Liberalismo

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Liberalismo

Giuseppe Bedeschi

(XXI, p. 36; App. II, ii, p. 192)

La società aperta e i suoi nemici

Il 20° secolo è stato il secolo dei grandi regimi totalitari e delle ideologie che li hanno ispirati. Non si può intendere la storia del pensiero liberale della nostra epoca se non si parte da questo dato di fatto. Comunismo e fascismo sono stati i due estremi con i quali il l. ha dovuto misurarsi, le due sfide più ardue e più difficili con le quali ha dovuto confrontarsi. Tanto più ardue e difficili, tali sfide, in quanto il comunismo si ispirava a un'ideologia la quale mirava - nelle dichiarazioni di principio - alla costruzione di una società nuova, non più fondata sulle disuguaglianze e sullo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo; una ideologia, inoltre, che considerava il l. come l'espressione teorica della società borghese capitalistica, caratterizzata, appunto, dalla disuguaglianza sociale e dallo sfruttamento. Ma anche il fascismo (sia italiano che tedesco) considerava suo mortale avversario ideologico-politico, oltre che il comunismo, anche il l., visto come espressione di un individualismo mercantile e di una mentalità 'bottegaia', che dovevano essere spazzati via da una civiltà nuova, fondata non più sull'individuo ma sul popolo, concepito come razza, per il cui destino il singolo avrebbe dovuto sacrificarsi incondizionatamente, e quindi anche immolarsi.

Il pensiero etico-politico di K.R. Popper (1902-1994), uno dei più significativi pensatori liberali del Novecento, si forma appunto avendo come riferimento fondamentale le due grandi sfide totalitarie, comunismo e fascismo. E infatti la sua opera The poverty of historicism, pensata verso la metà degli anni Trenta e pubblicata nella rivista Economica del 1944-45 (e in volume nel 1957), recherà sul frontespizio, nelle successive ristampe, questa dedica: "In memoria degli innumerevoli uomini, donne e bambini di tutte le credenze, nazioni o razze che caddero vittime della fede fascista e comunista nelle Inesorabili Leggi del Destino Storico".

È naturale, quindi, che la riflessione etico-politica di Popper sia caratterizzata in primo luogo dalla forte sottolineatura di alcuni principi o valori, i quali soltanto possono assicurare la vitalità e quindi la sopravvivenza della democrazia liberale. Ed è significativo che per Popper il principio di maggioranza, per quanto importante, non possa costituire il fondamento di quella che egli chiama la "società aperta" (ovvero la società liberal-democratica).

E ciò per il semplice motivo che anche una maggioranza liberamente espressa dagli elettori attraverso il suffragio universale può essere una maggioranza antiliberale e antidemocratica: può essere una maggioranza, insomma, che porta a una limitazione e poi a una soppressione della società aperta (ed è appena il caso di rilevare che in questa posizione di Popper si avverte l'eco drammatica dell'esperienza della Germania, dove il nazismo giunse al potere con un imponente seguito di massa). Di qui quello che Popper chiama il "paradosso della tolleranza", che egli caratterizza in questo modo: "Se estendiamo l'illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l'attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti, e la tolleranza con essi" (Popper 1945; trad. it. 1973-74, i, p. 360).

La società aperta, dunque, deve difendersi dai propri nemici. Ma Popper è ben consapevole che tale società non può difendersi semplicemente con misure coercitive o provvedimenti amministrativi contro i propri avversari, allo stesso modo che le istituzioni non costituiscono di per sé una garanzia assoluta contro le tentazioni autoritarie e totalitarie: e ciò tanto più in quanto "le democrazie sono sempre aperte alle idee e specialmente a quelle provenienti dall'opposizione", e "sono sempre pronte a dubitare di se stesse", poiché "esse sanno benissimo che molte cose non sono come dovrebbero essere" (Revolution oder Reform? 1971; trad. it. 1977, p. 45). Invero, per riuscire a evitare i pericoli più gravi occorre che la cultura liberal-democratica sia egemone nella società, e che sia in grado di incidere profondamente sulla politica, tanto nel senso di ispirarla con i propri valori, quanto nel senso di formare personalità politiche capaci e all'altezza dei compiti che le attendono. Ciò non significa che la società aperta debba sottovalutare i pesi e i contrappesi con cui limita e fraziona il potere (pesi e contrappesi indispensabili per difendere il cittadino dalle tentazioni e dagli abusi del potere medesimo, secondo la classica teoria di Montesquieu); significa soltanto che essa è affidata prima di tutto alle proprie ragioni ideali e alla propria capacità di farle trionfare attraverso la discussione e il confronto più liberi e più larghi. Solo così essa potrà elaborare un complesso di principi profondamente sentiti dalla maggioranza dei cittadini, principi che costituiranno il presidio principale contro le involuzioni autoritarie e totalitarie.

Quali sono tali principi? Popper istituisce una stretta connessione fra il "razionalismo critico" o scientifico e la società aperta. Per intendere il razionalismo critico di cui egli parla, bisogna intendere la sua concezione della scienza. La quale, secondo il filosofo austriaco, procede per "tentativi ed errori" o per "congetture e confutazioni", nel senso che la ricerca scientifica, imbattutasi in un problema, ne tenta una soluzione, sottoponendola a un'accurata verifica. Se la verifica conferma la teoria, quest'ultima, però, non è affatto definitiva, perché prima o poi emergeranno altri fatti e problemi che imporranno la revisione o addirittura l'abbandono della teoria medesima. Ne consegue, in primo luogo, che non c'è mai una teoria assolutamente vera, e che ogni teoria è sempre e soltanto congetturale; in secondo luogo che, essendo l'errore costitutivo di ogni ricerca scientifica, la scienza non può mai eliminarlo definitivamente, ma solo correggerlo di volta in volta, attraverso falsificazioni e controlli rigorosi. La scienza, dunque, è l'unico sapere fondato sull'esperienza e capace di progredire incessantemente, e al tempo stesso è un sapere sempre fallibile e precario.

Se si applica questo razionalismo critico alla società, ne discende che, come non esiste una teoria assolutamente vera, così non esiste una società perfetta. Ogni società può essere riformata e migliorata. Ciò esclude, da un lato, qualunque tipo di società teocratica, o comunque fondata su valori indiscutibili, dall'altro qualunque tipo di società 'definitiva', capace di risolvere i problemi una volta per tutte (come era per Marx la società comunista). Ma se non esiste una società perfetta, non esiste nemmeno un intervento politico risolutivo di tutti i problemi sociali. Gli interventi per modificare la società devono essere sempre parziali, graduali, per migliorare questa o quella situazione: non possono essere utopistici e olistici, ma devono ispirarsi sempre all'ingegneria sociale. Essi, dice Popper, "ci riportano alla nostra originaria affermazione che si devono pianificare misure per combattere i mali concreti, piuttosto che per realizzare qualche bene ideale. L'intervento dello Stato dev'essere limitato a quanto è veramente necessario per la protezione della libertà" (Popper 1945; trad. it. 1973-74, ii, pp. 170-71).

In questo quadro di ingegneria sociale, la discussione e il confronto fra posizioni e soluzioni diverse - discussione e confronto a tutti i livelli: dalla stampa ai partiti, ai sindacati, al Parlamento - sono fondamentali e costitutivi della società aperta. Il pluralismo culturale e politico deve dunque essere garantito e istituzionalizzato; e il momento del dissenso è ancora più prezioso di quello del consenso. Sicché gli strumenti principali della società aperta sono la libera competizione fra la maggioranza che governa e la minoranza che le si oppone, in modo tale che la minoranza possa diventare a sua volta, con il consenso popolare, maggioranza; il formarsi e il manifestarsi di un'opinione pubblica libera (cioè non manipolata) attraverso il confronto e il dibattito fra i partiti, i sindacati, le associazioni, i giornali.

Liberalismo e democrazia

Uno dei grandi temi affrontati dal pensiero liberale del 20° secolo è costituito dai rapporti fra l. e democrazia: la concezione liberale e la concezione democratica coincidono o divergono? Le risposte date a tale quesito variano sensibilmente. Per H. Kelsen, uno dei più grandi protagonisti della ricerca giuridico-politica del 20° secolo, l. e democrazia coincidono, ma nel senso che la democrazia ha il proprio fondamento nella libertà, e quindi è democrazia liberale. Infatti, polemizzando contro i marxisti, i quali oppongono alla democrazia fondata sul principio di maggioranza (da essi considerata democrazia solo formale) la democrazia fondata sull'eguaglianza sociale (da essi considerata sostanziale), Kelsen afferma: "Questa opposizione deve essere respinta nel modo più assoluto. È il valore di libertà e non quello di eguaglianza a determinare, in primo luogo, l'idea di democrazia" (Kelsen 1920; trad. it. 1981, p. 133). Certo, per Kelsen, anche l'idea di eguaglianza ha una parte importante nell'ideologia democratica, ma in un senso solo negativo e formale. Infatti, il rapporto libertà-eguaglianza si configura in questo modo: poiché tutti debbono essere liberi nella maggior misura possibile, tutti debbono partecipare in misura uguale alla formazione della volontà dello Stato. Il fine principale, dunque, è la libertà, e l'uguaglianza ha un senso solo all'interno di essa: si tratta quindi dell'uguaglianza formale nella libertà, cioè dell'eguaglianza nei diritti politici. Del resto, sottolinea Kelsen, ciò è vero non solo concettualmente, ma anche storicamente, poiché la lotta per la democrazia è storicamente una lotta per la libertà politica, vale a dire per la partecipazione del popolo alle funzioni legislativa ed esecutiva.

Ma Kelsen aggiunge un altro argomento a favore della sua tesi che il principio fondamentale della democrazia è la libertà e non l'uguaglianza. E cioè, che mentre non si può escludere l'esistenza di una società perfettamente egualitaria ma non democratica (non libera), ovvero autoritaria o addirittura totalitaria, non si può concepire invece una società democratica che non garantisca le libertà fondamentali dell'individuo, e fra queste la libertà di pensiero, di parola, di stampa: tutto quello che assicura, insomma, il libero formarsi di una pubblica opinione.

Sostiene Kelsen a questo proposito: "In una democrazia, la volontà della comunità è sempre creata attraverso una continua discussione fra maggioranza e minoranza, attraverso un libero esame di argomenti pro e contro una data regolamentazione di una materia. Questa discussione ha luogo non soltanto in Parlamento, ma anche, e principalmente, in riunioni politiche, sui giornali, sui libri e altri mezzi di diffusione dell'opinione pubblica. Una democrazia senza opinione pubblica è una contraddizione in termini. In quanto l'opinione pubblica può sorgere dove sono garantite la libertà di pensiero, la libertà di parola, di stampa e di religione, la democrazia coincide con il liberalismo politico, sebbene non coincida necessariamente con quello economico" (Kelsen 1945; trad. it. 1952, p. 293).

La società liberaldemocratica è caratterizzata per Kelsen - oltre che dal parlamentarismo e dalla più ampia libertà a tutti i livelli nel processo di formazione della rappresentanza - anche da altri fattori e strumenti: il suffragio universale in primo luogo, e poi i partiti politici. Secondo Kelsen, è proprio della natura della democrazia che il suffragio sia universale: democrazia significa infatti che la 'volontà' rappresentata nell'ordinamento giuridico dello Stato è identica alla volontà dei sudditi (all'opposto dell'autocrazia, fondata sulla soggezione dei sudditi, i quali sono esclusi dalla creazione dell'ordinamento giuridico). Perciò il minor numero possibile di cittadini dev'essere escluso dal diritto di voto. In secondo luogo, non c'è democrazia liberale senza partiti politici, i quali raggruppano gli uomini di una stessa opinione, e garantiscono loro un influsso effettivo sulla gestione degli affari pubblici. Un individuo isolato non ha, politicamente, alcuna esistenza reale, appunto perché non può esercitare alcun influsso sulla formazione della volontà dello Stato. "Solo l'illusione o l'ipocrisia può credere che la democrazia sia possibile senza partiti politici" (Kelsen 1920; trad. it. 1981, pp. 56-57).

La caratterizzazione kelseniana della democrazia liberale ha come proprio presupposto filosofico-metodologico un atteggiamento culturale di tipo relativistico e fallibilista, per il quale non esistono verità indiscutibili e valide una volta per tutte, non esistono valori assoluti. "In effetti - dice Kelsen - la causa della democrazia risulta disperata se si parte dall'idea che sia possibile la conoscenza della verità assoluta, la comprensione di valori assoluti" (Kelsen 1920; trad. it. 1981, p. 139). Infatti, la fiducia nell'esistenza di verità assolute e di valori assoluti pone le basi di una concezione metafisica e mistico-religiosa del mondo: una concezione che fa tutt'uno, in politica, con un'attitudine autocratica. All'autorità (sia essa una casta di preti, di nobili o di guerrieri, oppure una classe o un partito politico) che ritiene di possedere la verità assoluta, si deve obbedienza incondizionata. All'opposto, chi ritiene inaccessibili alla conoscenza umana la verità assoluta e i valori assoluti, considera come possibile non soltanto la propria opinione, ma anche l'opinione altrui. Perciò il relativismo (ovvero la convinzione che alla conoscenza umana siano accessibili soltanto verità relative, valori relativi, e che quindi ogni verità e ogni valore debbano essere pronti, a ogni istante, a ritirarsi per fare posto ad altri valori e ad altre verità) è la concezione del mondo che sta a fondamento dell'idea democratico-liberale. "La democrazia [liberale] - dice Kelsen - stima allo stesso modo la volontà politica di ognuno, come rispetta egualmente ogni credo politico, ogni opinione politica di cui, anzi, la volontà politica è l'espressione. Perciò la democrazia [liberale] dà a ogni convinzione politica la stessa possibilità di esprimersi e di cercare di conquistare l'animo degli uomini attraverso una libera concorrenza" (p. 141). Il libero confronto delle opinioni, la rigorosa tutela dei diritti delle minoranze, la procedura dialettica adottata dal Parlamento nella creazione delle norme, procedura che si svolge attraverso discorsi e repliche: tutto ciò costituisce l'essenza della democrazia liberale. La quale si basa sì sul dominio della maggioranza, ma tale dominio "si distingue da ogni altro tipo di dominio perché, secondo la sua più intima essenza, non soltanto presuppone, per definizione stessa, un'opposizione - la minoranza - ma anche perché riconosce politicamente tale opposizione e la protegge coi diritti fondamentali e con le libertà fondamentali" (pp. 141-42). Il che significa che la minoranza può diventare in qualunque momento maggioranza. "Questo - conclude Kelsen - è il senso proprio di quel sistema politico che noi chiamiamo democrazia [liberale] e che si può opporre all'assolutismo politico soltanto perché è l'espressione di un relativismo politico" (p. 143).

Sensibile, come Popper, ai presupposti filosofico-epistemologici del pensiero liberal-democratico, Kelsen è meno sensibile al nesso che intercorre fra l. e struttura socio-economica della società. È caratteristica, a questo proposito, la risposta che egli dà alla domanda se una società socialista possa essere una società liberale. Che il socialismo - egli dice - come sistema di economia pianificata sia in netto contrasto con il l. economico, è evidente. "La libertà economica non costituisce però - aggiunge Kelsen - il problema decisivo". Infatti "non è la libertà economica bensì quella intellettuale - la libertà religiosa, scientifica e di stampa - che è essenziale alla democrazia [liberale]". E affermare, come fanno alcuni, che se la libertà economica è soppressa, la libertà intellettuale non può essere mantenuta, significa commettere, secondo Kelsen, lo stesso errore dei marxisti, i quali affermano che la libertà economica determina la propria sovrastruttura ideologica, cioè intellettuale, e specialmente giuridica e politica. Insomma, dice Kelsen: "Spiegare il totalitarismo politico come conseguenza di uno specifico sistema economico significa dare un'interpretazione economica della società" (Kelsen 1955-56; trad. it. 1981, pp. 353-54).

Libertà intellettuale e libertà economica. - Il rapporto fra l. e liberismo ha una lunga storia nella letteratura suscitata dal pensiero liberale. Restano esemplari, a questo proposito, le posizioni espresse in Italia negli anni Trenta e Quaranta da B. Croce e L. Einaudi.

Croce aveva affermato nella Storia d'Europa nel secolo decimonono (1932) che se il comunismo avesse avuto ragione nel ritenere che l'ordinamento capitalistico ha come effetto di danneggiare e scemare la produzione della ricchezza, il l. non avrebbe potuto "se non approvare e invocare per suo conto" l'abolizione della proprietà privata. Dopotutto, avvertiva Croce, "il contrasto ideale del comunismo col liberalismo, il contrasto religioso, consiste in altro", ovvero "nell'opposizione tra spiritualismo e materialismo, nell'intrinseco carattere materialistico del comunismo, nel suo far Dio della carne o della materia" (v. Croce, Einaudi 1957, p. 43). Al che Einaudi obiettava che un l. il quale accettasse l'abolizione della proprietà privata e l'instaurazione del comunismo in ragione di una sua ipotetica maggiore produttività di beni materiali, non sarebbe più l., e che l'essenza di quest'ultimo, che è la libertà spirituale, non può sopravvivere là dove la società civile è interamente dominata e plasmata dallo Stato (p. 128).

In realtà, la concezione crociana e quella einaudiana del l. erano divise da un dissenso fondamentale, che riguardava i presupposti del l. stesso. Poiché, mentre per Croce gli assetti economico-sociali avevano scarsa o punta importanza per il trionfo dell'idea liberale, la quale poteva quindi manifestarsi nelle situazioni più diverse, per Einaudi, invece, quegli assetti non potevano essere trascurati, a meno che non si volesse proiettare il l. in una sfera tanto elevata da essere completamente avulsa dai concreti rapporti fra gli uomini.

È significativa, in questo senso, la posizione che Croce espresse nella recensione al libro di H.J. Laski, Le origini del liberalismo europeo (1936). Qui il filosofo italiano scriveva che "l'idea liberale può avere un legame contingente e transitorio, ma non ha nessun legame necessario e perpetuo con la proprietà privata delle terre e delle industrie", e che "essa si oppone primamente e direttamente all'oppressione e falsificazione della vita morale, da qualunque parte si eserciti, da assolutisti e da democratici, da capitalisti o da proletari, da czar o da bolscevichi, e sotto qualunque funzione mitica, sia quella della razza ariana, sia l'altra della falce e martello". Il promovimento della libertà, continuava Croce, è l'unico criterio con cui l'idea liberale misura istituti politici e ordinamenti economici, in rapporto alle varie situazioni storiche, a volta a volta accettandoli o respingendoli, secondo che quegli istituti serbino o perdano efficacia per il suo fine. Del resto, precisava il filosofo, "l'ideale liberale ha natura religiosa", e solo muovendo dalla libertà come esigenza morale è dato interpretare la storia nella quale questa esigenza si è affermata e ha creato di volta in volta le proprie istituzioni, secondo quel che di volta in volta è stato possibile nelle varie epoche: "come monarchie feudali e come repubbliche comunali, come monarchie assolute e come monarchie costituzionali, e via dicendo, e anche come vario ordinamento della proprietà nell'economia a schiavi, a servi e a salariati, nella massima del lasciar fare e lasciar passare, e nell'altra, diversa, dell'intervento statale, e via" (v. Croce, Einaudi 1957, pp. 134-35). A Einaudi ripugnava fortemente il carattere metastorico che Croce attribuiva alla libertà, e non gli sembrava accettabile la tesi "che la libertà possa affermarsi qualunque sia l'ordinamento economico, ed anche nell'economia a schiavi e a servi". In realtà, egli ribatteva, "l'idea liberale trionfa e si perfeziona non con l'uso dello strumento della schiavitù, bensì col negarlo e con lo sforzarsi di spezzarlo e di sostituirlo con altro più congruo" (p. 136).

Per Einaudi, dunque, il rapporto fra l. e ordinamenti economici non era affatto estrinseco e contingente, bensì profondo e organico. In particolare, a Einaudi sembrava che nel mondo contemporaneo due sistemi economici, diversissimi fra loro nei presupposti ma assai simili nei risultati, negassero in eguale misura la libertà umana: il comunismo e il capitalismo monopolistico. Tali sistemi, diceva Einaudi, "tendono, per la indole loro propria, a ridurre gli uomini a meri strumenti, anelli minimi di una ferrea catena che lavora e produce [...] a imprimere uno stampo uniforme su tutti gli uomini, a farli svegliare, muovere, entrare in certi luoghi di lavoro, che si direbbero di pena, alla stessa ora, a compiere i medesimi atti". Ma se questo era vero, "perché affermare che la libertà morale può prosperare in qualunque ordinamento economico? Se la filosofia indaga la realtà, perché chiudere gli occhi al fatto che in certi ordinamenti economici la libertà è l'appannaggio di pochissimi eroi o ribelli?" (p. 144).

Ma la discussione sul rapporto fra l. e ordinamenti socio-economici, se ha avuto in Italia, con la discussione fra Croce ed Einaudi, uno dei suoi momenti più alti e significativi, non si è svolta soltanto in Italia. Infatti, la critica del liberismo ha avuto largo corso anche fra i pensatori liberali nell'ambito della cultura anglosassone. Così, per J. Dewey, il l. non poteva superare la gravissima crisi che aveva colpito il mondo capitalistico nel 1929 e negli anni successivi, se non compiendo un enorme salto qualitativo: abbandonare ogni mentalità liberistica e costruirsi strumenti ideali e politici di tutt'altro tipo. "Le credenze e i metodi del primo liberalismo - diceva Dewey - si sono rivelati inefficaci ad affrontare i problemi dell'organizzazione e dell'integrazione sociale; e la loro insufficienza è responsabile in larga misura della credenza ora diffusa che qualsiasi liberalismo è dottrina fuori moda". Oggi, egli aggiungeva, limitarsi ad attribuire allo Stato il compito di garantire l'ordine fra gli individui e di assicurare riparazioni a una persona la cui libertà sia stata danneggiata da un'altra persona, equivale di fatto a giustificare la brutalità e l'iniquità dell'ordine esistente. Il "nuovo liberalismo" auspicato da Dewey mirava a realizzare un'organizzazione sociale che mettesse sotto controllo l'industria e la finanza, affinché esse servissero alla liberazione economica e culturale degli uomini. La causa del l., diceva Dewey, sarebbe stata perduta per molto tempo se esso non si fosse preparato a socializzare le forze produttive, a instaurare un'economia socializzata (Dewey 1935; trad. it. 1946, pp. 33-34).

La risposta più efficace a Dewey, e alle posizioni simili alle sue (che avevano largo corso nell'ambito delle correnti liberalsocialiste), è venuta da F.A. von Hayek, per il quale la libertà spirituale e culturale (libertà di pensiero, di parola e di stampa) e la libertà socio-economica (libertà di azione) sono inscindibili. A illuminare questo nesso Hayek ha dedicato una delle sue opere più importanti, The constitution of liberty (1960).

La maggior parte degli studiosi e degli scienziati, dice Hayek, sa bene che noi non possiamo progettare il progresso delle conoscenze, che nel viaggio nell'ignoto - com'è appunto la ricerca - noi dipendiamo in larga misura dal capriccio del genio individuale e degli avvenimenti, e che il progresso scientifico è il risultato di una combinazione tanto di concetti quanto di abitudini e di circostanze prodotte dalla società, il risultato tanto di casi fortuiti quanto di uno sforzo sistematico. E poiché siamo consapevoli del fatto che i nostri progressi nella sfera intellettuale nascono spesso dall'imprevedibile e dal caso, siamo portati a sopravvalutare in questo campo l'importanza della libertà e a sottovalutarla nell'ambito dell'azione.

"Ma - sottolinea Hayek - la libertà di ricerca e di opinione e la libertà di parola e di discussione, la cui importanza è universalmente riconosciuta, sono importanti solo nell'ultimo stadio del processo in cui vengono scoperte nuove verità. Esaltare il valore della libertà intellettuale a detrimento della libertà di agire equivarrebbe a considerare il cornicione da solo come se fosse tutto l'edificio. Abbiamo idee nuove da discutere e visuali diverse da adattare l'una all'altra, perché quelle idee e quelle visuali nascono dagli sforzi fatti in tutte le nuove circostanze dagli individui che nei loro compiti concreti usano i nuovi strumenti e le nuove forme d'azione che hanno appreso" (Hayek 1960; trad. it. 1969, p. 54). Le svariate esperienze dalle quali sorgono le differenze di opinione - dal cui confronto ha origine il progresso intellettuale - sono il risultato delle diverse scelte d'azione compiute da persone diverse in circostanze diverse. Solo là dove è possibile sperimentare un gran numero di modi diversi di fare le cose si otterrà una varietà di esperienze e di conoscenze tale da consentire, attraverso la selezione ininterrotta delle più efficaci fra queste, un miglioramento costante. D'altro canto, in una società moderna fondata sulla divisione del lavoro e sul mercato, la maggior parte delle nuove forme d'azione sorge nell'ambito economico. Di qui il nesso inscindibile fra l. politico e l. economico. I due l. sono assolutamente inseparabili, e qualunque distinzione fra essi (sul tipo di quella teorizzata da Croce fra 'liberalismo' e 'liberismo') deve, secondo Hayek, essere respinta.

Nel quadro tracciato da Hayek, la proprietà privata ha certo una grande importanza, al fine di preservare quella sfera personale che ci protegge contro la coercizione (poiché raramente siamo in grado di realizzare un piano d'azione coerente se non siamo sicuri del nostro esclusivo dominio su certi oggetti materiali); e tuttavia essa non è l'elemento decisivo per assicurare quella libertà e quella creatività personali che contraddistinguono una società libera. A questo proposito Hayek afferma che nella società moderna il requisito essenziale per la libertà dell'individuo non è tanto che egli possegga una proprietà, ma che i mezzi materiali, che gli permettono di perseguire un piano d'azione autonomo e originale, non siano tutti sotto l'esclusivo controllo di un altro. È una delle grandi realizzazioni della società libera - ha sottolineato il pensatore austriaco - il fatto che possa godere della libertà una persona che praticamente non ha niente di suo (eccetto le cose strettamente personali). Il punto decisivo, insomma, è che il controllo delle risorse sia abbastanza diffuso, sicché l'individuo non dipenda da particolari persone, uniche e sole in grado di fornirgli il necessario o di dargli lavoro, e possa scegliere fra un'ampia gamma di possibilità. Di qui l'ispirazione antimonopolistica del l. di Hayek e la sua difesa del frazionamento della ricchezza e della libera concorrenza.

Liberalismo ed eguaglianze. - Senonché, quando Hayek critica qualunque posizione di monopolio, egli pensa non soltanto ai monopoli industriali, bensì anche ai privilegi che alcune società democratiche concedono ai sindacati operai, i quali diventano istituzioni cui la legge riconosce la facoltà di impiegare la coercizione in modi non consentiti a nessun altro. Questa posizione dei sindacati operai ha reso largamente inoperante il meccanismo del mercato in fatto di determinazione dei salari; ma è più che dubbio, secondo Hayek, che un'economia di mercato possa continuare a sussistere quando la determinazione concorrenziale dei prezzi non vale anche per i salari.

Hayek è favorevole a provvedimenti di sostegno agli indigenti, agli sfortunati, agli invalidi, agli istituti sanitari ecc., e anzi afferma che "non c'è ragione perché con il generale aumento della ricchezza, non aumenti anche il volume di queste attività di puri e semplici servizi"; è decisamente contrario, invece, a qualunque organizzazione assistenzialistica della società che sia basata su una ridistribuzione del reddito a favore di particolari ceti e gruppi sociali. A questo proposito egli ritiene che sia necessaria un'importante distinzione tra due diversi modi di concepire la sicurezza: nel senso che, egli dice, "c'è una limitata sicurezza che può essere realizzata per tutti e che pertanto non è un privilegio, e una sicurezza assoluta che, in una società libera, non può essere garantita a tutti. La prima è la sicurezza contro le privazioni fisiche gravi, la certezza di un minimo di mezzi di sussistenza per tutti; la seconda è la certezza di un dato livello di vita, che si determina mettendo a confronto il livello di vita di cui godono gli uni con quello di cui godono gli altri. La distinzione da fare, quindi, è tra la sicurezza di un reddito minimo uguale per tutti e la sicurezza di un particolare reddito che si ritiene che una persona dovrebbe avere" (Hayek 1960; trad. it. 1969, pp. 292-94).

Il presupposto di tutto il discorso di Hayek è che il l. deve preoccuparsi della giustizia commutativa, ma non della giustizia distributiva, ovvero della giustizia sociale (che è invece la preoccupazione del socialismo). Il motivo per cui l'ideale della giustizia distributiva dev'essere rifiutato dai liberali coerenti è, secondo Hayek, duplice: per un verso non esistono principi generali di giustizia distributiva universalmente riconosciuti e accettati, né è possibile dedurli razionalmente; per un altro verso, anche se fosse possibile raggiungere un accordo su principi del genere, essi non potrebbero trovare applicazione in una società in cui gli individui siano liberi di impiegare le loro cognizioni e le loro capacità per il conseguimento di fini privati. "Per garantire specifici vantaggi ai privati quale compenso dei loro meriti (comunque essi siano valutati) sarebbe necessario infatti un tipo di ordine sociale completamente differente da quell'ordine che prenderebbe spontaneamente corpo qualora gli individui fossero vincolati solo dalle norme generali della condotta lecita: un ordine (meglio sarebbe dire un'organizzazione) in cui gli individui fossero posti al servizio di una comune e unitaria gerarchia di fini, e dove si chiedesse loro di fare ciò che è necessario nella prospettiva di un programma autoritario" (Hayek 1978, p. 990). Ma si tratterebbe, com'è ovvio, di un ordine o di un'organizzazione illiberale per definizione.

Per Hayek il l. esige dunque soltanto che lo Stato, nel determinare le condizioni entro le quali gli individui agiscono, fissi le medesime norme formali per tutti. Perciò esso si oppone a ogni privilegio sancito per legge, a qualsiasi iniziativa governativa che conceda vantaggi speciali ad alcuni senza offrirli a tutti. Ne discende che la società liberale non può essere una società egualitaria, poiché, essendo gli individui molto differenti tra loro sia per conoscenze e capacità personali che per il particolare ambiente sociale in cui si trovano a vivere, un trattamento eguale all'interno delle medesime leggi generali produrrà necessariamente posizioni differentissime per le diverse persone. "In altre parole, il liberalismo si limita a domandare che la procedura, ovvero le regole del gioco da cui vengono determinate le posizioni relative dei diversi individui, sia equa (o perlomeno non iniqua), ma non che siano equi anche i risultati particolari che deriveranno da questo processo per i singoli individui, poiché questi risultati dipenderanno sempre, in una società di uomini liberi, oltre che dalle azioni degli individui medesimi, da numerose altre circostanze che nessuno è in grado di determinare né di prevedere nella loro totalità" (Hayek 1978, p. 990). Eventuali correttivi di questo meccanismo devono essere assai circoscritti, e quindi tali da non inceppare il meccanismo stesso. Sicché, se si può pensare di attuare, con fondi pubblici, un sistema educativo universale che ponga tutti i giovani indistintamente ai piedi di quella scala che in seguito ognuno potrà salire a seconda delle proprie capacità, non si può pensare, invece, di manipolare profondamente l'ambiente sociale in cui i singoli individui operano, poiché ciò sarebbe incompatibile con l'idea liberale di libertà. Ciò significa, però, che la cosiddetta eguaglianza delle opportunità incontra dei limiti precisi e invalicabili, dovuti alle inevitabili differenze degli ambienti di appartenenza dei singoli.

Su questi problemi, impostati da Hayek con grande rigore e lucidità, si è svolto negli ultimi decenni, e continua a svolgersi, un intenso dibattito nel pensiero etico-politico di ispirazione liberale, con esiti e soluzioni, però, radicalmente diversi tra loro. Così J. Rawls, in A theory of justice (1971), ha espresso preoccupazioni di giustizia sociale, ed è partito nella sua riflessione da due principi: il primo di ispirazione liberale ("ciascun individuo possiede un eguale diritto a una libertà di base la più estesa possibile, compatibile con altrettanta libertà per gli altri"), il secondo ispirato da ideali di giustizia distributiva ("le disuguaglianze sociali ed economiche debbono essere strutturate in modo tale da essere: a) volte al vantaggio dei meno favoriti, e b) connesse a posizioni e cariche accessibili a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità"). R. Nozick, invece, ha teorizzato lo "Stato minimo", e, interessato soltanto alla giustizia commutativa, fondata sui contratti fra privati (la cui tutela è l'unico compito dello Stato), ha criticato aspramente qualunque forma di giustizia distributiva, fino ad affermare che "la tassazione dei guadagni di lavoro è sullo stesso piano del lavoro forzato" (Nozick 1974). Le posizioni di Rawls e di Nozick incarnano due ispirazioni radicalmente differenti (Nozick è convinto che una società è tanto più ricca e più libera quanto più è ridotto il ruolo dello Stato), e attestano una profonda lacerazione nel pensiero liberale degli ultimi decenni del nostro secolo.

Dalla società liberale alla società liberal-democratica

I problemi visti finora (il rapporto fra giustizia commutativa e giustizia distributiva, l'intervento dello Stato nella sfera economico-sociale, lo Stato-provvidenza o Stato del benessere ecc.), problemi che sono al centro del pensiero liberale degli ultimi decenni, ci fanno intendere meglio la complessità dei rapporti che intercorrono fra l. e democrazia. Già G. De Ruggiero aveva osservato, nella sua Storia del liberalismo europeo (1925), che tali rapporti sono, insieme, di continuità e di antitesi. Sono rapporti di continuità, perché i principi sui quali si fonda la concezione democratica sono la logica esplicazione delle premesse ideali del l. moderno. Tali principi si possono compendiare infatti in queste due formule: estensione dei diritti individuali a tutti i membri della società, e diritto del popolo a governarsi da sé. Non appena il l. ripudia il concetto della libertà come privilegio o monopolio tradizionale di pochi, per assumere quello di una libertà come diritto comune, almeno potenzialmente, a tutti, esso è già sulla stessa strada della democrazia. Sotto questo profilo una rigida divisione di ambiti tra l. e democrazia non è più possibile, e il loro territorio è comune. Tant'è vero che l'estensione democratica dei principi liberali - che si è realizzata con la concessione dei diritti politici a tutti i cittadini e con l'immissione degli strati più bassi della società nello Stato - ha potuto effettuarsi senza modificare sostanzialmente la struttura politica e giuridica delle istituzioni liberali, confermando così l'unità dei principi.

Ma sarebbe erroneo, diceva De Ruggiero, trarre da ciò la conseguenza di un'identificazione completa e senza residui fra l. e democrazia. In realtà, c'è una diversità profonda di mentalità politica fra i due concetti, una diversità che dà luogo a seri e durevoli conflitti. Innanzitutto vi è nella democrazia una forte accentuazione dell'elemento collettivo, sociale, della vita politica, a spese di quello individuale. Del resto, è tutto il processo economico-sociale moderno che ha spinto e spinge in questa direzione. Il sorgere della grande industria, il suo organizzarsi in cartelli e in trust, la nascita dei grandi sindacati e dei grandi partiti di massa: tutti questi elementi, che sono fondamentali e costitutivi della società moderna, non possono non limitare e rimpicciolire sempre più il ruolo dell'individuo, dell'iniziativa individuale, della cooperazione spontanea delle energie individuali. Di qui la grigia uniformità e il conformismo che caratterizzano sempre più le grandi società democratiche di massa; i fenomeni di burocratizzazione sempre più estesa che investono la società a tutti i livelli (la macchina statale e le sue articolazioni, le grandi organizzazioni economiche, sindacali e politiche); il diffondersi nelle grandi masse di una mentalità assistenziale, per cui tutti hanno diritto a tutto, indipendentemente dallo sforzo e dal merito individuali, sicché lo Stato viene concepito come il supremo elargitore, che deve garantire il soddisfacimento di tutte le esigenze, senza tener alcun conto degli apporti dei singoli.

L'ispirazione dell'analisi di De Ruggiero per quanto riguarda i rapporti fra l. e democrazia è stata ampiamente confermata dal pensiero liberale successivo. Tipica, in questo senso, è la posizione di Hayek. L'eguaglianza di fronte alla legge (che è l'unica eguaglianza riconosciuta e rivendicata dal l.) - egli dice - implica l'esigenza che anche nel fare le leggi tutti gli uomini abbiano una parte uguale. Questo è il punto d'incontro fra l. e movimento democratico. Ma la coincidenza finisce qui, perché diversi sono gli obiettivi di l. e democrazia. Il l., infatti, si preoccupa soprattutto di limitare i poteri coercitivi dello Stato, siano essi o no democratici, mentre il democratico intransigente conosce un unico limite ai pubblici poteri: l'opinione della maggioranza. Ancora: dal punto di vista del liberale è bene che solo quanto è accettato dalla maggioranza diventi legge, ma non è da credere che questa circostanza la renda una buona legge. Infatti il liberale cerca sempre di persuadere la maggioranza a osservare taluni principi (liberali), e accetta il principio del governo della maggioranza solo come un metodo di decisione, non come un criterio assoluto per stabilire quale contenuto la decisione debba avere; al democratico dottrinario, invece, il solo fatto che la maggioranza voglia qualcosa basta per considerare buono ciò che essa vuole: per lui la volontà della maggioranza determina non solo cos'è la legge, ma altresì cos'è una buona legge.

La democrazia per Hayek è essenziale dunque come metodo, non come fine. Rifacendosi a Tocqueville, egli sottolinea infatti che la democrazia è l'unico strumento efficace per educare la maggioranza, in quanto la democrazia è soprattutto un processo di formazione dell'opinione pubblica. Il suo maggior vantaggio sta quindi non nella sua immediata capacità di scelta dei governanti, ma nel far partecipare attivamente alla formazione dell'opinione pubblica la maggior parte della popolazione, e quindi nel permettere la scelta fra una vasta gamma di individui. Ma, una volta accolta la democrazia all'interno del l., Hayek non si stanca di ripetere che il modo in cui il liberale concepisce il funzionamento della democrazia è del tutto peculiare. L'idea, infatti, che il governo debba essere guidato dall'opinione della maggioranza ha senso solo se quell'opinione è realmente indipendente dal governo stesso, poiché l'ideale liberale di democrazia è basato sul convincimento che l'indirizzo politico che sarà seguito dal governo debba emergere da un processo spontaneo e non manipolato. L'ideale liberale di democrazia presuppone, quindi, l'esistenza di vaste sfere indipendenti dal controllo della maggioranza, entro le quali si formano le opinioni individuali. Questa è la ragione, dice Hayek, per cui la causa della democrazia e la causa della libertà di parola e di stampa sono inseparabili. Da ciò discende che l'idea ultrademocratica che gli sforzi di tutti debbano essere guidati incondizionatamente dall'opinione della maggioranza o che la società sia tanto migliore quanto più si conforma ai principi comunemente accettati dalla maggioranza, è un vero e proprio capovolgimento del principio attraverso il quale si è sviluppata la civiltà (Hayek 1978, p. 990).

bibliografia

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