Linguistica

Enciclopedia del Novecento (1978)

Linguistica

AAndré Martinet

di André Martinet

Linguistica

sommario: 1. Il linguaggio e le lingue. 2. Profilo storico. 3. La descrizione delle lingue. 4. Lo stile. 5. L'acquisizione del linguaggio e la sua conservazione nell'individuo. La psicolinguistica. 6. La varietà delle lingue nello spazio e nella società. La sociolinguistica. 7. L'evoluzione delle lingue e l'economia linguistica. 8. I mezzi e i fini pratici. □ Bibliografia.

1. Il linguaggio e le lingue

Non è facile delimitare l'ambito della linguistica in modo tale da ottenere il consenso universale. Possiamo certo, con qualche probabilità di riunire tutti i suffragi, decretare che la linguistica è la scienza del linguaggio. Ma questa definizione non è che una tautologia e non è affatto vero che quanti si dichiarano linguisti o si occupano di linguistica siano sempre d'accordo su quelli che devono essere i metodi scientifici in materia di linguaggio, o su quel che bisogna propriamente intendere con ‛linguaggio'.

Per certuni, la prima esigenza in materia scientifica è l'umiltà del ricercatore di fronte ai fatti, in altri termini l'oggettività. Questa, escludendo dalla ricerca tutto ciò che attiene alla personalità del ricercatore, alle sue preferenze e ai suoi pregiudizi, dovrebbe consentire la collaborazione tra gli uomini, tra i gruppi, tra i paesi, e assicurare un progresso continuo della disciplina. Per quanto riguarda la linguistica in particolare e le scienze dell'uomo in generale, l'esigenza del carattere oggettivo della ricerca ha un'importanza speciale, in quanto l'umanità è abituata da sempre a reagire ai propri comportamenti in forma di giudizi di valore. La linguistica potrebbe dunque sottolineare il suo carattere di scienza solo opponendosi alla grammatica normativa e prescrittiva tradizionale.

Altri, più sensibili al fatto che una scienza non può definirsi come studio esaustivo di un oggetto dato, ma piuttosto in base alla scelta di un punto di vista particolare, di un modo di considerare gli oggetti, saranno tentati di porre l'accento sull'intervento del ricercatore, sia nella costruzione sia, ulteriormente, nello sviluppo e ampliamento della disciplina, attraverso le sue scoperte e intuizioni. In altri termini, la scienza si caratterizzerebbe soprattutto per il fatto che opera con l'aiuto di teorie, ove ogni teoria rappresenta un quadro destinato a guidare l'osservazione. Le teorie possono completarsi tra loro, ma, allo stesso modo, possono escludersi, e ciò determinerà una progressione irregolare della ricerca. La teoria potrà essere assiomatica, cioè fondata su dei dati dell'esperienza che si è deciso di non rimettere in questione. Sarà di tipo ipotetico se le supposizioni fatte all'inizio sorpassano largamente questi dati.

È chiaro che queste due esigenze, oggettività e carattere teorico della ricerca, non si escludono. Ma gli sviluppi recenti della linguistica mostrano che, secondo che la preferenza sia data all'uno o all'altro punto di vista, teoria e pratica possono differire considerevolmente da una scuola o da una tendenza all'altra. Si opporrà ad esempio una concezione funzionalista, in cui l'osservazione oggettiva è inquadrata tramite la scelta di una pertinenza, per cui i fatti vengono raccolti, classificati, gerarchizzati in funzione del loro contributo alla comunicazione, a una concezione ipotetico-deduttiva, in cui le reazioni del ricercatore dinanzi alla realtà osservata valgono in riferimento alla loro conformità a degli a priori iniziali.

Non minori sono le divergenze per quanto riguarda l'estensione da assegnare al termine ‛linguaggio' in quanto oggetto dello studio linguistico. Per gli uni, non può trattarsi se non del linguaggio umano manifesto sotto la forma di lingue e di parlate naturali, con esclusione di tutti i sistemi di comunicazione utilizzati da esseri animati diversi dall'uomo, o inventati dall'uomo per certi fini particolari. Opposta a questa concezione restrittiva, troviamo la tendenza a designare col termine ‛linguaggio' l'ambito più vasto possibile. Al limite, sarebbe linguaggio non soltanto ogni codice, ogni mezzo di comunicare tra gli esseri animati, ma ogni realizzazione artistica, ogni rito, ogni capo di vestiario, ogni oggetto in cui si possa scoprire non solo intenzione di comunicare ma bisogno di esprimersi, manifestazione di una preferenza, perfino qualunque complesso di indizi non intesi come comunicativi.

Senza pronunciarsi pro o contro una concezione restrittiva dell'ambito della linguistica, bisognerà riconoscere che le lingue e le parlate naturali hanno caratteri ben specifici che richiedono, per essere chiaramente individuati, una metodologia affatto particolare. È quindi indispensabile disporre di un termine distinto per designare l'esame scientifico di essi: a tal fine il termine ‛linguistica' sembra imporsi. Disponiamo d'altronde di termini come semiologia o ‛semiotica', per designare lo studio dei sistemi comunicativi in generale, ivi comprese, dunque, lingue e parlate naturali. Sarebbe indubbiamente difficile distinguere tra una scienza dei sistemi di comunicazione, che suppongono necessariamente un emittente e un ricevente, e una scienza dei sistemi d'espressione, nei quali, per parlare propriamente, è in gioco solo l'emittente: nella realizzazione artistica, espressione e comunicazione sono per lo più inestricabilmente intrecciate; e la cosa vale fino a un certo punto nell'uso delle lingue. Ma pare indispensabile trattare a parte dell'interpretazione degli indizi, in cui è in gioco solo un ricevente, e delle situazioni implicanti un'emissione volontaria, anche se, in pratica, l'avvio non è sempre facile. In ogni caso, avremo interesse a vedere nella linguistica un capitolo privilegiato della semiologia piuttosto che l'inverso, anche se storicamente la semiologia si è sviluppata come appendice della linguistica nel senso stretto.

Se pare dunque raccomandabile vedere nelle lingue e nelle parlate naturali il vero oggetto della ricerca linguistica, nondimeno resta il fatto che lo studio di quei sistemi privilegiati di comunicazione prepara il linguista all'esame di tutti i problemi che possono presentarsi nell'ambito della semiologia, nel senso più vasto di questo termine: una delle più istruttive classificazioni dei diversi codici e dei sistemi di comunicazione animale si fonda sul grado di partecipazione di ciascuno di essi ai diversi tratti individuati come caratterizzanti specificatamente le lingue e le parlate naturali.

Uno dei punti su cui gli specialisti non hanno raggiunto l'accordo è il posto che conviene riservare nel quadro della linguistica alle forme scritte del linguaggio. Storicamente, ci si occupò dapprima delle lingue che presentavano una forma scritta e di questa forma scritta stessa. Fino all'invenzione delle macchine parlanti, la scrittura è stata il solo mezzo per perpetuare le forme linguistiche, ed era normale, fino a che ci si interessò più al contenuto del messaggio che alla sua forma, fissare la propria attenzione su testi redatti per passare alla posterità. Anche quando la lingua parlata, il discorso, meritava un esame, questo non poteva esser fatto con comodo se non sulla base di una registrazione scritta, in quanto la parola parlata si dissolve non appena pronunciata e in quanto, se, eccezionalmente, essa si immagazzina nella memoria di un ascoltatore, ci sono forti probabilità che perda una parte della sua specificità. Perché la forma vocale originaria, e la sola universale, del linguaggio potesse imporsi all'attenzione dei ricercatori, è stato necessario che l'interesse passasse dal contenuto alla forma del messaggio, cioè che il linguaggio si imponesse a certuni come oggetto di studio disinteressato. Una volta fondata la linguistica generale come scienza autonoma e assicurata la possibilità di conservare gli enunciati parlati nella loro forma originaria, non c'è più alcuna ragione di dubitare che il linguaggio umano sia, sin dall'inizio e costantemente, caratterizzato dalla sua forma fonica. Solo da alcuni millenni una parte assai ristretta dell'umanità si serve della scrittura che, in forme diverse, si fonda su un calco più o meno perfezionato del discorso vocale. Senza dubbio, un uso prolungato, attivo o passivo, della forma grafica finisce per conferirle un certo grado di autonomia, e lo studio di questa forma grafica, nella misura in cui essa suscita problemi particolari, costituisce un capitolo legittimo, benché marginale, della linguistica. Ma la struttura e il funzionamento del linguaggio umano possono esser compresi solo se non si perde mai di vista l'insieme delle condizioni in cui la parola si manifesta: l'emissione di suoni successivi percepiti dall'orecchio nell'ordine in cui sono stati prodotti e che non raggiungono il loro fine se non sono percepiti nell'istante stesso in cui sono emessi. L'organizzazione sintattica delle lingue risulta direttamente dalla linearità del linguaggio vocale.

Uno dei caratteri fondamentali del linguaggio umano sta nel fatto che esso si manifesta sotto forma di lingue diverse. La diversità delle lingue non è dovuta al caso. È una conseguenza di un tratto fondamentale del linguaggio: il fatto che esso opera con unità dette ‛segni', che combinano una faccia manifesta, detta ‛significante', che nelle lingue è di carattere fonico, con una faccia manifestata, detta ‛significato', corrispondente a una nozione. Ora, non c'è alcuna necessità naturale in forza di cui un dato significante si combini con un dato significato. L'italiano e l'inglese operano con due nozioni molto prossime, corrispondenti all'esperienza che i soggetti hanno della specie animale equina. A questi significati sensibilmente identici corrispondono significanti totalmente diversi: /kaval :0/ da una parte, /hors/ dall'altra, senza che si possa stabilire che uno dei due è, in assoluto, migliore dell'altro. D'altra parte, le nozioni corrispondenti ai significati variano da una lingua all'altra, in quanto la realtà fisica varia da un punto all'altro del globo, ma soprattutto in quanto ogni cultura ha un suo modo specifico di concepire il mondo. Possiamo dunque aspettarci che i significanti si modifichino nel corso del tempo - di fatto, /kaval :o/ succede ad un /kabal :us/, che aveva a sua volta eliminato un più antico /ekwos/ - e che all'evoluzione delle culture corrisponda l'evoluzione delle nozioni. Taluni linguisti sono tentati di minimizzare le differenze tra le lingue e di cercar di stabilire una lista di universali linguistici. Altri ritengono che, nella nostra ignoranza di molte lingue del passato e del presente e di tutte le lingue future, non sia possibile stabilire degli universali se non a partire da a priori inverificabili, e che i linguisti abbiano interesse a definire il genere di oggetto che desiderano sottoporre a esame e a considerare come necessariamente caratterizzanti ogni lingua solo i tratti inclusi nella definizione accettata e quanti possono essere dedotti da essa. Una siffatta definizione potrebbe essere la seguente: una lingua è uno strumento di comunicazione operante con combinazioni di segni minimi, detti ‛monemi', i cui significanti si analizzano in unità distintive di natura fonica, dette ‛fonemi'. In forma più condensata, potremmo dire che una lingua è uno strumento di comunicazione, dotato di doppia articolazione, il quale fa uso della voce.

2. Profilo storico

È stato necessario attendere il sec. XX perché il linguaggio si imponesse come oggetto di una scienza distinta. La ragione di ciò è che l'uomo è tentato di identificare la parola e la cosa, o, se vogliamo, la lingua e il mondo sensibile. Per chiarire i problemi, il linguista deve distinguere in ‛cavallo' almeno: a) la designazione di un particolare rappresentante della razza equina; b) la designazione del genere; c) la nozione corrispondente; d) la successione di unità distintive /kaval :0/ corrispondente a quella nozione; e) l'insieme delle vibrazioni percepibili all'orecchio, risultanti dall'articolazione di quella successione di unità da parte di una persona determinata in un preciso momento. È chiaro che non tutto ciò può riguardare un utente della lingua: questi comunicherà tanto più facilmente la sua esperienza ad altri, quanto meno sarà cosciente della complessità dell'apparato messo in gioco, apparato di cui ha lentamente e progressivamente acquisito il controllo nel corso della prima infanzia. La comunicazione linguistica ideale è quella in cui i parlanti dimenticano che è linguistica, quella in cui ogni partecipante crede di operare con cose, laddove opera con parole. Il problema linguistico si porrà per lui solo se la comunicazione non può aver luogo, se egli si trova dinanzi a una persona che ignora la sua lingua, o quando si producono dei ‛difetti' di funzionamento della macchina in quanto gli usi linguistici degli interlocutori non sono identici per via della loro diversa origine geografica o sociale o in forza di deviazioni patologiche. Se facciamo astrazione da quel che i filolosofi di tutti i tempi hanno potuto dire del linguaggio, sembra che le constatazioni più pertinenti a proposito del funzionamento degli scambi linguistici siano dovute, fino agli albori del periodo contemporaneo, a linguisti pratici, che descrivevano, a fini liturgici o a beneficio di provinciali o di stranieri, un certo uso linguistico, socialmente o culturalmente privilegiato, o, ancora, che cercavano di rimediare a deviazioni patologiche. In altri termini, per molto tempo non c'è stato posto per una linguistica propriamente detta tra una filosofia del linguaggio, per definizione soggettiva, e quella che oggi indicheremmo come linguistica applicata di tipo normalmente prescrittivo. Né i filosofi dell'antichità, del medioevo o dei tempi moderni, né i grammatici, dall'India antica a Port-Royal, hanno fondato una scienza del linguaggio. Tutt'al più troveremo, in alcuni pensatori (da Aristotele a Bacone e a Locke), delle idee che, riprese o riscoperte più tardi da ricercatori versati nell'osservazione dei fatti, potranno servire alla costruzione della linguistica di oggi.

I germi della ricerca linguistica contemporanea si ritrovano nel sec. XVIII, in dilettanti illuminati che, inizialmente senza troppe preoccupazioni di metodo, stabiliscono, sulla base della comparazione di talune lingue, la loro parentela linguistica e ipotizzano l'esistenza di lingue-madri da cui quelle di cui si pone la parentela deriverebbero. Benché inaugurata nei campi semitico e ugro-finnico, la comparazione genetica si sviluppa realmente quando i letterati occidentali si iniziano al sanscrito, ne constatano le somiglianze con le lingue dell'antichità classica e poi con la maggior parte di quelle parlate nell'Europa odierna, e fondano, agli inizi del sec. XIX, la grammatica comparata indoeuropea. Operando essenzialmente, agli inizi, per accostamento della morfologia delle diverse lingue in questione, lo studio comparativo ha, nel corso del secolo, affinato le sue esigenze: non si contenta più di somiglianze foniche non sistematiche, ma pone al riguardo tutta una serie di corrispondenze regolari, in modo tale che tutti i mutamenti fonici che hanno portato, a partire da uno stesso prototipo, al fr. frère e al ted. Bruder possano essere identificati come influenzanti, in un momento dato dell'evoluzione, tutte le parole della lingua allo stesso modo, senza considerazione del loro senso. Un po' più tardi, si è fatta strada un'esigenza analoga per quanto riguarda le unità di senso, attraverso un'identificazione più precisa degli usi e dei valori delle unità derivate.

Lo sviluppo di questa linguistica comparativa, sempre più scientifica nel metodo, ha avuto luogo non senza conflitti. I suoi specialisti venivano necessariamente reclutati dapprima tra i filologi, cioè tra quanti, per meglio comprendere i testi documentanti epoche trascorse, si sforzavano di penetrarne meglio la lingua. La linguistica pareva pertanto presentarsi come un'appendice della filologia e poi, via via che progrediva, come un invadente concorrente. Non ci si sapeva però risolvere a spezzare i vincoli che univano le due discipline e ad assicurare così una totale autonomia della linguistica. D'altronde, la comparazione genetica mirava, nei suoi sostenitori più ferventi, a ricostituire, se non la ‛lingua-madre' nella sua integrità, almeno i grandi tratti della cultura di quelli che la parlavano. Le preoccupazioni dei ricercatori esorbitavano così dallo stretto ambito linguistico per estendersi alla preistoria, in rapporto più o meno intimo con le ricerche archeologiche. Era quella una ragione di più, per i linguisti, per allontanarsi da quello che si poteva considerare il loro ambito proprio, e una delle ragioni per cui essi erano scarsamente tentati di stabilire meglio i limiti della loro disciplina.

È però proprio da menti formatesi alla scuola del comparatismo che è nato il progetto di studiare la lingua in sé e per sé. Se il primo, in ordine di tempo, è l'americano D. Whitney, la linguistica generale contemporanea si svilupperà solo a partire dall'insegnamento del ginevrino F. de Saussure. Questo insegnamento è stato peraltro a lungo conosciuto solo attraverso un'opera postuma, composta da due colleghi sulla base di appunti di studenti. Il suo effetto più decisivo consisterà nello stabilire il carattere scientifico dello studio sincronico degli stati di lingua, abbandonato fin allora ai grammatici prescrittivi e ai compilatori di manuali. A tempo debito, ciò porterà non solo alla elaborazione di metodologie descrittive, ma, per contrasto, a una concezione più autenticamente storica degli studi diacronici. L'insistenza su quella che egli chiama ‛arbitrarietà del segno', combinata con una teoria imperfettamente esplicitata dei valori, conduce Saussure a individuare la specificità delle strutture linguistiche e a porre il problema del loro posto nell'insieme di una semiologia generale. Tutto ciò porterà i suoi frutti solo al termine di una lenta maturazione. L'opposizione tra langue e parole, invece, riflesso della sociologia durkheimiana colorita dallo psicologismo dell'epoca e uno degli aspetti più criticabili dell'insegnamento saussuriano, si impose largamente sin dall'inizio.

I movimenti strutturalistici si sono, in Europa, sempre richiamati a Saussure. Ma non si può dire che Saussure sia il fondatore dello strutturalismo. Se ha lungamente insistito sulla dualità del segno linguistico, egli non ha mai posto come tratto essenziale di questa struttura l'articolazione del significante in unità distintive successive. Ora, questo è il punto di partenza della dottrina fonologica, che ha conosciuto, in Europa occidentale, precursori come H. Sweet e O. Jespersen, ma che si è direttamente ispirata all'insegnamento del polacco Baudouin de Courtenay. Il contributo decisivo della fonologia sta, se non nella scoperta, almeno nella esplicitazione dell'esistenza, in ogni lingua, di un numero determinato di unità distintive discrete, i fonemi. Per la prima volta si osa affermare che c'è un settore del comportamento umano in cui non tutto è fatto di sfumature e di soggettività. Lo scandalo, pur non essendo clamoroso, non è meno profondo e ci si è industriati a smorzarlo in due modi. Anzitutto, ignorando la fonologia propriamente detta: questa è la posizione di conservatori che si dichiarano esplicitamente ‛saussuriani', o di pretesi innovatori che utilizzano il termine ‛fonologia' in riferimento all'esame di certi tipi di alternanza morfologica ed escludono dalla linguistica propriamente detta quel che riguarda la determinazione delle unità foniche. In secondo luogo, osservando che il fonema è solo un concetto operativo, cioè una nozione inventata dal linguista per facilitare la sua analisi. Ancora una volta, il formalismo si rivela una linea di difesa dell'idealismo contro il progresso della ricerca obiettiva.

La fonologia, sulla linea di N. S. Trubeckoj e basandosi sul principlodi pertinenza, si svilupperà verso la linguistica funzionalista di oggi, mentre accuserà, con R. Jakobson, talune tendenze aprioristiche che si rilevano sin nei suoi inizi.

La glossematica di L. Hjelmslev rappresenta in realtà una reazione antisostanzialistica agli insegnamenti della fonologia praghese. Non si tratta di negare l'esistenza delle unità linguistiche costitutive degli enunciati, ma di considerarle come entità puramente relazionali, considerate, almeno all'origine, indipendentemente dalla sostanza fonica o semantica che le realizza.

L'evoluzione della linguistica negli Stati Uniti segue vie un po' particolari, benché per molto tempo parallele a quelle dei movimenti europei. Né il precursore E. Sapir, né il caposcuola L. Bloomfield hanno ignorato Saussure. Ma alcune condizioni locali, come l'esistenza in loco di lingue indiane, avevano stabilito dei precedenti descrittivistici, e, almeno in Bloomfield, la pressione della filosofia behaviorista del tempo ha condotto alla pura e semplice eliminazione di ogni riferimento ai processi mentali. Non si tratta più, quindi, di operare con un segno a due facce, quella significante e quella significata, ma di vedere nel morfema, che i saussuriani identificherebbero col segno minimo, uno dei gradini di una serie di unità di crescente complessità che porta dal fonema alla frase. La costruzione bloomfieldiana, un tantino semplicistica nel suo partito preso di ignorare taluni problemi, provocherà alla fine una reazione di cui, dietro l'apparato logico-matematico iniziale, appare il carattere idealistico. Non avendo operato con la pertinenza e non avendo esplicitato il valore euristico della prova di commutazione, paralizzati dal timore che sorga il soggettivismo non appena si allenti la disciplina meccanicistica, i ricercatori dagli anni trenta agli anni cinquanta si troveranno disarmati dinanzi a quanti scartano il traliccio del corpus bloomfieldiano a vantaggio della ‛competenza' del descrittore. Non c'è dubbio che la lezione dei trasformazionalisti e generativisti, primo tra tutti N. A. Chomsky, abbia rappresentato una liberazione sulla scena americana, benché - guardando dall'esterno - si possa vedere che essa non è riuscita a liberarsi da tutte le ipoteche poste dai predecessori. Il suo passaggio sulla scena europea, accompagnato da riferimenti a valori tradizionali sicuri, come la filosofia cartesiana e la Grammaire di Port-Royal, ha consentito ai tradizionalisti di ritrovarsi all'avanguardia e a taluni logici di porsi al centro di una disciplina ‛alla moda', nella misura in cui il postulato chomskyano dell'innatismo delle strutture del linguaggio permetteva loro di pronunciarsi in materia linguistica senza sentirsi tenuti a informarsi della varietà reale delle diverse lingue.

3. La descrizione delle lingue

Sul piano della linguistica generale teorica, una lingua deve esser descritta in se stessa e senza riferimenti, impliciti o espliciti, a un'altra, come occorre fare quando si tratta di insegnare una lingua a qualcuno che ne padroneggia già un'altra. Nondimeno, il descrittore non potrebbe impegnarsi a ricordare, a proposito di una lingua determinata, tutti i tratti riconosciuti comuni a tutte le lingue. Se l'ipotesi chomskyana dell'innatismo delle strutture linguistiche dovesse un giorno trovare verifica, descrivere una lingua consisterebbe probabilmente nel determinare quali sono i tratti di queste strutture che sono stati conservati dalla lingua in questione, e quali essa ha eliminato. Se la ricerca induttiva di universali del linguaggio presentasse qualche garanzia di serietà, potremmo mirare a orientare le descrizioni limitandoci alle latitudini concesse alle lingue una volta soddisfatti gli universali. Ma sta di fatto che i pretesi universali sono in realtà solo dei quasi-universali, sicché i più caratteristici e i più degni di essere segnalati sono proprio i tratti considerati eccezionali. Di fatto, il solo metodo raccomandabile è quello che suppone comuni a tutte le lingue solo i tratti inclusi nella definizione che si è adottata per l'oggetto lingua, e quelli che da tale definizione possono essere dedotti. Nel seguito di questo scritto opereremo sulla base della definizione fornita in precedenza (v. sopra, cap. 1).

Il fine ultimo di ogni lingua è la comunicazione dell'esperienza umana. Anteriormente alla sua comunicazione mediante una lingua, quest'esperienza, nella misura in cui vi scorgiamo quel che le percezioni ci forniscono, comporta un'organizzazione tale che sensazioni distinte sono considerate identiche o analoghe, e altre considerate diverse. In altri termini, i processi di astrazione e di generalizzazione preesistono all'uso del linguaggio. Ma, quale che sia potuta esserne la strutturazione preliminare, l'esperienza, una volta che si è deciso di comunicarla linguisticamente, deve analizzarsi in certi elementi corrispondenti a unità significative minime, o monemi, esistenti nella lingua di cui ci si servirà. Queste unità significative non necessariamente si corrispondono da una lingua a un'altra: l'esperienza corrispondente al bretone glas copre delle esperienze che corrisponderebbero in italiano a blu, a grigio e a verde. Un bilingue che voglia comunicare la stessa esperienza in italiano e in inglese, la analizzerà di volta in volta in funzione delle risorse di monemi esistenti nell'una e nell'altra lingua, in modo tale che quanto si esprime in italiano mediante Maria ha attraversato il fiume a nuoto, si esprimerà in inglese nella forma Mary swam across the river. L'utilizzazione degli stessi segni grafici nelle due lingue non deve far pensare che le unità foniche, i fonemi, siano in esse gli stessi. Anche se fisicamente possono presentare delle analogie, esse sono in ogni lingua in rapporti specifici che non ne autorizzano l'identificazione da una lingua a un'altra.

Ci sono due modi di presentare l'identità di un segno linguistico: in termini di significato o in termini di significante. Blu sarà ‛blu' nel primo caso, /blu/ nell'altro. Ma se l'analisi del significato ‛blu' in unità di senso più piccole pone problemi mal risolti, quella del significante /blu/ è realizzata anche nella trascrizione in tre unità distintive discrete, i fonemi /b/, /l/, /u/: ciò assicura al significante /blu/ un carattere discreto che rende perfetta l'identificazione. Questo invoglia a cominciare ogni descrizione con un'analisi fonologica che, una volta realizzata, consente di operare più agevolmente con le unità significative.

L'analisi fonologica si pratica sempre accostando due segmenti di enunciato che differiscono solo in un punto. Questi segmenti vengono indicati col nome di ‛coppie minime'. In italiano cosa e coscia, salo e scialo sono coppie minime che differiscono solo perché in un segmento troviamo [s], là dove l'altro presenta [∫]. Possiamo immediatamente concludere che /s/ e /∫/ sono in italiano fonemi distinti, che verranno identificati come tali tutte le volte che in questa lingua percepiremo [s] e [∫]. Se tuttavia vogliamo non tanto stabilire rapidamente una lista di unità distintive, quanto determinare le esatte condizioni in cui le distinzioni sono assicurate, cercheremo con altri accostamenti se la differenza tra [s] e [∫] è suscettibile di assicurare le distinzioni in tutti i contesti fonici in cui almeno uno di essi appare. Ciò si verifica in italiano. Ma se, operando sul tedesco, avessimo cominciato con una coppia minima come Tasse-Tasche, distinta dalla differenza tra [s] e [∫], un'indagine più approfondita ci avrebbe rivelato che quelle due unità, in tedesco, si oppongono solo in contesti fonici ben definiti, e che ad esempio in posizione iniziale dinanzi a consonante o [s] non si incontra mai o è indifferente, per il senso, pronunciare [s] o [∫]. Non si riuscirebbe a distinguere una parola spielen pronunciata con [s] da una parola spielen pronunciata con [∫] iniziale; con [∫], che è più frequente, o con [s], che lo è meno, si tratta sempre della parola che vuoi dire ‛giocare', ‛suonare'. In questo caso diremo che in tedesco l'opposizione /s/~/∫/ è neutralizzata in posizione iniziale dinanzi a consonante. I linguisti che non operano col concetto di neutralizzazione sono indotti a confondere, da un lato, le alternanze tra fonemi perfettamente distinti (quella, ad esempio, di /u/ e di /y/ nel tedesco Mutter-Mütter) che servono a distinguere forme di valore diverso (qui, il plurale dal singolare); d'altro lato le variazioni non distintive, come quella del [t] del tedesco Bund rispetto al [d] del genitivo Bundes, determinata dall'incapacità, per un germanofono, di distinguere [t] da [d] in posizione finale.

Le unità distintive, successive nell'enunciato, sono designate come fonemi; ogni enunciato si considera integralmente segmentabile in fonemi. Si constata tuttavia in alcune lingue l'esistenza di tratti fonici distintivi, i cui limiti non coincidono con quelli dei fonemi successivi. In svedese ad esempio un disillabo come anden (l'anatra) differisce da anden (lo spirito) in virtù di differenze permanenti nella curva melodica realizzata da vibrazioni delle corde vocali. Queste differenze non sono localizzabili né attribuibili a uno dei fonemi successivi /a/, /n/, /d/, /Ä/, /n/. Si è potuto designarli come fonemi ‛soprasegmentali'. Ma per lo più li si ricollega a un insieme di fatti prosodici comprendenti tutti i fatti fonici dotati di funzioni variabili, ma caratterizzati dal fatto che non si integrano alla segmentazione fonematica. I tratti prosodici distintivi sono designati col nome di ‛toni' o ‛tonemi'. Sono chiamati ‛accenti' quelli che mirano a valorizzare un segmento significativo del discorso in contrasto con i segmenti vicini nell'enunciato. Quelli che danno questa o quella sfumatura al valore dell'enunciato nel suo insieme sono raccolti sotto l'etichetta ‛intonazione'.

I ricercatori, alquanto numerosi oggi, che sono tentati di accorciare l'analisi fonologica, o perfino di escluderla dalla linguistica propriamente detta, sono in generale spiriti più inclini a cercare quale presa il linguaggio possa fornire sul mondo che a determinare la natura esatta e dettagliata del fenomeno che la lingua rappresenta in quanto realtà autonoma distinta dal resto dell'universo fisico o morale. Nella misura in cui le unità significative, segni linguistici a doppia faccia, paiono rinviare con la loro faccia significata alla realtà non linguistica, il loro studio può sembrare, a quegli stessi spiriti, più degno del loro interesse. Ma essi non sentono affatto il bisogno di portare fino in fondo l'analisi. Operano volentieri a partire dalle grafie tradizionali, che offrono in generale una segmentazione bell'e fatta in parole, che li porta a porre i problemi nei termini delle grammatiche normative dei secoli passati, con regole a cui si conformano quanti conoscono il corretto uso, anche se questo è battezzato ‛competenza' e se tutta l'operazione si presenta accompagnata da un apparato logico-matematico. I ricercatori i quali, dopo Saussure, ritengono che la linguistica sia principalmente lo studio del linguaggio in se stesso e per se stesso, non possono accontentarsi di tanta disinvoltura. Non è possibile operare con concetti come quello di parola prima di averne precisato la natura e, secondo i casi, prima di averli ridefiniti accuratamente o scartati intenzionalmente. Un'analisi consapevole porta necessariamente a porre l'esistenza di segni minimi. Gli strutturalisti americani che, dopo Bloomfield, e per timore di compromettersi col senso, consideravano solo la faccia manifesta degli elementi dell'enunciato, hanno visto dei morfemi solo in caso di corrispondenza a un segmento distinto: ciò li portava, dinanzi a una forma latina di genitivo plurale, come rosàrum, a tagliare a caso per ottenere segmenti come ros-, -àr- e -um, o, meno arbitrariamente, a riconoscervi due morfemi segmentali, ad esempio rosá- e -árum, ponendo che due brevi valgano una lunga. Se, in un'ottica saussuriana in cui il significato riprenda i suoi diritti, rifiutiamo di lasciarci imporre una soluzione dalle apparenze della forma, si constaterà che rosàrum corrisponde a tre scelte significative distinte e vi si identificheranno tre monemi, ‛rosa', ‛genitivo' e ‛plurale', anche se ci rifiutiamo di farli corrispondere a tre distinti segmenti. Ogni particolare scelta determina certo una differenza di forma, ma questa differenza può influire sull'insieme corrispondente a più scelte.

L'analisi di un enunciato in unità significative minime porta all'individuazione di una successione di monemi. Un'operazione susseguente deve permettere di identificare come rappresentanti lo stesso monema unità distintive che appaiono in contesti diversi e in forme spesso variabili. Il monema italiano che appare nella forma con in quelli che possiamo definire contesti poco cogenti, prenderà la forma co- dinanzi all'articolo maschile singolare. Una volta identificati, nelle loro diverse forme, i diversi monemi, li classificheremo secondo le funzioni che assumono e le loro compatibilità.

Quando i linguisti, terminata la messa a punto delle tecniche fonologiche, si sono accostati allo studio delle unità significative, sono stati frequentemente portati a trasferire le procedure da un campo all'altro. Siccome, di norma, la funzione distintiva dei fonemi si esercita in un contesto dato, o, in altri termini, la loro posizione nei confronti dei loro vicini è pertinente, si potrebbe esser tentati di attribuire la stessa pertinenza alla posizione rispettiva dei monemi nell'enunciato. Ora, la situazione è del tutto diversa. Il caso dei fonemi ricorda quello delle cifre di un numero telefonico. Prendiamo 712.12.04. Se inverto 0 e 4, raggiungerò un altro abbonato, oppure riceverò l'avviso che il numero non è in funzione ma non potrò raggiungere la persona con cui voglio parlare. Il caso dei monemi può essere in una certa misura accostato a quello delle lettere nel sistema di cifrazione romana (preso nella sua forma primitiva, che non comportava sottrazione: 4 IIII e non IV). Prendiamo MDCCCLXXIII. In questo complesso, ogni segno vale di per sé e indipendentemente dalla sua posizione rispettiva. Se scegliessi la successione XCIMDCLICXI, il totale, 1873, resterebbe lo stesso. Mi allontanerei semplicemente dall'uso, un po' come se, invece di lui beve un bicchiere, dicessi beve lui bicchiere un. Indubbiamente, per il senso non è indifferente che io dica la cacciatrice uccide la tigre invece di la tigre uccide la cacciatrice, o che inverta una e la in la cacciatrice uccide una tigre. La rispettiva posizione dei monemi nell'enunciato può dunque essere pertinente, ma non lo è necessariamente, e non si possono caratterizzare i monemi in funzione dei contesti in cui appaiono, come si fa nel caso dei fonemi. In la cacciatrice uccide una tigre, la posizione di cacciatrice e quella di tigre sono indicative delle rispettive funzioni di queste due unità, ma la funzione di ieri in è venuto ieri è indicata dai suoni stessi di ieri, senza che intervenga la sua posizione (ieri, è venuto), e quella di martello in batte con il martello è indicata da con, in quanto la posizione rispettiva degli elementi non è significativa.

Quel che caratterizza un monema e permette di classificarlo non sono dunque propriamente i contesti in cui appare, ovvero, come si dice, la sua distribuzione, ma le funzioni che può assumere e la possibilità che ha di essere determinato da questo o quel monema o tipo di monema senza che intervengano le modalità materiali dell'espressione di quelle funzioni o di quella determinazione: per la classificazione dei monemi in questione, poco importa che in tedesco entlang sia posposto al sostantivo, mentre durch è preposto, poiché l'uno e l'altro comportano la scelta dello stesso monema casuale, e l'uno e l'altro hanno la funzione di connettere il sostantivo al monema predicativo della proposizione.

Al di là delle operazioni euristiche di cui si è ora discusso, occorre preoccuparsi di una esposizione didattica, che corrisponde a un altro momento dell'attività del linguista. La tradizione distingue, nella presentazione della grammatica di una lingua, una morfologia e una sintassi. I linguisti contemporanei hanno a lungo esitato sul valore di questa distinzione, e spesso incontriamo il composto ‛morfo-sintassi', piuttosto che ‛grammatica', per designare la presentazione dei risultati dell'analisi degli enunciati in unità significative e dell'esame delle loro compatibilità. In realtà, la distinzione tra morfologia e sintassi è perfettamente giustificata, a condizione che sia preceduta da una chiarificazione del valore di questi termini. Come indica l'etimologia del termine, la morfologia è lo studio delle forme. Ora, queste pongono dei problemi solo nella misura in cui una stessa unità significativa, uno stesso monema, può assumere forme diverse in diversi contesti. Parole come ieri o come senza, la cui forma non varia mai, non appaiono nella morfologia, e una lingua come il cinese in cui, con qualche eccezione, la forma dei monemi resta sempre costante, può essere presentata facendo economia di un capitolo di morfologia.

Nelle grammatiche classiche troviamo, agli inizi della morfologia, una lista dei monemi di cui si pensa che gli utenti non conoscano l'identità: ad es. in una grammatica latina, la lista dei casi. Ma ciò non ha naturalmente niente a che fare con uno studio della variazione delle forme delle unità. È per un controsenso che a volte si attribuisce a ‛forme' il senso di desinenze casuali o verbali.

Prima di trattare delle variazioni della forma dei significanti dei monemi, giova presentare i monemi stessi; ciò deve costituire l'oggetto di un capitolo a parte, che intitoleremo l'‛inventario'. Questo inventario comprenderà liste complete delle classi di monemi composte da un numero limitato di membri. Le unità di queste classi sono tradizionalmente indicate come grammaticali, e questo termine può essere conservato. Le classi composte da un numero illimitato di membri, nel senso che gli utenti possono in ogni momento aggiungervi nuove unità, saranno solo illustrate e definite in base alle funzioni e alle compatibilità dei loro membri. Secondo che il loro significante sia invariabile o no, ambiguo o meno, i monemi saranno dati nella forma di una successione di fonemi (con, eventualmente, l'indicazione dei toni e della sede di un accento), o presentati in termini di significato.

Dopo la morfologia, che segue immediatamente l'inventario, viene la sintassi. Come il termine ‛morfologia', anche questo richiede delle precisazioni circa il suo valore. Concepita come studio delle latitudini combinatorie dei monemi, o meglio delle loro reciproche compatibilità, essa può dar l'impressione di essere un doppione di quello che sopra abbiamo definito come l'inventano, in quanto si tratta delle compatibilità di una classe con l'altra. Se si fanno intervenire le compatibilità di un monema con un altro, si esce dall'ambito del generale, cioè del grammaticale, per accostarsi a quello del particolare, il lessico. Ora, non c'è alcun interesse a confondere i due ambiti. Per riprendere un esempio classico, colorless green ideas sleep furiously è universalmente riconosciuto come corrispondente alla pratica grammaticale dell'inglese e totalmente inatteso sul piano delle compatibilità lessicali. Si ha a che fare con due poli distinti. Dal lato della grammatica, il parlante ha delle responsabilità nei confronti della lingua. Dal versante del lessico, si sente responsabile nei confronti del mondo delle realtà vissute. Il linguista, che non identifica la parola e la cosa, sa che si tratta, almeno parzialmente, di un'illusione, in quanto i segni del linguaggio - siano essi grammaticali o lessicali - sono valori nel senso saussuriano del termine, cioè convenzionali, e appartengono alla lingua e non al mondo. Ma le reazioni del parlante si fondano sulla differenza tra le scelte limitate che deve fare tra i monemi grammaticali degli inventari chiusi, e le scelte illimitate tra le unità di classi lessicali, a proposito delle quali ha l'impressione che ciascuna sia aperta sull'infinito. Basta che il sogno apra al soggetto dei mondi nuovi, perché delle combinazioni lessicali, che parevano escluse nello stato di veglia, si rivelino perfettamente naturali.

La sintassi non può dunque esser definita in termini di combinabilità o di compatibilità. In essa vedremo piuttosto lo studio del modo in cui l'esperienza, che si è voluto comunicare linguisticamente, può essere ricostituita dall'ascoltatore a partire dalla successione lineare del discorso. Per giungere a un tal fine, esistono tre procedimenti, usati da soli o in combinazione: il senso stesso delle unità impiegate; la posizione rispettiva delle unità nella catena del discorso; la utilizzazione di unità particolari incaricate di indicare i rapporti. Un monema come ieri indica da solo i suoi rapporti col resto dell'enunciato; in termini tradizionali, è immediatamente riconosciuto come dotato della funzione di complemento di tempo; una forma come beve è riconosciuta subito come predicato, cioè il monema in riferimento al quale gli altri monemi o gruppi di monemi della frase indicano la loro partecipazione alla comunicazione dell'esperienza. In una lingua come il francese o l'inglese, è la sua posizione nella catena rispetto al monema predicativo che indica la funzione di soggetto o di oggetto di un elemento suscettibile di assumere quelle funzioni. In inglese o in tedesco, l'anteposizione è, in certe condizioni, la marca di una relazione di determinazione. Infine, nella maggior parte delle lingue, monemi particolari, preposizioni o postposizioni, congiunzioni, desinenze di caso, sono specializzati nell'indicazione della funzione dei loro vicini nel discorso.

Chiamiamo ‛sintagmi' i gruppi di monemi collegati da relazioni sintattiche. Dovremo distinguere tra sintagmi e raggruppamenti particolari di monemi che funzionano sintatticamente come monemi unici. Un complesso come mulino a vento, non ha, nei suoi rapporti col contesto, un comportamento diverso dal monema semplice mulino. Si è proposto di designare tali complessi col nome di ‛sintemi'.

L'enumerazione più o meno completa dei monemi e sintemi appartenenti alle classi aperte dell'inventano è quel che si designa col nome di lessico. Questa enumerazione ha interesse solo nella misura in cui rappresenta non solo una lista dei significanti, praticamente in forma grafica, che non sempre permette di ricostruire il significante fonico iniziale, ma è accompagnata da suggerimenti concernenti gli usi che possono esser fatti di ogni unità per riferirsi a diversi elementi dell'esperienza: quello che si designa in generale come loro significato.

Giova ricordare che il problema del significato si pone anche per gli elementi grammaticali. C'è significato quando l'ascoltatore, in forza della sua conoscenza della lingua, percepisce che, in un punto determinato del discorso, il parlante ha scelto il tale monema invece di qualche altro che avrebbe potuto apparire in quel punto senza contravvenire alle abitudini grammaticali degli utenti. Benché accompagnate da restrizioni di vario tipo, queste condizioni esistono anche per le unità appartenenti agli inventari limitati della grammatica. Il problema del senso, di cui tratta la semantica, non si limita quindi al lessico. In pratica, d'altro canto, i dizionari danno ospitalità a tutti gli elementi grammaticali che la grafia tradizionale tratterebbe come ‛parole' distinte, separandole cioè con spazi bianchi dai loro vicini nella catena.

Si è potuto dire, a proposito del senso di un'unità, che esso è la risultante di tutti i contesti in cui quella figura. Si può certo stimare che questo significhi proprio presentare le cose alla rovescia, e che di fatto l'unità figura solo nei contesti in cui il suo senso lo permette. Di fatto, dal punto di vista dell'apprendimento di una lingua, questa formulazione paradossale implicherebbe che le ‛parole' sono state identificate in forza dei contesti in cui sono state intese. Ora, è proprio così che vengono appresi molti elementi lessicali. La diretta testimonianza dei sensi non permette di prender coscienza di quel che rappresentano concetti come giustizia o democrazia. Ma, prima che esistessero siffatti contesti illuminanti, è stato pur necessario che certe unità acquistassero un senso a contatto con delle realtà percepite. Quel che potremmo però dire è che il senso ha potuto socializzarsi Solo quando il soggetto ha constatato che i suoi interlocutori accettavano i contesti in cui egli faceva figurare l'unità. Senza dubbio è chiaro che la garanzia del senso di una ‛parola' si trova tanto nella situazione in cui essa è usata quanto nel contesto linguistico in cui figura. Ma gli elementi della situazione, che assicurano al soggetto che i suoi usi sono accettabili, sono quelli che possono tradursi in contesti linguistici, e possiamo legittimamente supporre che la denotazione di un termine, cioè le implicazioni semantiche di questo termine accettate dall'insieme della comunità, è quel che è passato attraverso il vaglio dei contesti linguistici. In questo quadro, tra gli elementi delle situazioni alle quali un soggetto ha potuto connettere un dato termine, le connotazioni sono quelli che non hanno superato la prova dei contesti, e che quindi costituiscono tutto quel che il termine stesso può evocare per il soggetto senza ch'egli abbia la facoltà di esplicitarlo nella comunicazione linguistica normale.

Quale che sia l'interesse delle ricerche relative al senso condotte nel corso degli anni sessanta di questo secolo, non potremmo dire che esse costituiscano un decisivo progresso in un settore in cui la pressione del mondo esterno, nella sua varietà per lo più irriducibile a insiemi discreti, si oppone alla nettezza delle strutture propriamente linguistiche. La difficoltà delle ricerche semantiche è dovuta principalmente al fatto che il senso che si lega a uno stesso significante può variare secondo le circostanze e i contesti. Fino a che circostanze e contesto rimangono, hic et nunc, responsabili di una deviazione semantica, l'unità sincronica del segno non è raggiunta; un uso metaforico, identificato come tale, non approda alla creazione di un nuovo segno. Ma una volta fissato, un uso siffatto può, secondo le persone, esser sentito come una variazione o come perfettamente distinto. Ci sono Italiani per i quali c'è un'entità geometrica piano e un'entità musicale piano, che non si sono mai sognati di accostare, mentre altri conservano coscienza della identità strutturale dei due tipi di piano. Queste differenze di reazione non influenzano affatto la comunicazione linguistica, e rientrerebbero nell'ambito di quelle che abbiamo chiamato connotazioni. Nella misura in cui una lingua corrisponde a un consenso tra i membri di una comunità, si è dinanzi a elementi assai marginali che susciteranno problemi solo al redattore di dizionari, che deve ogni volta decidere se ridurre le variazioni semantiche all'unità attraverso una formulazione unica, distinguere tra diversi sensi di una stessa parola, oppure redigere articoli distinti.

4. Lo stile

La differenza essenziale tra una lingua e un codice sta nel fatto che un codice è previsto per funzionare in condizioni particolari e a fini ben definiti, mentre il linguaggio umano e le lingue particolari che lo realizzano sono destinati a coprire tutti i bisogni comunicativi dell'uomo, nella loro infinita varietà. Ciò suppone, in queste ultime, una straordinaria elasticità, che non potrebbe essere assicurata se a ogni tipo di esperienza corrispondesse sempre e necessariamente la stessa analisi linguistica. Ogni esperienza umana è in sé irriducibile a ogni altra. La sua comunicazione ad altri mediante il linguaggio suppone un'analisi in elementi identificabili da parte di ognuno dei membri della comunità. Ma, per una data esperienza, la scelta di questi elementi e dei monemi che a essi corrispondono sarà dettata, certo, dalla natura stessa dell'esperienza, ma anche da quel che di essa vuol comunicare il soggetto e dal modo in cui desidera che venga influenzato l'ascoltatore o l'uditorio, tenendo conto di quel che esso sa delle sue conoscenze, preferenze e gusti. In tutto ciò interviene la personalità del parlante, con il suo modo di utilizzare le risorse della lingua. Il riflesso di questa personalità sull'impiego che essa fa dello strumento linguistico è quel che si designa col nome di ‛stile', nel senso più ampio del termine.

Ogni uomo avrebbe dunque il suo stile. Ma naturalmente nulla impedisce a qualcuno di imitare lo stile altrui, se sa farlo. Ci sono d'altronde molte circostanze in cui ci si sente in dovere di usare un certo stile che, in taluni casi - nello stile giuridico ad esempio - è cosi perfettamente standardizzato da eliminare ogni possibilità, per il parlante, di manifestarvi la propria individualità. Ciò pare naturalmente in contraddizione con quel che abbiamo cominciato a dire dello stile. Bisogna quindi precisare che, accanto allo stile che caratterizza l'individuo, c'è uno stile che caratterizza la professione o taluni tipi di rapporti umani.

Benché, etimologicamente, il termine ‛stile' si riferisca al modo di esprimersi nella grafia, esiste naturalmente uno stile parlato, quello che si manifesta negli usi oratori della lingua, ad esempio, ma anche nella vita giornaliera, anche se quest'ultimo, che non costituisce oggetto di registrazioni, sfugge normalmente all'esame degli specialisti. Di fatto, il vero problema dello stile, per il linguista, consiste nel sapere se esistono degli usi del linguaggio in cui non sia possibile parlare di stile. Esiste, accanto allo stile, un non-stile? L'individuo può parlare senza manifestare la sua personalità nella scelta dei suoi monemi e delle loro combinazioni? Non pare esserci dubbio sul fatto che ciò accada spesso. Ci sono circostanze in cui qualunque soggetto di lingua italiana dirà: ‟Ecco la stazione". Chiamare gatto un gatto, significa appunto, in molti casi, evitare lo stile. Nei confronti di questo uso che potremmo considerare normale, non marcato, del linguaggio, lo stile rappresenterebbe una deviazione, o, come si dice spesso, uno scarto. Ciò varrebbe tanto per lo stile individuale quanto per lo stile professionale o di circostanza.

Tuttavia, dicendo che lo stile è uno scarto, non si riesce a definirlo a sufficienza, in quanto ci sono molti casi in cui i parlanti si distaccano dagli usi normali della lingua, ad esempio nel caso dell'uso della lingua da parte di un bambino o di uno straniero, senza che si voglia per questo parlar di stile. Lo stile, nel senso in cui il termine è adoperato in letteratura, suppone non uno scarto voluto come tale, ma un'elaborazione, un intento di scegliere questa unità al posto di quella che sarebbe apparsa del tutto naturalmente se non ci fosse stata intenzione stilistica. Lo stile suppone sempre una iniziale considerazione di quel che sarà il prodotto finito, in quanto la scelta di un dato monema risulta non solo dal suo valore intrinseco, ma dal modo in cui esso si integrerà all'insieme. Negli usi non stilistici del linguaggio, interverrà solo quel che il parlante vuol far conoscere della sua esperienza, in quanto ogni elemento significativo ricorre, nell'enunciato, al posto che gli spetta normalmente nell'insieme, senza considerazione dell'effetto, favorevole o sfavorevole in virtù del suo senso o della sua forma, che esso può produrre nel contesto in cui appare. In una enumerazione ad esempio, l'ordine degli elementi sarà determinato dal senso o dal caso, mentre preoccupazioni stilistiche potranno comportare un ordine tale che l'elemento più lungo appaia alla fine. Questo aspetto dello stile è più evidente in poesia: il prodotto finito ha dovuto sottoporsi a tutti gli imperativi della metrica, a prescindere da tutte le costruzioni che il poeta si è imposto per tentare, attraverso accostamenti, parallelismi o richiami, di far dire al testo più della somma di quel che le unità potrebbero individualmente comunicare. Nel quadro molto semplificato dell'informatica, si sa che un'unità vale non solo per la sua propria rarità, ma anche per il carattere eccezionale delle combinazioni in cui figura. Il fine ultimo dello stile letterario consiste nel trascendere le capacità comunicative di cui sembra disporre la lingua, considerata sotto l'angolo scelto dal linguista per descriverla.

5. L'acquisizione del linguaggio e la sua conservazione nell'individuo. La psicolinguistica

Finché si trattano le lingue come strutture sui generis, come fasci di abitudini considerate come ben stabilite, funzionanti senza interruzioni e osservabili nel comportamento dei soggetti, il linguista può e deve astenersi dal fare riferimento ad altri aspetti dell'attività fisica o mentale dell'essere umano. La menzione, che abbiam potuto fare sopra, di un'esperienza da comunicare anteriormente alla sua analisi in rapporto con le risorse della lingua da usare, è giustificata solo dal fatto ovvio che gli uomini hanno ‛delle cose da dire'. Ma, se ci si chiede come possano stabilirsi, nell'uomo, siffatti fasci di abitudini o in quali circostanze il loro funzionamento possa essere influenzato, ci si trova dinanzi a problemi che esorbitano dalla stretta competenza che il linguista si era attribuita. Quando si cerca di capire come faccia un bambino a imparare la lingua che si parla attorno a lui, del tutto naturalmente ci chiederemo se egli non faccia altro che esercitare, in una forma particolare impostagli dall'esterno, una facoltà che sarebbe quella del linguaggio, o se invece si inizi lentamente al funzionamento di una istituzione, mettendo a frutto svariate facoltà che dapprima non hanno niente a che fare con l'impiego di una lingua.

L'idea secondo cui esiste nell'uomo una facoltà innata del linguaggio gode presso taluni teorici un evidente favore. Semplice supposizione da parte di persone che si presentavano come linguisti, essa è riuscita a sedurre specialisti di discipline affini, che senza dubbio la supponevano meglio fondata. Essa serve come ipotesi di lavoro a un certo numero di ricercatori contemporanei, ma è lecito temere che una osservazione così manifestamente compromessa sin dall'origine non possa apportare un insieme di dati generalmente persuasivi. Al proposito, c'è chi giunge a ipotizzare che ciascuna delle strutture realmente attestate nelle diverse lingue sarebbe solo quel che resta di una strutturazione innata, nella quale ogni comunità fa una scelta, dettata dalla tradizione, mentre gli elementi non scelti si indeboliscono e, alla fine, scompaiono in tutti gli individui per difetto di utilizzazione. Questa concezione della mente si ispira, in ultima analisi, a una teoria dell'acquisizione dei sistemi fonologici elaborata nel 1941 da R. Jakobson, sulla base del corpus di osservazioni, estremamente ridotto, disponibile a quel tempo.

La ricerca in questo settore viene condotta anche secondo uno schema funzionalistico, in cui l'acquisizione della lingua da parte del bambino è concepita come parallela allo sviluppo di svariate facoltà e come influenzante, a sua volta, questo sviluppo stesso. In questo campo si bada a non attribuire sin dall'inizio alle produzioni infantili le strutture identificate nell'uso degli adulti. Le verifiche vengono effettuate mediante procedimenti linguistici già sperimentati, senza basarsi su ipotesi tratte da altri ambiti (come la comparsa, verso una certa età, di una funzione simbolica), ma cercando in che misura le osservazioni propriamente linguistiche confermano o infirmano queste ipotesi.

Le ricerche relative ai diversi disturbi del linguaggio hanno sofferto a lungo del fatto di esser praticate da medici privi di qualunque formazione linguistica. I primi linguisti a interessarsi alla patologia del linguaggio sono stati tentati di presentare ai loro interlocutori non tanto il risultato di osservazioni ben condotte, quanto teorie seducenti. Ora, uno degli impacci in cui si scontra l'interdisciplinarità contemporanea è la difficoltà che gli specialisti trovano a misurare il valore di quel che vien loro offerto da altri ambienti, a distinguervi quel che è ben fondato da quel che è fortemente ipotetico. Malgrado i contatti frequenti e piuttosto stretti stabiliti nel corso degli ultimi decenni, non possiamo dire che l'indispensabile collaborazione tra linguisti e medici abbia portato tutti i suoi frutti. Per prendere un esempio banale: i patologi sono ancora molto spesso nell'incapacità di precisare quel che, nel comportamento linguistico di un paziente, è patologico e quel che è normale, in quanto non sanno dove rivolgersi per sapere che cosa veramente sia l'uso parlato normale delle diverse classi sociali.

Per molto tempo la necessità di una psicologia del linguaggio, o di una psicolinguistica, realmente distinta dalla linguistica, non si è affermata, in quanto i linguisti delle epoche prestrutturali difficilmente concepivano una linguistica generale che non si identificasse con un capitolo della psicologia: la langue che Saussure oppone alla parole è una realtà strettamente mentale, e quando Baudouin de Courtenay cerca di integrare il fonema alla linguistica propriamente detta, si sforza di mostrarne la realtà psicologica. Solo a partire dal momento in cui, timidamente dapprima, e in modo molto variabile secondo le scuole, strutturalisti e funzionalisti prendono le distanze nei confronti dell'iniziale psicologismo, può avvertirsi il bisogno di una disciplina mirante a delucidare i condizionamenti psicologici dei processi linguistici osservati. In conseguenza dello sviluppo, a partire dal 1957, della grammatica generativa, che pone l'esistenza, nell'individuo parlante, di una competenza non priva di connessioni con la langue di Saussure e propone un metodo linguistico tendente a ritrovare la competenza tramite analisi introspettiva, i processi di individuazione di una psicolinguistica distinta dalla linguistica propriamente detta si trovano parzialmente frenati.

6. La varietà delle lingue nello spazio e nella società. La sociolinguistica

Le nozioni di lingua e di comunità linguistica si fondano in realtà sull'esistenza concretamente constatata di idiomi nazionali, quali il francese o il tedesco, in cui sono redatti i documenti ufficiali di certi Stati e tutto un corpus di opere letterarie - idiomi che si ritiene assicurino la comunicazione orale tra i cittadini o i sudditi delle nazioni corrispondenti. I linguisti, che all'inizio erano filologi di formazione letteraria, per molto tempo non hanno cercato affatto di vedere quale varietà e quale multiformità esistessero di fatto sotto l'uniformità linguistica apparente all'interno delle frontiere degli Stati. L'esistenza di dialetti si imponeva allora all'attenzione solo in quanto essi erano, come nella Grecia antica, strumenti di comunicazione di unità politiche e culturali distinte, o si affermavano come supporto di una letteratura. Ogni altra deviazione nei confronti della norma nazionale era ignorata, in quanto affare di persone prive di prestigio sociale, o etichettata col termine dispregiativo patois. La scoperta, nel corso del sec. XIX, che i dialetti potevano gettar qualche luce sui processi evolutivi delle lingue è finalmente approdata all'instaurazione di una disciplina distinta, la dialettologia, alla quale dobbiamo contributi importanti alla ricerca. I dialettologi sono però quasi sempre rimasti degli antiquari, generalmente poco sensibili al fatto che dialetti e patois servono effettivamente alla comunicazione all'interno di comunità più o meno vaste. Essi sono riusciti ad allestire monumentali atlanti linguistici senza esplicitare il fatto che taluni dialetti sono varietà della lingua comune utilizzate da popolazioni unilingui (come il dialetto di Chicago, varietà dell'inglese d'America), mentre altri, come le parlate di Linguadoca in Francia e il dialetto piemontese in Italia, sono gli idiomi primi di persone che, simultaneamente, o un po' più tardi sui banchi di scuola, imparano la lingua nazionale e da allora si trovano a essere effettivamente bilingui.

La ricerca contemporanea ha rivelato che il plurilinguismo, nel quale il bilinguismo si integra a mo' di caso particolare, è una situazione quasi altrettanto normale dell'impiego, da parte dell'individuo, di una sola lingua. Per la ricerca esso non ha né senso né valore se non quando si rinunci all'ingenua esigenza di una identica padronanza delle lingue in questione: i chierici medievali erano dei bilingui che indubbiamente impiegavano, nelle situazioni ordinarie, il loro vernacolo molto meglio del latino, ma che sarebbero stati incapaci di trattare in lingue diverse dal latino i loro temi di studio. C'è plurilinguismo quando un individuo può, bene o male, fare uso di due o più lingue diverse. Questo concetto si impone difficilmente, in quanto si scontra con i pregiudizi sentimentali relativi alla ‛lingua materna' che non può esser che unica, poiché si ha sempre una sola madre. Per conseguenza, il bilingue non potrebbe essere se non una specie di mostro, poiché si considera bilingue solo chi parla due lingue con uguale facilità e con perfetta competenza. L'esperienza mostra che è difficile venire a capo di pregiudizi siffatti. Parlare, come fece A. Meillet, del bilinguismo delle persone colte, è stato avvertito in genere come un paradosso. Di fatto, molti termini di cui bisogna servirsi per trattare della varietà degli usi linguistici sono, nell'uso corrente, suscettibili di impieghi tanto diversi, e ad essi si associano connotazioni tanto disparate, che è difficile diffondere l'informazione in questi settori, anche per linguisti che non abbiano avuto essi stessi esperienza diretta di situazioni plurilingui. È sintomatico che la linguistica prestrutturale, quando ha voluto trattare dell'influsso delle situazioni plurilingui sull'evoluzione delle lingue, lo abbia fatto nel quadro della teoria dei sostrati, cioè dirigendo la propria attenzione non sull'epoca in cui si producevano i contatti responsabili dei fatti da spiegare, ma sulle situazioni unilingui ulteriori risultanti dall'amalgama culturale e linguistico di due etnie.

Le tendenze universalistiche, tanto evidenti negli anni sessanta, hanno avuto l'effetto di mascherare, per molti ricercatori, l'importanza del problema costituito dalla varietà degli idiomi: se tutte le lingue sono in fondo identiche, il linguista può concentrare la sua attenzione su una sola lingua, di preferenza la sua, che ha tutte le probabilità di essere una grande lingua nazionale. Il disinteresse che ne risulta è grave. La comparsa di una vera scienza del linguaggio è stata ritardata dalla generale convinzione che le lingue classiche rappresentassero le sole forme linguistiche accettabili, e che la presentazione della grammatica di altre lingue non potesse che modellarsi su quella del latino e del greco. Si può temere che i progressi di questa scienza saranno senamente rallentati da un insegnamento che finisce spesso, di fatto, per presentare le lingue nazionali dell'Occidente come i soli oggetti degni dell'attenzione dei linguisti.

Le circostanze che rallentano lo studio della varietà degli idiomi influenzano anche lo studio della varietà degli usi di una stessa lingua. A che pro ricercare la forma linguistica universale in ambiti diversi dall'uso ufficiale? Quest'ultimo e, naturalmente, la forma di lingua che si raccomanda all'attenzione degli studiosi pratici interessati ai problemi della traduzione meccanica e a quelli dell'insegnamento delle lingue, si tratti di quella dello studente o di idiomi stranieri. Tale uso è il solo il cui esame paia legittimo alla generalità del pubblico colto. Ciò spiega la lentezza dei progressi nel settore. Poiché la comunicazione linguistica ideale è quella in cui l'attenzione, concentrandosi sul senso, non si sposta mai sulla forma, i soggetti sono addestrati a fare, nei limiti del possibile, astrazione dalle differenze formali tra un parlante e l'altro, o, in uno stesso parlante, dalle differenze a seconda delle circostanze. Quindi, lo studio delle divergenze non può derivare che da un proposito deliberato, che creerà necessariamente conflitti con l'ambiente in cui l'osservatore opera. Le ricerche su questi temi sono state per molto tempo di competenza di ingegni curiosi piuttosto che formati a una disciplina scientifica: ci si interessa volentieri all'argot o agli argots, o anche al ‛linguaggio popolare', come se questo si opponesse necessariamente, nel suo insieme, a quello delle classi colte. Quel che resta meno noto è proprio l'uso reale delle classi colte, che spesso credono di praticare, nelle loro faccende quotidiane, la lingua ufficiale, e inorridiscono quando vengono presentate loro le forme che realmente usano quando non vi pongono attenzione.

Oggi si ritiene spesso che i problemi suscitati dalla varietà degli idiomi e degli usi si integrino in una disciplina specifica, chiamata ‛sociolinguistica', termine che tende a scalzare l'espressione ‛sociologia del linguaggio'. Essi fanno però parte a pieno titolo della linguistica pura e semplice, e non si riesce a immaginare come un qualunque specialista di linguistica generale possa disinteressarsene. Se, come abbiamo il diritto di supporre, il linguaggio è piuttosto una istituzione che una facoltà, esso rientra naturalmente nella categoria dei fatti sociali, e il linguista non può mai dimenticarlo. Appena, cessando di procedere in qualche modo all'anatomia del suo corpus, egli considera la lingua nel suo dinamismo, non può mai fare astrazione dal fatto che essa presuppone una comunità in cui la comunicazione si svolge, e che mal si immagina come questo dinamismo possa essere del tutto indipendente da quello del gruppo sociale che ne fa uso. A rischio di isolarci in generalità prive di interesse, non possiamo studiare una situazione bilingue senza indicarne l'estensione nella società, senza determinare se essa interessi individui o classi, senza precisare in quale contesto sociale il tale individuo o la tale classe usino una lingua o l'altra. Ora, non si vede perché lo studio di una situazione bilingue dovrebbe esorbitare dall'ambito della linguistica propriamente detta, anche se questa deve far uso di tecniche che si ispirano a quelle dei sociologi.

Se quindi lo studio dell'azione di fattori sociali sulla lingua appartiene di pieno diritto alla linguistica, potremmo voler assegnare alla sociolinguistica l'esame dell'influsso del linguaggio sui fatti sociali. Se, come si ammette agevolmente dopo W. von Humboldt, la nostra visione del mondo è largamente dipendente dalla strutturazione lessicale della lingua che parliamo, possiamo supporre che le strutture sociali saranno più o meno influenzate dagli usi linguistici. Pare accertato, ad esempio, che il sentimento di un rapporto di parentela e il comportamento che ne discende è condizionato dall'esistenza, nella lingua, di un termine che lo designa. Potremo peraltro chiederci se non sia l'inesistenza del sentimento di un dato rapporto di parentela che ha impedito la comparsa della designazione o determinato l'abbandono di essa. Anche qui possiamo chiederci se il linguista non sia in posizione migliore di chiunque altro per pronunciarsi al proposito, non foss'altro perché, come ogni individuo, il linguista ha una conoscenza più o meno approfondita di quel che sono le strutture sociali, mentre è il solo ad avere accesso alle strutture della lingua, che si rivelano solo a chi sa astrarre dal senso dei messaggi per concentrarsi sulla loro forma.

7. L'evoluzione delle lingue e l'economia linguistica

È un fatto che ogni lingua evolve in ogni istante. Naturalmente, ciò sfugge all'attenzione degli utenti, i cui bisogni comunicativi sono in ultima analisi responsabili delle modificazioni che si producono. L'esistenza di una lingua ufficiale, ritenuta immutabile, tende a far credere che i mutamenti, dei quali si sa che hanno avuto luogo un tempo, siano cose del passato, e che noi viviamo un periodo di stabilità linguistica. Siccome ciascuno ha interesse a che i testi delle epoche anteriori restino generalmente accessibili, se ne modernizza la grafia, e la loro assidua frequentazione finisce per convincere che le divergenze che vi si riscontrano nei confronti degli usi odierni siano fatti di stile e non di lingua. Solo un'attenta e prolungata osservazione rivela la comparsa, in ogni momento, di deviazioni che, sommandosi nel corso dei secoli e dei millenni, approderanno a una forma linguistica che avrà in comune, col punto di partenza preso in considerazione, solo quel che potrà essere scoperto da uno specialista ben preparato.

Lo studio dell'evoluzione delle lingue fa parte, naturalmente, della linguistica, e in generale si ritiene che, fino alla comparsa dei movimenti strutturalisti, esso ne abbia rappresentato la parte essenziale. La cosa abbisogna tuttavia di qualche specificazione. Vero è che i linguisti del sec. XIX e del primo terzo del XX cercavano soprattutto di scoprire e dimostrare parentele genetiche, mostrando come forme divergenti potessero essere spiegate sulla base di una stessa forma più antica, ricostruita o attestata. Tuttavia, siccome nel caso specifico si trattava di processi non direttamente osservabili, ci si riteneva soddisfatti se si giungeva a mostrare che le divergenze constatate non erano isolate, ma si riscontravano con sufficiente frequenza perché le si potesse considerare regolari. Gli sforzi di alcuni ricercatori per scoprire vere e proprie spiegazioni erano generalmente guardati con sfavore, in quanto sfociavano per lo più in ipotesi inverificabili. Il reclutamento dei ricercatori e le condizioni della ricerca non favorivano affatto un esame diretto dei fenomeni evolutivi in se stessi.

L'avvento dello strutturalismo, attirando l'attenzione sui problemi di descrizione sincronica, ha allontanato la maggior parte dei linguisti dallo studio dell'evoluzione e, se in questo campo sono stati realizzati sensibili progressi, questi appaiono molto modesti a confronto con gli impressionanti sviluppi della linguistica descrittiva. Questi progressi, d'altra parte, non sono stati realizzati merce un osservazione diretta dei fatti evolutivi, alla quale è molto difficile procedere, ma attraverso riflessioni teoriche sul dinamismo delle lingue. L'idea fondamentale che ha guidato la ricerca è che sono i mutevoli bisogni della comunicazione che determinano il corso dell'evoluzione linguistica. La lingua, così come è trasmessa all'individuo dai suoi antenati, è esposta al conflitto tra il bisogno, che questi ha, di comunicare coi suoi simili, e il suo desiderio di ridurre al minimo il suo dispendio di energia. Possiamo postulare che quest'ultimo sia costante e uniforme nel tempo e nello spazio. Quanto ai bisogni comunicativi, questi restano forse quantitativamente costanti, ma la loro natura varia come variano i bisogni di ogni natura nell'ambito dell'evoluzione della società. Il funzionamento della lingua in ogni istante è assicurato da un equilibrio sempre instabile tra le pressioni esercitate dalla tradizione, dalla riduzione dell'energia spesa e dalla soddisfazione dei bisogni. Questo è il gioco di forze che abbiamo potuto designare come ‛economia linguistica'.

Non è difficile illustrare il funzionamento dell' economia linguistica sul piano delle unità significative, e soprattutto di quelle che si designano come lessicali, in quanto sono queste le più direttamente esposte a influssi da parte dei bisogni della comunicazione: la comparsa sul mercato di un nuovo prodotto determina automaticamente la comparsa di una designazione per quel nuovo prodotto, la scomparsa definitiva di un altro comporta l'obsolescenza del termine corrispondente e la sua scomparsa dall'uso attivo. Nondimeno, non si tratta semplicemente di comparsa e scomparsa: frequenza e rarità hanno delle ripercussioni sulla forma stessa della designazione o, in termini tecnici, sul corrispondente significante. Se l'informazione apportata da un elemento è la misura nella quale esso elimina l'incertezza, un termine di occorrenza rara, cioè inatteso, sarà più informativo, mentre un termine che ci aspettiamo ovunque nella frase lo sarà molto poco. Si constata che i parlanti tendono a far coincidere la quantità di energia spesa e l'informazione fornita. Sul piano strettamente materiale dell'energia articolatoria, ciò vuol dire, per esprimersi più semplicemente, che le parole frequenti tenderanno ad abbreviarsi. Ciò è confermato dalle statistiche, le quali rivelano che, se si dispongono le parole di una lingua in ordine di frequenza, le cento prime parole della lista saranno in media più brevi delle cento parole seguenti e così via.

La validità delle leggi fondamentali dell'economia linguistica è meno facile a verificarsi quando intervengono altri aspetti della struttura. Accade spesso, ad esempio, che una forma più lunga prevalga su una forma più breve in quanto la prima è più regolare, cioè più facile a memorizzarsi o a riprodursi analogicamente. In termini più generali, ciò vuol dire che l'utilizzazione dello strumento linguistico sarà facilitata dall'eliminazione delle varianti di significanti e degli amalgami nei quali essi figurano. Il conflitto qui è fra la tradizione, rappresentata dagli avi, dai genitori o dai maestri di scuola, che spinge alla conservazione delle variazioni e degli amalgami, e il bisogno dell'utente di ottenere una comunicazione altrettanto efficace a un prezzo minore.

È sul piano delle unità distintive, cioè essenzialmente dei fonemi, che il funzionamento dell'economia linguistica è più difficile a individuarsi; e tuttavia, storicamente, è proprio su quel piano che esso è stato esplicitato dapprima. Benché si sia mostrato, d'altra parte, che quel che si è detto dell'informazione vale tanto per i fonemi quanto per le unità di senso, l'accettazione della teoria dell'economia fonologica si scontra ancora, a volte, contro pregiudizi idealistici. Come per le unità significative, le statistiche rivelano che gli elementi fonologici molto frequenti, cioè poco informativi, sono in media meno costosi o, se vogliamo, richiedono per la loro produzione meno energia di quelli che, essendo più rari, sono più informativi. La cosa è chiara soprattutto quando facciamo intervenire, accanto ai fonemi, i gruppi di fonemi, di cui si è sicuri che sono più costosi dei fonemi singoli che li compongono. Le geminate, cioè i gruppi formati dalla successione di due esemplari dello stesso fonema, hanno svolto una funzione importante nella verifica, su esempi storici, delle ipotesi iniziali. Si constata spesso che le geminate si scempiano quando la loro frequenza, che era all'origine dell'ordine di quella dei gruppi di fonemi, diventa, per via di circostanze determinate, analoga a quella dei fonemi semplici della stessa lingua. Così è verificata l'ipotesi che, poiché la frequenza aumenta e comporta ipso facto una diminuzione dell'informazione, ciò ha determinato una tendenza alla diminuzione del costo attraverso una progressiva riduzione della geminata alla scempia.

Anche qui, i dati quantitativi non sono i soli in gioco. È chiaro che se, ad esempio, una geminata -tt- tende verso una frequenza dello stesso ordine di quella di -t-, ciò potrà implicare che un numero crescente di parole si distinguano tra loro solo grazie alla differenza tra -tt- e -t-, cioè il carattere geminato del primo, e il carattere scempio del secondo. Se i parlanti si lasciassero andare a scempiare il -tt-, si produrrebbero molte confusioni. Non è detto che essi talvolta non arrivino a ciò, ma le difficoltà di comunicazione che ne risultano li portano a correggersi. In realtà, la tendenza a ridurre l'energia articolatoria di -tt-, combinata con la necessità di conservare la distinzione tra -tt- e -t-, porterà a indebolire l'articolazione di -t-, che diventerà la spirante corrispondente, che notiamo ϑ. Quando questo fenomeno sarà acquisito e diventato generale, nulla impedirà che -tt- si riduca a -t-. Questo è quanto è avvenuto in antico irlandese e in ebraico classico. Il fenomeno si è prodotto anche a Firenze. E uno dei tratti di quella che si designa col nome di ‛gorgia'. Ma la necessità di mantenere i contatti con gli altri italiani ha impedito la riduzione totale di -tt- a -t-.

I rapporti tra geminate e scempie illustrano bene la natura della dinamica dei sistemi fonologici. Questi sistemi non sono direttamente esposti alle pressioni esercitate dai mutevoli bisogni della comunicazione. Tutt'al più possiamo riscontrarvi l'adozione di nuove unità distintive, che appaiono dapprima in prestiti lessicali provenienti da altre lingue. Ma i bisogni che si manifestano su altri piani della struttura linguistica possono, a lungo andare, influenzare la natura o la ripartizione delle distinzioni fonologiche. Per prendere un esempio molto schematico, che si ispira a quel che è effettivamente avvenuto in un certo numero di lingue indoeuropee, col crescere della complessità dei rapporti sociali, il gioco dei rapporti espressi da desinenze casuali amalgamate richiede di esser completato da avverbi che, divenuti preposizioni, rendono inutili le desinenze; le finali delle parole perdono la loro nettezza a beneficio delle sillabe radicali che, allungandosi sotto l'accento, provocano l'allungamento delle vocali brevi in quella posizione, spesso con una modificazione della loro qualità per evitare le confusioni con le lunghe corrispondenti.

Uno squilibrio, una volta intervenuto in un sistema fonologico le cui unità sono in qualche modo solidali tra loro, si trasmetterà via via fino a essere riassorbito, il che potrà prodursi solo dopo una totale riorganizzazione del sistema. Questa è la teoria dell'economia fonologica, che ha cominciato a dare una risposta ai problemi che si ponevano invano i comparatisti e i teorici della seconda metà del sec. XIX circa la natura e il condizionamento dei mutamenti fonetici.

I bisogni comunicativi dell'umanità non si limitano naturalmente ai membri di una stessa comunità linguistica. All'interno della stessa comunità, nel senso largo del termine, i rapporti si stabiliscono anche tra persone che conoscono usi divergenti della stessa lingua. Questi bisogni disparati sono soddisfatti mediante uno sforzo, che può essere reciproco o limitato a una sola delle parti in causa, per avvicinare i due idiomi in gioco. A lungo andare si approderà o a una situazione bilingue o a una convergenza dei due usi in contatto. In entrambi i casi, finiranno necessariamente col prodursi, secondo la durata e la natura dei contatti, modificazioni più o meno profonde degli strumenti linguistici delle due parti. Le reciproche interferenze potranno incidere sul vocabolario, la grammatica o la pronuncia. I prestiti lessicali sono evidentemente i più frequenti e più facili, in quanto non interessano affatto gli ambiti, molto strutturati, degli elementi grammaticali e fonologici. Ma le interferenze grammaticali e foniche non sono rare e, laddove si producono, hanno probabilità di avere una portata più ampia, in quanto interessano ambiti più coerenti e comportano per conseguenza squilibri suscettibili di trasmettersi progressivamente. Tuttavia, nella misura in cui certe parti del lessico presentano strutture paragonabili a quelle degli altri piani della lingua - nella forma di quelli che sono stati chiamati campi semantici (ted. Felder) - si è constatata da un pezzo una serie di spostamenti e di riorganizzazioni seguite all'introduzione, per prestito o calco, di nuovi elementi lessicali.

L'interesse che oggi si porta alla dinamica dei sistemi non ha fatto alcun danno alle ricerche comparative. Gli interessati non sono necessariamente gli stessi nei due ambiti, e i comparatisti sono spesso poco sensibili alle ricerche condotte da parte degli studiosi della diacronia. La comparazione genetica e la ricostruzione di lingue comuni non attestate si è estesa, nel corso del sec. XX, a lingue diverse da quelle delle famiglie indoeuropee, camito-semitiche, ugro-finniche. In taluni casi, essa può sembrare un tantino azzardata, quando ad esempio mira a ridurre all'unità le lingue molto divergenti di un intero continente come l'Africa, quando si lascia andare ad accostamenti tra lingue i cui tratti comuni possono essere dovuti al caso o a contatti prolungati, o ancora quando, come nel caso del basco e delle lingue caucasiche, si volge a situazioni che possono essere il risultato di una evoluzione molto lunga. Il metodo, indicato come lessico-statistico, mirante a determinare il tempo trascorso dal momento in cui due lingue, derivate da una stessa lingua antica, hanno cominciato a divergere, è stato, e giustamente, molto criticato. Esso può nondimeno apportare qualche suggerimento utile, ed ha avuto comunque il vantaggio di attirare l'attenzione sulla profondità storica che troppi comparatisti, abituati a proiettare le loro ricostruzioni sullo schermo fisso della Ursprache, hanno tendenza a dimenticare.

8. I mezzi e i fini pratici

Per molto tempo le tecniche della linguistica non si sono differenziate da quelle della filologia. L'impiego di macchine restava limitato alla fonetica, la quale non era che un'appendice della scienza del linguaggio. Quando son cominciate le ricerche sul campo, specialmente in vista della preparazione degli atlanti linguistici, è stato necessario individuare dei mezzi di locomozione, e E. Edmond, coautore con J. L. Gilliéron dell'Atlas linguistique de la France, ha aggiunto la bicicletta alla sua panoplia di ricercatore. Oggi il linguista sul campo dispone di autovetture e di svariate apparecchiature di registrazione, di cui la più diffusa è il magnetofono. Tra le tecniche matematiche di cui il linguista si serve, la statistica è la più antica, ed è quella che continua a prestare i servigi più sicuri, sia essa impiegata in forme artigianali o con intervento di elaboratori operanti con schede perforate.

Quando, agli inizi degli anni cinquanta, alcuni linguisti hanno cominciato a occuparsi di macchine traduttrici, si è potuta avere l'impressione che si fondasse una nuova disciplina, in cui quel che all'inizio era un mezzo, la macchina, prevaleva sul fine linguistico, il passaggio da una lingua a un'altra. Questa disciplina era generalmente designata col nome di linguistica quantitativa. Alla fine degli anni trenta e quaranta, quel che appariva infatti ad alcuni come il progresso decisivo realizzato dalla ricerca strutturalista era, grazie alla individuazione delle unità discrete di base, i fonemi, la possibilità di quantificare esattamente gli elementi linguistici. Siccome però si è visto ben presto che la traduzione pagante e immediatamente prefigurabile era quella di testi scritti, le unità discrete finalmente prese in considerazione furono le parole, cioè i segmenti di testo separati, da spazi bianchi, dai segmenti precedenti e seguenti. I progressi non sono stati proporzionali all'entusiasmo iniziale e ai mezzi impiegati. Le persone attirate alla linguistica sulla scia di quest'impresa sono state tentate di confondere le tecniche impiegate e l'oggetto della ricerca. Invece di utilizzare la matematica per risolvere i problemi che si ponevano a proposito delle lingue, esse hanno considerato la lingua come un oggetto matematico, senza mai chiedersi se, facendo ciò, si conservava un' autentica presa sulla realtà linguistica. Un matematico può esser soddisfatto se ha correttamente applicato lo strumento matematico al trattamento di dati qualunque, sia che questi dati derivino da una osservazione precisa, ovvero che siano ipotetici o perfino irreali. Un vero linguista non può accettare i risultati di un'operazione siffatta se non quando il problema trattato è stato correttamente posto all'inizio, cioè da uno specialista del linguaggio rappresentato dalle lingue e non da un matematico o da un logico.

Il fine vero della linguistica generale è naturalmente la conoscenza del linguaggio umano nelle sue varietà (le lingue) nel suo funzionamento e nel suo dinamismo. Spetta al linguista, in quanto tale, determinare in che misura la collaborazione con altri settori di ricerca può facilitare la sua impresa. Egli è libero di apportare individualmente il suo contributo a ogni altra disciplina, a condizione di non dimenticare, allora, che non lavora più nell'ambito suo proprio.

Quella che si designa col nome di linguistica applicata suppone appunto uno sfruttamento della competenza del linguista per fini che non sono quelli della sua disciplina. Malgrado alcuni usi correnti, uno specialista di pedagogia linguistica non è un linguista. Egli può tutt'al più avere una formazione linguistica, che gli fornirà servigi preziosi.

A taluni pare a prima vista difficile raggruppare sotto una stessa rubrica tutto quello che ha ricevuto la designazione di linguistica applicata: studi concernenti le macchine traduttrici, allestimento di codici diversi, trattamento dei disturbi del linguaggio, insegnamento della lingua madre o di lingue seconde, ecc. Tutte queste attività hanno però un tratto in comune: mirano a rimediare a talune difficoltà che si incontrano quando si desidera comunicare linguisticamente. Possiamo raggruppare queste difficoltà in due tipi abbastanza nettamente distinti: a) quelle che si verificano all'interno di una comunità determinata; b) quelle che si manifestano quando si incontrano, personalmente o tramite il pensiero, persone di lingue diverse. Un caso limite sarebbe quello in cui le difficoltà risultassero dal ricorso a usi diversi di una stessa lingua.

È certo che i grandi progressi realizzati in linguistica generale dalla fine degli anni venti di questo secolo devono poter essere di grande aiuto in tutti i casi in cui la comunicazione linguistica si trova impacciata, anche se non tutti quei progressi sono stati sfruttati in tutti i casi in cui avrebbero potuto esserlo. In molti casi, gli specialisti restano poco al corrente di quel che potrebbe servir loro nella ricerca linguistica contemporanea, sia perché non hanno avvertito il bisogno di rinnovare i propri metodi, sia perché, sensibili alle mode, non si sono ragguagliati presso quanti avrebbero potuto portar loro l'aiuto più efficace.

Se il risultato dei contatti tra linguisti, da un lato, e specialisti della traduzione automatica o della patologia, dall'altro, resta deludente, possiamo per molti rispetti rallegrarci dei miglioramenti che i progressi della linguistica hanno portato nel campo dell'insegnamento delle lingue. In questo caso occorre distinguere tra prima lingua e lingue seconde. Per quanto riguarda la prima lingua, l'insistenza dei linguisti sul carattere fondamentale e primario della lingua parlata ha portato frutti in molti settori. Si cerca, con vario successo, di far parlare il bambino. Non senza difficoltà, alcuni insegnanti cercano di convincersi che non c'è, per ciascuna lingua, una norma unica, ma usi diversi adattati alle circostanze. In alcuni paesi, le ortografie tradizionali si vedono messe in questione, non tanto con attacchi frontali, che l'esperienza ha rivelato poco efficaci, quanto con un movimento aggirante che consiste nell'iniziare il bambino alla lettura in un grafia più o meno fonologica.

Per quanto riguarda l'insegnamento delle lingue seconde, o, come si dice più spesso, delle lingue straniere, è ancora nell'insistenza sulla lingua parlata che si manifesta più generalmente l'influsso della lezione dei linguisti. Il favore di cui godono attualmente i metodi audiovisivi non è necessariamente da attribuirsi alla linguistica, anzitutto perché la visualizzazione parallela al parlato non ha niente a che vedere con questa disciplina, e poi perché quei metodi soffrono troppo spesso di un pregiudizio globalistico, secondo il quale non è raccomandabile la esplicitazione dell'analisi degli enunciati. Può darsi che alcuni studiosi pratici, se hanno voluto vagamente ispirarsi, al proposito, ai metodi della linguistica, abbiano confuso la considerazione dell'insieme anziché del dettaglio isolato, propugnata dallo strutturalismo, con la presentazione allo studente dell'insieme come un tutto inanalizzato. Senza dubbio, a questo riguardo, non c'è niente da fare se non aspettare che si rivelino le mende del globalismo, del bagno di lingua, dal quale avrebbe peraltro dovuto metterci in guardia il parziale fallimento del metodo diretto.

Gli studiosi pratici si rifanno alla nozione di ‛struttura' (si pensi agli ‛esercizi strutturali') quando applicano all'insegnamento il procedimento della ‛commutazione', cioè della sostituzione, in un contesto, di una parola o di una forma con altre parole o altre forme. Peraltro non è certo che sia la tecnica dei linguisti ad avere, in questo campo, ispirato gli insegnanti di lingua, che praticano questo metodo da molto tempo e che hanno ben potuto metterlo a punto da soli.

Il vero contributo della linguistica all'insegnamento delle lingue seconde è il principio che, quando si insegna una nuova lingua a un individuo, bisogna considerare non solo la struttura di questa lingua, ma quella della prima lingua dello studente, o finanche delle diverse lingue da questi praticate anteriormente e, attraverso una comparazione, determinare quali sono i tratti che, differendo nettamente da una lingua all'altra, dovranno costituire oggetto di particolare attenzione. Ciò vuol dire che l'inglese non deve essere insegnato nello stesso modo a un russo, a un tedesco e a un italiano. È lecito meravigliarsi del fatto che ci sia voluto tanto tempo perché gli insegnanti di lingua si rendessero conto di questo fatto.

Accanto all'esigenza di ‛sapere a chi si insegna', taluni han cominciato a farne valere un'altra: ‛sapere perché si insegna'. Ciò porta a distinguere, nella padronanza di una lingua, tra quattro tipi di conoscenza (four skills): a) quello passivo della lingua parlata; b) quello attivo della lingua parlata; c) quello passivo della forma scritta; d) quello attivo di quest'ultima forma, È un fatto che molti, se non la maggior parte, di quelli che dopo la scuola imparano una lingua, lo fanno, consciamente o no, per leggere testi stranieri nel loro campo specifico. Nella misura in cui si accontentano di questo tipo di conoscenza, possono, con un buon metodo, arrivare molto rapidamente a risultati soddisfacenti.

bibliografia

Bach, E., An introduction to transformational grammars, New York 1964 (tr. it.: Introduzione alla grammatica trasformazionale, Bologna 1974).

Bloomfield, L., Language, New York 1933 (tr. it.: Il linguaggio, Milano 1974).

Chomsky, N. A., Syntactic structures, den Haag 1957 (tr. it.: Le strutture della sintassi, Bari 1970).

Chomsky, N. A., Aspects of the theory of syntax, Cambridge, Mass., 1965 (tr. it.: Aspetti della teoria della sintassi, in Saggi linguistici, vol. II, La grammatica generativa trasformazionale, Torino 1970, pp. 41-258).

Ervin Tripp, S., Slobin, D., Psycholinguistics, in ‟Annual review of psychology", XVII, 1966, pp. 435-474.

Fishman, J. (a cura di), Readings in the sociology of language, den Haag 1968.

Halliday, M. A. K., Categories of the theory of grammar, in ‟Word", 1961, XVII, pp. 241-292.

Halliday, M. A. K., McIntosh, A., Strevens, P., The linguistic sciences and language teaching, London 1964 (tr. it.: Le scienze del linguaggio e la didattica delle lingue, Bologna 1970).

Harris, Z., Methods in structural linguistics, Chicago 1951.

Hjemslev, L., Omkring sprogteoriens grundlaeggelse, København 1943 (tr. it.: I fondamenti della teoria del linguaggio, Torino 1968).

Hockett, C. F., A course in modern linguistics, New York 1958.

Hoenigswald, H., Language change and language reconstruction, Chicago 1960.

Jakobson, R., Kindersprache, Aphasie und allgemeine Lautgesetze, Uppsala 1941 (tr. it.: Il farsi e il disfarsi del linguaggio, Torino 1971).

Jakobson, R., Linguistique et poétique, in Essais de linguistique générale, Paris 1963, pp. 209-248 (tr. it.: Linguistica e poetica, in Saggi di linguistica generale, Milano 1966, pp. 181-218).

Jespersen, O., Language, its nature, development and origin, vol. I, History of linguistic science, London 1922.

Joos, M. (a cura di), Readings in linguistics, Washington 1957.

Katz, J. J., Postal, P., An integrated theory of linguistic descriptions, Cambridge, Mass., 1964.

Labov, W., The social stratification of English in New York City, Washington 1966.

Lepschy, G. C., La linguistica strutturale, Torino 1966.

Lyons, J., An introduction to theoretical linguistics, Cambridge, Mass., 1968 (tr. it.: Introduzione alla linguistica teorica, Bari 1971).

Malmberg, B., Nya vägar inom spräkforskningen, Oslo 1958 (tr. it.: La linguistica contemporanea, Bologna 1971).

Martinet, A., Dialect, in ‟Romance philology", 1954, VIII, pp. 1-11.

Martinet, A., Économie des changements phonétiques. Traité de phonologie diachronique, Berne 1955 (tr. it.: Economia dei mutamenti fonetici. Trattato di fonologia diacronica, Torino 1969).

Martinet, A., Éléments de linguistique générale, Paris 1960 (tr. it.: Elementi di linguistica generale, Bari 1967).

Martinet, A., A functional view of language, Oxford 1962 (tr. it.: La considerazione funzionale del linguaggio, Bologna 1963).

Martinet, A., La linguistique synchronique, Paris 1965.

Martinet, A., Connotation, poésie et culture, in To honor Roman Jakobson, vol. II, den Haag 1967, pp. 1288-1295.

Martinet, A. (a cura di), La linguistique. Guide alphabétique, Paris 1969 (tr. it.: La linguistica, Milano 1972).

Martinet, A., Qu'est-ce que la morphologie?, in ‟Cahiers F. de Saussure", 1969, XXVI, pp. 85-90.

Martinet, A., Analyse et présentation, in Linguistique contemporaine. Hommage à E. Buyssens, Bruxelles 1970, pp. 133-140.

Martinet, J., Clefs pour la sémiologie, Paris 1973.

Miller, G. A., Language and communication, New York 1951 (tr. it.: Linguaggio e comunicazione, Firenze 1972).

Moulton, W., Dialect geography and the concept of phonological space, in ‟Word", 1962, XVIII, pp. 23-32.

Mounin, G., Communication linguistique humaine et communication non linguistique animale, in ‟Les temps modernes", 1960, pp. 1684-1700.

Mounin, G., La machine à traduire, den Haag 1965.

Mounin, G., Histoire de la linguistique des origines au XXème siècle, Paris 1967 (tr. it.: Storia della linguistica, Milano 1969).

Mounin, G., Introduction à la sémiologie, Paris 1970 (tr. it.: Introduzione alla semiologia, Roma 1972).

Mounin, G., Histoire de la linguistique au XXème siècle, Paris 1972.

Nida, E., How to learn a foreign language, New York 1957.

Osgood, C. E., Sebeok, T. A. (a cura di), Psycholinguistics, Baltimore 1954.

Pedersen, H., Linguistic science in the nineteenth century, Cambridge, Mass., 1931 (ripubblicato col titolo The discovery of language, Bloomington 1962).

Pike, K., Language in relation to a unified theory of human behavior, den Haag 1967.

Prieto, L., Messages et signaux, Paris 1966 (tr. it.: Lineamenti di semiologia. Messaggi e segnali, Bari 1971).

Robins, R. H., General linguistics, London 1964 (tr. it.: Manuale di linguistica generale, Bari 1969).

Robins, R. H., Short history of linguistics, London 1967 (tr. it.: Storia della linguistica, Bologna 1971).

Sapir, E., Language, New York 1921 (tr. it.: Il linguaggio, Torino 1969).

Saussure, F. de, Cours de linguistique générale, Paris 1916 (tr. it.: Corso di linguistica generale, a cura di T. De Mauro, Bari 1967).

Sebeok, T. A. (a cura di), Style in language, Cambridge, Mass., 1960.

Sebeok, T. A. (a cura di), Current trends in linguistics, vol. III, Theoretical foundations, den Haag 1966.

Slobin, D. (a cura di), The ontogenesis of grammar, Berkeley 1971.

Trubeckoj, N. S., Grundzüge der Phonologie, Praha 1939 (tr. it.: Fondamenti di fonologia, Torino 1971).

Wartburg, W. von, Ullmann, S., Einführung in Problematik und Methodik der Sprachwissenschaft, Tübingen 1970 (tr. it.: Problemi e metodi della linguistica, Bologna 1971).

Weinreich, U., Labov, W., Herzog, M., Empirical foundations for a theory of language change, in Directions for historical linguistics (a cura di W. Lehmann e Y. Malkiel), Austin 1968 (tr. it.: Fondamenti empirici per una teoria del cambiamento linguistico, in Nuove tendenze della linguistica storica, Bologna 1977).

Whorf, B. L., Language, thought and reality, New York 1958 (tr. it.: Linguaggio, pensiero e realtà, Torino 1969).

Zipf, G. K., Human behavoir and the principle of least effort, Cambridge, Mass., 1949.

CATEGORIE
TAG

Filosofia del linguaggio

Grammatica generativa

Analisi introspettiva

Les temps modernes

Lingue caucasiche