LIBERISMO e PROTEZIONISMO

Enciclopedia Italiana (1934)

LIBERISMO e PROTEZIONISMO

Gino Luzzatto

. La parola liberismo è usata in due sensi: nel senso più ristretto di libero scambio, di libertà cioè completa nel commercio internazionale, per cui essa è contrapposta a protezionismo (inteso soprattutto nel significato dell'aiuto dato dallo stato ad alcuni rami della produzione per mezzo della protezione doganale); oppure invece in senso assai più largo e più proprio, nel senso cioè di una politica economica liberale, per cui l'intervento dello stato nel campo della vita economica si riduca al minimo possibile, e l'equilibrio si stabilisca spontaneamente per il libero incontro delle attività individuali. Anche in questo caso, per indicare il contrapposto del liberismo si usa spesso il termine protezionismo, comprendendo sotto questo nome tutte le forme d'intervento dello stato nell'economia nazionale.

L'urto fra le due tendenze si manifesta nella pratica fin da epoca assai lontana, e anche quando si comincia, in forma assai rozza e ingenua, a risalire dalla pratica alla teoria, questa è sempre ispirata dagl'interessi di qualche gruppo economico. Così per la politica economica di Venezia nel Medioevo si è voluto parlare di una tendenza liberista contrapposta al protezionismo che vi avrebbe prevalso dopo il Cinquecento; e l'affermazione è vera se la si prenda nel senso assai limitato di una prevalenza degl'interessi commerciali sugl'interessi industriali, per cui la classe dei grandi mercanti, interessata al massimo sviluppo del traffico internazionale, si è sempre opposta a ogni tentativo di opporre a questo degli ostacoli per favorire la produzione cittadina. Ma quell'affermazione è invece del tutto errata se la si vuole intendere nel senso più largo di una politica economica liberale o anche della piena libertà di commercio. I mercanti veneziani volevano bensì che il commercio non fosse sacrificato all'industria, ma volevano anche che il commercio internazionale, nelle sue forme più ricche di attività, fosse loro gelosamente riservato, eliminando ogni concorrenza con misure che si potrebbero chiamare di protezionismo commerciale (cfr. R. Cessi. L'officium de navigantibus e la politica commerciale veneziana nel sec. XIV, in Nuovo Archivio Veneto, 1916).

Quel che si dice di Venezia si potrebbe ripetere per Genova e per tutte le altre città o stati che hanno avuto in quei secoli un notevole sviluppo di traffico, perché il concetto di libertà economica era completamente estraneo e anzi ignoto alla mentalità di quei tempi. Fanno eccezione, e non completamente, quelle città come Anversa che divennero a un tratto grandi centri del traffico internazionale, senza che in esse si fosse ancora sviluppato un forte ceto commerciale.

Soltanto dopo la fine del Cinquecento alcuni scrittori, specialmente olandesi, inglesi e francesi, cominciano a sostenere con argomenti teorici le idee di libertà in alcuni campi della vita economica, ma sempre in vista di un interesse immediato e circoscritto: così in Olanda si sostiene con grande efficacia l'idea della libertà di navigazione contro la pretesa degli Inglesi di esercitare l'esclusivo dominio sui mari che bagnano le loro coste; così in Inghilterra varî scrittori propugnano nei primi del Seicento la libertà del commercio (il free trade), ma lo fanno soltanto nell'interesse di quei mercanti che si vedono preclusa ogni partecipazione al grande traffico marittimo dal monopolio delle compagnie privilegiate; così in Francia sono abbastanza numerosi i contemporanei di Colbert, e fra essi in prima linea P. Boisguillebert, i quali combattono la politica d'intervento dello stato in ogni campo della vita economica e i privilegi concessi a molte imprese industriali, ma lo fanno soprattutto nell'interesse dell'agricoltura e dei proprietarî di terre.

Gli stessi mercantilisti, e Colbert in prima linea, per i quali le forze produttive sono uno strumento in mano dello stato, che le stimola e le disciplina ai proprî fini, e che sono perciò considerati come i più decisi avversarî della libertà economica, invocano frequentemente la libertà del commercio. "La liberté est l'âme du commerce", esclama ripetutamente Colbert; e altri fra i più autorevoli rappresentanti della stessa corrente gli fanno eco con parole non molto diverse: Ma quelle frasi, fors'anche sincere, sono sempre usate per giustificare o combattere un provvedimento determinato; non come un programma generale di politica economica; cosicché, nonostante alcuni fondamenti comuni, le idee liberali si affermano appunto come una reazione contro il dominio della dottrina e assai più della pratica mercantile. Del resto anche nel sec. XVIII, quando gli studî e le discussioni di economia appassionano ormai un grandissimo numero di persone, e le invocazioni alla libertà si fanno sempre più frequenti e insistenti, esse riguardano sempre rapporti economici particolari e s'ispirano immediatamente a determinate situazioni; esse non escludono quindi che il pensiero di molti fra quelli che invocano la libertà del commercio dei grani, o la soppressione dei provvedimenti annonarî in îavore delle popolazioni cittadine, o l'abolizione delle corporazioni chiuse, delle dogane interne, dei monopolî privati, sia ancora, per tutto ciò che non riguarda il problema particolare in questione, fondamentalmente mercantilista.

I fisiocratici per i primi elevarono il liberismo economico a sistema, considerandolo come logica e necessaria derivazione di quell'"ordine naturale", che la Provvidenza ha creato, che l'uomo ha turbato, e che esso, guidato dall'assoluto potere della monarchia illuminata, deve riconoscere per conformarvisi. Ma sebbene sia stata fortissima in quel secolo, in ogni campo, l'influenza della concezione naturalistica, può tuttavia restare qualche dubbio se nel campo economico sia stata maggiore l'efficacia dell'opera teorica e sistematica di F. Quesnay, o quella di uomini provenienti dalla pratica, come R. Cantillon e J. De Gournay, che furono indotti a propugnare la libertà o per lo meno una maggiore libertà dalla reazione provocata in essi dagli eccessi del sistema di privilegi e di ostacoli d'ogni genere, creati alla produzione e agli scambî dalle sopravvivenze del corporativismo, dell'esclusivismo cittadino, delle dogane interne, dei divieti d'importazione e di esportazione, dei monopolî, dei regolamenti e delle ispezioni sulle industrie. Che le necessità del momento esercitassero anche allora un'influenza maggiore dei principî dottrinarî è provato anche dal fatto che il De Gournay, il quale più chiaramente ed efficacemente di ogni altro formulò i postulati liberali più urgenti e al quale si deve la frase famosa del "laissez faire, laissez passer", non può essere classificato tra i veri e proprî fisiocratici, e anzi, per tutto quello che non riguardava i problemi singoli da lui particolarmente considerati, restava anch'egli fedele alla dottrina mercantilistica.

Il passo decisivo nella formulazione sistematica del principio della libertà economica fu compiuto da Adamo Smith, il quale si muove bensì sulle orme dei fisiocratici e dei filosofi inglesi dell'ultimo secolo, ma si spinge molto più avanti di essi nel rigore logico del ragionamento e nell'organicità del sistema economico che egli propugna. Sebbene infatti anch'egli ceda alla tendenza dominante e riveli a più riprese la sua fede nelle leggi di natura, non fa di queste il punto di partenza delle sue deduzioni, ma lo trova invece nella superiorità economica della divisione del lavoro, a cui si connette la fede assoluta nell'attitudine dell'individuo, quando non sia ostacolato da interventi estranei, a scegliere la via che assicuri a lui, e conseguentemente alla collettività, i vantaggi maggiori. Dai vantaggi della divisione del lavoro derivano come logici corollarî la soppressione delle corporazioni e dei regolamenti industriali, che impediscono la libera scelta della professione; la soppressione dei privilegi, dei monopolî industriali, dei premî alla produzione o all'esportazione, che attirano artificialmente capitali e lavoro ad alcune forme di attività, mentre essi sarebbero più adatti e più inclinati ad altre; deriva, in una parola, la necessità della più completa libertà nella produzione. Dal principio poi della divisione naturale del lavoro fra regione e regione e fra stato e stato deriva la necessità del libero scambio interno e internazionale.

In Adamo Smith si trovano dunque formulate in tutti i loro elementi fondamentali, sebbene non sempre in forma precisa, non solo la teoria del libero scambio, ma anche quella del liberismo in senso più ampio, di quello cioè che poi fu anche chiamato individualismo economico.

I maggiori rappresentanti della scuola classica, e in particolare D. Ricardo e Stuart Mill, accettano il principio smithiano della divisione internazionale del lavoro, ma lo raffinano, dando alla teoria del commercio internazionale una veste e un fondamento scientifico con la famosa teoria dei costi comparati, che, formulata da Ricardo, ebbe da Stuart Mill un più completo sviluppo, e molti anni più tardi, dal Bastable, un'esposizione sistematica e matematicamente più precisa.

In poco più di mezzo secolo il liberismo trionfa completamente nel campo teorico: le idee di Adamo Smith sono largamente diffuse non solo nella Gran Bretagna, ma anche in Francia, in Germania, in Italia. Il liberismo finisce per identificarsi con la scienza economiea, e gli stessi avversarî, fra cui il più noto e battagliero è F. List, se si distaccano dalla scuola classica per le premesse teoriche, per la loro opposizione all'individualismo economico, per l'affermata necessità di un'economia nazionale, riconoscono che il fine a cui si deve tendere, quando ogni nazione abbia raggiunto il suo pieno sviluppo, è il libero scambio universale.

In questo caso, a differenza di quel che era avvenuto per il mercantilismo, la teoria precedette la pratica: Adamo Smith stesso riteneva irraggiungibile l'attuazione del libero scambio internazionale; e tanto lui quanto i suoi continuatori ammisero che i loro principî liberistici fossero ottimi dal punto di vista puramente economico, ma che nella realtà essi dovessero ammettere alcune eccezioni e attenuazioni per motivi politici e di difesa militare. Ancora cinquant'anni dopo la pubblicazione della Ricchezza delle nazioni, la politica di tutti gli stati, Inghilterra compresa, s'ispirava ai criterî del più rigido protezionismo.

Soltanto dopo il terzo decennio del sec. XIX il trionfo della grande industria necessariamente specializzata e le crisi frequenti di sovrapproduzione che ne derivarono, l'aumento rapidissimo della popolazione e dell'urbanesimo, la necessità di sempre maggiori importazioni di derrate alimentari da paesi lontani, la rivoluzione infine dei mezzi di trasporto, misero in evidenza la necessità di togliere gli ostacoli all'ampliamento dei mercati e l'utilità di una più netta divisione della produzione e di una maggiore intensità di scambî fra paese e paese. Fu allora soltanto che le dottrine degli economisti, coincidendo con le necessità dello sviluppo economico, condussero rapidamente al trionfo del liberismo, che in Inghilterra è ormai completamente raggiunto nel 1850, e di là si diffonde nel decennio successivo a gran parte degli stati del continente, dove, senza arrivare alla soppressione delle tariffe doganali, si raggiunge tuttavia, con la loro attenuazione e soprattutto con i trattati di commercio, l'attuazione del libero scambio quasi completo e generale.

Non si può dire che si sia giunti per questo all'attuazione del liberismo integrale, alla soppressione di ogni funzione economica dello stato, qual'era auspicata da molti economisti della scuola classica e in particolare da alcuni fra essi che spingevano le loro teorie alle estreme conseguenze (come, fra noi, F. Ferrara).

In realtà, anche nel periodo del massimo trionfo dell'idea liberale, lo stato non ha mai abdicato alla suprema direzione del movimento economico nazionale, disponendo per questa di strumenti efficacissimi quali sono la politica monetaria e bancaria, i trattati di commercio, la politica dei trasporti e delle comunicazioni. Ma nonostante queste forme indirette, per quanto efficacissime, d'intervento, è indubitato che popoli e individui hanno goduto, tra il 1850 e il 1880, di una libertà economica, che non ha confronti in alcun altro periodo della storia; e anche dopo quella data, quando la più rapida industrializzazione di molti stati del continente e la maggior facilità e il basso costo dei trasporti hanno imposto quasi dovunque, a eccezione dell'Inghilterra e degli stati del Mare del Nord, il ritorno al protezionismo doganale; quando il movimento operaio ha reso necessario il moltiplicarsi delle leggi sociali, nonostante tutto ciò, si può dire che, fino alla vigilia della guerra mondiale, il sistema economico abbia seguitato a ispirarsi ai principî liberistici, dato che né i dazî protettivi, né la legislazione sociale riuscirono a impedire che il movimento delle merci e delle persone da un estremo all'altro del mondo avvenisse con un'intensità e una libertà di gran lunga superiori a quelle di qualunque altro periodo, e che persone e capitali fossero liberissimi nella scelta della professione o dell'impiego.

La situazione però intorno al 1900 si presentava profondamente diversa da quella di mezzo secolo prima. Lo sviluppo industriale di alcuni grandi stati cominciava a far sorgere gravi preoccupazioni sulla possibilità della conservazione dei vecchi mercati e della conquista di nuovi indispensabili per una produzione in continuo e rapido aumento. Nella stessa Inghilterra la corrente antiliberista cominciava a guadagnare terreno e a propugnare un sistema di dazî preferenziali, che assicurasse alla metropoli almeno il mercato delle proprie colonie. La lotta sempre più grave fra capitale e lavoro non permetteva allo stato di mantenere fra le due parti la posizione di spettatore indifferente che il liberismo puro avrebbe voluto assegnargli. La costituzione infine di potentissimi trusts, i quali, dominando interi rami d'industria entro i confini di un solo stato o anche al di là di essi, hanno creato dei veri monopolî privati, spesso di carattere supernazionale, è apparsa a molti come la condanna del liberismo, che tenderebbe per tale via a demolirsi da sé.

Nonostante questo naturale indebolimento delle posizioni liberiste, la scienza economica, nella maggior parte dei suoi rappresentanti, non ha modificato le concezioni ormai acquisite della scuola classica, confermate e avvalorate anzi dalla scuola psicologico-matematica. Ma di fronte a esse hanno cominciato a manifestarsi alcuni indirizzi opposti: da un lato le scuole socialiste e in particolare il marxismo, deciso avversario del liberismo; dall'altro la scuola storica, che in alcuni almeno dei suoi rappresentanti, specialmente tedeschi e inglesi, si è avvicinata ai principî della cosiddetta "economia nazionale", cioè di una politica economica che debba adattare il suo indirizzo a seconda delle particolari condizioni e dei bisogni della nazione nei varî momenti del suo sviluppo.

A questa tendenza dànno nuova forza, da un lato, la concezione organica dello stato che va guadagnando terreno, lentamente nell'ultimo di questa; dall'altro, la gravità sempre più minacciosa dei conflitti sociali, di fronte ai quali lo stato sente il bisogno di trovarsi armato non solo della forza, ma anche del diritto d'intervenire. Per questo, mentre praticamente tutti gli stati, compresi quelli che sembrano fedeli all'idea liberale in politica e in economia, ritornano a forme di protezionismo e proibizionismo doganale e d'intervenzionismo in materia di credito, di cambî, di politica del lavoro, che sembravano definitivamente condannate, nel campo teorico guadagna terreno una dottrina la quale, in forme diverse e adattate alle necessità nuove, rivendica il mercantilismo, in quanto questo rappresentava la politica economica dello stato unitario, organico, che vuole indirizzare a un fine comune, nazionale, gli sforzi individuali.

Riconosciuta ancora una volta allo stato questa virtù di guidare e disciplinare. anzi di riassumere in sé tutte le forze economiche della nazione, l'antitesi fra libera concorrenza e monopolio sarebbe eliminata nella collaborazione, come nei rapporti esterni l'antitesi tra libero scambio e protezionismo non avrebbe più ragione d'essere, e sarebbe sostituita da accordi fra gli stati che attuerebbero finalmente, in forma razionale, la divisione internazionale del lavoro.

Bibl.: Nel numero infinito di scritti che trattano il problema del liberismo e del protezionismo, citiamo soltanto alcune opere più recenti da cui facilmente si può risalire alle precedenti: I. M. Keynes, The end of laissez-fair, Londra 1926; A. Graziani, Sul principio del laissez-faire, in Memorie della Società Reale, Napoli 1929; W. Sombart, Die drei Nationalökonomien, Monaco e Lipsia 1930; U. Spirito, La critica dell'economia liberale, Milano 1930; id., I fondamenti dell'economia corporativa, Milano 1932; E. F. Heckscher, Der Merkantilismus, Jena 1932; R. Michels, Introduzione alla storia delle dottrine economiche e politiche, Bologna 1932; E. Cannan, Rassegna della teoria economica (trad. di R. Fubini, in Nuova collana di econom. stran. e ital.), Torino 1932.