LINGUAGGI VISIVI

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1993)

LINGUAGGI VISIVI

Sebastiano Porretta
Rossella Caruso
Silvia Bordini

Ricerca e sperimentazione nel linguaggio fotografico (1945-93). − La ripresa economica e industriale seguita alla seconda guerra mondiale coinvolge in ogni suo aspetto la produzione fotografica; da una parte si sviluppa in maniera crescente un'editoria popolare che fa largo uso della fotografia, dall'altro l'industria, facendo leva su potenziali mercati, realizza prodotti quali macchine, pellicole, obiettivi, ecc. sempre più perfezionati e a costi accessibili. L'interazione tra tutti questi elementi porta a una ridefinizione del ruolo dell'immagine fotografica articolandone e amplificandone le funzioni. Già durante gli anni della guerra il Museum of Modern Art (MOMA) di New York, che dal 1940 aveva aperto una sezione fotografica, aveva ospitato per la prima volta nelle sue sale mostre personali di grandi fotografi rompendo l'isolamento culturale cui la fotografia era di fatto relegata. La fotografia diviene una forma d'arte con pari dignità di quelle tradizionali e una sua precisa identità culturale, uscendo dalla considerazione generale di forma minore d'arte. Le mostre di Gjon Mili nel 1942, di H. Lewitt nel 1943, e di P. Strand nel 1945, aprono la strada per la retrospettiva di H. Cartier-Bresson del 1946, anno in cui vede la luce anche Naked city di Weegee (1899-1968), grande affresco in chiave di cronaca nera su New York. L'anno successivo vengono fondati l'agenzia Magnum Photos a Parigi da Cartier-Bresson (n. 1908), D. ''Chim'' Seymour (1911-1956), R. Capa (1913-1954) e G. Rodger (n. 1908), con l'intento di produrre e diffondere fotografia di reportage sempre di elevata qualità formale e culturale, e il gruppo La Bussola a Venezia da G. Cavalli (1904-1961), M. Finazzi (n. 1905), F. Vender (n. 1901) e L. Veronesi (n. 1908), che si propongono di sperimentare soluzioni linguistiche nuove da contrapporre al dopolavorismo della fotografia oleografica. Contemporaneamente E. Land immette sul mercato la Polaroid 95, apparecchio a sviluppo istantaneo. Nel 1949 a Sarrebruck, in Germania, viene costituito da P. Keetman (n. 1916) e W. Reisevitz (n. 1917), ai quali si aggiungono subito dopo O. Steinert (1915-1978) e H. Hajek-Halke (1898-1983) il gruppo Fotoform. Il comune denominatore per tutti sembra essere la ricerca di un terreno nuovo e specifico per la fotografia in chiave sia di comunicazione che di ricerca formale. La forma diviene l'elemento unificante delle esperienze, che abbracciano secondo la definizione dello stesso Steinert "tutti i campi della creazione fotografica personale, dal fotogramma astratto al reportage visualmente ben composto e psicologicamente profondo".

Per sostanziare questo assunto, negli anni 1951, 1954 e 1958 Steinert organizza le esposizioni Subjektive Fotografie, in cui vengono presentate le opere di fotografi di molti paesi: l'inglese B. Brandt (n. 1904), gli statunitensi A. Adams (n. 1902), W. Bullock (1902-1975), M. White (1908-1976), per citare i nomi già noti; e a questi si aggiungono gli allora quasi sconosciuti E. Boubat (n. 1923) e W. Klein (n. 1928). Il campionario veramente eterogeneo di stili, sia pure aventi il formalismo come denominatore comune, mostra da una parte la volontà di superamento dell'appiattimento culturale imposto alla fotografia anteguerra dalle situazioni politiche del tempo e dall'altra la necessità intellettuale di portare la fotografia a esplorare i campi che già la pittura, soprattutto astratta e surreale, aveva percorso senza tuttavia rinunciare alla sua specificità che, scrive Steinert nel 1955, è data "dall'inquadratura, che ritaglia e isola il soggetto, dalla diversa prospettiva, rispetto alla visione umana, dovuta alle diverse lunghezze focali degli obiettivi, e dall'istantanea, che congela un istante estrapolandolo dalla continuità temporale".

Grazie a queste caratteristiche specifiche la fotografia viene utilizzata per rivaleggiare dichiaratamente con la pittura contemporanea, riproponendo un'antica dialettica che testimonia da sempre proprio il contrario dell'assunto, e cioè l'incapacità di usare le potenzialità del mezzo fotografico per fare fotografia e non pittura, come rileverà K. Pawek in Totale Fotografie del 1960. In effetti la scoperta che in natura esistono in abbondanza motivi astratti portò molti fotografi a esagerare nella loro ricerca; R. Moore (n. 1920) riprese con obiettivi macro-licheni e muffe che disegnavano su rocce o pareti umide chiazze di colore che rivaleggiavano per contenuti formali con la pittura astratta, e altrettanto fecero T. Schneider (n. 1939) con le bolle d'aria nel ghiaccio e P. Keetman con gocce di olio lasciate su superfici sulle quali si comportano come lenti.

Contemporaneamente in tutto il mondo fotografico si assiste a un attacco da parte delle nuove generazioni di fotografi contro le tradizionali esposizioni promosse dalle associazioni fotografiche amatoriali. In Olanda M. Coppens organizza a Eindhoven esposizioni ''senza giuria'' sulla ''nuova visione'' e in Gran Bretagna H. Gernsheim e E. Hoppé fondano la CS (Combined Society) per contrastare la ormai esausta Royal photographic society; alla CS si associano giovani fotografi stanchi di elaborazioni al bromolio o alla gomma bicromatata e che mirano a una fotografia pura. In Italia il gruppo de La Bussola chiarisce con un manifesto edito sulla rivista Ferrania (maggio 1947), il suo intento di portare la fotografia all'interno dei movimenti artistici dichiarando che "in arte il soggetto non ha alcuna importanza" e sollevando un'accesa polemica coi ''neorealisti''. Le fotografie di Cavalli, che mostrano vecchi tubi di stufa curvati contro pareti bianche o l'occhio inquietante di una bambola deposto sulla spiaggia in prossimità del mare, ripresi con una ricchezza di gradazioni grigie da sfiorare il virtuosismo tecnico, costituiscono esempi calzanti della loro poetica. A La Bussola aderiscono molti giovani tra i quali F. Roiter (n. 1926) e M. Giacomelli (n. 1925), che nei successivi trent'anni si manterranno sostanzialmente fedeli al manifesto programmatico.

In Svezia R. Vinquist (1910-1968) cerca di liberarsi dei residui del Pittorialismo ancora dominante e crea con i suoi collaboratori, che avevano fatto esperienza a Parigi a contatto con la Magnum (P. Strand, Brassaï, ecc.), il gruppo Unga (Giovani), che nel 1951 entra in contatto con Steinert rimanendone fortemente influenzato. Del gruppo fanno parte tra gli altri L. Nilsson (n. 1922), L. Olson (n. 1925) e H. Hammarskiöld (n. 1925). In tutti la creatività non è più ricercata e legittimata dalla fantasia al di fuori della specificità del mezzo, come era successo nel Pittorialismo, ma deve fondarsi sull'approfondimento dei dati materiali, come nella pittura astratta contemporanea.

Negli Stati Uniti questa ventata di rinnovamento arriva grazie all'attività di White che riassume il proprio convincimento nella frase che diverrà quasi un logo: "la fotografia è un miraggio e la macchina fotografica lo strumento per metamorfosarlo". Egli presenta all'International Museum of Photography, presso la George Eastman House di Rochester nello stato di New York, che era stata fondata nel 1949, la mostra Subjektive Fotografie di Steinert, che avrà un effetto dirompente, divenendo punto di riferimento per i giovani fotografi degli anni Sessanta e Settanta. White ha un temperamento essenzialmente mistico, che lo porta a definire la sua concezione della fotografia non come prodotto della manipolazione di materiali ma come estrinsecazione di stati d'animo. La sua formazione culturale e le sue vicende personali determinano in lui uno spirito poetico che trasporta nel campo delle immagini fotografiche senza operare su di esse dall'esterno perché, dice, "se la macchina fotografica registra in maniera superba, ancor più è capace di trasformare". Da A. Stieglitz, da cui fu molto affascinato, ricava la lezione sull'equivalenza, che sente molto vicina al pensiero Zen, per cui un'immagine è valida quando esprime un simbolo o una metafora indipendente dal soggetto, come, per es., una superficie scabrosa colpita da forte luce laterale che fa pensare a un carattere rude. Cultore della tecnica fino all'ossessione (pubblicherà perfino un trattato sullo Zone System come Adams), produce immagini sontuose per taglio e composizione di soggetti non artefatti, come vecchi legni corrosi o rocce su cui la luce gioca effetti metamorfici tali da trasformarli in cieli stellati o mondi onirici, in cui si sente la necessità del fotografo d'immedesimarsi nel soggetto stesso in una sorta di estasi mistica. Nel 1952 fonda assieme a B. Newhall la rivista Aperture, attraverso la quale diffonde le sue idee sulla fotografia; il suo credo fotografico è condensato nel libro che pubblica nel 1969, Mirrors, messages, manifestations. La sua influenza fu immensa soprattutto per quanto attiene alla pratica della fotografia interiorizzata, vera e propria forma di disciplina spirituale; tra i suoi epigoni si possono citare W. Bullock (1902-1975), P. Caponigro (n. 1932), J. Uelsmann (n. 1934) e l'inglese R. Moore che divenne l'anello di congiunzione tra White e l'Europa.

Nel 1955 la mostra The family of the man di E. Steichen (1879-1973), che portata in seguito in ogni parte del mondo diverrà un caposaldo della fotografia sociale, vede impegnato alla sua preparazione un giovane fotografo svizzero, R. Frank (n. 1924) che, incoraggiato da W. Evans (1903-1975), vince la borsa di studio Guggenheim, grazie alla quale gira per gli Stati Uniti per tre anni; il materiale raccolto in questo lungo viaggio viene edito a Parigi nel 1958 col titolo Les Americains e diviene presto un mito, sostenuto anche dal fatto che Frank dopo la pubblicazione cesserà di produrre fotografie.

Lo sconcerto, ma anche l'ammirazione che le fotografie suscitano, risiede nel fatto che al di là di ogni ottimistico atteggiamento nei confronti dell'american way of life, Frank, con spirito tutto europeo, non privo di tangenze con il pensiero esistenzialista, mostra una realtà quotidiana nella quale l'individuo si lascia vivere in una sorta di abbandono insieme fatalista e disincantato, ritmato sui tempi della meditazione piuttosto che su quelli dell'agire. Sono fotografie che mostrano l'esistenza come una commedia fatta di episodi discontinui, privi di senso, spesso imprevedibili e idioti, ma sempre molto intensa, con residui di misteriosa intimità, che rendono l'immagine ''aperta'', cioè che non concludono in sé un fatto, non lo spiegano, anzi lasciano possibili mille significati, compreso quello di non averne alcuno. I suoi soggetti sono la strada e la vita che vi si svolge, visti con l'occhio dell'uomo qualunque, senza ricercare situazioni a effetto o didascaliche, prive di eventi straordinari. La composizione delle sue fotografie è in genere disposta in modo da offrire diverse possibilità di lettura; a un primo o primissimo piano, molto decentrato, in cui un elemento introduce una chiave di lettura, si contrappone nel resto dell'immagine un ampio spazio con cui il primo piano dialoga costruendo un frammento di teatro quotidiano che invita l'osservatore ad approfondire con la sua personale sensibilità la realtà fenomenica dell'ovvio e del comune. Non vuole svelare il bello che si cela nelle cose, ma con autocompiacimento intellettuale si concede alla fotografia dozzinale a volte sciatta, sempre indistinta, sfumata, non partecipe, quasi a parafrasare il nostro ordinario modo di vedere la realtà. La definizione di Cartier-Bresson che "la fotografia è il riconoscimento del significato di un fatto e dell'organizzazione delle forme" − che aveva informato di sé l'opera anche di fotografi italiani come F. Patellani (1911-1977), E. Sellerio (n. 1924), M. De Biasi (n. 1923) − cade nell'opera di Frank, in cui i fatti non hanno più significato, anzi spesso sono del tutto assenti.

Frank si colloca quindi tra l'esistenzialismo europeo e la nascente scuola statunitense on the road che ha in J. Kerouac il suo profeta. Con intenti analoghi, ma con un accentuato senso della forma derivatogli da un'inclinazione alla pittura che lo aveva portato a frequentare lo studio di F. Léger, opera lo statunitense Klein, che tra il 1956 e il 1964 pubblica in ordine libri su New York, Roma, Tokyo e Mosca.

Nel lavoro di Klein sono presenti sia elementi della vita quotidiana, sotto l'influenza di Evans ma con una tendenza all'enfasi grottesca, sia un rigorismo formale derivatogli dall'attenta osservazione della pittura; l'uso del grandangolo, della luce ambiente anche in situazioni estreme per la sensibilità delle emulsioni e la luminosità delle ottiche dell'epoca, del forte contrasto nella stampa conferiscono alle sue fotografie un carattere insieme di denuncia del contemporaneo e una certa astrazione atemporale. Nel suo lavoro Klein ha sempre in mente il libro finale con le sue implicazioni relative al taglio e all'impaginazione, che lo portano a risultati molto prossimi alla pagina dei giornali, aggressiva, urlante, spesso sciatta: " volevo fare qualcosa di perfettamente volgare", dice del suo lavoro, aprendo prospettive nuove nel rapporto tra realtà e sua immagine. Insieme a Frank, Klein, pur senza alcuna teorizzazione, rimette in discussione il lavoro del fotografo, collegando strettamente il vissuto dell'operatore con le sue immagini.

Sul finire degli anni Cinquanta la fotografia astratta trova la sua consacrazione ufficiale in due mostre del MOMA, Abstractions in Photography (1958) e The Sense of Abstraction (1960); inoltre nel 1961 B. Brandt, al termine di una ricerca durata molti anni, pubblica Perspective of nudes, che, pur avendo avuto un illustre precedente in Distorsions di A. Kertesz (1894-1985) del 1933, fece un certo scandalo per le deformazioni del corpo femminile così vicine alle sculture di H. Moore. Nelle fotografie di Brandt si ritrovano gli elementi surreali e a volte perfino astratti che compendiano il gusto della sua epoca, ottenuti tuttavia con risorse strettamente fotografiche. Con lo stesso spirito tra il 1956 e il 1960 il francese J. Dieuzaide (n. 1921) sviluppava un'interessante ricerca, che pubblicherà solo più tardi, avente come soggetto il brai, catrame di carbone, che, nero, denso, vischioso e con una superficie lucida che ben si presta a particolari giochi di luce, offre lo spunto per una virtuosistica esercitazione grafica con immagini piatte, dai contorni marcati, fortemente evocanti sensuali forme femminili. La mancanza di plasticità dei volumi, l'appiattimento dell'immagine fino a conseguire puri effetti grafici, cui contribuisce in maniera determinante il colore espresso per campiture, è anche l'esito della ricerca dell'italiano F. Fontana (n. 1933), che si cimenta nel paesaggio con risultati al limite dell'astrazione, ricchi di suggestione, ottenuti senza manipolazioni dei materiali. Rinunciando definitivamente al soggetto ripreso con la macchina fotografica, e lavorando unicamente in camera oscura con carta sensibile e prodotti chimici, elabora nel 1956 i suoi ''chimigrammi'' il belga P. Cordier (n. 1933), allievo di Steinert, che li espone a Bruxelles nel 1964. I chimigrammi di Cordier, così come le fotografie Diamantines di J.-P. Sudre (n. 1921) e i chimigrammi di P. Monti (1908-1982), si pongono come l'estrema conseguenza di un'esasperata volontà di annullamento della fotografia come riproduzione, sia pure filtrata attraverso la personalità del fotografo, del reale, alla ricerca di emulare l'arte astratta utilizzando le peculiarità del mezzo fotografico.

Forse una possibile chiave interpretativa di un tale diffuso atteggiamento è da ricercare nella crescente diffusione delle immagini attraverso la televisione, che diviene il mezzo più seguito, tanto da interessare come soggetto gli stessi fotografi negli anni a seguire. Negli anni Sessanta si assiste a un fiorire soprattutto della fotografia surreale, il cui caposcuola concordemente riconosciuto è J. Uelsmann, allievo di White. La sua tecnica consiste nella combinazione, attuata in fase di stampa con eccezionale perizia, di negativi diversi per ottenere invenzioni di spazi fantastici e onirici di grande effetto; i soggetti si collocano in paradossi spaziali, al di fuori di ogni esperienza logica, divenendo quasi simboli da decifrare in chiave psicoanalitica. Sulla stessa via lo segue lo svizzero R. Lichtsteiner (n. 1938), che per queste sue ricerche avrà nel 1966 il premio Niepce. Sempre nel 1966 compaiono le prime ''messe in scena'' di L. Krims (n. 1943), ricostruzioni accuratissime come su una scena teatrale di personali visioni, molto prossime ad allucinazioni, in cui ogni elemento dell'immagine è dichiaratamente artificioso; la fotografia, che sembra mostrare una realtà, ne dichiara insieme la possibile mendacità perché, come dice Krims, "è possibile dare concretezza a tutte le immagini che abbiamo in mente". Non diversamente, se non nella tecnica, che è quella della sequenza in cui aggiunge un valore temporale altrimenti assente e che risente in questo dell'influenza della strip dei cartoons, opera D. Michals (n. 1932), il quale dopo un periodo come ritrattista sente il bisogno di riempire i vuoti affettivi, che la scomparsa di alcuni suoi cari gli aveva lasciato. Le sequenze, ordinate in successione arbitraria, ricostruiscono con lo stesso grado di enigmatica incertezza l'iter dei pensieri e dei ricordi del fotografo, che dirà: "chi vede le mie foto vede i miei pensieri". Altrettanto fanno A. Tress (n. 1940; Dream Collector, 1966) ed E. Hosoe (n. 1933; Kamaitachi, 1969), che attraverso l'intenzionale discontinuità temporale lasciano all'osservatore la libertà d'immaginare una propria storia, eludendo la razionalità del tempo e riconducendo tutto allo spirito, evidenziando quanto profonda sia stata la lezione di White.

Gli anni Sessanta hanno visto anche l'affermarsi di correnti artistiche come la Pop Art e l'Arte Povera, in cui la fotografia gioca a vario titolo un ruolo piuttosto rilevante; si va dalle serigrafie di personaggi famosi di A. Warhol, tratte da foto pubblicitarie, alle macrofotografie di fumetti che servono per le ricerche di R. Lichtenstein, alle gigantografie ritagliate e incollate su specchi di M. Pistoletto. Tuttavia quest'uso della fotografia da parte di artisti non sembra produrre novità nel campo del linguaggio fotografico, ma anzi conferma e consacra il linguaggio della banalità con decisi accenti critici. Non diversamente il fenomeno sociale noto come

swinging London, pur conferendo un ruolo particolare al fotografo come personaggio, nulla aggiunge allo sviluppo delle ricerche sul linguaggio malgrado la presenza di nomi − D. Bailey (n. 1938), T. Donovan (n. 1939); B. Duffy (n. 1939) in Inghilterra e B. Stern (n. 1929), e R. Avedon (n. 1923), negli USA − divenuti celebri grazie a meccanismi estranei alla fotografia stessa, e celebrati nell'archetipo del film Blow Up di M. Antonioni.

Intanto l'industria fotografica realizza innovazioni e sviluppi tali nelle attrezzature e nei materiali sensibili da conquistare un mercato di consumatori enorme, che porta alla necessità di sostenere questo flusso nuovo di operatori; nascono moltissime testate specializzate che si affiancano alle poche già esistenti e che diffondono, oltre alle conoscenze tecniche e agli aggiornamenti commerciali, anche modelli da imitare. In questo contesto si collocano fotografi come S. Haskins (n. 1926), S. Moon (n. 1940), K. Shinoyama (n. 1930) e D. Hamilton (n. 1933). In Italia il fenomeno è particolarmente rilevante e cresce per tutti gli anni Settanta fino a contare circa venti riviste mensili con tirature di tutto rispetto che contribuiscono significativamente a innalzare il livello della fotografia soprattutto nel campo del reportage. Parallelamente crescono anche le gallerie che si specializzano nella fotografia, attivando un circuito di scambio di esperienze ancora tutto da verificare.

Il passaggio agli anni Settanta è segnato da D. Arbus (1923-1971), la cui opera segna una sorta di spartiacque tra le tendenze surrealiste degli anni Sessanta e quelle espressioniste degli anni Settanta.

Arrivata alla fotografia con il matrimonio col fotografo A. Arbus, la Arbus si dedica inizialmente con successo alla moda e alla pubblicità, conosce Frank ed Evans e soprattutto di L. Model (1906-1983), i cui insegnamenti risulteranno decisivi per l'evoluzione della sua personalità. Nel 1963 e nel 1966 ottiene la borsa Guggenheim e si dedica al reportage rivolto al mondo degli emarginati. Quando nel 1969 espone al MOMA in una collettiva con L. Friedlander e G. Winogrand, le sue fotografie provocano un certo clamore per la crudezza e insieme l'apparente innocenza con cui i soggetti, anormali, nani, travestiti, malati di mente, vengono presentati. La partecipazione con cui la Arbus si rivolge ai suoi personaggi è emotivamente intensa e trasferisce sull'osservatore un senso di sconcerto nel riconoscersi come in uno specchio deformante suscitando angosce sopite. L'isolamento del soggetto dal contesto aumenta la concentrazione dello sguardo sul particolare; la Arbus non manipola, né interpreta, ma constata la realtà e la offre alla riflessione senza indulgenze affettive che dirigano verso significati prestabiliti. La sua è fotografia pura.

Altri fotografi mostrano negli anni Settanta questa tendenza al ritorno alla realtà con impegno civile e sociale risentendo del clima politico post-sessantotto. L. Friedlander (n. 1934) pubblica nel 1970 Selfportrait, in cui mostra la ricerca dell'organizzazione formale di scene scaturite dalla confusione e dal disordine del paesaggio urbano; analizza situazioni frammentandole in singoli elementi che ricompone in un nuovo ordine che è insieme formale e morale. È un solitario che con discrezione e tenacia osserva il mondo che lo circonda con l'intento di comprenderlo; la presenza/assenza del fotografo si sente come un'immanenza. G. Winogrand (1928-1987), studi di pittura alle spalle, un inizio come reporter d'agenzia, un viaggio attraverso gli USA negli stessi anni di quello di Frank, l'influenza pesante di Evans, ama il contatto con la gente, partecipa della vita sociale, ma traduce le sue esperienze come fossero nature morte, senza lasciarsi andare a commenti o interpretazioni. Nei suoi libri The animals (1969), Women are beautiful (1975) e Public relations (1977) l'essere umano diviene oggetto tra gli oggetti in un coacervo di pletorica abbondanza senza distinzione di valori, annullandosi nel marasma del consumismo. La fotografia viene usata per ritrovare un ordine che è estraneo alla realtà in sé; "io fotografo un soggetto per sapere a cosa somiglia quando è fotografato", che suona come una parafrasi di quanto M. Mac Luhan aveva scritto già nel 1964: "La fotografia trasforma le persone in cose e la loro immagine in un prodotto di consumo di massa".

Per temperamento sognatore, ma non visionario, portato più al lirismo che alla denuncia, il cecoslovacco J. Koudelka (n. 1938), partendo da una sconfinata ammirazione per Cartier-Bresson, che non gli impedisce una totale autonomia espressiva, giunge a risultati ricchi di calda umanità e di partecipazione. I suoi temi sono gli umili con un forte senso della libertà e della naturale tragedia dell'esistenza, che trova nella vita dei nomadi la sua dimensione più vera. Il suo libero modo d'inquadrare le scene, variando il punto di ripresa, pur senza rinunciare a un rigoroso strutturalismo spaziale, lo pone al di fuori delle correnti fotografiche e lo avvicina solo alla grande lezione di semplicità assoluta di A. Kertesz.

Negli anni Settanta si assiste anche alla crisi del reportage a causa della concorrenza delle immagini televisive, non tanto per la qualità, quanto per l'immediatezza di queste ultime rispetto ai tempi più lenti della fotografia. Chiudono grandi testate come Life (1972) e il lavoro del fotoreporter si trasforma da cacciatore di immagini a indagatore della vita quotidiana; tra le personalità maggiori in questo campo si distinguono E. Boubat, R. Burri, B. Davidson e il sudafricano P. Magubane.

Le contraddizioni della fotografia tra impegno e arte pura non vengono risolte neppure dal passaggio al clima del cosiddetto reaganismo; l'unico dato che sembra prevalere è un ritorno all'esplorazione delle possibilità linguistiche del mezzo con un eclettismo forse eccessivo. Gli anni Ottanta esprimono un gran numero di interessanti fotografi, ma quelli che forse rappresentano in modo più completo la situazione in cui si dibatte la fotografia sono R. Mapplethorpe (1946-1989) e D. Hockney (v. in questa Appendice).

La perfezione tecnica, l'uso della luce che plasma carnose forme, la composizione rigidamente centrale e simmetrica, l'icasticità scultorea delle pose, l'ipertrofismo formale patinato dal sapore vagamente acido, i soggetti scabrosi (le sue mostre sono sempre fonte di polemiche e censure) e, per essere in linea col suo tempo, il suo stesso personaggio aureolato di una ben costruita fama di diverso contribuiscono ad assicurare a Mapplethorpe una notorietà meritata, che però non scioglie i dubbi sull'effettiva valenza del suo lavoro. In Hockney la tecnica dei materiali polaroid diviene l'occasione per costruire immagini vagamente cubiste; riprende piccole porzioni del soggetto con numerosissime foto, con leggere variazioni del punto di ripresa e successivamente le assembla fino a ottenere l'immagine finale. Le sfasature dovute a luce, punto di vista e assemblaggio volutamente approssimativi conferiscono alla fotografia definitiva l'impressione d'imprecisione dovuta a un tentativo di analisi della forma che richiama alla mente le topografie aeree o le immagini digitali della ricerca spaziale. Nelle sue fotografie Hockney cerca di superare l'istantanea e si ricollega idealmente alle prime avanguardie pittoriche nel tentativo di realizzare una sintesi di tempo e spazio.

Entrambi rispecchiano al meglio il clima del ''sembrare più che essere'' che attraversa tutti gli anni Ottanta fino alla crisi di rinnovamento attuale, caratterizzato da un polimorfismo di linguaggi, alla cui origine è sicuramente la consapevolezza del mutato rapporto con le altre forme di comunicazione visiva, soprattutto quelle digitali la cui flessibilità e duttilità sia di manipolazione che d'impiego pongono nuove affascinanti sfide nel campo creativo. Vedi tav. f.t.

Per una trattazione della storia e delle tecniche della fotografia v. anche fotografia, in questa Appendice.

Bibl.: P. Racanicchi, P. Donzelli, Critica e storia della fotografia, voll. i e ii, Milano 1963; B. Newhall, The history of photography from 1839 to the present day, New York 19644 (trad. it., Storia della fotografia, Torino 1984); H. e A. Gernsheim, The history of photography, New York 1969; AA. VV., La ricerca, Milano 1979; Photography: essays and images, a cura di B. Newhall, New York 1980; S. Gabor, A fotomuveszet torténete, Budapest 1982; J.-L. Daval, Photography: history of an art, New York 1982; A. C. Quintavalle, Messa a fuoco, Milano 1983; P. Tausk, Photography in the 20th century, Londra 1984; P. Turner, American images, photography 1945-1980, New York 1985; J.-C. Lemagny, A. Rouille, Histoire de la photographie, Parigi 1986 (trad. it., Storia della fotografia, Firenze 1988); P. Turner, History of photography, New York 1987; AA. VV., Art or nature, 20th century french photography, Londra 1988; Through the looking glass, a cura di G. Badger e J. Benton-Harris, ivi 1989; P. Bertelli, Della fotografia trasgressiva, Piombino 1992.

Tra le più importanti riviste sull'argomento: British Journal of Photography; Camera International; Fotografia; Camera Arts; Zoom. V. anche la collana ''I grandi fotografi'', Fabbri, Milano 1982-83.

Visual design. - Con visual o graphic design si "tende ad indicare l'insieme degli interventi operativi (da quelli ideativi a quelli manuali a quelli pianificatori) nel campo generale delle comunicazioni visive" (Anceschi 19882). Il termine mira a coprire quel vasto e variegato territorio che si estende oggi dall'editoria alla pubblicità, dal lettering (disegno di caratteri) alla segnaletica, dall'exhibition design alla corporate identity (immagine coordinata) e, all'interno di un sistema generale della progettualità, definisce un'area operativa che si affianca e interagisce con l'urbanistica, l'architettura, il design industriale e il disegno ambientale (Carta del progetto grafico, 1989).

Il protagonista di quest'ambito disciplinare, il progettista grafico o designer di comunicazione, è quell'operatore che, agendo in una realtà sociale caratterizzata da una molteplicità di servizi e di strumenti informativi, è in grado di gestirli ricorrendo all'apporto di altre discipline e stabilendo regole adattabili alle diverse esigenze e alle varie realtà dell'utenza e della committenza. D'altro canto la transitorietà e la contemporanea sistematicità della prassi progettuale pongono la sua attività in una posizione trasversale rispetto a un "sistema della comunicazione e dell'informazione che oggi dispone di una presenza generalizzata, oltre che di una diffusione capillare e di un assetto poderoso" (Carta del progetto grafico, 1989). Il designer interviene così sui processi di codifica, occupandosi quindi sia della realizzazione di diversi tipi di produzione scrittoria, sia dell'istituzione e dell'invenzione delle regole grafiche per ogni forma di produzione iconica (Anceschi 1991). Tuttavia solo di recente è nata l'esigenza di definire l'ambito disciplinare del grapich design, di avviare una sua storicizzazione e di promuovere un'adeguata formazione del progettista grafico, troppo spesso privo di una riconosciuta identità professionale.

La programmatica sperimentazione avviata dalle avanguardie storiche (dal futurismo al dadaismo, da De Stijl al costruttivismo) ha portato un significativo rinnovamento anche nel campo della grafica (per il cui percorso storico, v. tipografia: Storia dell'arte tipografica, XXXIII, p. 894; v. anche grafica e manifesto, in questa Appendice); si deve però riconoscere al Bauhaus la prima istituzione di una specifica categoria disciplinare, e ad alcuni esempi di grafica progettata, emersi nel corso degli anni Trenta, il merito di aver avviato una prima fase di consolidamento professionale (in Italia il caso Olivetti; lo Studio Boggeri e l'attività di Max Huber, ma anche iniziative come la pubblicazione, dal 1933 al 1939, della rivista Campo Grafico di A. Rossi). Ciò nonostante è nel secondo dopoguerra che si registra più di un intervento che mira a chiarire gli ambiti disciplinari, sia in direzione di una più diffusa operazione di divulgazione e informazione dell'attività dei grafici (soprattutto con la pubblicazione di riviste specializzate, come la londinese Typographica di H. Spencer), sia rispetto a una dichiarata esigenza corporativa che ha riflessi nella creazione di istituzioni come l'AGI (Alliance Graphique Internationale) e l'ICOGRADA (International Council of Graphic Designers Associations).

Nel corso degli anni Quaranta la leadership precedentemente assunta dall'Europa passò agli Stati Uniti che, verso la fine degli anni Trenta, avevano accolto un forte flusso migratorio. Numerosi intellettuali infatti avevano abbandonato i loro paesi di origine dove si erano stanziati regimi autoritari e, in particolare, la chiusura del Bauhaus nel 1933 aveva provocato la fuga verso occidente di numerosi graphich designers. H. Bayer (1900-1985) e L. Moholy-Nagy (1895-1946) giungevano in territorio americano col bagaglio di conoscenze acquisite in patria, soprattutto nell'ambito del Bauhaus. Tra il 1935 e il 1949 arrivarono negli Stati Uniti il russo A. Brodovitch (1898-1971), i francesi Cassandre (1901-1968) e J. Carlu (1900-1989), lo svizzero E. Nitsche, l'italo-olandese L. Lionni (n. 1910), il tedesco W. Burtin (1908-1972), l'austriaco J. Binder (1898-1972) e l'ungherese G. Tscherny (n. 1924).

Accadde così che intorno alla metà del 20° secolo New York diventasse il luogo fisico d'incontro del design europeo − teorico e altamente strutturato − con il design americano, piuttosto pragmatico, intuitivo e alquanto informale nell'organizzazione dello spazio. Gli eventi bellici e la singolare accelerazione subita dalle forze produttive della nazione avevano mutato la vita quotidiana così come l'immaginario collettivo, tanto da rendere necessarie nuove forme di comunicazione che rispondessero a una realtà caratterizzata da un notevole sviluppo dei trasporti e dell'elettronica, ma anche dalla diffusione della televisione e della filmografia a colori.

Più di altri designers statunitensi, P. Rand (n. 1914) fu in grado d'imporsi operando una sorta di pulizia formale e ridefinendo il ruolo del visual designer rispetto a una committenza che egli stesso riconosceva come incompetente e poco precisa. Dotato di una profonda conoscenza delle avanguardie storiche (soprattutto i Cubisti, Kandinskij e Klee) e del Bauhaus, lavorò tra il 1941 e il 1954 presso l'agenzia pubblicitaria Weintraub, affiancato in seguito da B. Bernbach, impegnato come lui nella riformulazione dell'advertising tradizionale. Anche sulla West Coast, inoltre, altri designers contribuivano a definire la progettazione grafica degli anni Cinquanta e Sessanta. Tra questi S. Bass (n. 1921), che sin dall'inizio della sua attività si distinse nell'ambito della produzione cinematografica rivoluzionando la grafica dei titoli per film: valga per tutti The man with the golden arm (L'uomo dal braccio d'oro) del 1955. Nell'area, invece, della grafica editoriale emerse per la sua originalità − espressa attraverso un'integrazione tra fotografia e tipografia − l'opera di Brodovitch e dei suoi allievi: O. Storch e, soprattutto, il viennese H. Wolf, art directors rispettivamente delle pubblicazioni periodiche McCall's ed Esquire.

A New York, nel 1953, fu pubblicato il World geo-graphich atlas, che costituì uno dei più importanti strumenti per la divulgazione scientifica. Il designer che vi lavorò, H. Bayer (1900-1985), raccolse nel corso di cinque anni un bagaglio di informazioni che tradusse in originali simboli, carte e diagrammi esplicativi di agevole lettura.

In Europa, la grafica editoriale registrò casi emblematici d'immagine coordinata, nati dalla collaborazione tra una casa editrice particolarmente avveduta e uno o più designers. Nel 1946 venne affidato a J. Tschichold (1902-1974) l'incarico di rivedere globalmente l'immagine della casa editrice londinese Penguin Books, per la quale egli progettò anche il manuale interno di regole per la composizione (Penguin composition rules), con la minuzia e la competenza che gli erano già state riconosciute senza tradire la convinzione che si avesse non tanto "bisogno di libri pretenziosi per ricchi", quanto di "libri comuni realmente ben fatti". Con analoghi presupposti fu progettata in Italia l'immagine della casa editrice Einaudi da designers come A. Steiner (1913-1974), B. Munari (n. 1907) e M. Huber (1919-1983), che pure non erano stati supportati da un manuale guida.

Sempre intorno alla metà del secolo emerse tra Svizzera e Germania un particolare indirizzo (''Stile tipografico internazionale'') che influenzò specialmente la grafica mondiale dei due decenni successivi, improntando anche parte delle realizzazioni più recenti. Caratterizzato da un uso rigoroso della ''griglia'', dalla preferenza data ai caratteri senza grazie e ai margini destri non giustificati, questo movimento, che vantò pionieri quali E. Keller (1891-1968), Th. Ballmer (1902-1965) e M. Bill (n. 1908), ebbe le sue radici nel De Stijl, nel Bauhaus e nella nuova tipografia tra gli anni Venti e Trenta. In quell'ambito l'attività del grafico fu valutata come utile dal punto di vista sociale, tanto da far preferire alle originali espressioni individuali un approccio più impersonale e mezzi espressivi il più possibile chiari e obiettivi.

In linea con questo programma s'inserì inoltre l'esperienza unica e fondamentale della Hochschule für Gestaltung (1950-1968) di Ulma, che fu diretta da M. Bill prima e da T. Maldonado (n. 1922) poi. La scuola, che rappresentò un punto di riferimento per la didattica e il dibattito connesso alla progettazione, includeva tra gli insegnamenti la semiotica, la teoria dei segni e dei simboli, nonché un approfondimento dei principi della retorica classica. Nell'ambito della sezione relativa alla Visuelle Kommunikation, O. Aicher (n. 1922) ebbe un ruolo determinante, accanto a quello di T. Gonda, F. Querengässer, A. Froshaug (1920-1984) e di alcuni rappresentanti della grafica internazionale; altri docenti furono M. Bense e A. Moles, protagonisti di un'estetica informazionale e strutturalista che si era andata affermando in Europa.

Sempre in area tedesca si distinse l'attività di H. Zapf (n. 1918; autore di un Manuale typographicum, nelle edizioni del 1954 e del 1968), uno dei maggiori disegnatori di caratteri tipografici, per l'attenzione particolare da lui rivolta alla calligrafia tradizionale e alla tipografia rinascimentale. I caratteri da lui creati rivelano un'altrettanto consapevole pratica delle tecniche coeve e rispondono all'idea da lui espressa del design tipografico come la più visibile delle espressioni visuali di un'epoca. Nel 1957 furono disegnati inoltre due caratteri (solo apparentemente simili) che ebbero larga diffusione: l'Helvetica di M. Miedinger, che divenne rappresentativo di un determinato gusto, e l'Univers, dello svizzero A. Frutiger (n. 1928), progettato per la fonderia francese Deberny & Peignot. Quest'ultimo, in particolare, non privo di numerose peculiarità, fu il primo carattere a essere concepito già prevedendo uno sviluppo completo delle sue varianti.

Altri esiti del cosiddetto Stile tipografico internazionale si poterono osservare in ambito svizzero, a Basilea e a Zurigo, nelle opere di E. Ruder (1914-1970) e A. Hofmann (n. 1920), autori di due distinti manuali e insegnanti alla Allgemeine Gewerbeschule di Basilea nel 1947, rispettivamente di tipografia e di progettazione grafica.

Con l'uscita a Zurigo, nel settembre del 1958, della rivista internazionale trilingue di grafica e argomenti affini Neue Grafik/New Graphic Design/Graphisme actuel (che cessa la pubblicazione nel 1965) − promossa e redatta da R. P. Lohse (1902-1988), J. Müller-Brockmann (n. 1914), H. Neuburg (n. 1904) e C.L. Vivarelli (n. 1919, autore della veste tipografica) − si offriva, a un pubblico il più ampio possibile, un rendiconto delle esperienze compiute nel campo della cosiddetta ''grafica costruttiva'', che poneva le sue finalità espressive nella "chiarezza quasi quantificabile" e nell'impiego dei "mezzi che garantiscono l'equilibrio e la tensione formale e cromatica".

Nel complesso gli anni Cinquanta furono caratterizzati da una duplice tendenza che corrispondeva a una diversa concezione della funzione del graphic designer. Se da un lato, infatti, s'individuava una certa produzione grafica volta a dilettare il gusto dei consumatori, dall'altro andava affermandosi il lavoro di designers (come Brodovitch, A. Lustig e lo stesso Rand) che consapevolmente operavano in qualità di interpreti originali del processo di comunicazione. Su un altro versante si negavano invece completamente la componente creativa e il ruolo etico del designer per giungere a parlare di visual engineering o di Design as a function of management (titolo di una conferenza tenuta da Aspen nel Colorado, nel 1953; Anceschi 1991). Non mancarono tuttavia casi esemplari di design program, come quello della IBM, dove si poté assistere a un'effettiva collaborazione tra un visual designer, Rand, e un industrial designer, H. Noyes (1910-1977); o anche della CBS radio, con l'ideazione dell'immagine coordinata a opera di W. Golden (1911-1959). Avvenne infatti, tra il 1950 e il 1960, che molti designers statunitensi come Rand, L. Beall (1903-1969), Bass e alcuni studi grafici come Lippencott & Marguiles o Chermayeff & Geismar scegliessero di operare per lo più nell'ambito dell'immagine coordinata, rispondendo a una richiesta avanzata dal mercato. Rand, in particolare, era conscio del fatto che, per essere funzionale per un lungo periodo, un marchio dovesse essere ridotto a forme essenziali che fossero nel contempo universali, uniche e stilisticamente atemporali. Beall, dal canto suo, contribuì allo sviluppo del cosiddetto corporate identity manual sottolineando la necessaria adattabilità che un marchio doveva avere rispetto alle infinite e diverse sue applicazioni. In ambito tedesco si poté assistere analogamente alla definizione, nel 1962, dell'immagine coordinata della compagnia aerea Lufthansa − che divenne un prototipo a livello internazionale − a opera di Aicher, con la collaborazione di Gonda, Querengässer e N. Roericht.

Altro fenomeno indicativo degli sviluppi della progettazione grafica fu la nascita, sempre nel 1962 a Chicago, dell'Unimark (R. Eckerstrom, J. Fogleman, M. Vignelli e B. Noorda tra i fondatori), la prima multinazionale del progetto di comunicazione che non fosse un'agenzia pubblicitaria (Anceschi 1991). Con i suoi 402 impiegati, corrispondenti a 48 differenti studi, Unimark era espressione di un design per nulla individualistico, che nell'uso della cosiddetta griglia e del carattere Helvetica, ritenuto il più leggibile, mirava a una completa standardizzazione dei mezzi grafici e alla definizione di un sistema comunicativo di facile utilizzazione (si vedano, soprattutto, i progetti per le metropolitane di Milano, New York e San Paolo).

Sul piano della progettazione di un comprehensive design system la fine degli anni Sessanta rappresentò senza dubbio il periodo della sua piena realizzazione. L'effettiva necessità di creare un sistema informativo visuale unificato fu offerta infatti dall'organizzazione di eventi collettivi, spesso a carattere internazionale, che prevedevano quindi la partecipazione di più gruppi linguistici. A questo riguardo i programmi avviati in occasione delle Olimpiadi di Città di Messico nel 1968 (graphic designer L. Wyman, n. 1937), di Monaco nel 1972 (graphic designer O. Aicher) e di Los Angeles nel 1984 (graphic designers, The Jerde Partnership e Sussman/Prejza & Co.), rappresentarono delle pietre miliari nell'evoluzione dei sistemi progettuali grafici (graphic systems). Per occasioni di questo tipo si trattava infatti di ottenere immagini ad alto contenuto grafico, semplici e leggibili, progettate dal marchio alla segnaletica, dai colori usati ai simboli dei vari settori, dai manifesti agli stampati, dai caratteri tipografici alle piante topografiche.

Il decennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale fu inoltre caratterizzato dallo sviluppo dell'immagine concettuale all'interno del graphic design, con esiti significativi negli Stati Uniti, in Polonia, in Germania e a Cuba. In Polonia, personalità come H. Tomaszewski (n. 1914), F. Starowiejski (n. 1930) e J. Lenica (n. 1928), si espressero attraverso la grafica dei posters, diventati famosi in tutto il mondo per la loro originalità inventiva e per l'icasticità di alcune soluzioni progettuali (si veda il logo disegnato nel 1980 da J. Janiszewski per il movimento polacco di Solidarnosc).

Con la nascita a New York nel 1954 del Push Pin Studio, M. Glaser (n. 1929), S. Chwast (n. 1931), E. Sorel (n. 1929) e altri, ex studenti della Cooper Union, diedero vita a un'impresa che si distinse nel panorama coevo e influenzò largamente la produzione successiva per l'uso arbitrario e assolutamente inedito di uno sterminato bagaglio di motivi iconografici e di modelli grafici, desunti dal passato, ma anche dal presente più prossimo (la Pop Art).

Il Push Pin Studio univa all'artigianalità del disegno l'immaginario cinematografico ed era espressione di quell'eclettismo e di un certo citazionismo che andava affermandosi in quegli anni. Tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi del 1970 si unì al gruppo il canadese B. Zaid (n. 1939), distinguendosi per uno studio quasi filologico delle espressioni grafiche del passato, tanto da diventare un esponente di rilievo della corrente storica e revivalista, con incursioni nella grafica vittoriana e con un recupero delle forme geometriche dell'Art déco. La grafica push pin rappresentò così un'alternativa al tipo d'illustrazione narrativa del passato, alla matematica e obiettiva impostazione tipografica e fotografica dello Stile tipografico internazionale e alle caratteristiche formali della New York School.

Al contrario dei manifesti polacchi postbellici patrocinati dalle agenzie governative, i posters apparsi negli Stati Uniti negli anni Sessanta nascevano da un clima di attivismo sociale. Il movimento dei diritti civili, la generale protesta contro la guerra nel Vietnam, le prime manifestazioni del movimento di liberazione delle donne e la ricerca di uno stile di vita alternativo prendevano forma nelle agitazioni collettive del decennio e i manifesti erano più di frequente appesi alle pareti delle case che affissi per strada. La prima ondata apparve negli ultimi anni Sessanta nell'ambito del movimento hippy, localizzato in un particolare quartiere di San Francisco, e i manifesti furono chiamati anche ''psichedelici''. Negli anni Settanta la postermania raggiunse l'apice trovando un suo terreno di espressione nei campus universitari statunitensi; ma già nel corso degli anni Ottanta un generale clima di riflusso portò a una produzione limitata di manifesti, per lo più visti come oggetti decorativi.

In Europa negli anni Sessanta − si guardino soprattutto i progetti di G. Kieser (n. 1930) e, in Francia, di R. Massin (n. 1925) − ma con esempi ancora nell'ultimo decennio, si è andato affermando un graphic design che può definirsi poetico, perché ritrova le proprie forme espressive nell'immaginario e utilizza il collage, il montaggio, le tecniche fotografiche e fotomeccaniche. Di matrice invece dichiaratamente politica è la nascita, nel maggio del 1968, di una grafica spontanea realizzata con tecniche ''povere'' e con un privilegio accordato al disegno piuttosto che alla riproduzione fotografica, e al testo scritto a mano quale parte integrante dell'immagine. Rientra in questo clima la formazione nel 1970 del gruppo parigino Grapus, schierato a fianco delle forze di sinistra e in polemica con la grafica esclusivamente commerciale, che ha avuto in seguito molti imitatori che ne hanno apprezzato la verve e la forza comunicativa.

Per i cosiddetti paesi del Terzo Mondo (America latina, Asia, Africa) i manifesti sono stati un mezzo per sfidare l'autorità ed esprimere dissenso politico e solidarietà nei confronti degli oppressi. Dopo la rivoluzione di Castro nel 1959, Cuba divenne il maggior centro di produzione di posters, per lo più di soggetto politico. Tra le immagini più utilizzate per la propaganda, caratterizzate dall'uso di colori primari, dalla scelta di caratteri tipografici senza grazie e dalla preferenza data a riproduzioni fotografiche ''bruciate'' (cioè prive di mezzi toni), emerge quella del ''Che'' Guevara ampiamente riprodotta, e sui più diversi supporti, dagli anni Sessanta in poi e che è diventata nel tempo una sorta di icona priva di connotazioni temporali.

In Giappone, durante il periodo successivo alla seconda guerra mondiale, la leadership in campo tecnologico e una cognizione dei modelli e dello stile di vita occidentali favorirono la nascita di un graphic design che era in grado di assorbire influenze internazionali pur conservando le proprie tradizioni. Y. Kamekura (n. 1915; promotore nel 1960 di un Centro per il design giapponese e autore nel 1964 del manifesto e del logo per le Olimpiadi di Tokyo), M. Tadashi (n. 1922), T. Igarashi (n. 1944), T. Yokoo (n. 1936) e S. Fukuda (n. 1932; noto per il particolare humor dei suoi lavori) furono rappresentanti di una progettazione grafica che, nel rispondere alle esigenze di una committenza vasta e diversificata, lasciava ugualmente molto spazio alla componente creativa.

Nel corso degli anni Settanta anche per la progettazione grafica fu introdotto il termine ''postmoderno'', a indicare tutto quello che rompeva con il cosiddetto Stile internazionale che era stato prevalente dal Bauhaus in poi. Con ciò s'intendeva individuare non tanto un unico indirizzo d'indagine, quanto piuttosto varie aree progettuali.

Prima in Svizzera e poi nel resto del mondo si diffuse, durante gli anni Settanta, una nuova tendenza in opposizione al freddo formalismo della tradizione modernista così come, negli anni Venti, H. Bayer, Tschichold (autore nel 1928 del Die Neue Typographie) e altri avevano creato un nuovo design tipografico destinato a improntare gran parte degli esiti successivi. A Basilea il tedesco W. Weingart (n. 1941) diede forma a un graphic design ricco di effetti visuali e, dopo il 1974, volse la propria attenzione alla stampa offset e alle possibilità offerte dall'utilizzo delle pellicole fotografiche, abbandonando i caratteri in piombo e la stampa tipografica in monotype e linotype.

Weingart e altri pionieri di questa new wave tipografica (figure importanti negli Stati Uniti sono D. Friedman, n. 1945, A. Greiman, n. 1948, e W. Kunz, n. 1943) in definitiva rifiutarono la nozione di stile e considerarono i loro lavori come un tentativo di estendere i parametri della comunicazione tipografica. Essi furono ampiamente imitati, soprattutto nell'ambito dell'educazione grafica, e influenzarono largamente la produzione tipografica tra la fine degli anni Settanta e il decennio successivo. Era accaduto, nel frattempo, che l'introduzione del fototypesetting (fotocomposizione) − cioè del carattere fotografico − combinato con la stampa offset, determinasse un'omologazione dal punto di vista tecnico tra parole e immagini. La composizione non avveniva più mediante l'accostamento di matrici di piombo, ma attraverso il collage o la sovrapposizione di pellicole trasparenti, e una piena e sistematica utilizzazione della fotocomposizione si poteva osservare nella stampa dei giornali (per es. del Sunday Magazine e del New York Herald Tribune del grafico P. Palazzo).

Nel corso degli anni Ottanta particolare diffusione ebbe lo stile ornamentale e manieristico del cosiddetto design postmoderno, generato da diverse correnti internazionali che comprendevano il gruppo Memphis e soprattutto l'attività di E. Sottsass (n. 1917), l'originale vocabolario formale dell'architetto M. Graves (n. 1934) e i grafici di San Francisco. L'uso di ricche tavolozze e la ricercata decorazione caratterizzata da textures, elementi geometrici e forme in movimento diede vita a uno stile facilmente riconoscibile, che trovava la sua migliore espressione nel trattamento delle superfici.

Il movimento basato sul revival storico e perciò chiamato Rétro (emerso dapprima a New York, ma diffusosi poi in tutto il mondo) potrebbe essere considerato un aspetto della corrente postmoderna per il suo interesse per la grafica del passato, se non si rivolgesse esclusivamente ai modelli apparsi tra gli anni Venti e gli anni Quaranta piuttosto che a motivi greco-romani e rinascimentali. In particolare le newyorkesi P. Scher (n. 1948), L. Fili (n. 1951) e C. Goldberg (n. 1953) mostrarono un atteggiamento non ortodosso nei confronti della progettazione grafica propriamente detta, e la tipografia permise loro di rischiare audaci sperimentazioni mischiando le polizze, esagerando le spaziature e adottando, nella qualificazione cromatica dei caratteri, sottili sovrapposizioni di tinte di diversa saturazione.

Appartiene solo in parte all'area del revival storico l'originale grafica del londinese N. Brody, che s'inserisce piuttosto nel clima pluralistico caratteristico di questo scorcio di secolo. Autore nel corso degli anni Ottanta di una serie di copertine di album per musicisti rock e art director delle riviste inglesi The Face e Arena, Brody è stato certamente influenzato dalle forme geometriche proprie del Costruttivismo russo (in particolare da A. M. Rodčenko) e dalla sperimentazione Dada, ma ha elaborato una sintassi tutta personale, libera da qualsiasi regola o procedimento esecutivo.

Già negli anni Settanta, con la maggiore diffusione delle apparecchiature per la grafica su computer, la prassi progettuale aveva subito notevoli cambiamenti, ma è con l'introduzione nel 1984 della prima generazione di computer Macintosh, per iniziativa della Apple Computer, che si è compiuta una vera e propria rivoluzione. La semplificazione delle procedure operative (selezionabili con l'uso del mouse e delle icone, disegnate da S. Kare), se da un lato ha provocato la reazione negativa di quei designers che rifiutavano la nuova acquisizione tecnologica giudicandola alquanto rudimentale (e al limite poco flessibile), dall'altro ha riscosso un notevole successo tra coloro che invece ne individuavano la forte componente innovativa e la capacità di espandere le potenzialità del design: tra questi A. Greiman, R. VanderLans (n. 1955) e L. Hidy.

L'introduzione poi, nel 1985, delle stampanti laser in grado di ottenere una stampa da computer notevolmente definita, ha rappresentato un ulteriore passo avanti sul piano delle acquisizioni tecnologiche che, agli inizi degli anni Novanta, hanno subito una tale accelerazione nella creazione di software, computer e output devices (dispositivi d'uscita) da mettere in grado i graphic designers di ottenere risultati virtualmente identici a quelli raggiungibili mediante i procedimenti tradizionali, ma anche assolutamente nuovi rispetto a questi. Sicuramente l'impatto tecnologico sulla grafica è destinato a diventare nei prossimi anni sempre più pronunciato. Gli optical disks (dischi ottici), le capacità dei video capture-and edit (acquisizione e manipolazione video) e dei media interactive print-and-time-based stanno infatti ampliando i domini della progettazione grafica nella direzione di una tale crescita dei potenziali a disposizione del grafico da non poter prevedere quali saranno i prossimi sviluppi. È infatti accaduto che la progettazione grafica abbia subito, come spesso accade, profonde trasformazioni, ma non abbia perso di vista il proprio specifico e abbia agito quindi, sul piano della comunicazione, dando ordine alle informazioni, forma alle idee ed espressione ai prodotti che documentano l'esperienza umana (Meggs 19922). Nel contempo, l'utilizzo di sistemi grafici computerizzati in media, quali la televisione (per i titoli di testa, i siparietti, le rappresentazioni schematiche, ecc.), ha esercitato a sua volta un'influenza formale sulla comunicazione grafica e sta incidendo in maniera definitiva sulla struttura teorica della disciplina operando una sorta di unificazione rispetto ai tradizionali ambiti disciplinari e alle corrispondenti professionalità storiche (Anceschi 1991).

Una trattazione a parte meritano l'analisi e lo sviluppo della cosiddetta immagine pubblica (o immagine di pubblica utilità), connessa all'idea di un intervento progettuale che faciliti i processi comunicativi nell'ambito di grandi sistemi d'informazione. Con precedenti notevoli già agli inizi di questo secolo (l'Underground Railway di E. Johnson del 1916), seguiti da casi di programmazione a livello statale (in Olanda, già dal 1945), si è giunti in seguito a progettare veri e propri sistemi grafici come quelli dei British traffic signs di J. Kinneir (1964) per la segnaletica stradale; in Italia, di Noorda (n. 1927) per la metropolitana milanese (1964) e di Steiner per la città di Urbino (nel 1969, con la collaborazione degli studenti dell'ISIA, Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) e, negli Stati Uniti, del Federal design improvement program, sotto l'amministrazione Nixon. Intanto in Inghilterra Th. Crosby (n. 1929), A. Fletcher (n. 1931) e C. Forbes (n. 1928, poi Studio Pentagram) avevano pubblicato una sorta di compendio in A sign systems manual del 1970.

Nel corso degli anni Ottanta, poi, la riflessione disciplinare ha avuto più spazio centrando la sua attenzione anche su grandi manifestazioni sportive e tentando di ovviare al multilinguismo (o anche all'analfabetismo) favorendo la progettazione di sistemi pittogrammatici. Gli esempi della Prima biennale della grafica di Cattolica (1984) e dell'esposizione di Parigi Images d'utilité publique (1988) assumono un particolare rilievo soprattutto alla luce di una più generale attenzione nei confronti dell'utenza. Vedi tav. f.t.

Bibl.: B. Munari, Arte come mestiere, Bari 1966; G. Dorfles, Introduzione al disegno industriale, Torino 1972; L'altra grafica, a cura di R. Cirio e P. Favari, Milano 1972; Images of an era: the American poster 1945-75, catalogo della mostra con introduz. di J. Garrigan, Washington-Houston-Chicago-New York 1975-76; A. Steiner, Il mestiere di grafico, Torino 19782; E. Booth-Clibbon, D. Baroni, Il linguaggio della grafica, Milano-Tokyo 1979; G. Iliprandi, A. Marangoni, F. Origoni, A. Pansera, R. Sambonet, Il progetto grafico. 20 interventi nel nostro quotidiano, catalogo della mostra, Milano 11 giugno-19 luglio 1981; Rassegna, iii, 6, aprile 1981; Lo Studio Boggeri. 1933-1981, Milano 1981; Max Huber. Progetti grafici 1936-1981, ivi 1982; Hans Neuburg. 50 anni di grafica costruttiva, ivi 1982; Campo Grafico 1933-1939. Rivista di estetica e di tecnica grafica, ivi 1983; Prima biennale della grafica, catalogo della mostra a cura di G. Anceschi, Cattolica 1984; G. Iliprandi, A. Marangoni, F. Origoni, A. Pansera, Visual design. 50 anni di produzione in Italia, catalogo della mostra con introd. di G. Dorfles, Milano 1984; Grafica, i, n. ''0'', febbraio 1985; J. Müller-Brockmann, Geschichte der Visuellen Kommunikation. A history of visual communication, Niederteufen 1986; Images d'utilité publique, catalogo della mostra a cura di J. Chapelle, M. Emanuel, C. Eveno, Parigi 3 febbraio-28 marzo 1988; G. Anceschi, Monogrammi e figure, Firenze 19882; Carta del progetto grafico. Tesi per un dibattito sul progetto della comunicazione, Aosta 24 giugno 1989; Disegnare il libro. Grafica editoriale in Italia dal 1945 ad oggi, Bologna 19892; M. Gallo, I manifesti nella storia e nel costume, Verona 19893; G. Lussu, Introduzione a Tschichold. La parola ben composta, in Grafica, v, 8, dicembre 1989; R. Pieraccini, Progetto d'immagine. Uno studio grafico all'interno dell'Olivetti, Roma 1989; Grafica: la cultura del progetto, a cura di G. Torri, Quaderno AIAP (Associazione Italiana Artisti Pubblicitari; oggi Assoc. Ital. Creativi Comunicazione Visiva), vi, 13-14, 1989; F. Colombo, Breve storia teorica della computer graphics, in Grafica, vi, 9, luglio 1990; Farsi un libro, a cura di M. Baraghini e D. Turchi, Roma 1990; G. Anceschi, Grafica, visual design, comunicazioni visive, in Storia del disegno industriale. 1919-1990 Il dominio del design, Milano 1991; R. Kinross, Modern typography, Londra 1992; P.B. Meggs, A history of graphic design, New York 19922; G. Lussu, Graphisme d'utilité pubblique en Italie. De la Biennale de Cattolica à la charte du projet graphique, in Signes, 8 (1993), pp. 20-23.

Videoarte. - Dalla fine degli anni Trenta, quando si attivarono i primi servizi di emittenza pubblica, la televisione si è imposta rapidamente come un mezzo di grande portata innovativa nel modo di produrre, registrare e trasmettere (anche in tempo reale) le immagini; ha allargato i confini della percezione dello spazio e del tempo, ha moltiplicato la comunicazione, incidendo sulle abitudini di vita, sull'informazione, sull'intrattenimento e sulla cultura in senso lato, ma senza derogare da una serie di stereotipi e di convenzioni immediatamente codificati in base a un linguaggio piattamente massificato.

Negli anni Sessanta ha avuto inizio la sperimentazione artistica delle teorie e dei procedimenti informatici, subito caratterizzata da una connotazione critica e alternativa, diretta a inventare nuovi linguaggi espressivi attraverso la rielaborazione e la manipolazione delle prestazioni tecnologiche del mezzo, fino alla manomissione dei suoi componenti. Da allora, confrontandosi con le possibilità offerte dall'elettronica, molti artisti ne hanno utilizzato i dispositivi e le tecnologie come strumento nuovo e ulteriore di ricerca estetica, in svariate esperienze che incorporano arte e scienza, tempo spazio e movimento, immagini, suoni, oggetti, ambienti, percezione, sul filo conduttore di una creativa alterità rispetto al linguaggio omologante e ripetitivo delle reti istituzionali. Il termine videoarte indica la molteplicità di queste indagini e realizzazioni che si svolgono a livello internazionale lungo percorsi differenziati, di volta in volta fusi o intersecati in nuove sintesi audiovisive (grande è l'importanza delle sperimentazioni musicali), in una continua e creativa interazione con la globalità delle ricerche artistiche e tecnologiche.

Fin dagli esordi ha assunto particolare evidenza il rapporto tra le potenzialità espressive peculiari dei nuovi strumenti elettronici e determinati orientamenti di punta della ricerca artistica contemporanea. Le prime esperienze di videoarte (N. J. Paik e W. Vostell) si collocano infatti nell'ambito del gruppo Fluxus; il movimento, nato nel 1962 in USA con G. Maciunas, ispirato a Dada e a M. Duchamp, influenzato da J. Cage, ha avuto importanti sviluppi in Europa, e si è rivolto alla manipolazione dei linguaggi e della percezione, alla decostruzione e decontestualizzazione dei comportamenti e della comunicazione, con esiti innovativi e provocatori nei confronti del coinvolgimento degli spettatori e di uno spiazzamento del concetto di opera.

N. J. Paik (n. Seul 1932), dopo aver studiato estetica e storia della musica a Tokyo (con una tesi su A. Schönberg), si trasferisce in Germania (studi con K. Stockhausen e L. Nono), e poi negli Stati Uniti dove entra in contatto con Cage e con Maciunas e collabora con Ch. Moorman. Nel 1963 alla Galleria Parnass di Wuppertal viene presentata l'Exposition of music-electronic television, allestita con 13 apparecchi televisivi, 3 pianoforti e numerosi oggetti per gli effetti sonori. Con un'operazione destrutturante Paik deforma sui monitor l'immagine televisiva in bianco e nero, modificando la disposizione degli elementi elettronici all'interno degli apparecchi; assume come dato di partenza il mezzo e i suoi dati tecnologici ma sostituisce all'immagine usuale la costruzione astratta di modulazioni luminose verticali e orizzontali collegate alla musica elettronica.

Contemporaneamente a Paik opera W. Vostell (n. Leverkusen 1932), un artista formatosi tra Parigi e Düsseldorf. Ispirandosi al concetto Fluxus dello spostamento dell'arte nella vita e dello svelamento del quotidiano, Vostell mette a punto fin dal 1954 la tecnica dei dé-collages, che, nell'ambiguità semantica di ''strappo'', ''scollamento'', ''decollo'', caratterizzano svariati tipi di azioni, trasformazioni ed eventi. Già nel 1958 Vostell allestisce a Berlino la Chambre Noire, in cui inserisce un televisore con i suoi normali programmi tra i décollages della denuncia delle stragi naziste, con chiari intenti ideologici e politici. Nel 1963 Vostell pone direttamente in contatto questa tecnica con le modificazioni del linguaggio televisivo che, con dichiarato intento critico, decompongono e ricompongono immagini ''strappate'' da programmi televisivi di larga diffusione; presenta a New York (Smolin Gallery, 1963) i TV Dé-collages elettronici: immagini televisive modificate da diversi interventi (manomissioni esterne, pitture, guasti, alterazioni), ripresi nel film 16 mm, Sun in Your Head, che prelude allo sviluppo della videoarte. Sempre a New York nel 1965 Paik sperimenta anche la ripresa in esterni utilizzando la prima telecamera portatile della Sony, la portapack. In un video sulla visita di Paolo vi a New York, presentato la sera stessa al Café à Gogo, egli modifica visivamente stralci di vita quotidiana, trasfigurandone la banalità con nuove e provocatorie implicazioni. "Un giorno − dichiara Paik in quest'occasione − gli artisti lavoreranno con i condensatori, le resistenze, i semiconduttori come oggi lavorano con i pennelli, i violini e il bric-à-brac".

Tra il 1963 e il 1965, dunque, si delineano subito due fondamentali orientamenti di ricerca e di sfruttamento delle peculiari potenzialità del mezzo: l'elaborazione dall'interno e/o la registrazione in esterno; l'utilizzazione mediata e quella diretta. In ambedue i casi il sistema elettronico è prelevato dal suo specifico contesto e manipolato sia in quanto strumento produttivo di immagini sia in quanto oggetto. Da queste elaborazioni e dal loro pressoché costante inserimento in un processo di combinazioni e di interferenze con una molteplicità di forme e metodi della comunicazione artistica e mediale si dipana la grande varietà di ricerche, di interventi e di opere della videoarte: la produzione originale di opere appositamente concepite per il mezzo video; la registrazione, spesso in tempo reale, di azioni, performances ed eventi; la dislocazione in uno stesso spazio ambiente di diverse strutture video (videosculture e environments); la combinazione intermediale di dispositivi eterogenei come diapositive, film, immagini plastiche, oggetti (installazioni); la coniugazione multimediale di produzioni o riprese televisive con altre tecniche o linguaggi (performance, teatro, danza); le creazioni di immagini inedite, con uso di sintetizzatori senza una referenza esterna (Fagone 1990, p. 36).

Con un procedimento mentale e un'elaborazione formale che riporta agli orientamenti artistici emergenti della fine del moderno, negli ultimi trent'anni si sono accostati alla videoarte per brevi attraversamenti, o scegliendo tale settore come campo privilegiato d'azione, artisti provenienti da formazioni e scelte diverse; dalla pittura (E. Emshwiller, E. Velez, Vostell, W. Wegman, F. Plessi), dalla scultura (G. Hill, K. Yamaguchi, M.-J. Lafontaine), dalla musica (Paik, R. Ashley, R. Cahen, D. Lombardi), dal cinema (M. Dantas, P. Greenaway, M. Klier, J.-P. Fargier, J.-L. Le Tacon, Z. Rybczynski, W. Vasulka), dal teatro e dalla danza (M. Monk, R. Wilson), dalla fotografia (J. Logue, Studio Azzurro), dalla poesia (G. Toti), o direttamente, nella giovane generazione, dall'interno della cultura video underground, come K. vom Bruck, J. Sanborn, M. Perillo, M. Oldenbach, K. Fitzgerald, B. Viola, D. Winkler, T. Flaxton. Per tutti comunque l'esplorazione del mezzo si caratterizza come una ricerca versatile, polivalente, con l'accentuata tendenza a una sperimentazione in progress in direzioni diverse e con un'intensa contaminazione e interazione di linguaggi. La dimensione della videoarte si esplica in un contesto internazionale fitto di scambi, di apporti individuali differenziati come di momenti di aggregazione collettiva, di confronti di gruppi e artisti. Esemplare in questo senso Good Morning Mr Orwell, performance internazionale via satellite, organizzata da Paik, Cage, J. Beuys, Ginsberg, Cunnigham e altri, che ha presentato in diretta il 1° gennaio 1984 gli interventi di cinquanta artisti al Centre G. Pompidou di Parigi e al Museum of Modern Art di New York.

Negli anni Sessanta sono intensi i contatti e gli scambi con le sperimentazioni artistiche d'avanguardia, soprattutto quelle che tendono a una smaterializzazione dell'opera, alla presentazione di idee più che all'espressione materiale, alla liberazione di comportamenti e a relazioni nuove con l'ambiente il tempo il quotidiano, e tra artistiopera-fruitore. Manifestazioni di arte concettuale, bodyart, land art, environments, happenings, sono stati documentati in numerose videoregistrazioni (tra gli altri di V. Acconci, G. Le George, G. Pane, R. Lang; importante in Italia la videoteca raccolta dal 1969 da L. Giaccari). Il principio della registrazione (non di rado pensata e controllata dagli stessi artisti) tende ad assumere connotati creativi e individualizzati, dando origine a una nuova opera; la partecipazione alla riflessione sul linguaggio e sulla percezione, sul corpo e sull'ambiente, nel video si estende a un'esplorazione, spesso prolungata, minuziosamente dettagliata ed estenuata, sul tempo e sulla temporalità (di chi fa l'opera come di chi la riceve).

Si possono ricordare, per es., Empire (1964) di A. Warhol, in cui otto telecamere dirette verso l'Empire State Building registrano i lenti cambiamenti della luce; Rewolwing upside down di B. Naumann (1969), sulla ripetizione di azioni banali; Identifications di G. Schum (1970) sul tema del movimento e di un tempo mediatizzato; Tanz für eine Frau (1975) di U. Rosenbach; Air Time di Acconci (1973), performance video di quindici giorni alla Sonnabend Gallery di New York; Coyote di Beuys (1974, dalla performance I like America and America likes me, realizzata alla René Block Gallery di New York: per tre giorni l'artista dialoga con il coyote in una metaforica riconciliazione tra natura e cultura); Toilette (1979) di F. Pezold (93 minuti di minuziose cure corporali); Relation in space (1971, poi alla Biennale di Venezia del 1976), di M. Abramovic e Ulay sulle relazioni interpersonali in un dato momento e luogo, e, degli stessi autori, The lovers. The great wail walk (1989) su un lungo percorso sulla Grande muraglia cinese, in cui sono espliciti riferimenti alla cultura orientale, presenti anche in vari altri videoartisti, come Paik, E. Velez, G. Hill, B. Viola, D. Martinis. Un'altra utilizzazione legata alla registrazione degli spettacoli più diversi del quotidiano, con intento politico o educativo, circoscritta al clima culturale e ideologico degli anni Sessanta, è la Guerrilla-video, teorizzata in un libro di M. Shamberg (1971).

L'elaborazione dei videotapes artistici, che costituiscono via via un genere sempre più autonomo, si sviluppa con ampiezza negli anni Settanta e Ottanta. Mentre si attenua l'atteggiamento ideologico iniziale di opposizione alla televisione e sono in declino le ricerche comportamentali e concettuali, gli artisti mostrano un interesse più specifico e libero per le ricerche informatiche e per i contatti con il cinema e la televisione, grazie anche alla rapida crescita tecnologica e alla diffusione di dispositivi che offrono sempre nuove possibilità.

Numerose sono le elaborazioni connesse variamente a una nuova narratività (M. André, Galerie de portraits, 1982; Juste le temps di R. Cahen, 1983), alle forme dello spettacolo underground (particolarmente vivace in Italia negli anni Ottanta con i gruppi Magazzini Criminali, Gaia Scienza, Barberio Corsetti, ecc.), all'interpretazione visiva di testi letterari (J.-P. Fargier, L'échelle de Jacob, derivato da Finnegans wake di J. Joyce, nel 1983), al cinema (l'expanded cinema di G. Youngblood, 1970), alla musica (Le Tacon, performance musicale Electric Momes, 1983-84). Particolarmente vivace e fascinoso è l'incontro tra ambientazioni (environments) e video. Video sculture e videoinstallazioni utilizzano insieme, in varie combinazioni e contesti, l'elaborazione delle immagini del monitor (o di più monitor), i suoni, e l'impiego dell'apparecchiatura televisiva, come oggetto o quasi come materiale scultoreo o pittorico da assemblare, manipolare, e reinterpretare. Si determinano relazioni percettive nuove tra oggetti e immagini, spazio e tempo; realtà e apparenza si compenetrano e si scambiano, presente e passato s'intrecciano in una nuova simultaneità. Anche riguardo a tale settore va ricordata l'attività pionieristica di Paik, sia nella serie dei Robot e dei TV Buddha, sia in numerose videoinstallazioni, dall'Electronic Blues (1967, Howard Wise Gallery, New York) al Young Buddha on Duratrans Bed (1969-92) alla più recente e suggestiva TV Candle (1990) in cui per la prima volta è inserito un videoproiettore che moltiplica e ingigantisce la luce arcaica e simbolica di una candela.

Particolarmente significativi, nell'ambito di una produzione assai vasta, il videoenvironment Vidéocéanes (presentato a Brest e poi a Parigi nel 1983), un assemblage di schermi multipli su cui erano proiettatri Escale di A. Longuet, Round around the ring di Lafontaine, Le lac di J.-M. Gautreau; inoltre i lavori di videoinstallazione di B. Naumann alla Nicholas Wilder Gallery di Los Angeles (1967); di J. Downey (With energy beyond these walls, 1971, all'Everson Museum di Syracuse); di D. Davis (1971), che pone un televisore acceso con lo schermo rivolto verso il muro ma senza programmi; di Acconci, B. Beckley, T. Fox, W. Wegman (New York, 93 Gran Street, 1971); di P. Campus (Bykert Gallery di New York, 1972); di Vostell (Depression endogène, 1975, con vecchi televisori paralizzati in colate di cemento, in un ambiente in cui circolano animali vivi: cani, tacchini, pesci, con effetti psicologici e visivi di decontestualizzazione); di A. Muntadas (Pamplona Grazalema, the ritual of the bull in Spain, videoinstallazione al Guggenheim, 1980); di Viola (Room for St John of the Cross, 1983). Di notevole suggestione sono anche i giardini elettronici di Yamaguchi (1985), il Mirror room with time delay di D. Graham (1974), poi ripreso in Present, continous past(s), all'esposizione Machines à communiquer, alla Cité des Sciences di Parigi (1991), fondato su un rapporto di riflessi tra osservatore e osservato, in una stanza tappezzata da specchi, in cui lo spettatore si vede ripetuto all'infinito in un tempo-durata perpetuato e sfasato dalla ripresa ritardata della telecamera: i racconti-videoinstallazione di Lafontaine (L'enterrement de Mozart, 1986); il gioco di simulazioni di Plessi che opera sul confronto e il paradosso tra vero e finto (Cariatide, 1990; La stanza del mare, 1991), associando materiali dell'Arte Povera alla smaterializzazione degli stessi oggetti nel video.

Tutte queste ricerche sono state sostenute a livello internazionale da alcune gallerie di punta, come la Videogalerie di G. Schum a Berlino e a Düs seldorf alla fine degli anni Sessanta; la galleria Scan di F. Nakaya a Tokyo; la Galerie Media a Montreal (tra gli artisti presentati, General Idea, N. Hutchson, K. Craig, C. Robertson); il Centro culturale studentesco di Belgrado, guidato da B. Tomic (1973, con D. Martinis, S. Ivekovic); la Howard Wise Gallery (dal 1966 al 1973) a New York, che organizza nel 1966 l'esposizione mondiale di computergraphic e nel 1969 la prima grande esposizione di videoarte, Tv as a creative medium, con opere di F. Gillete, S. Boutourline, P. Ryan, I. Schneider, Paik, Moorman, E. Reiback, E. Siegel, Th. Tadlock, A. Tambellini e J. Weintraub. Nel 1971, sempre a New York, apre The Electronic Kitchen (tra i fondatori S. e W. Vasulka; in seguito The Kitchen Center for Video, Music and Dance), che esplica un'importante attività con artisti quali Paik, D. Graham, P. Campus, Schneider, J. Jonas, T. Blumenthal, D. Birnbaum, K. Fitzgerald, J. Sanborn, Viola.

S'intensificano negli anni Settanta l'attenzione e la partecipazione dei musei con mostre, dibattiti, incontri; nel 1971 il MOMA di New York presenta il Video environments projects di K. Sonnier; nel 1974 si svolge l'Art Confrontation al Musée d'art moderne de la Ville de Paris; nel 1976 l'esposizione di computergraphics a Tokyo; nel 1982 si organizza al Centre G. Pompidou una serata in onore di Paik con 400 televisori. Nel 1983-84 al Musée d'art moderne de la Ville de Paris un'ampia rassegna delle ricerche videoartistiche è presentata da F. Popper ed E. Couchot alla mostra Electra. Varie edizioni di Documenta a Kassel e della Biennale di Venezia annoverano videoartisti: in particolare, nel 1977 a Documenta 8 si svolge una retrospettiva di video e videoinstallazioni di più di 40 artisti americani, e alcuni video (di Paik e D. Davis) sono trasmessi via satellite negli USA. La Biennale di Venezia 1986, dedicata ad arte e scienza, ha un settore riservato alla videoarte e alla computer art, con significativi interventi sull'immagine sintetica (tra gli altri Ch. Csuri, J. Whitney, L. de Luigi, M. Sweeney, T. Fukomoto, H. Hasashi).

Importanti sono anche i contatti con reti televisive d'avanguardia. Negli Stati Uniti nel 1965 la catena televisiva di Boston, WGBH, sponsorizzata dalla Rockfeller Foundation, realizza programmi televisivi sperimentali fatti da artisti e ricercatori, che suscitano anche una certa attenzione da parte di galleristi come L. Castelli. Nel 1971 Ph. Mallory Jones crea Ithaca Video Projects, organizzazione destinata a promuovere la comunicazione elettronica e nel 1976 è fondata la Boston Film/Video Foundation. Anche in Belgio (programma Videographic, dal 1975), in Gran Bretagna (Channel Four), in Francia (Canal Plus e Antenne 2 che mandano in onda un programma mensile sulla videoarte, prodotto e realizzato da C. Ikam e J.-P. Fargier), in Giappone, si manifesta un interesse per la sperimentazione collegata ai circuiti televisivi. Si organizzano svariate manifestazioni internazionali, centri di produzione, di diffusione e di raccolta: nel 1975 ha luogo il primo festival annuale di video documentari, organizzato da Global Village; si sviluppano poi il Videofestival di Locarno (dal 1979), il Siggraph negli USA (Boston, dal 1982), l'Ars Electronica a Linz, Imagina a Montecarlo, Taormina Arte, L'ARC a Parigi, il Zentrum für Kunst und Medientechnologie di Karlsruhe (ZKM), il Tokyo Video Festival, l'Osaka Furitsu Bijutsu Center.

In Italia, dove già nel 1952 era stato redatto il Manifesto del movimento spaziale per la televisione firmato tra gli altri da L. Fontana, A. Burri, B. Joppolo, va segnalata alla fine degli anni Sessanta l'esperienza di Art Tapes 22 a Firenze, che propone l'attività video di artisti come Acconci, Davis, G. De Dominicis, V. Agnetti, J. Kounellis, G. Paolini, J. Jonas, Muntadas, M. Abramovich, A. Rainer, U. Luthi. Ma in generale l'interesse del mercato, del pubblico e delle istituzioni non è molto incisivo, anche se non mancano segni di attenzione critica importanti. Oltre a numerose mostre, manifestazioni e rassegne sostenute con passione da pochi critici militanti, svolge una funzione importante il Centro Videoarte del Palazzo dei Diamanti di Ferrara, ideato e diretto da L. Bonora (1971); vanno ricordati inoltre il Convegno dei Beni culturali su Immagine in movimento, memoria e cultura (1989), e le sperimentazioni RAISAT (1990) di video di artisti, con la partecipazione di M. Sasso, N. Sani, G. Baruchello, M. Canali, E. Luzzati, U. Nespolo, Plessi, E. Cucchi.

Queste varie esperienze hanno consentito la creazione di un linguaggio nuovo, i cui strumenti e le cui forme risultano di grande pregnanza simbolica nella vita contemporanea; nuovo per il rapporto tra arte tecnologia e realtà, per il continuo sconfinamento tra le arti, per le modalità di esperienza richieste o sottese alle immagini videoartistiche in tutte le loro articolazioni. Si ripropone così, tra la provocazione e la sfida, l'interrogativo sulla nozione stessa di arte, un quesito che risorge ogni volta che l'adozione di strumenti visivi nuovi, e di modi diversi di elaborarli, rimette in discussione il problematico rapporto tra uomo e macchine per comunicare (si pensi alla storia della fotografia e del cinema).

In conflittuale confronto con le estetiche tradizionali la videoarte tende ad ampliare − e a confondere − i confini tra arte e vita, a spiazzare la concentrazione dell'osservatore con uno spostamento continuo e intrigante della centralità dell'opera. Le sue immagini, in cui interagiscono l'aspetto visuale e l'aspetto acustico, cambiano di continuo, in un gioco simultaneo di avvenimenti, di rimandi e di decostruzione incessante. Gli assemblaggi svariati, l'interazione aperta all'infinito,la concentrazione o la dilatazione del tempo, distruggono la tradizionale dimensione percettiva e formale. Non più basata su un fulcro visivo dominante, l'attenzione si rivolge a un policentrismo spaziotemporale e sonoro simultaneo e incessante, secondo percorsi di volta in volta emergenti e subito negati, sostituiti, riproposti. Se un singolo monitor può essere paragonato a un dipinto, i videotapes, e soprattutto le installazioni video, le video sculture, presentano un insieme di immagini simultanee, da vivere e agire più che da contemplare. Si determina così un'estetica dell'antigerarchia e del pluralismo, fondata su un'identità in mutazione, che tende a mettere in discussione la presenza e il ruolo dell'artista, dell'opera e del pubblico. A queste caratteristiche si riferisce − e trova motivazioni e conferme − sia la pluralità degli stili sia l'interazione degli spettatori.

La videoarte si esprime in immagini completamente astratte, da Zen for Tv (1965) di Paik a Lichttropfen (1979) di W. Giers, composto da elementi elettronici montati su legno o metallo e incorniciati inclusi in vetri acrilici, a X Ray (1990) di R. Sceffknecht, che esplora la riflessione e la ripetizione di segni astratti tra monitor e specchi; oppure si avvale dell'interrelazione tra astratto e figurativo, rielaborando insieme le due fondamentali categorie acquisite nelle concezioni artistiche del 20° secolo in nuove sintesi narrative e stilistiche che risentono del neoinformale, del neocostruttivismo e del decorativismo del pluralismo post moderno. Tra le realizzazioni in questo senso si possono ricordare le videosculture di Lafontaine (A las cincos de la tarde, 1984), e le videonarrazioni di Birnbaum (Damnation of Faust, evocation, 1984).

Quanto all'interazione tra opera, artista e spettatore, la videoarte tende a travalicare la dimensione puramente percettiva: da un lato mediante la ridefinizione dello spazio e del tempo che viene provocata dal movimento e dall'instabilità delle immagini, dalla performatività delle installazioni, dai collegamenti via satellite e dalla telematica: da un altro lato anche grazie alla continua dissoluzione e riaffermazione dei limiti delle arti, nel coinvolgimento di una realtà quotidiana incessantemente decontestualizzata e riproposta in una sorta di mondo parallelo totalizzante. Questo rapporto, forse anche in consonanza con la moderna estetica della recezione, va dal coinvolgimento concettuale a quello ludico, di fronte a oggetti interattivi che domandano nuovi tipi di comportamento. Per es., Petting di K. Aafjes (1990) che sospira se viene toccato; i dipinti elettronici di Giers (Grosser Kugeltram, 1990) che reagiscono ai suoni; il tappeto elettronico di P. Weibel, che tende a un'identificazione fisica e corporea, quasi ai limiti della realtà virtuale. Come nelle sofisticate e avvincenti proposte di J. Shaw in The legible city, 1991: esplorazione labirintica e personalizzata di città virtuali (Manhattan, Amsterdam, Karlsruhe) costruite da gigantesche sequenze di frasi, in cui l'interfaccia tra osservatore e immagine è l'osservatore stesso che in bicicletta s'inoltra e s'inserisce nelle fluidità affascinanti di un'inedita esperienza spaziotemporale.

I caratteri della videoarte non hanno mancato di suscitare diffidenze nella critica o negli stessi artisti che a volte rifiutano il termine di videoartisti (come per es. Viola); una presa di distanza che segnala forse un calo di tensione nelle ricerche, e certamente la volontà di differenziarsi da fenomeni di virtuosismo e di ridondanza − la riduzione al ghetto degli ''effetti speciali'' − che si trasferiscono con facilità in manifestazioni commerciali, dai videoclips alla pubblicità. L'uso di un mezzo totalmente nuovo ha comunque stimolato un linguaggio fortemente − e criticamente − ancorato al dato di fatto di un cambiamento del modo di vivere (di pensare, di comportarsi) introdotto dai media contemporanei: un linguaggio che ripropone radicalmente, come si è accennato, la problematica della qualità e della creatività nell'uso della tecnica, sempre più intrinsecamente legata al processo creativo e chiave di lettura delle opere. Gli effetti della videoarte sulla diffusione e sulla comunicazione artistica, sulla modulazione e manipolazione della realtà, e sulla partecipazione del pubblico, derivano dalle metodologie del dialogo tra artista e strumento, e denotano il problema dell'essenza dell'opera e del ruolo dell'artista nel villaggio globale della comunicazione e della tecnologia.

La computer art. − Tali questioni sulla definizione e i limiti del campo artistico e sul ruolo dell'artista nella creazione e costruzione di immagini si pongono con particolare evidenza nella computer art.

Il computer, nato con specifici compiti di calcolo e di elaborazione numerica dell'informazione, è utilizzato variamente da diversi artisti e ha dato luogo a ulteriori espansioni del linguaggio artistico a partire dagli anni Sessanta con le ricerche di Whitney Sr (esponente del cinema sperimentale californiano) sul trattamento digitale dell'immagine e sui linguaggi audiovisivi (Arabesque). Esponenti di rilievo sono, tra molti altri, L. Cuba, F. Nake, J. Reichardt (Cibernetic serendipity, The computer and the arts, mostra all'Institute of Contemporary Art a Londra e poi alla Corcoran Gallery di Washington, 1968), Csuri (Algorithmic dreams), Y. Kawaguchi, e in Italia i gruppi Correnti Magnetiche, Crudelity Stoffe (1983, degli Abolizionisti M. Bohm e M. Tecce), G. Bai, I. Gerosa, T. Casula, M. Sasso.

Con il computer si può operare in vari modi, e creare intrecci multimediali. Può essere utilizzato in chiave audiovisiva; si possono costruire animazioni e film interattivi; si possono ottenere varie elaborazioni attraverso il trattamento digitale delle immagini; oppure si può usare il computer come uno strumento per simulare (attraverso undispositivo d'ingresso manuale) tecniche tradizionali come l'acquerello, l'olio, la matita, l'aerografo, ecc., avendo a disposizione milioni di colori diversi, di particolare intensità luminosa, e fissando poi il ''quadro'' su un supporto (videopittura).

Inoltre l'artista stesso può mettere a punto una serie di algoritmi (software) con cui elaborare una propria visione estetica, o almeno lavorare in stretto contatto con i programmatori (è il caso, tra gli altri, di Gerosa che lavora su programmi allestiti appositamente sulle sue idee dall'Istituto astrofisico spaziale del CNR di Frascati). In questo procedimento − senza dubbio il più interessante e specifico − l'artista gestisce l'intero percorso della costruzione dell'immagine in un processo creativo complesso; il programma da cui si generano le forme è infatti dotato, per così dire, di una personalità autonoma, è parte integrante dell'opera e può agire indefinitamente, condizionando non solo il suo ideatore ma chiunque lo utilizzi, anche se di fatto solo l'artista riesce a trasformarlo in uno strumento di espressione.

L'identità dell'artista, e l'idea di opera, cambiano dunque radicalmente, anche rispetto ad altre forme di videoarte. L'artista lavora non più soltanto con uno strumento ma con un procedimento intrinseco al mezzo, che consente una grande libertà di espressione ma anche una sorta d'inedita complicità con la macchina. La materia prima è sempre il nucleo computer-programma, in un rapporto simbiotico con l'artista: in luogo di un oggetto in cui si possa reificare, anche se nei modi più vari, l'incorporarsi di utensili, materiali, sguardo, occhio, mano, gesto, l'opera che si presenta è un processo in fieri, un passaggio di forme e di luci colorate che affiorano in continua trasformazione. Il computer consente di eseguire o comporre, creare o leggere un'immagine potenziale insita nel procedimento numerico; un'immagine ''artificiale'', prodotta da modelli matematici, provvisti o meno di elementi casuali, e dotati delle possibilità di un iperrealismo ad altissima definizione. Le forme sono intangibili ed evanescenti, passibili di infiniti interventi e modificazioni, anche da parte di un eventuale osservatore interattivo. E in questi processi si restituisce una qualità primaria alla scelta dell'artista che ha la facoltà di variare le forme in uno spazio-tempo senza limiti ma anche di fermarle, selezionarle e fissarle in una definizione e su un supporto permanente.

Come ha scritto Couchot (Electra 1983, p. 43), "la cultura dei media si trasforma in una cultura dell'immediato. L'arte non è più il luogo della metafora ma della metamorfosi". Ma proprio in questa interazione complessa tra le operazioni mentali, i calcoli, la smaterializzazione e la reificazione dell'opera, l'artista e le sue scelte, sta il fascino e la sfida della computerarte e della videoarte. Sfida che si estende anche ai tradizionali metodi di lettura e criteri di giudizio, coinvolge non solo la produzione artistica ma anche la critica e le sue metodologie, che necessitano di un'ulteriore apertura interdisciplinare. Difatti si è attivato negli ultimi tempi un discorso analitico e critico, dalle riflessioni negli anni Sessanta di M. McLuhan − che nella famosa asserzione "il mezzo è il messaggio" (1967) indicava come il messaggio sia contenuto nel modo della sua trasmissione, fattore di controllo delle forme delle nostre associazioni di pensiero e delle nostre azioni − fino ai vari recenti contributi di artisti, di studiosi della comunicazione, di critici militanti e di storici dell'arte. Vedi tav. f.t.

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