletterario in cui si concretizza l'atteggiamento ludico e decostruttivo con cui lo scrittore postmoderno affronta il senso della fine di un'epoca. Priva ormai di ogni prospettiva diacronica (anche nel senso negativo di frattura, come per Robbe-Grillet), la tradizione letteraria diventa dunque un immenso repertorio da smontare e rimontare ostentando il proprio gesto autoreferenziale: la propria provocatoria tautologia.

Anche in questo caso il mito antico compare in una delle prime opere narrative postmoderne, Lost in the funhouse (1968), di J. Barth, scrittore statunitense pienamente inserito nella ricerca accademica sulla letteratura e sulla critica letteraria, come accade a molti altri autori postmoderni. Si tratta di una collana di episodi autonomi, tutti incentrati sui labirinti della comunicazione. Due di essi sono dedicati a miti dal forte risvolto metaletterario: Narciso, che sulla scia della poesia barocca e soprattutto poi di quella simbolista viene letto come mito sul virtuosismo del linguaggio che deve comunicare il paradosso di un amore intransitivo; ed Elena, nella variante rara del fantasma forgiato dagli dei, che si reca a Troia ingannando anche il desiderio di Paride, mentre la vera Elena resta in Egitto, fedele e monogama, ad attendere il suo sposo. Una variante che risale a Euripide (e ancor prima a Stesicoro) e che è stata letta spesso in chiave filosofica (da Platone a E. Bloch) come riflessione sul rapporto tra immagine e realtà; variante che costituisce il primo esempio di ripresa di un tema - il doppio - diffusissimo in tutta la letteratura occidentale, soprattutto ancora in età barocca e poi nel fantastico ottocentesco. Il tema è stato ripreso più volte dalla letteratura postmoderna (Slethaug 1993) sia per il suo carattere densamente intertestuale, sia per il suo valore riflessivo; la scrittura implica infatti sempre uno sdoppiamento: la creazione da parte dell'autore di un suo secondo io, così come simmetricamente il lettore deve a sua volta sdoppiarsi per entrare pienamente nel mondo altro della finzione.

Diversa è una forma di riscrittura dell'antico che si svolge in parallelo (e spesso in antitesi) a questa avanguardistica e sperimentale, e che si può definire in senso lato antropologica: proprio per la sua mistione di identità e di alterità, la tradizione classica viene rielaborata e rivissuta come contraltare per ripensare i nodi problematici della propria civiltà, spesso quindi con un dichiarato impegno ideologico. In Italia P.P. Pasolini ha percorso con forza questa via: prima come traduttore dell'Orestea, riletta in termini di scontro e sintesi fra civiltà arcaica magico-sacrale e civiltà moderna razionalista e pragmatica (una rilettura che tornerà nell'Orestea di Gibellina - Agamènnuni, I Cuèfuri, Villa Eumènidi, 1983-85 - di E. Isgrò), e poi come regista cinematografico. Il passaggio a quest'altro mezzo artistico rappresenta uno dei casi più significativi nella storia dei rapporti fra letteratura e cinema: pur provenendo da un poeta privo di esperienza diretta della tecnica cinematografica, i suoi film sono assolutamente non letterari, improntati anzi sempre più a una poetica antiverbale, a una vera e propria sfiducia nel lógos, controbilanciata da un recupero di tutte le forme di comunicazione non verbale (gesto, danza, musica, rito) e da una spiccata figuratività.

L'immagine dell'antico che scaturisce dalle riscritture pasoliniane del mito (Il Vangelo secondo Matteo, 1964; Edipo re, 1967; Medea, 1970; Appunti per un'Orestiade africana, 1970) è assolutamente anticlassica e barbarica, secondo una poetica sviluppata negli stessi anni da E. Morante, la quale ha composto nella stessa chiave una rielaborazione dell'Edipo a Colono (La serata a Colono, in Il mondo salvato dai ragazzini, 1968: cfr. D'Angeli 1991). La Grecia diventa così metafora della civiltà contadina, che non viene comunque esaltata come un Eden perduto, ma raffigurata come una forma di vita millenaria, spazzata via in un solo decennio dalla modernizzazione selvaggia del neocapitalismo, laddove uno sviluppo più equilibrato avrebbe dovuto tendere a una sua assimilazione armonica, non a una rimozione (Fusillo 1996). Al contrario del cinema, il teatro di Pasolini ha un carattere apertamente ideologico e didascalico, quindi tutto basato sulla parola e su una messa in scena scarnificata fino alla negazione. Un teatro modellato sulla struttura della tragedia greca, e che ne riprende spesso svariate tematiche, sempre calandole direttamente nel contesto contemporaneo: basta pensare ad Affabulazione (1969, in Teatro, 1989), riscrittura del mito di Edipo dalla parte del padre, e quindi del complesso di Laio, dove l'ambiente è quello della ricca borghesia industriale del Nord; o a Pilade (1967, in Teatro, 1989), immaginaria continuazione dell'Orestea nell'Italia contemporanea che ruota attorno alla ricerca fallimentare da parte del protagonista (figura apertamente autobiografica) di una terza via fra la modernizzazione americana del democratico Oreste, e l'attaccamento reazionario al passato di Elettra. Negli ultimi anni della sua vita Pasolini affronta di nuovo il romanzo, in una forma aperta e destrutturata che deve molto al Satyricon di Petronio (molto amato anche dalla neoavanguardia, se si pensa alla traduzione-rielaborazione di E. Sanguineti e all'opera di B. Maderna). Dai frammenti incompiuti di Petrolio pubblicati qualche anno fa (1992) si evince un uso marcatamente politico della poesia antica: Pasolini intendeva inserire una rielaborazione delle Argonautiche di Apollonio Rodio, scritte in greco antico e incentrate sul viaggio in Oriente come rimando all'aggressione colonialistica dell'Occidente nei confronti del Terzo Mondo.

In questo stesso modello di riscrittura della tradizione classica si possono far rientrare anche alcune esperienze significative di elaborazione del mito che si sono sviluppate nella ex Repubblica Democratica Tedesca. Il teatro di H. Müller - allievo ed erede autentico di B. Brecht - ha sempre praticato un ripensamento critico e uno smontaggio straniante della tradizione non solo teatrale, dalla tragedia greca a Shakespeare fino a Les liaisons dangereuses di P.-A.-F. Choderlos de Laclos e a H. von Kleist. Nel Philoktet (1966) la scelta di un testo di Sofocle meno canonico (già affrontato in una chiave metaletteraria da Gide alla fine del 19° secolo) è orientata a smascherare l'ideologia della violenza bellica, prodotto della razionalità greca impersonata da Odisseo; nel finale amaro e pessimistico il personaggio nobile di Neottolemo, che in Sofocle rappresenta l'eccellenza della phýsis, si trasforma in omicida sanguinario, dimostrando di aver assimilato perfettamente l'abile pragmatismo odissiaco (Kraus 1986). Sul finire degli anni Settanta la drammaturgia di Müller si evolve sempre più nella direzione di una critica radicale nei confronti dei meccanismi della rappresentazione tradizionale, sulla falsariga di A. Artaud e del post-strutturalismo francese (Keim 1997). La trilogia Verkommenes Ufer Medeamaterial Landschaft mit Argonauten (1983) è caratterizzata da una forma aperta e frammentaria, in cui citazioni e autocitazioni si sovrappongono liberamente; l'io dei personaggi appare come destrutturato, con la conseguente eliminazione di ogni conflittualità intersoggettiva: non a caso è stata definita una forma postdrammatica (Lehmann 1987). Nel primo testo non appare nessuna istanza di enunciazione, con una confusione fra didascalia e frammenti discorsivi; il secondo è invece dominato dal monologare ossessivo di Medea, inframmezzato da brevi inserti dialogici, mentre il terzo è costituito dal monologo di un io collettivo degli Argonauti. Medea è vista da Müller come figura di un paesaggio naturale, oggetto di aggressione colonialistica da parte della civiltà patriarcale e pragmatica impersonata da Giasone: con un aperto richiamo alla Medea espressionistica di H.H. Jahn (1924), la sua barbarie è esaltata in quanto forza distruttrice e a un tempo rigeneratrice dell'ordine violato (Preusser 1997).

La tendenza monologica che caratterizza il teatro di Müller (e gran parte di quello contemporaneo) si ritrova in un'altra scrittrice della ex Repubblica Democratica Tedesca, Ch. Wolf, dedita comunque al genere narrativo e non a quello drammatico - come anche F. Fühmann, autore del racconto König Ödipus (1966). Il racconto Kassandra (1983) della Wolf è un lungo monologo della profetessa troiana figlia di Ecuba e di Priamo, immaginata poco prima che muoia prigioniera a Micene per mano di Clitennestra: un monologo retrospettivo, che ripercorre, con una narrazione frammentaria e affidata all'associazione mnemonica, i dieci anni della guerra di Troia, l'infanzia, la vita nelle comunità femminili, l'amore per l'amazzone Mirina e per Enea.

La figura della veggente viene scelta per la sua diversità e per la sua estraneità alle costrizioni sociali: sulle orme della psicoanalisi lacaniana, Ch. Wolf cerca un linguaggio altro rispetto a quello del potere maschile e della razionalità greca; l'ambientazione troiana rimanda al passaggio dal matriarcato al patriarcato, e alle culture minoiche e asiatiche. Nelle Voraussetzungen einer Erzählung: Kassandra (1983) - nello stesso tempo un diario di viaggio in Grecia, una storia della genesi del testo e un'enunciazione di poetica - l'autrice chiarisce però che se da un lato ha scelto deliberatamente di dare voce a una donna in quanto oggetto di potere, dall'altro prova un certo imbarazzo di fronte alle teorie della scrittura femminile, soprattutto per il loro settarismo e per il loro inevitabile irrazionalismo; la sua posizione va invece alla ricerca di un terzo polo, che non rinneghi totalmente la razionalità classica e che si avvicini piuttosto a una sorta di androginia, incarnata nel testo dal rapporto di Cassandra con il suo gemello e alter ego Eleno, anch'egli profeta di Apollo, e con altre figure maschili positive come Esaco ed Enea (Roebling 1985). L'elemento regressivo e utopico si stempera così e si relativizza grazie alla pluralità delle voci con cui il monologare angosciato di Cassandra si identifica (Mauser 1985).

Ancor più strutturalmente polifonica risulta Medea (1996), romanzo costituito da undici monologhi di sei personaggi e in cui ritornano i temi di Kassandra in una forma più cupa e più radicale. Ch. Wolf opera un ribaltamento totale della tradizione millenaria intorno a questo mito, particolarmente amato dalla letteratura del Novecento per le sue implicazioni 'postcoloniali': Medea non è una maga assassina, non ha ucciso né il fratello Absirto, né la rivale Glauce, né soprattutto i suoi figli, non è rosa dalla gelosia, in quanto ama riamata lo scultore cretese Oistros. Recuperando da fonti antiche (la Varia storia di Eliano) la versione preeuripidea per cui i figli sarebbero stati uccisi dalla folla di Corinto (una variante in parte riecheggiata ne La lunga notte di Medea, 1949, di C. Alvaro), si smaschera dunque il mitema dell'infanticidio come tipica proiezione dell'aggressività verso un capro espiatorio femminile, corrispondente all'immagine convenzionale della virago. La Medea wolfiana è invece una donna legata al sapere del corpo e della natura, che con il suo sguardo straniante di barbara riesce a smontare i meccanismi oppressivi del potere. Nonostante un certo radicalismo programmatico, anche questa seconda rilettura del mito non vuole esaltare tout court la differenza, né propugnare un ritorno al matriarcato, ma solo suggerire una compresenza armonica fra i diversi sguardi prodotti dai generi sessuali.

La forma del monologo autonomo si trova anche nelle rivisitazioni del mito a opera di uno dei più significativi poeti greci del Novecento, I. Ritsos, che nella raccolta poetica πετάϱτη διαστάση (1972², Quarta dimensione) ha dedicato poemetti a figure marginali e subalterne, come la sorella di Antigone, Ismene (1966-71), o quella di Elettra, Crisòtemi (1967-70), mirando a una demistificazione totale di ogni forma di eroismo; nel Filottete (1963-65) il figlio di Achille, Neottolemo, rievoca l'asprezza e l'insensatezza dell'esperienza bellica, esprimendo tutto il disagio di una generazione 'post-eroica'; nell'Elena (1970), come già nei Dialoghi dei morti di Luciano, la donna paradigma assoluto della bellezza è rappresentata decrepita, coperta di rughe, di peli e di verruche, circondata dallo scherno delle schiave e ossessionata dai fantasmi dei morti, ma capace di una resistenza ostinata al tempo e alla morte, che diventa simbolica di una diversa forma di bellezza. Il mito viene quotidianizzato e umanizzato, arricchendosi inoltre di svariate allusioni alla contemporaneità (i monologhi furono composti nel periodo della dittatura dei colonnelli, quando il poeta era in carcere).

Nelle riscritture politiche e antropologiche del mito cui si è fatto riferimento sinora si poteva sempre rintracciare, più o meno incisivo, un influsso parallelo della psicoanalisi (soprattutto nelle opere di Pasolini e della Wolf). Di un'esplicita e rigorosa riscrittura psicoanalitica del mito di Edipo si può parlare per Le nom d'Œdipe, libretto di H. Cixous per l'opera di A. Boucourechliev (1978). Teorica di una scrittura femminile frammentaria, alogica e fluida, che sulle orme di Lacan dovrebbe sfuggire il più possibile all'ordine simbolico paterno per avvicinarsi alla simbiosi con il corpo materno, anzi per superare i generi sessuali, l'autrice ha estremizzato la valorizzazione dell'incesto comune a tutte le riscritture novecentesche di Edipo, inevitabilmente improntate dalla celebre lettura sofoclea di Freud (anche in chiave polemica, come nell'Ödipus auf Haknäss, 1992, di H. Fichte, ridiscussione della teoria freudiana in chiave omosessuale).

Nell'opera di Cixous-Boucourechliev l'eros fra Edipo e Giocasta tende all'indifferenziazione assoluta delle persone: a quella totalità omogenea e indivisibile che secondo I. Matte Blanco costituisce la cifra della logica inconscia; attraverso una continua espansione lirica i due protagonisti, che quasi esclusivamente dominano la scena, celebrano una passione oltre i ruoli e i nomi, oltre quindi la consapevolezza dell'incesto che qui Giocasta ha sempre avuto. In questa immobilità atemporale, che ricorda la notte wagneriana del Tristano (Paduano 1994), l'elemento drammatico è prodotto dal ruolo pubblico di Edipo, che gli impedisce un abbandono totale, mentre l'ansia panica di Giocasta, che cerca l'unione con un essere infinito non più uomo né donna, la porterà dal delirio alla morte.

Altrettanto estremistico e ultrafreudiano, anche se meno 'di scuola', è l'Edipus (1977) di G. Testori, pubblicato un anno prima che andasse in scena ad Avignone Le nom d'Œdipe. In questo dramma fortemente metateatrale e scritto in una lingua violentemente espressiva e barocca - come le altre riletture testoriane della tradizione shakespeariana - viene esaltata anche l'altra grande trasgressione edipica: il parricidio (come avviene anche in Das Sterben der Pythia, 1976, di F. Dürrenmatt), che, nella forma sessualizzata della sodomia e dell'evirazione, diventa figura di ogni ribellione all'autorità e all'oppressione culturale tanto cattolica quanto marxista; il mito veicola così un radicale anarchismo dionisiaco, che culmina nel finale, un mistico "trionfo de li encestuati". Con una simile apologia dell'incesto si chiude Greek (1980; ne esiste una versione operistica di cui è autore M.A. Turnage) di S. Berkoff, attore e drammaturgo capofila della nuova scena britannica che ha in comune con Testori anche l'esuberanza linguistica. Tale dramma ripercorre tutto l'arco della storia mitica di Edipo, con un'operazione ipertestuale nei confronti del modello sofocleo che G. Genette (1982) chiama espansione analettica: un ampliamento che ne rappresenta l'antefatto e che è molto frequente nelle riscritture novecentesche (per es., La macchina infernale di J. Cocteau, il film di Pasolini, o il romanzo di Robbe-Grillet da cui siamo partiti), proprio perché permette di narrare direttamente il parricidio e l'incesto, e quindi i nodi dell'interpretazione freudiana. Il mito è anche totalmente trasposto in una cornice moderna - un'altra operazione ipertestuale, molto diffusa soprattutto nelle messe in scena contemporanee, ribattezzata trasformazione eterodiegetica (Genette 1982) e operata su questo mito anche da A. Moravia ne Il dio Kurt (1968) - e ambientato nei sobborghi degradati della Londra thatcheriana: il protagonista, Eddy, è un ristoratore caratterizzato da un ribellismo che si rivolge contro ogni forma di autorità politica.

Se il teatro contemporaneo predilige le riscritture dei miti che più caratterizzano il tragico, legati a nuclei primari dell'esperienza umana (Edipo, Medea, Oreste), la narrativa percorre in parte la stessa strada - basta ricordare il romanzo di P. Everett, To her dark skin (1990), trasposizione contemporanea di tutto il mito di Medea, divenuta una donna nera, o Œdipe sur la route (1990) di H. Bauchau - ma ne cerca in parallello delle altre. Per es., l'identificazione con un personaggio storico o mitico di forte pregnanza: il caso più fortunato di questo tipo di riscrittura è senz'altro Mémoires d'Hadrien (1958) di M. Yourcenar, una sorta di ampia prosopopea dell'imperatore ellenofilo che ne raffigura lungamente la passione per i viaggi, l'amore per Antinoo, il temperamento malinconico e altri tratti caratterizzanti (già nel 1935 l'autrice aveva sperimentato questa soluzione attraverso una collana di monologhi di protagonisti del mito intitolata Feux). Con la sua tipica mistione di grottesco e paradosso, Dürrenmatt applica questa tecnica a un personaggio mostruoso del mito, al Minotauro, registrando nel racconto omonimo (Minotaurus, 1985) tutte le sue percezioni all'interno di un labirinto di specchi, e rappresentando così la precaria vittoria sull'indistinto e sul caos. A questa tipologia si può accostare anche il romanzo postmoderno di Ch. Ransmayr, Die letzte Welt (1988), in cui un amico di Ovidio, Cotta, trova tracce delle Metamorfosi fra gli abitanti del Mar Nero, dove il poeta augusteo aveva trascorso il suo esilio. Infine, in un momento in cui si assiste a un ritorno massiccio alla fiction, soprattutto nelle cosiddette aree marginali cui la letteratura europea sembra quasi aver delegato l'affabulazione tradizionale, non stupisce l'infittirsi di rifacimenti dell'archetipo assoluto di ogni forma romanzesca, l'Odissea, che aveva fornito comunque l'ossatura anche per il capolavoro della sperimentazione modernistica, l'Ulysses joyceano (Boitani 1994).

È una fioritura che coinvolge anche altri generi - per es. l'opera lirica Outis (1997) di L. Berio su libretto di D. Del Corno o il dramma Ithaka (1996) di B. Strauss - e che rientra in una predilezione accentuata della letteratura contemporanea per il tema del viaggio come confronto-scontro fra culture. In ambito italiano possiamo ricordare L'olivo e l'olivastro (1994) di V. Consolo, in cui il ritorno di Ulisse è lo schema attraverso cui narrare un viaggio nella Sicilia contemporanea; o Itaca per sempre (1997) di L. Malerba, rilettura del mito tutta dalla parte di Penelope; mentre fuori dall'ambito europeo non si può non ricordare l'opera di un grandissimo scrittore caribico, Omeros (1990) di D. Walcott, esempio particolarmente significativo di come la tradizione classica da alibi eurocentrico, come spesso è stata, possa trasformarsi in una vitale struttura di pensiero su cui nuove letterature possono misurare la propria identità.

bibliografia

Testi:

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Studi:

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