Leuto

Enciclopedia Dantesca (1970)

leuto

Raffaello Monterosso

Il vocabolo (che soltanto in pochissimi dei codici fiorentini ricorre nella forma ‛ liuto '), è usato da D. una sola volta, quale secondo termine di una similitudine che fa capo a mastro Adamo: Io vidi un, tatto a guisa di lëuto, / pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia / fronca da l'altro che l'uomo ha forcuto (If XXX 49).

È stato notato come, in tutto l'episodio, si mescolino e si sorreggano a vicenda il grottesco e il patetico, il comico e il triste. Ma, se pur sussistono sfumature di pietà, sembra che l'animo poetico prevalente sia qui orientato verso la traduzione, in termini visivi e sonori insieme, di uno spettacolo sostanzialmente mostruoso. La luce dell'episodio si concentra infatti tutta sull'enorme pancia di mastro Adamo, che appare in primo piano altre due volte, verso la fine del litigio con Sinone, sotto forma di propria didascalia (rispuose quel ch'avëa infiata l'epa, v. 119), e tramite il discorso di Sinone (l'acqua marcia / che 'l ventre innanzi a li occhi sì t'assiepa, vv. 122-123). Inoltre, al termine del discorso ‛ a solo ' di Adamo, si trova un'altra immagine di strumento musicale, il tamburo, anch'essa collegata con la pancia di mastro Adamo, di cui riproduce lo sconcio risuonare: E l'un di lor... / col pugno li percosse l'epa croia. / Quella sonò come fosse un tamburo (vv. 100-103). In questo secondo paragone si continua evidentemente la nota grottesca e bizzarra, introdotta dal primo col liuto. Che il grottesco, o quanto meno il bizzarro, sia l'elemento poetico dominante nell'episodio, è dimostrato dalla sostanza medesima dell'immagine visiva dello strumento musicale.

È interessante ricordare innanzi tutto che la terzina sopra citata costituisce la prima testimonianza cronologica che si trovi, del l., nella letteratura italiana. Più avanti, nel sec. XIV, esso è più volte menzionato, ma sempre come strumento raffinato delle persone colte, a differenza di quanto avveniva altrove, ad esempio in Germania, ove il l. era diffuso anche nelle classi medie (anche il Petrarca fu liutista, e alla sua morte, nel 1374, egli legò il suo strumento all'amico Tomaso Bombasi da Ferrara). In ogni caso, e soprattutto al tempo di D., esso costituiva un'autentica rarità. Di origine assai probabilmente persiana, come si desume dai bassorilievi di tarda epoca sasanida (VII sec. d.C.) ove si trova raffigurato uno strumento assai simile al l., esso passò agli Arabi, che ancora lo usano; e gli Arabi lo importarono in Europa e gli diedero il nome (al'ûd, il legno). Ma qual era esattamente la forma del l. nell'alto Medioevo? Non è facile rispondere con precisione, perché le fonti iconografiche europee sono assai scarse, nelle epoche più remote; anzi, bisogna giungere al sec. XIII prima di trovare raffigurazioni miniaturistiche o scultorie di l. la cui forma si avvicini sensibilmente a quella che si utilizzò più tardi, in epoca rinascimentale. ‛ Liuto ' è infatti termine piuttosto generico, specialmente nel Medioevo. Due erano le specie fondamentali di questo strumento: il ‛ l. lungo ' diffuso specialmente nell'alto Medioevo, e il ‛ l. corto ' di cui si conosce una sola raffigurazione nel sec. X, e che diviene sempre più frequente col passare del tempo, sino alla scomparsa del l. lungo. Ovviamente, non è possibile tracciare una netta linea di separazione né cronologica né morfologica; probabilmente per qualche tempo le due forme coesistettero, o meglio, ci furono strumenti che partecipavano di entrambe le caratteristiche. La differenza principale tra le due fogge consisteva nel manico: stretto, affusolato e più lungo della cassa nel l. lungo; largo e più corto della cassa, con cui forma un tutto unico, nel l. corto. Entrambi i manici hanno in comune la caratteristica inclinazione ad angolo verso l'esterno nella parte terminale superiore. (Il l. lungo tornò in onore più tardi, in epoca rinascimentale, ma con altri nomi: fu chiamato, a seconda delle peculiari caratteristiche di ognuno, ‛ chitarrone ' o ‛ tiorba ' o ‛ colascione '). Ora, quando D. adopera l'immagine del l. intende riferirsi a quello lungo o a quello corto? Se teniamo presente che proprio la fine del sec. XIII e l'inizio del XIV è l'epoca in cui le due forme ancora coesistono, la prima, ormai arcaica e prossima a scomparire, la seconda, di più recente diffusione e ancora poco nota; se pensiamo soprattutto che le non frequenti testimonianze iconografiche del tempo ci mostrano strumenti morfologicamente intermedi tra le due fogge, il cui manico non è né lungo come negli esemplari più antichi, né tozzo come nei tipi più recenti, allora non saremo probabilmente lontani dalla verità supponendo che D. aveva in mente forse proprio uno di questi tipi intermedi. L'affresco di Simone Martini, S. Martino ordinato cavaliere (Assisi, basilica inferiore di San Francesco), dipinto verso il 1320, ci mostra uno strumento che, sebbene visto di faccia, manifesta ben chiaro il contrasto fra il rigonfiamento della cassa e l'assottigliarsi del manico; contrasto che appare con molto maggiore evidenza nel particolare della miniatura La musica e i suoi cultori della corte angioina (nel manoscritto V.A. 14, f. 47 della Biblioteca Nazionale di Napoli, prima metà del sec. XIV). Qui la somiglianza con l'idropico dantesco è impressionante: l'obesità del tronco acquista tanto maggior risalto dal collo, lungo e sottile, terminante nel capo rovesciato all'indietro per l'arsura. Tutto ciò trova puntuale corrispondenza nella figura, ove il turgore della cassa defluisce nel lungo e stretto manico, la cui estremità superiore è più larga e piegata all'esterno (la cavigliera).

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