LINGUAGGIO

Enciclopedia Italiana (1934)

LINGUAGGIO

Giulio Bertoni

. La linguistica (v.) non si è sottratta, com'è naturale, al destino di tutte le scienze. In questi ultimi decenni alcuni problemi sono tramontati, altri sono sorti all'orizzonte. Si sono rivelati, ad esempio, illusorî gli sforzi fatti per risalire, con la comparazione, alle origini del linguaggio e per ricostruire una lingua primitiva. Non meno illusorî sono stati i tentativi di cogliere il segreto di queste origini nelle lingue dei popoli "selvaggi", come se queste conservassero o svelassero tratti primitivi, elementari, mentre talvolta appaiono complesse, anzi più complicate delle lingue moderne delle nazioni più civili. Si è chiesto vanamente questo segreto alla lingua dei fanciulli, i quali influiscono certo sul linguaggio, ma in realtà attingono le loro locuzioni e le loro frasi e i loro vocaboli alle lingue delle società in cui vivono. In tutti questi casi il linguista finisce con trovarsi sempre dinnanzi, più o meno, lingue già organizzate o frammenti di lingue organizzate. L'origine del linguaggio non è problema linguistico, ma problema, se mai, filosofico o teologico. La comparazione non può valere che a scoprire affinità e somiglianze (e non riesce mai a dimostrare diversità e dissimiglianze); e qualora anche giungesse a provare l'unità di tutte le lingue parlate ora sulla terra, resterebbe sempre il dubbio che, al di là di questa unità, siano esistite condizioni linguistiche, che nessuna indagine potrebbe chiarire per mancanza di dati. D'altronde, l'espressione umana non è soltanto articolata o uditiva. Tutti gli organi possono contribuire alla formazione del linguaggio, onde abbiamo il linguaggio dei segni o mimico. Ed è linguaggio il pianto; è linguaggio il riso; è linguaggio il dolore o la gioia; la ruga che increspa la fronte, il rossore sulla guancia, il brillare della pupilla, ecc. Percepire è parlare, pensare è parlare (e non parlano, senza pensare, che i pappagalli). E se il pensiero è, com'è, coscienza, la coscienza è parola. Ogni sensazione, che non esiste se non è percepita, è linguaggio. La ricerca dell'origine del linguaggio s'identifica insomma con la ricerca dell'origine dell'uomo.

Il linguaggio è l'anima della lingua. Il linguaggio si svela nell'accento, nel timbro, nella tonalità, nella musica e nel colore della lingua. Non è data "lingua" senza "linguaggio"; non è dato "linguaggio" senza "lingua", perché sempre la parola è accompagnata da un moto dell'anima. Chi parla rivela sé a sé stesso e agli altri. I due termini sono indissolubili. Soltanto, empiricamente parlando, in alcuni si potrà avvertire più abbondanza di lingua, in altri più ricchezza di linguaggio. Questo non s'impara; le lingue, invece, si possono imparare. In esse si possono tradurre la nostra affettività, la nostra cultura, la nostra personalità; e tanto più agevole riuscirà questa traduzione della nostra intima vita nella parola, quanto più lingua avremo a nostra disposizione: lingua che è pensiero, esperienza, storia, la nostra storia. Tanto pensiero quanta lingua, tanto sentimento quanto linguaggio, restando ben fermo che non è dato pensiero senza sentimento, che ne è l'alimento misterioso e perenne. Quando l'animo è turbato, nel dolore o nella gioia, quando l'uomo si ricerca con maggiore o minore affanno, quando ci dibattiamo nello sforzo di chiarire l'indistinto e di trarre dalle tenebre la luce allora il linguaggio si fa lingua, la quale ci libera da questo nostro tormento. La lingua, nella sua inscindibile unità col linguaggio, è liberazione. Onde si capisce che il momento logicamente iniziale della lingua possa e debba essere concepito come estetico e artistico o soggettivo. Le determinazioni storiche (le lingue) sono fatti; il linguaggio è attività, energia spirituale, che accompagna sempre, assolutamente, il ritmo della coscienza nel suo svolgimento. Si capisce, così, che i filologi e linguisti più dotati di senso filosofico e storico abbiano sentito nella lingua la poesia. Si capisce, insomma, che G.B. Vico sia giunto all'identificazione di lingua e poesia. Si capisce, infine, che la linguistica generale, con B. Croce, sia stata concepita come estetica. Con ciò, il problema ha ottenuto una più salda impostazione, ma non ha proprio avuto la sua soluzione, che richiede maggiori e più precisi chiarimenti. La lingua è "poesia" ed è insieme altra cosa. La lingua è l'uomo, e l'uomo non è soltanto "poesia". "Poesia concreta" è quella particolare espressione che si libra nella sfera luminosa della bellezza, e che possiamo chiamare "linguaggio poetico", diverso in ogni singolo poeta, anche se la lingua, considerata in sé stessa, è più o meno la lingua degli altri.

Intanto si può dire che le lingue sono un "fatto sociale", se sono considerate come mezzi di comunicazione fra gli uomini. Tali non potrebbero essere, se una sottintesa convenzione non inducesse i parlanti a dare ai segni un valore simbolico, per cui la lingua dell'uomo si eleva già al disopra di quella naturale. Anche gli animali "parlano" fra loro. Ma è parola senza pensiero, o ombra di pensiero. Il cane, la scimmia, gli uccelli, ecc. comunicano per gridi e non per frasi. Per loro, la frase è lo stesso grido, che non muta per variare di tempi e che non ha valore oggettivo. L'assunzione a lingua sociale, per una lunga scala di gradi, si compie in virtù di un processo psicologico, che ha la massima importanza per lo studio delle trasformazioni linguistiche. La considerazione psicologica delle lingue è perciò di capitale momento nella scienza della lingua. Quando il Wundt poneva in rapporto la lingua con la sua "appercezione", altro non faceva che chiarire i procedimenti psicologici, sui quali s'era particolarmente appuntata l'industria dei linguisti sino ai suoi tempi. E faceva opera altamente meritoria, che spiega la grande diffusione e il grande successo delle sue teorie. Anche le teorie del Bréal sulla semantica hanno una base psicologica. Le lingue, considerate in sé stesse, nella loro molteplicità, non potranno mai essere studiate adeguatamente, senza tenere conto dei fattori psicologici. Ma l'indagine psicologica non spiega tutta la lingua, perché esclude dal suo raggio d'azione la trasfigurazione estetica operata dalla fantasia. Col Bréal e col Wundt, in altre parole, non si spiega la lingua dei poeti.

Grazie appunto al "linguaggio" le "lingue" sono, oltre che un fatto sociale, un fenomeno "individuale" Grazie al concetto di "linguaggio" si potranno distinguere e studiare meglio i processi psicologici e quelli estetici. La lingua di un poeta, a ragione d'esempio, potrà essere esaminata come espressione, in modo diverso da lingua può essere studiata come "fatto" e come "attività". Nella sua essenza, però, essa è l'una e l'altra cosa insieme.

Soprattutto alla "lingua", intesa come "fatto" sono state rivolte e si rivolgono di preferenza, com'è naturale, le indagini degli studiosi. Di qui sono venute le ricerche sulle "radici", le teorie sul costituirsi delle lingue, sulle leggi fonetiche, ecc. (v. dialetto; fonetica; linguistica): ricerche e teorie che nei migliori linguisti (dal Bopp, dal Grimm, dagli Schlegel, dal Diez sino all'Ascoli, al De Saussure, al Meyer-Lübke, ecc.) sono sempre state sostenute da un vivo e forte e disciplinato acume, per cui le loro indagini segnano un reale e grande progresso sulle concezioni precedenti. Queste ricerche e teorie costituiscono, anzi, la gloria della linguistica del sec. XIX. Talvolta è accaduto che alcuno non si sia salvato da eccessi e da deviamenti, ma bene spesso, durante il lungo travaglio di schiere e schiere di studiosi, sono affiorate e sorte da queste laboriose indagini concezioni nuove e profonde, che hanno contribuito allo sviluppo della disciplina (G. von Humboldt, Steinthal e Schuchardt). Insomma, il sec. XIX, per la linguistica, fu un secolo eroico. Essa fu soprattutto concepita naturalisticamente. Era, del resto, fatale che sui fatti, sui fenomeni chiusi in sé stessi, veduti nel loro isolamento, convergesse dapprima la fatica diuturna dei pionieri della disciplina. Un complesso di fatti, di fenomeni linguistici erano allora considerate le lingue nella loro fissità, sigillate nelle ferree leggi entro cui si determina la realtà linguistica, che è realtà spirituale. Così, in quel periodo, si vennero foggiando gli utilissimi e indispensabili strumenti delle "leggi fonetiche" le quali permisero la compilazione di ammirevoli sistemi grammaticali, di acute descrizioni d'idiomi. Entro la concezione di queste "leggi" si costituì la tecnica della linguistica: una tecnica che si andò sempre più affinando sino a raggiungere, presso i cosiddetti "neogrammatici", un sottile virtuosismo, contro cui il senso storico di alcuni linguisti cominciò a ribellarsi. Ci si convinse che queste leggi generali valgono soprattutto come schemi riassuntivi dell'esperienza e paiono reggere lo svolgimento della lingua, mentre, ricavate da fatti consumati, non ne sono che un prodotto. Paiono intravvedere i fatti e anticiparli, mentre non possono che constatarli. A un eccesso si contrappose poi un altro eccesso: che, cioè, queste leggi o norme altro non fossero che finzioni, fantasmi dell'intelletto, etichette senza intrinseco valore (pragmatismo). E si arrivò a parlare del loro fallimento, mentre, nella loro propria sede, hanno un'intrinseca e insopprimibile necessità. Non si badò che la loro stessa indiscutibile. utilità era una testimonianza della loro verità. Cacciate dalla porta, rientravano dalla finestra. Noi impostiamo, oggi, il loro problema su basi più solide e ferme, tenendo presente che la questione delle leggi fonetiche è questione linguistica, ma è anche questione filosofica. Ogni singolo fatto ha la sua legge intrinseca e reale e ogni norma generale o legge fonetica, appunto perché abbraccia una molteplicità di fatti, è insieme veritiera e fallace: veritiera in quanto esce dalla sua generalità e complessità e si appunta sopra un fatto determinato, fallace in quanto pretende di spiegare esaurientemente i fatti nel loro insieme.

Anche il problema concernente le radici si è venuto trasformando. E piace notare che già il Pott, il quale dal naturalismo si sollevò talora, con felici intuizioni, nel campo dello spirito, ne aveva visto o intravisto la vera natura, dichiarandole ricavate per astrazione dalla parola. "Anche ciò che esteriormente (egli ha scritto) può parere una mera radice è una parola, è la forma di una parola, non è una radice, poiché radice è appunto l'astrazione che si fa dalle classi delle parole". E ancora: "le radici sono soltanto ideali, sono astrazioni necessarie al lavoro del grammatico, che egli del resto deve ricavare attenendosi strettamente alle forme reali della lingua". In altre parole, le radici non sono entità reali. Di esse è da dirsi ciò che abbiamo detto delle leggi fonetiche: che, cioè, in sede naturalistica, sono di estrema utilità per i fini del nostro lavoro. Tanto è vero che dalle radici nacquero le idee del Bopp sul loro monosillabismo e sulle loro modificazioni per variazioni interne e quelle di Federico Schlegel sul loro accrescimento per affissi e quelle, infine, dello Schleicher sulle lingue isolanti, agglutinanti e flessive, per non parlare dei sistemi del Curtius e di tutti coloro che si diedero a studiare i problemi della linguistica, a cominciare dal rapporto fra lingue e razze, e dai sostrati etnici sino alla propagazione delle lingue, al loro svolgimento, alla loro classificazione. I più grandi progressi raggiunti dalla linguistica si debbono alle indagini naturalistiche, entro cui rientrano anche le ricerche di geografia linguistica, che sono state la conquista maggiore, in fatto di scienza delle lingue, compiuta nel primo ventennio di questo secolo.

La geografia linguistica (v. linguistica) nega la staticità della parola, riconosce nella vita del linguaggio un movimento continuo, e mentre ci dà chiarimenti solidi e sicuri sul flusso e riflusso della parola c'illumina sulle fasi più antiche e ci consente di riannodare con lo studio della diffusione dei vocaboli, le trame consunte dal tempo. Dandoci modo di collegare la molteplicità fenomenica, ci avvicina ai centri o ai fuochi della creazione linguistica e c'informa sui modi di propagazione della parola. Non ha preconcetti o pregiudizî; non applica, nello studio della diffusione ed espansione dei vocaboli, i principî della cosiddetta "ramificazione" già criticata dal Delbrück, né quelli della teoria delle onde di J. Schmidt; ma si attiene ai casi concreti e ricerca per ogni fatto una legge intrinseca, che valga a giustificarlo o a spiegarlo. Insomma, in quest'ultimo trentennio i piani prospettici si sono spostati e il quadro delle indagini linguistiche si è allargato. L'investigazione si è orientata verso fini più concreti. Lo studio dell'espansione dei vocaboli è apparso di non minore importanza che quello della loro successione nel tempo. La concezione dei dialetti e dei loro presunti limiti si è trasformata. Ogni vocabolo, ogni singolo fenomeno ha mostrato di avere una sua storia determinata; e anche le partizioni dialettali, le distinzioni di gruppi idiomatici, si sono svelate in tutta la loro relatività, come costruzioni dell'intelletto e abbreviazioni schematiche dei risultati dell'esperienza.

Queste costruzioni, questi schemi, sono però necessarî e inderogabili (v. dialetto), quando si tratta di descrivere una lingua e un dialetto. Il tutto sta nell'usarli con una sicura consapevolezza della loro natura, tenendo conto delle innovazioni, a cui la scienza, nel suo svolgimento, li sottomette, trasformandoli e affinandoli. Le descrizioni delle lingue e dei dialetti nell'Enciciopedia italiana dovevano essere (e non potevano non essere) di tipo naturalistico; ma certo, a ben guardare, si troverà che in queste descrizioni non sono stati trascurati gl'insegnamenti che lo sviluppo della disciplina ha messo a nostra disposizione; e si noterà forse anche, nell'impostazione dei varî problemi, un progresso determinato da un più acuto senso della correlazione che esiste fra lingua e linguaggio, e, così, potrà darsi che appaia accettabile, allo stato attuale degli studî, l'orientamento che abbiamo dato a tutta l'immane materia, con limitazioni e dilucidazioni sul valore reale dei nostri schemi, con voluti silenzî e con volute insistenze su alcuni punti controversi.

Ora, se consideriamo la lingua come attività, e non soltanto come fatto, potremo, a buon diritto, identificarla con la storia del pensiero. Ogni conquista dell'uomo, ogni sua vittoria, ogni progresso è insieme arricchimento linguistico. La cultura di un popolo si misura dalla sua lingua. Ricerche come quelle di C. Vossler sul francese dimostrano la verità di quest'asserzione. Ma stando così le cose, è naturale che, oltre che della "lingua" culturale e sociale, sia da tenere conto della "lingua" degli scrittori, in quanto si differenzia dalla lingua della cultura, nell'atto stesso che se ne alimenta.

Ognuno, si badi, ha il suo accento, nel quale pulsa la sua intimità profonda, ognuno ha la sua propria lingua, come ha una sua propria esperienza di gioia e di dolore, e non c'è espressione (umile o alta, schietta o elaborata, energica o fiacca, luminosa od opaca) che possa o debba sottrarsi all'esame del linguista. Tuttavia, è giusto che l'occhio si appunti preferibilmente laddove più turgido è il pensiero e più caldo il sentimento. Nella creazione linguistica ha grande parte il momento estetico, dal quale non può prescindere lo studioso delle lingue. Nelle lingue, empiricamente differenziate, il momento estetico potrà apparire più o meno intenso, ma, comunque si guardino le cose, esso non mancherà mai. Donde la necessità d'integrare la linguistica, quale è comunemente intesa, e di aggiungerle una sezione che studi nelle lingue l'elemento artistico e riconosca in esse le concrete individuazioni e determinazioni del linguaggio. Come la lingua ingenua e immaginosa dell'umile uomo dei campi, che ha nell'animo lo stupore delle notti stellate e delle albe rugiadose, riassume le impressioni di una vita trascorsa fra le meraviglie della natura, così la lingua di uno scrittore è la storia del pensiero di questo scrittore. Grazie al momento estetico, il linguaggio assume un colore, una vibrazione, un tono, che variano da uomo a uomo. Certe denominazioni attestano, in chi primo le trovò, un potenziamento fantastico, che la linguistica non può escludere dal suo esame. Chi, primo, nell'Italia meridionale, chiamò la farfalla farinola, dalle alucce cosparse di un sottile pulviscolo, o anche polline? E chi la disse nella Ladinia, la prima volta, mulinera, quasi "mugnaia"? Chi primo battezzò a Bari la libellula, con le ali aperte a mo' di croce, la morte? Chi denominò, la prima volta, argentella la lucertola nell'Emilia? Chi chiamò dapprima in franco-provenzale martí (martello) il dente molare? Chi disse la scintilla strega in Lombardia e in Emilia, lúcciola nell'Umbria e nelle Marche, o sćôp (scoppio) nel piemontese? La trasformazione estetica è trasfigurazione, è creazione fantastica, è sostituzione d'immagine, non è soltanto trapasso dî significato, che ha ragioni psicologiche. È psicologico, ad esempio, l'uso vario di set in inglese (to set a thing on the table, "mettere qualcosa sulla tavola"; his eyes are set, "il suo sguardo è fisso"; a set of books, "una raccolta di libri"); è estetica la sostituzione di "martello" a "dente molare", di "lucciola" a "scintilla", ecc. Naturalmente si allude qui non all'uso della parola, che si è andata diffondendo per molteplici cause e ragioni, ma alla creazione della metafora in chi, per primo, l'ha trovata in un momento felice. Per intendere, ad esempio, tutta la bellezza del vocabolo lagno in certi dialetti meridionali, col senso di "allocco", bisogna mettersi nella condizione di chi per la prima volta ha denominato questo querulo pennuto con una voce che significa "grido" o "lamento", non di coloro che hanno fatto propria questa parola lagno, che può essere pronunciata senza risonanza o vibrazione nell'anima.

Espressioni estetiche più ricche ed estese, espressioni che passano o possono passare nella lingua comune, perdendo la loro originalità e la loro bellezza, troveremo nei poeti, ai quali la lingua serve, più che a esprimere qualcosa, a esprimere sé stessi. Ciò che fa poetica l'espressione è alcunché di misterioso e, diremmo, di divino, che sta nel "linguaggio" e che non si definisce, ma si sente e si rivive, perché è bellezza, la quale in ciascun artista e poeta ha luce, armonia, timbro diversi.

Se non si può definire la suggestione che si sprigiona da quel Dio ascoso, che si chiama ispirazione, è possibile indicare dove batta l'accento che distingue l'una dall'altra personalità poetica. Di questi problemi la linguistica non deve disinteressarsi: e dovrà considerare non solo la lingua (patrimonio comune a tutti), ma anche il linguaggio, soprattutto il linguaggio poetico. Questo è il compito della neolinguistica: mettere, ad esempio, in evidenza i caratteri specifici e le movenze peculiari dell'espressione dei poeti e raffrontarle fra loro per differenziarle. L'attività estetica è essenziale, immancabile nello svolgimento del linguaggio. È l'attività da cui dipende il fatto letterario, tanto che, sotto questo riguardo, è naturale che sia "linguistica" la letteratura, se la intendiamo quale storia dell'arte e non soltanto quale storia della cultura.

Per la fisiologia del linguaggio, v. voce.

Bibl.: G. Bertoni, Programma di filologia romanza, Ginevra 1922; id., Breviario di neolinguistica, parte 1ª: Principî generali, Modena 1925 (con bibliografia); id., Nuovi problemi della linguistica, in Rev. de ling. romane, IX, p. 1 segg.; id., Lingua e pensiero, Firenze 1932.

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