LIBERISMO e PROTEZIONISMO

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1993)

LIBERISMO e PROTEZIONISMO

Dominick Salvatore

(XXI, p. 45)

Il termine l., inteso in senso lato, denota posizioni di politica economica secondo cui l'intervento dello stato in campo economico dev'essere limitato nella misura massima possibile. In senso più ristretto il termine l. indica posizioni a difesa della più ampia libertà di scambi nel commercio internazionale. Soprattutto al l. inteso in quest'ultimo senso si contrappone il p., che invece denota posizioni di politica economica favorevoli a interventi statali a difesa dell'economia nazionale nei confronti della concorrenza estera.

Le misure protezionistiche assumono varie forme, di cui tradizionalmente le più importanti sono i dazi e i contingentamenti. Il dazio è semplicemente una tassa (unitaria o ad valorem) sui beni importati o esportati e ha sempre rappresentato un modo conveniente per innalzare le entrate del fisco. Mentre i dazi sulle esportazioni hanno ancora questa funzione in molti paesi in via di sviluppo esportatori di materie prime, i dazi sulle importazioni sono imposti nelle nazioni industrializzate soprattutto per i loro effetti sulla produzione, sui consumi e sulle ragioni di scambio: accrescendo il prezzo del prodotto importato, il dazio sulle importazioni porta a un aumento dei prezzi interni e quindi a una maggiore produzione interna e a un calo dei consumi dei beni importati. Perciò le nazioni industrializzate impongono dazi sull'importazione soprattutto per proteggere un'industria e i suoi addetti dalla concorrenza straniera. Inoltre, quando un dazio fa crescere il prezzo interno del bene in misura minore dell'ammontare del dazio stesso, parte dell'onere di questo (vale a dire, della sua incidenza) ricade sui produttori stranieri, sicché le ragioni di scambio della nazione (l'indice dei prezzi dei beni esportati da una nazione rispetto a quello dei beni importati) migliorano. Invero il ''dazio ottimo'' è quello che rende massima la differenza netta positiva fra gli utili che derivano dal miglioramento delle ragioni di scambio della nazione e le perdite che comporta la riduzione in volume del commercio internazionale e della specializzazione internazionale. Gli utili di una nazione tuttavia sono a spese di altre nazioni che vedono peggiorare le loro ragioni di scambio e ridurre il loro volume di commercio (cioè quella tariffaria è una politica beggar-thy-neighbor, vale a dire che danneggia i partners commerciali), e che probabilmente adotteranno provvedimenti di ritorsione con il risultato che tutte le nazioni saranno danneggiate, come avvenne infatti durante la grande depressione degli anni Trenta. Anche se una sola nazione imponesse una tariffa, i suoi guadagni sarebbero comunque inferiori alle perdite imposte ad altre nazioni, sicché dal punto di vista mondiale il libero scambio rimarrebbe sempre la politica migliore.

Vi sono solo poche ragioni che possono giustificare un dazio: proteggere un'industria importante per la difesa nazionale; incoraggiare in un paese in via di sviluppo la nascita di un'industria e proteggerla nel periodo della sua crescita, finché non sia divenuta abbastanza efficiente da essere in grado di entrare in concorrenza sul mercato mondiale senza l'imposizione di un dazio. Perché il dazio sia giustificato è tuttavia necessario che il rendimento per l'industria, a protezione finita, sia così alto da controbilanciare l'effetto negativo che il dazio ha comportato per la nazione fin tanto che è rimasto in vigore. Il problema naturalmente è che, una volta concessa, è molto difficile togliere la protezione a un'industria nazionale, e molto raramente l'industria aiutata si rende autonoma. In ogni caso la teoria sul commercio postula che è preferibile un sussidio a un'industria che nasce piuttosto che un dazio che conferisca lo stesso livello di protezione, poiché il sussidio non altera i consumi interni.

Anche il fatto che di norma i paesi industrializzati applicano dazi più alti per l'importazione di manufatti che per quella di materie prime scoraggia l'industrializzazione nei paesi in via di sviluppo. Una data tariffa nominale nasconde in questi casi il maggior livello di protezione effettivamente accordato all'industria nazionale: per es., se il 50% del valore di un bene prodotto in una nazione è rappresentato da merci importate non soggette a dazio d'importazione e la nazione applica una tariffa nominale del 20% sull'importazione del bene finale prodotto con quelle merci, allora il tasso di protezione effettiva (cioè il tasso effettivo di protezione calcolato sul valore aggiunto del paese) è del 40%, ovvero il doppio della tariffa nominale sul bene finale.

Un'altra comune forma di p. è stata il contingentamento, cioè una restrizione quantitativa delle importazioni. Il contingentamento in genere ha gli stessi effetti di un dazio equivalente per quel che riguarda i prezzi all'interno, la produzione e i consumi in condizioni perfettamente concorrenziali, e ha anche gli stessi effetti riguardo alle entrate fiscali se la quota contingentata è assegnata per asta al miglior offerente in regime di libero mercato. C'è un aspetto tuttavia sotto il quale il contingentamento appare più restrittivo del dazio, ed è il fatto che un'impresa straniera può tentare di superare un dazio e incrementare le proprie esportazioni in una data nazione aumentando la sua efficienza e riducendo i prezzi, mentre questo non è possibile con il contingentamento delle importazioni che di per se stesso restringe la quantità d'importazione concessa. Per questo motivo i contingentamenti non sono permessi nell'attuale sistema di commercio internazionale, salvo che in circostanze molto limitate e solo con l'approvazione dell'agenzia internazionale responsabile delle questioni del commercio.

Nel secondo dopoguerra, le economie occidentali di mercato hanno generalmente seguito politiche favorevoli all'intervento statale in campo nazionale impegnandosi allo stesso tempo in favore di un progressivo smantellamento delle barriere protezionistiche a livello degli scambi internazionali. Tuttavia, negli anni più recenti si è assistito a un rovesciamento di tali tendenze: mentre sono diventate sempre più forti le posizioni contrarie all'intervento dello stato nel campo economico nazionale, stanno acquistando peso posizioni che difendono l'opportunità di una serie di misure protezionistiche a livello internazionale.

Durante gli anni Cinquanta e Sessanta l'economia mondiale è cresciuta a un ritmo molto sostenuto e altrettanto è cresciuto in molti paesi il ruolo del governo. Però il mondo industrializzato ha conosciuto negli anni Settanta una grave stagflazione e negli anni Ottanta enormi deficit di bilancio e tassi di disoccupazione costantemente alti, senza che i governi si siano mostrati capaci di risanare la situazione. Si è quindi cominciato ad attribuire molti di questi problemi proprio all'eccesso di regolamentazione e di controllo sull'economia da parte dei governi e, dentro e fuori dal mondo politico, sempre più persone hanno iniziato ad accogliere le idee di M. Friedman, secondo il quale un grosso ruolo del governo è lesivo del benessere della società, o quelle di J. Buchanan, che sostiene che liberare l'economia dall'eccesso di norme e di regolamentazioni ne migliorerebbe grandemente l'andamento. Ne è conseguito un forte movimento di deregolamentazione, che ha interessato la maggior parte del mondo negli anni Ottanta e che tuttora persiste. Sono state deregolamentate industrie di primaria importanza, ridotti drasticamente bilanci e ridimensionato il coinvolgimento del governo nell'economia, con il risultato di aumentare l'efficienza economica.

Dopo la seconda guerra mondiale serie successive di negoziati multilaterali sul commercio hanno praticamente portato all'eliminazione dei tradizionali contingentamenti delle importazioni e a una netta riduzione dei dazi al punto che oggi nei paesi industrializzati quelli sui beni manufatti sono inferiori al 5%: ciò ha reso possibile una rapidissima espansione del commercio internazionale, che ha contribuito in maniera decisiva allo sviluppo dell'economia mondiale. Dalla metà degli anni Settanta tuttavia la continua riduzione dei dazi è stata più che controbilanciata dalla crescita di una nuova e più pericolosa forma di restrizioni commerciali, note nel loro complesso come ''neoprotezionismo''. Il termine indica un revival del mercantilismo, per cui le nazioni cercano di risolvere i problemi della disoccupazione, della crescita stagnante e della crisi industriale imponendo restrizioni alle importazioni e sovvenzionando le esportazioni. Gli strumenti coi quali si limitano le importazioni sono abbastanza diversi, e meno trasparenti, dei dazi tradizionali e sono globalmente denominati ''barriere commerciali non tariffarie'' (NTB, Nontariff Trade Barriers): comprendono restrizioni ''volontarie'' alle esportazioni come gli accordi sul marketing (orderly marketing agreements), misure antidumping, dazi compensativi (countervailing duties), clausole di salvaguardia, ecc. Il loro numero e la loro importanza sono cresciuti tanto rapidamente da divenire un ostacolo più grave dei dazi al commercio tradizionale.

Il neoprotezionismo rappresenta oggi la minaccia più seria per il sistema di commercio mondiale quasi libero che, faticosamente instaurato alla fine della seconda guerra mondiale, ha da allora dato buoni risultati. Il grande pericolo è che il continuo proliferare di NTB conduca a pesanti ritorsioni e sfoci in una crisi del commercio mondiale, con il progressivo ritorno a un sistema di scambi bilaterali, che comporterebbe una cattiva distribuzione delle risorse a livello internazionale, un rallentamento dell'assestamento strutturale delle economie mature e della crescita di quelle in via di sviluppo, e l'aggravarsi di una guerra commerciale in cui tutte le nazioni verrebbero a perdere.

Il fatto che queste nuove misure commerciali che accrescono il livello di protezione siano adottate nello stesso momento in cui le nazioni negoziano la riduzione delle tariffe si spiega con la volontà di preservare almeno l'apparenza del principio del libero commercio. Per es., una restrizione volontaria delle esportazioni ha alcuni degli effetti del contingentamento delle importazioni, ma poiché è imposta liberamente e regolata dalla nazione esportatrice, è permessa dalle attuali regole del commercio internazionale. La nazione esportatrice naturalmente limita le sue esportazioni nel timore che restrizioni anche maggiori le siano imposte dalla nazione importatrice: così, anche se le restrizioni volontarie non sono contro la lettera della legge, certamente sono contro il suo spirito. Dal momento che sono molto meno trasparenti delle tariffe e dei contingentamenti tradizionali, è anche più facile a una nazione imporre queste nuove forme di p. evitando ritorsioni.

Un recente importante sviluppo teorico che sostiene una politica commerciale attiva e il p., insidiando così il principio del libero scambio, è la ''politica commerciale strategica'', per la quale una nazione può crearsi un vantaggio comparato (mediante protezioni temporanee, sussidi, agevolazioni fiscali e programmi di cooperazione fra governo e industria) per settori quali semiconduttori, computer, telecomunicazioni e altri, che sono ritenuti essenziali per la crescita della nazione. Queste industrie a tecnologia avanzata sono soggette a rischi elevati, necessitano di grandi produzioni per ottenere economie di scala, e quando hanno successo danno origine a economie esterne diffuse. La politica commerciale strategica sostiene che incoraggiando tali industrie la nazione può beneficiare delle rilevanti economie esterne che risultano da esse e intensificare le sue prospettive di crescita. Questo argomento è simile a quello dell'industria nascente per i paesi in via di sviluppo, salvo che coinvolge i paesi industrializzati allo scopo di consentire loro di acquisire un vantaggio comparato in industrie cruciali a tecnologia avanzata. Sono molte le nazioni che praticano questa politica, e invero alcuni economisti sono giunti ad affermare che gran parte del successo industriale e tecnologico del Giappone sia dovuto proprio alle sue politiche industriali e commerciali strategiche.

Esempi di politiche industriali e commerciali strategiche si riscontrano in Giappone per l'industria dell'acciaio negli anni Cinquanta e dei semiconduttori negli anni Settanta e Ottanta; e in Europa per la realizzazione dell'aereo supersonico Concorde negli anni Settanta e dell'Airbus negli anni Settanta e Ottanta. L'esempio classico di politica strategica vincente indicato dai libri di testo è quello dei semiconduttori del Giappone: il mercato dei semiconduttori (quali i chips impiegati in moltissimi prodotti) negli anni Settanta era dominato dagli Stati Uniti, finché a partire dalla metà degli anni Settanta il potente ministero dell'Industria e del Commercio giapponese non cominciò a puntare allo sviluppo di questa industria finanziandone ricerca e sviluppo, concedendo sgravi fiscali per gli investimenti, promuovendo la cooperazione governo-industria, e proteggendo al contempo il mercato interno dalla concorrenza straniera, soprattutto statunitense. Si ritiene che, a seguito dell'adozione di una politica commerciale strategica, l'industria di un paese si svilupperà e diverrà capace di far fronte alla concorrenza straniera. Con il tacito consenso e l'indiretto sostegno da parte del governo, essa inizierà a vendere il prodotto sottocosto (cioè a meno del costo di produzione interno) sul mercato internazionale e in quantità massicce, fino a escludere dall'affare i concorrenti esteri o a renderli impotenti. Allora l'industria alzerà i prezzi e proclamerà il suo pieno sostegno al principio del libero commercio, proponendosi, una volta non protetta, come modello di efficienza.

Il Giappone ha sistematicamente e con successo applicato questa politica all'acciaio, agli autoveicoli, ai chips dei computer, come fa ora con i computer e i servizi finanziari (non tutti gli economisti però attribuiscono a tali politiche il successo riportato dal Giappone sugli Stati Uniti alla metà degli anni Ottanta nella lotta per il controllo del mercato dei semiconduttori, e il conseguente dominio del mercato mondiale: molti attribuiscono la formidabile ascesa del Giappone in questo campo ad altre forze, quali la migliore istruzione impartita in campo scientifico e matematico, i tassi d'investimento più alti, la più spiccata propensione ad attendere i risultati degli investimenti a lungo termine, invece di enfatizzare i profitti trimestrali come negli Stati Uniti).

Seppure con minore aggressività, e in genere con meno successo, anche i maggiori paesi europei hanno usato alcune di queste politiche per creare e realizzare, fra gli altri, il programma Airbus e quello spaziale Arianne, e lo stesso hanno fatto gli Stati Uniti (attraverso le applicazioni commerciali delle scoperte tecnologiche derivate dai programmi di ricerca militari e spaziali) per promuovere l'industria aeronautica.

Così, pur affermando i grandi benefici del libero sistema del commercio multilaterale e la sua necessità, spesso nei decenni passati i governanti dei maggiori paesi industrializzati hanno violato questi principi e hanno assunto un atteggiamento molto più protezionista. Il tentativo del Tokyo Round del GATT (1974-77) di stabilire regole di comportamento per limitare le nuove forme di p. (per es. sostituendole con equivalenti tariffe manifeste) non ha avuto successo e lo stesso vale per l'Uruguay Round che, iniziato nel 1986, non ha potuto essere concluso, come preventivato, nel 1990 e non è tuttora terminato (1993).

Sebbene la politica commerciale strategica possa in teoria migliorare i risultati del mercato in regimi oligopolistici soggetti a forti economie esterne e favorire la crescita di una nazione, anche quanti hanno elaborato e sostenuto queste teorie riconoscono la seria difficoltà di attuarle: prima di tutto è estremamente difficile individuare le industrie vincenti, cioè quelle in grado di alimentare grandi esportazioni, e realizzare politiche appropriate a farle crescere con successo; in secondo luogo, poiché molte nazioni contemporaneamente seguono politiche strategiche, i loro sforzi in gran parte si neutralizzano e i potenziali benefici per ognuna diventano scarsi; infine, quando un paese consegue un successo reale con una politica strategica, questo si produce a discapito di altri paesi, che adotteranno provvedimenti di ritorsione. Di fronte a queste difficoltà, anche i sostenitori delle politiche strategiche sono costretti ad ammettere che il libero commercio è dopotutto la politica migliore.

Attualmente la maggior parte dei paesi industrializzati protegge contro le importazioni le industrie mature (tessili, acciaio, autoveicoli) e fornisce aiuti sostanziali, sotto forma di sussidi, prestiti, cooperazione fra governo e industria, alle industrie a tecnologia avanzata (computer, telecomunicazioni, aeronautica) per favorirne la crescita; in ogni caso è protetta l'agricoltura. Al contrario i paesi in via di sviluppo non possono porre limitazioni al libero commercio internazionale in quanto di norma subiscono una schiacciante interferenza esterna nelle loro economie in generale e nel loro commercio con l'estero in particolare. I paesi dell'Europa orientale e le repubbliche ex sovietiche stanno tentando di liberalizzare il commercio, mentre si sforzano di ristrutturare le loro economie in termini di mercato.

Bibl.: M. Friedman, Capitalism and freedom, Chicago 1962 (trad. it., Pordenone 1987); J. Buchanan, The limits of liberty, ivi 1975 (trad. it., Torino 1978); J. Bhagwati, Protectionism, Cambridge (Mass.) 1988 (trad. it., Milano 1990); H. Helpman, P. Krugman, Trade policy and market structure, ivi 1989; National trade policies, a cura di D. Salvatore, New York 1992; Protectionism and world welfare, a cura di D. Salvatore, ivi 1993.

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