Linguistica

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Linguistica

Leonardo Savoia
Alberto Mancini
M. Rita Manzini

(XXI, p. 207; App. II, ii, p. 210; IV, ii, p. 344; V, iii, p. 229)

I temi legati all'evoluzione della l. e delle discipline a essa collegate hanno avuto ampia trattazione nell'Enciclopedia Italiana. La diversificazione dei metodi e delle scuole di pensiero ha trovato spazio, infatti, in voci quali geografia linguistica (App. I, p. 648), grammatica generativa (App. IV, ii, p. 96; V, ii, p. 484), che rappresenta l'approccio teorico più innovativo nell'ultimo cinquantennio, e interlinguistica (V, ii, p. 748), ma anche nell'articolazione degli aggiornamenti. Nell'App. IV la voce linguistica è suddivisa in Linguistica contrastiva, Linguistica quantitativa e Linguistica testuale, mentre nell'App. V compaiono voci più specifiche: linguistica testuale (iii, p. 230) e linguistica tipologica (iii, p. 231). Alla l. appartiene anche la semantica (XXXI, p. 334; App. III, ii, p. 692; IV, iii, p. 298), che per la sua stretta connessione alla logica e i suoi rapporti con la semiotica (App. III, ii, p. 697) e la semiologia (App. IV, iii, p. 301) merita una trattazione autonoma (v. in questa Appendice). L'indoeuropeistica ha goduto fin dagli inizi di una propria autonomia (v. indoeuropei, XIX, p. 131; indoeuropeo, App. IV, ii, p. 172, con un'ampia esposizione, che presenta l'evoluzione storica della materia). Dalle voci citate emerge il panorama variegato di una disciplina (o più discipline, a seconda dei punti di vista) che è ancora in una fase di vivace progresso.   *

Tendenze recenti

Nel corso degli ultimi decenni la l. teorica ha sempre più assunto un approccio storico-ricostruttivo. A partire dai primi indirizzi di tipo strutturalista si è configurato uno speciale interesse per la natura e l'organizzazione interna dei sistemi linguistici. Ancor più, l'elaborazione di ipotesi teoriche sulla struttura delle lingue naturali ha influenzato l'impostazione dei problemi relativi all'evoluzione dei sistemi linguistici nel quadro dell'indoeuropeistica e in generale degli studi comparativi e ricostruttivi. Gli studi indoeuropeistici, poi, hanno sviluppato ormai da tempo un interessante confronto con i dati archeologici. Tutto questo da una parte ha provocato un'articolazione dei punti di vista e delle soluzioni teoriche, dall'altra ha messo in luce problemi nel coordinamento della ricerca.

Modelli dell'analisi linguistica: tipologia, funzionalismo, grammatica relazionale

All'interno della l. generale si riconoscono diverse direttrici di indagine, ormai stabilite da tempo, che si sono sviluppate con diversa vitalità e diversa capacità di elaborazione. Un breve panorama degli orientamenti correnti sia in Italia sia in ambito internazionale ci rivela la presenza di alcuni consolidati quadri concettuali: tipologia, funzionalismo, grammatica relazionale, grammatica generativa. Esistono differenze profonde che separano un approccio propriamente teorico, quale la grammatica generativa chomskyana, da approcci largamente descrittivi, quali la tipologia e il funzionalismo. Secondo la concezione di N. Chomsky, ribadita in importanti lavori (1981, 1986, 1995), l'oggetto di studio della l. è rappresentato dalla conoscenza che il parlante ha della propria lingua nativa, e non da una collezione di dati esterni che costituiscono il prodotto di questa conoscenza. A tale proposito Chomsky mette in luce la dicotomia fra i concetti di 'lingua esterna' (lingua-E) e 'lingua interna' (lingua-I), e sottolinea che la lingua-E non ha un chiaro statuto scientifico, essendo legata a variabili individuali, situazionali e sociali sostanzialmente non verificabili. Al contrario la lingua-I, che corrisponde al sistema di conoscenza linguistica rappresentato internamente alla mente/cervello del parlante-ascoltatore nativo, può essere sottoposta alle modalità di analisi tipiche delle scienze naturali. In questo senso il compito del linguista è formulare una teoria di questa conoscenza. Al contrario, i tratti fondamentali dei modelli strutturalisti, che si riallacciano agli approcci di tipo comportamentista, hanno una visione essenzialmente convenzionalista e funzionalista dei dispositivi linguistici, caratterizzati dalla loro finalità comunicativa: "La funzione essenziale di quegli strumenti che sono le lingue è quella della comunicazione" (Martinet 1960, 1969⁴; trad. it. 1971², p. 16).

La concezione cognitivista della l. come branca della psicologia si oppone agli altri modelli di indagine e sistematizzazione delle proprietà linguistiche, che abbiamo già avuto modo di menzionare. In particolare l'approccio tipologico è caratterizzato dall'individuazione di schemi strutturali "che possono essere scoperti interamente attraverso la comparazione interlinguistica" (Croft 1990, p. 1).

A partire dagli studi di J. Greenberg (1966), tali schemi assumono specificamente la forma di universali implicazionali, che mettono in relazione due proprietà variabili di cui una richiede la presenza dell'altra. In realtà è necessario distinguere diverse concezioni della tipologia. Da un lato, in quanto comparazione sistematica di costrutti grammaticali in un'ottica interlinguistica, essa esplica un ruolo descrittivo ed è, quindi, in linea di principio complementare con approcci di tipo teorico, come la stessa grammatica generativa.

Per es., gli universali implicazionali relativi all'ordine testa-complemento, definiti da Greenberg (1966) e discussi tra gli altri da B. Comrie (1981), sono assunti negli schemi strutturali della grammatica generativa all'interno dello schema del sintagma (teoria X-barra), che regola la proiezione di una testa lessicale/funzionale in un sintagma. Se per ogni data lingua questo schema determina l'ordine di X rispetto al complemento per qualsiasi categoria lessicale/funzionale, questo predice che in una lingua in cui il verbo precede l'oggetto la preposizione precede il suo complemento e il nome precede a sua volta il complemento. Al di là di questo semplice caso, l'integrazione tra generalizzazioni tipologiche e modello formale della grammatica generativa ha dato origine ad alcuni lavori di interesse sostanziale (Rizzi 1982; Baker 1988; Cinque 1997).

Accanto a questa accezione più comprensiva e aperta dell'indagine tipologica, vi è una linea di studi che si caratterizza in contrasto con gli approcci teorici. Questi orientamenti tipologici sono strettamente connessi agli schemi concettuali del funzionalismo, quindi all'ipotesi che "la struttura linguistica debba essere spiegata principalmente in termini di funzione linguistica" (Croft 1990, p. 2). In base a questa concezione tipologico-funzionalista, la lingua corrisponde a uno strumento di comunicazione le cui proprietà formali sono un risultato delle esigenze della trasmissione dei messaggi. Nozioni centrali di questo approccio sono quella di marcatezza, che include la complessità formale e la frequenza distribuzionale del costrutto, nonché l'iconicità, cioè l'isomorfismo fra codificazione morfo-sintattica e la controparte costituita dalle motivazioni semantiche/pragmatiche (Givón 1990, p. 945). I presupposti funzionalisti sono stati estesi al trattamento dei processi di cambiamento e di creazione di costrutti morfo-sintattici, concepiti come il risultato dei requisiti di iconicità e non-arbitrarietà (grammaticalizzazione). La grammatica relazionale (Studies in relational grammar, 1983; Studies in relational grammar, 1984) costituisce un interessante tentativo di coniugare alcuni concetti della grammatica generativa (livelli gerarchicamente ordinati, trasformazioni) con l'approccio tipologico-funzionalistico, da cui riprende l'orientamento non mentalistico, nonché una concezione non strutturale della sintassi, i cui primitivi coincidono con nozioni relazionali, quali soggetto e oggetto.

A illustrazione dell'approccio tipologico-funzionalista, possiamo considerare la classica questione dell'ordine delle parole. T. Givón (1984) sottolinea il ruolo delle nozioni di pragmatica del discorso, che concernono il flusso dell'informazione e, quindi, l'articolazione topic/non-topic (vecchia versus nuova informazione). Un esempio molto semplice può essere formulato confrontando due frasi ben formate, l'una con ordine verbo-soggetto, parla Gianni, l'altra con ordine soggetto-verbo, Gianni parla. La prima rappresenta una risposta adeguata alla domanda focalizzata sul soggetto, del tipo chi parla?; la seconda invece è la risposta a una domanda focalizzata sul predicato, del tipo che cosa fa Gianni?. Secondo un approccio funzionalista, questa differenza è interamente riducibile a un principio pragmatico in base al quale "l'informazione nuova segue l'informazione vecchia" (Givón 1984, p. 207). In effetti proprietà di questo tipo non mettono in discussione un'analisi formale delle lingue naturali; anzi è possibile argomentare che l'"informazione data" (topic) e l'"informazione nuova" (focus) sono categorie grammaticali che occupano posizioni precise nella struttura di frase. Per es., è noto che in lingue come l'inglese, John is speaking è una risposta corretta alla domanda Who is speaking? Quello che pare essere rilevante è il fatto che l'inglese è una lingua a soggetto preverbale obbligatorio, in cui l'argomento lessicale, John nell'esempio, realizza perciò la posizione soggetto. Al contrario l'italiano è una lingua che ammette posizioni soggetto nulle; di conseguenza l'argomento lessicale preverbale Gianni è in una delle posizioni strutturali topicali disponibili alla periferia sinistra della frase, mentre la posizione post-verbale non ha proprietà di topic, e quindi può realizzare il focus.

In generale è possibile argomentare che non vi è un nesso necessario fra proprietà dei sistemi linguistici e meccanismi della comunicazione. Anzi è interessante notare che questa conclusione accomuna tanto un approccio basato sull'analisi dei sistemi linguistici, come appunto quello chomskyano, quanto modelli di tipo pragmatico basati sulla separazione fra struttura linguistica e processo comunicativo, come quello di D. Sperber e D. Wilson (1986). È semplice mostrare infatti che lo scambio d'informazione può avere componenti non verbali, come in un'interazione in cui il parlante chiede all'ascoltatore Come stai oggi?, e questi risponde mostrandogli una scatola di aspirine (Sperber, Wilson 1986, p. 25). Gli stessi autori argomentano che le attività che coinvolgono la lingua sono collegate primariamente alla formazione di rappresentazioni mentali concernenti la realtà esterna e interiore, e non alla realizzazione della comunicazione. In questo senso una considerazione pragmatica del linguaggio aderisce in maniera naturale alla conclusione chomskyana che la conoscenza non può esser fatta coincidere con la capacità (Chomsky 1988).

Pragmatica e semantica

A questo punto è utile caratterizzare i due modi fondamentali di affrontare la questione del significato linguistico, cioè l'approccio pragmatico, a cui ci siamo già riferiti, e quello semantico-formale. Questi due approcci, pur presentando interessanti punti di contatto, portano a una considerazione diversa dei fenomeni interpretativi. L'approccio semantico affonda le sue radici nella logica delle lingue naturali fondata dagli studi di G. Frege e di B. Russell all'inizio del 20° secolo. In questa prospettiva il problema del significato si riduce largamente al problema della denotazione, cioè della capacità degli elementi linguistici di riferirsi a oggetti e relazioni del mondo esterno. La denotazione dei costituenti più piccoli crea composizionalmente la denotazione dei costituenti più larghi; la denotazione della frase è il suo valore di verità. La prospettiva pragmatica ha il suo fondamento nelle idee di L. Wittgenstein (1953) sul significato come uso delle espressioni linguistiche, riprese nella filosofia del linguaggio inglese (Austin 1962; Grice 1975). In effetti, i modelli pragmatici hanno come oggetto specifico di interesse la relazione fra interpretazione degli enunciati e loro uso, in altre parole trattano il significato come inferenza determinata dalle condizioni dello scambio linguistico. In particolare i modelli pragmatici di ispirazione mentalistica (Sperber, Wilson 1986) caratterizzano l'interpretazione come un processo deduttivo che mette in rapporto l'enunciato linguistico con le rappresentazioni, linguistiche e non, del sistema cognitivo centrale.

Alcuni dei risultati principali della semantica formale di tradizione logica sono assunti, nel quadro teorico della grammatica generativa, da un livello specializzato di rappresentazione sintattica che va sotto il nome di forma logica. In particolare questo livello di analisi sintattica fa propria la logica dei predicati e della proposizione, inclusiva di concetti quali i quantificatori e la loro portata, il legamento delle variabili, usi liberi e legati dei pronomi, operatori di frase (negazione, congiunzione, disgiunzione, condizionali), la modalità. Notiamo che l'incorporazione di questi principi non è un'operazione puramente terminologica, ma vi sono motivi empirici che giustificano l'assimilazione della sintassi logica alle proprietà sintattiche generali della frase riflesse dall'ordine dei costituenti e dai loro spostamenti aperti; infatti i diversi livelli della rappresentazione sintattica sono governati dalle stesse nozioni (comando, minimalità, connessità ecc.; May 1985; Higginbotham 1989; Chierchia 1997). Questo modello è neutrale rispetto alla questione sostanziale dell'interpretazione, cioè se essa sia un problema di denotazione del mondo esterno oppure di inferenza pragmatica. In una prospettiva mentalista sembra naturale assumere il secondo approccio; in tal modo non solo i costrutti sintattici, ma anche la formazione del significato sono trattati come processi interni alla mente/cervello, pur se riferiti a due componenti diversi, cioè la facoltà linguistica nel primo caso, e il sistema cognitivo generale nel secondo.

È importante notare quindi che gli approcci pragmatici non sono univocamente legati alla prospettiva funzionalista o a quella formale nello studio delle lingue naturali, ma esplicitano concezioni diverse del processo verbale a seconda delle visioni teoriche a cui si rapportano.

In parte ciò vale anche per la sociolinguistica, cioè quella particolare linea d'indagine che si concentra sul rapporto fra usi linguistici e organizzazione sociale. In questo senso la sociolinguistica si occupa di un insieme speciale di condizioni pragmatiche riguardanti i dispositivi linguistici che servono a segnalare significati sociali (età, gruppo sociale/classe, sesso, scolarizzazione, relazioni di ruolo ecc.) e non puramente denotazionali/inferenziali (Fishman 1972; Hymes 1974). Un aspetto rilevante della sociolinguistica è l'analisi della variazione e del cambiamento in atto. A questo proposito gli studi di W. Labov (1973, 1994) rappresentano una revisione degli approcci storici e strutturalisti ai fenomeni della variazione sincronica e diacronica. Labov concepisce la variazione in termini mentalistici come interna al sistema linguistico del parlante, in contrapposizione esplicita a modelli 'esternalisti' che tentano di ricondurre il cambiamento unicamente a fattori extralinguistici, di causalità storico-sociale e comunicativa.

Il panorama della grammatica generativa

La domanda fondamentale che si pone il linguista teorico, cioè che cosa costituisce la conoscenza di una lingua, si integra con la questione ugualmente importante di come viene acquisita questa conoscenza. Questo costituisce un caso particolare di quello che Chomsky chiama il problema di Platone - vale a dire come mai arriviamo a una conoscenza così precisa e articolata partendo da una base empirica povera rispetto al punto di arrivo. Traducendo il razionalismo di Platone in termini moderni, possiamo concludere che le proprietà fondamentali dei sistemi cognitivi sono innate nella mente/cervello, cioè parte dell'eredità biologica umana. La teoria dello stato iniziale dell'apprendimento, che corrisponde alle proprietà innate della mente/cervello, è ciò che Chomsky chiama Grammatica Universale (GU). L'innatismo chomskyano è stato oggetto di esteso dibattito, ma in realtà vi è assai poco di controverso nell'ipotesi innatista. In effetti, è difficile vedere come si possa avere influsso dell'ambiente in assenza di qualsiasi struttura innata.

A un livello specifico di analisi, notiamo che la concezione chomskyana si è evoluta nel tempo, e alcune delle proposte più recenti innovano in maniera radicale rispetto alle posizioni iniziali di Chomsky (1957, 1965). Rielaborando le sue posizioni precedenti nel modello cosiddetto minimalista, Chomsky (1995) concepisce la grammatica come una procedura computazionale che opera su primitivi rappresentati da elementi del lessico, componendoli in costituenti. Il punto di arrivo di questa derivazione è costituito da due livelli di rappresentazione che si trovano all'interfaccia rispettivamente col sistema concettuale-intenzionale (C-I) e con quello articolatorio-percettivo (A-P). La prima rappresentazione è l'interfaccia semantica, la seconda l'interfaccia fonologica. Una delle più importanti innovazioni del modello consiste nell'abbandono dei livelli di rappresentazione interni alla sintassi che caratterizzano invece tutti i modelli precedenti. In particolare non vi è nessun livello d'interfaccia con il lessico, rappresentato in altri modelli trasformazionali dalla struttura profonda/struttura-D, cioè la struttura che riproduce le relazioni tematiche degli elementi lessicali. Le regole di movimento si applicano quindi nel corso della derivazione insieme alle regole che creano la struttura in costituenti, in un processo che dà luogo a un'estensione ciclica delle strutture ad albero. In questa visione non vi è formazione di una struttura di base a cui si applicano trasformazioni che producono una struttura di superficie; così, per es., il passivo e l'attivo sono generati attraverso due derivazioni diverse senza che uno sia alla base dell'altro.

Il processo computazionale appena descritto è crucialmente governato da principi di economia. Il più importante di questi è il principio di 'ultima risorsa' (last resort), che prevede che l'applicazione di una data regola sia possibile solo se necessaria. In altre parole, in una grammatica di tipo minimalista non si dà opzionalità; a ogni dato punto della derivazione esistono solo scelte obbligate. Questo presuppone una centralità del ruolo del lessico: derivazioni diverse infatti non dipenderanno dall'applicazione di regole diverse allo stesso materiale lessicale, bensì da scelte lessicali anche solo leggermente diverse. Riassumendo, la grammatica comprende tre componenti: il lessico, il componente computazionale, che da elementi lessicali crea le rappresentazioni di interfaccia, e le restrizioni sul componente computazionale. Data l'invarianza sia del componente computazionale sia dei principi di economia, la variazione linguistica è concepita in termini di variazione lessicale, in particolare dei tratti associati ai diversi elementi lessicali. A partire dallo studio di Chomsky del 1981, infatti, la teoria prevede esplicitamente che i principi e le operazioni della grammatica siano universali, mentre il componente lessicale è soggetto a variazione da lingua a lingua. Questa variazione non è arbitraria ma si articola secondo un numero limitato di 'parametri', cioè di possibilità di scelta rispetto al valore dei tratti. Tale concezione va sotto il nome di modello principi e parametri.

Il livello d'interfaccia A-P costituisce sostanzialmente il livello di rappresentazione fonologica. Il dibattito degli ultimi decenni ha profondamente rivisto il modello proposto inizialmente da Chomsky e M. Halle (1968). In particolare la rappresentazione fonologica è stata arricchita mediante la separazione delle proprietà segmentali, o melodiche, dalle proprietà di tipo sillabico-temporale della stringa. Inoltre, le proprietà melodiche sono state ordinate gerarchicamente in modo da riflettere le classi naturali di tratti. Questo tipo di rappresentazione, cosiddetto autosegmentale, ha permesso di trattare in maniera più adeguata e più naturale un ampio spettro di fenomeni fonologici, come per es. i processi di assimilazione, in particolare le armonie/metafonie, e i processi di tipo metrico. Un effetto del modello autosegmentale è stato inoltre quello di restringere il numero e la complessità delle regole fonologiche possibili, in maniera quindi parallela a quanto è avvenuto per la sintassi nello sviluppo dalla teoria standard (Chomsky 1965) alla teoria principi e parametri. Su questo modello di rappresentazione di ampia convergenza, si sono innestate diverse linee di sviluppo, fra le quali la 'fonologia della reggenza' (government phonology) e la 'teoria dell'ottimalità' (optimality theory).

La fonologia della reggenza (Kaye, Lowenstamm, Vergnaud 1990) si correla in maniera naturale con il modello principi e parametri. Infatti il livello fonologico risulta formato da rappresentazioni che proiettano le proprietà di un elemento lessicale in costituenti sillabici e prosodici su cui operano restrizioni di località e di prominenza gerarchica. La parametrizzazione è connessa quindi alle differenze possibili nelle rappresentazioni lessicali, data una base di principi universali. Ben diverso è l'approccio dell'ottimalità (Prince, Smolensky 1993), che costituisce sostanzialmente una teoria della marcatezza, secondo cui le rappresentazioni fonologiche sono determinate dall'interazione di restrizioni di per sé universali che si ordinano in maniera diversa nelle diverse lingue.

Alcuni aspetti di questa teoria appaiono discutibili, perché il componente computazionale risulta nuovamente troppo potente, ricordando fasi ormai superate della teoria basata su regole internamente complesse ed estrinsecamente ordinate l'una rispetto all'altra. La stessa nozione di parametrizzazione ha inoltre una base computazionale piuttosto che lessicale. Questo eccesso di potere descrittivo è particolarmente evidente nelle applicazioni dell'ottimalità alla sintassi.

Il tradizionale livello di analisi morfologica risulta in parte riassorbito nella fonologia e nella sintassi. In particolare vi sono approcci fonologici, come la fonologia lessicale (Kiparsky 1982), che sviluppano un'analisi in termini di regole ordinate dei fenomeni morfofonologici, dovuti alla composizione ciclica dei morfemi in costituenti più ampi. Più significativo ci sembra il rapporto fra morfologia e sintassi. Tradizionalmente, la morfologia è stata trattata come un livello di rappresentazione autonomo, caratterizzato da primitivi propri, e intermedio tra fonologia e sintassi (Aronoff 1979). Questo approccio di tipo tradizionale sopravvive in parte nella 'morfologia distribuita' di Halle e A. Marantz (1993), che concepisce la possibilità di inserire, cancellare e riordinare i morfemi in un componente specializzato. La maggior parte dei modelli sintattici, peraltro, riassorbe la morfologia nella sintassi e/o nel lessico. Per es., nel quadro minimalista la formazione delle parole avviene nel lessico, mentre il controllo della loro buona formazione è un fenomeno sintattico.

L'acquisizione di 'lingua materna' (L1) e 'seconda lingua' (L2)

Uno degli interventi più significativi nello sviluppo del cognitivismo è la recensione di Chomsky (1959) a B.F. Skinner (1957), dove la considerazione cognitivista della facoltà linguistica è contrapposta al paradigma stimolo/risposta del quadro skinneriano, del quale sono illustrate la debolezza epistemologica e l'ambiguità ideologica. Introducendo le linee fondamentali di un modello teorico adeguato del linguaggio come capacità della mente umana, Chomsky conclude che "non è facile accettare la prospettiva che un bambino sia in grado di costruire un meccanismo estremamente complesso per generare una serie di frasi, alcune delle quali mai ascoltate, o che un adulto possa determinare istantaneamente se (e se sì, come) un particolare elemento sia generato da questo meccanismo, che ha molte delle proprietà di una teoria deduttiva astratta" (Chomsky 1959, p. 57). In particolare questa conclusione è valida se si considera la 'povertà dello stimolo' linguistico a cui è esposto il bambino. La soluzione a questo dilemma concettuale è rappresentata dall'ipotesi innatista. La GU, cioè l'insieme delle conoscenze rappresentate all'interno della mente/cervello del parlante nativo, non è appresa, ma forma la base che rende possibile l'acquisizione stessa della lingua. In questa prospettiva il compito del bambino non è quello di scoprire i principi fondamentali della struttura linguistica, bensì quello di fissare sulla base di tali principi la grammatica della propria lingua, cioè i parametri.

Si deve sottolineare la differenza fra l'interpretazione di tipo cognitivo che la teoria generativa offre del linguaggio umano e del processo di acquisizione di una lingua e l'interpretazione suggerita da altri modelli che sembrano rinviare a loro volta a capacità mentali. Questo vale in particolare per l'analisi del linguaggio sviluppata da J. Piaget (Language and learning 1980). In realtà, l'anti-comportamentismo piagetiano presenta un modello in base al quale le capacità cognitive, quali l'intelligenza e il linguaggio, sono il risultato di un processo di costruzione che avviene attraverso l'auto-organizzazione del soggetto a partire dagli schemi sensorio-motori. In questa prospettiva non viene riconosciuta alcuna specificità al sistema di principi che sottostà al linguaggio. Questa concezione derivativa del linguaggio e la sua correlazione con le funzioni logico-simboliche generali della conoscenza si scontra con i punti centrali dei modelli di tipo cognitivista. In particolare, M. Piattelli-Palmarini (1994) mostra come, all'interno di un quadro epistemologico debole e impreciso, la posizione di Piaget si scontri con le linee ormai ampiamente consolidate della ricerca sulla specificità delle proprietà morfosintattiche e fonologiche delle lingue naturali, proprietà inspiegabili al di fuori di un quadro innatista. Non è un caso che al mentalismo piagetiano, in quanto implica una nozione di acquisizione basata sull'interazione attiva con l'ambiente, si richiami invece esplicitamente la corrente funzionalista (Givón 1984, p. 9).

All'interno del quadro innatista si sono sviluppate alcune proposte specifiche sull'acquisizione della lingua. Uno dei problemi descrittivi più interessanti è che l'acquisizione della lingua non è istantanea, ma avviene attraverso fasi successive. Un'idea importante che è stata messa a fuoco all'interno del modello principi e parametri è che i diversi stadi dell'acquisizione, pur riflettendo diverse grammatiche, sono tutti compatibili con la GU: anche il primo stadio 'telegrafico' non è organizzato secondo principi puramente semantici o comunicativi, ma rappresenta uno stadio pienamente linguistico, articolato sintatticamente.

In particolare N. Hyams (1986) ritiene che gli stadi intermedi fra lo stadio di partenza, che corrisponde alla GU, e lo stadio di arrivo, differiscono da quest'ultimo in quanto realizzano valori parametrici diversi da esso.

Per es., è noto che l'italiano e l'inglese differiscono rispetto al parametro del 'soggetto nullo', per cui il soggetto pronominale può non essere realizzato in italiano, ma deve essere realizzato in inglese. In questa prospettiva, la presenza di soggetti non realizzati nelle prime fasi di acquisizione dell'inglese è interpretata come un effetto di una diversa scelta parametrica sul valore meno marcato. Altri autori (Borer, Wexler 1987; Radford 1990; Rizzi 1994) sostengono che le diverse grammatiche del bambino corrispondono a diversi stadi di sviluppo la cui successione è determinata dalla maturazione di dati principi e/o primitivi strutturali della GU.

Per quanto riguarda l'acquisizione di L2, fino agli anni Sessanta ha predominato un modello di tipo comportamentista secondo il quale l'acquisizione di L2, come del resto anche l'acquisizione di L1, è vista come un accumulo progressivo di abitudini linguistiche create attraverso processi basati sulla ripetizione di strutture, senza che intervenga alcuna elaborazione di tipo mentale da parte del parlante. In questo quadro si assume che le abitudini linguistiche connesse con L1 interferiscono in maniera automatica (transfert) con l'apprendimento di L2 e vengono perciò considerate responsabili della qualità delle produzioni in L2. Successivamente, sulla scorta della teoria innatista del linguaggio, si è affermata una concezione diversa dell'apprendimento di L2, in netta contrapposizione con la precedente, secondo cui almeno alcune delle strategie adottate da chi apprende una seconda lingua sono sostanzialmente uguali a quelle attivate nell'acquisizione della prima lingua (Corder 1973). In questa prospettiva gli errori commessi dall'apprendente non si caratterizzano come incomprensioni casuali ma piuttosto evidenziano la costruzione di sistemi intermedi. Si deve a L. Selinker (1972) l'idea che il processo di apprendimento dia luogo a stadi linguistici intermedi rispetto alla lingua-obiettivo, chiamati interlingue.

In analogia a quanto visto per gli stadi intermedi nell'acquisizione di L1, all'interno del quadro innatista le diverse interlingue sono viste come rispondenti ai principi della GU. Per quanto riguarda il rapporto fra L1 ed L2, è naturale assumere che l'accesso alla GU sia aperto anche nell'apprendimento di L2, come è dimostrato dall'argomento della povertà dello stimolo applicato anche a L2. Al di là di questo, appaiono posizioni diverse sull'importanza dell'influsso di L1 su L2. In alcuni modelli (White 1989), L1 influenza significativamente l'apprendimento di L2 in corrispondenza di quei parametri i cui valori sono fissati diversamente nelle due lingue. Secondo altri modelli questo transfert è irrilevante rispetto al ruolo svolto dai principi della GU (Cocchi, Giusti, Manzini et al. 1996).

Linguistica comparativo-ricostruttiva in ambito indoeuropeo. - Nell'ambito della l. comparativo-ricostruttiva, relativamente al consonantismo indoeuropeo e germanico in particolare, è proseguita la discussione sulla teoria glottalica (v. linguistica, App. V). A fondamento della proposta di radicale riformulazione del consonantismo indoeuropeo (new look), avanzata negli anni Settanta da parte di Th.V. Gamkrelidze e V.V. Ivanov (1972, 1973) indipendentemente da P. J. Hopper (1973, 1977), stavano due fenomeni noti da tempo: l'estrema rarità dell'occlusiva sonora bilabiale /*B/ e l'assenza della serie delle occlusive sorde aspirate.

Dall'inizio degli anni Cinquanta questo stato di cose era stato ritenuto anomalo; di lì a poco si confermava che tali assenze non rispondevano alle attese formulabili secondo gli ultimi studi tipologici delle lingue naturali. Nell'ambito delle obiezioni al new look, O.J.L. Szemerényi (1972) ha proposto di riconsiderare la presenza della serie sorda aspirata, dal momento che, pur essendo rari gli elementi di tale serie, essi esistono. Comrie (1993, 1997³) annota che 'sonora aspirata' è un termine che sottende un concetto erroneo in quanto, secondo la fonetica, aspirazione e sonorità sono incompatibili; si tratta in realtà di indicare dei suoni 'mormorati'. Dunque la questione è se la serie delle mormorate possa sussistere là dove sia assente la serie sorda aspirata. Nel caso che il new look venga accertato, e potrebbero essercene ragioni (Gamkrelidze, Ivanov 1984, 1986), si riscontrerebbero a livello tipologico nel protoindoeuropeo tratti comuni con il caucasico settentrionale, con il cartvelico o caucasico meridionale (utilizzazione morfologica dell'apofonia /E/-/O/-Ø) e forse con il semitico.

A livello morfemico, si è notato che l'indoeuropeo, fusivo nelle più antiche attestazioni (come il cartvelico e il semitico), ha rivelato una natura più agglutinante nella precedente fase protoindoeuropea (Szemerényi 1970, 1989³; Beekes 1990). Gli avverbi protoindoeuropei, riscontrabili ancora nei poemi omerici in funzione avverbiale (per es. πεϱί "intorno" in Iliade xix, 362; ϰατά "giù" è usato come prefisso verbale o separato dal verbo), evolvono di norma a preposizioni in quasi tutte le lingue indoeuropee. Accanto a questo esito, sono attestate anche postposizioni, esito normale in ittita, come ancora in Iliade v, 64: ἐπεοὔ τι θεὤν ἐϰ θέσφατα ᾔδη "perché non conosceva i decreti degli dei", e nel tipo mecum, per quanto eccezionale in latino. È stato riscontrato che un sistema di preposizioni e postposizioni in un contesto morfonologico di casi bene rappresentato è attestato anche nelle lingue cartveliche e uraliche.

Diversamente, per quanto concerne il genere, risulta notevole la distanza tra lingue uraliche e cartvelico, prive della distinzione morfologica, e il protoindoeuropeo, il quale, secondo quanto attestato dalle lingue indoeuropee storiche, presentava le due distinzioni maschile-femminile-neutro (per es. latino, greco, antico indiano) e animato-inanimato (per es. ittita). Si registra invece di nuovo un accostamento tipologico tra le lingue indoeuropee e le uraliche e semitiche per la nozione del numero, differenziato in singolare-duale-plurale, compresa la comune tendenza evolutiva al superamento del duale.

È stato oggetto di studio l'insieme di categorie morfonologiche relative al verbo indoeuropeo, specialmente il tempo e l'aspetto, con il risultato di mettere in evidenza da una parte confronti tra la capacità del protoindoeuropeo di distinguere tra presente e imperfetto (cioè tra non passato e passato; ma la distinzione di imperfetto risulta per evoluzione analogica), tra presente-imperfetto e aoristo (cioè tra aspetto imperfettivo e perfettivo) e tra gli altri tempi e il perfetto (cioè tra non perfetto e perfetto) e la capacità del cartvelico, anch'essa documentata, di distinguere tra presente-imperfetto-aoristo, dall'altra una distinzione tra un protoindoeuropeo ricostruito e le lingue indoeuropee storiche: il primo con una forte impronta aspettuale, ancora ben documentata in greco antico e in antico indiano, le seconde con la tendenza a una perdita graduale della nozione di aspetto o con la sua assenza totale, per es. in ittita e in germanico. Per quanto concerne la diatesi verbale, la distinzione protoindoeuropea tra attivo e medio ha consentito significativi confronti con le lingue dravidiche.

Gli studi di tipologia sintattica proseguono l'analisi comparativa tra il protoindoeuropeo, che doveva presentare l'ordine soggetto-oggetto-verbo, e le lingue indoeuropee storicamente attestate che presentano consistenti variazioni, specialmente nelle lingue derivate. Intensa anche la discussione sull'ordine morfemico. Dopo aver preso atto che le lingue indoeuropee sono lingue suffissali, che i prefissi si limitano all'aumento e al raddoppiamento, e che l'unico vero infisso è -n- tipico del tema del presente (lat. vinco, vici, victum, vincere; per il resto si ritrova in lat. unda a fronte del gr. Ϛδωϱ), sono stati individuati confronti con le lingue uraliche (non tutte; l'ungherese, che usa prefissazione, adotta preverbi e avverbi come nei rari casi riscontrati in indoeuropeo) e altaiche, che denotano una situazione analoga, al contrario delle lingue cartveliche e semitiche e nord-caucasiche (Comrie 1993, 1997³) che attestano invece un ampio uso della prefissazione.

Per l'area celtica è stata ancora una volta energicamente sottolineata l'importanza dell'antico irlandese per la ricostruzione del protoindoeuropeo (per es. McCone 1991). È da tempo superata l'ipotesi dell'unità italo-celtica, nonostante le note convergenze tra latino e celtico Q, per es. di tipo gaelico, e tra osco-umbro e celtico P, per es. di tipo britannico. Si ritiene di spiegare alcuni dei tratti comuni, in particolare tra celtico e latino (conservazione di -r mediopassivo; corrispondenza tra futuro antico irlandese in -f- e futuro lat. in -bo; il genit. sing. del tema in -o che in entrambi si presenta in -i lunga; i temi di comparativo e superlativo ottenuti mediante suffissi che risalgono ai morfemi ricostruibili comuni *-jos e *-somo), come risalenti a comuni arcaismi o a interferenze successive o a innovazioni parallele. Tuttavia, nonostante che le lingue celtiche abbiano diverse caratteristiche in comune con altre lingue indoeuropee - fattore che conduce facilmente a un numero eccessivo di ipotesi di prossimità -, alcuni sondaggi condotti con metodo statistico potrebbero confermare l'esistenza di numerosi punti di contatto preferenziale lessicale tra celtico e latino, celtico e lingue italiche e celtico e germanico. Si sostiene la distinzione (Schmidt 1988) tra alcune lingue celtiche con esito em-/en- (celtico Q) dei fonemi sonanti indoeuropei */m/ e */n/ iniziali precedenti occlusiva e le altre con esito am-/an- (celtico P) (Sims-Williams 1993, 1997³): la discussione è in atto.

Th. Vennemann (1984), che si fonda su una nuova analisi della documentazione più e meno antica dei dialetti germanici, accetta la teoria glottalica di Gamkrelidze e Ivanov per quanto concerne l'evoluzione preistorica del consonantismo indoeuropeo, ma apporta delle modifiche sostanziali alla concezione dell'evoluzione del germanico dalla fase protostorica in poi. Pertanto non solo non si sarebbe verificata la prima Lautverschiebung, come già secondo Gamkrelidze e Ivanov; secondo Vennemann non si sarebbe realizzata neppure la seconda. Non avremmo infatti una fase fonologica pangermanica seguita, secondo le varie datazioni proposte, qualche secolo d. C. dalla seconda rotazione altotedesca. Allorché il germanico passò dalla fase protostorica alla fase storica avvenne invece una 'biforcazione' nel trattamento delle sorde glottidalizzate (per es. di /t'/ per il fonema dentale) che dette luogo agli esiti differenziati, già noti dal tempo di Grimm, da una parte rappresentati dal basso tedesco e in genere dalle altre lingue germaniche ( /t'/ > /th/ /t/ ), dall'altra tipici dell'antico alto tedesco (/t'/> /ts-/ oppure /-ss-///-s-/ ). Questa impostazione (Vennemann 1988, 1994a, 1994b) determina dei mutamenti anche nella considerazione dei fenomeni indicati dalla legge di Verner. La discussione, cui partecipano numerosi linguisti italiani e stranieri, non ha per ora avuto esito definitivo.

Sulle lingue dell'Italia antica, a parte gli studi sui singoli aspetti, che interessano ciascuna delle lingue dell'area, si fa notare una rilevante attività editoriale. A partire dalla fine degli anni Settanta sono apparsi studi su molte aree (Lingue e dialetti 1978; Agostiniani 1982; Porzio Gernia 1983), un'edizione delle tavole iguvine (Prosdocimi 1984), delle iscrizioni sud-picene (Marinetti 1985), elime (Agostiniani 1977), dei cippi prenestini (Franchi De Bellis 1997) ecc., mediante nuove autopsie e studi specifici. Dai primi anni Settanta nella Rivista di epigrafia italica, ospitata in Studi etruschi, sono pubblicati con continuità contributi epigrafico-linguistici.

La distribuzione delle differenze, soprattutto fonematiche, tra i due dialetti costituenti l'albanese, il settentrionale (assimilazione di vocale tonica davanti a nasale) e il meridionale (trasformazione di -n- intervocalica > -r-; ricorrenza di /ë/ in posizione tonica) è alla base della lunga discussione, tuttora in corso (Demiraj 1993, 1997³), relativa alla fase linguistica arcaica (se si tratti di antico dialetto illirico, oppure di derivazione trace o daco-misia), a cui si connette il problema della primitiva sede del popolo albanese.

All'esito in armeno del nesso indoeuropeo costituito da consonante seguita da r (*Cr-), in armeno > VrC-, con protesi vocalica (cfr. indoeuropeo *gwrāw-ō(n)- "mulino", antico indiano grāvan- "pietra per spremere, pressare", gr. βαϱύϚ, lat. gravis (*gwr-w-is), ant. slavo žruny "mulino", žrunuvi f. pl., ant. iranico bráu "macina da mulino", armeno erkan (*gwrānā) "macina da mulino"), e alla metatesi di indoeuropeo *Vcr- > armeno VrC- anche in posizione interna (indoeuropeo *k´eu-bh- ampliamento di *k´eu- "splendere", antico indiano śúmbhati "splende", śubhrá- "bello, di colore chiaro", armeno surb "chiaro, puro, santo", srbem), è stata data spiegazione mediante una regola di sillabazione armena, per cui la protesi viene motivata in quanto all'iniziale di sillaba sono preferite le semplici consonanti ai nessi consonantici (Vennemann 1986). Secondo questa impostazione, contro ciò che si era precedentemente affermato, è la protesi che precede la metatesi (Ajello 1993, 1997³). La protesi servirebbe a evitare nessi consonantici in inizio di sillaba e di parola.

Per quanto riguarda l'anatolico, costituito da lingue storiche distinte in sottogruppi (ittita, licio, miliaco, luvio cuneiforme e luvio geroglifico, palaico, lidio), prosegue e resta aperta la questione del grado del suo arcaismo, se si tratti di lingua molto arcaica oppure se abbia perduto molte caratteristiche dell'indoeuropeo originario (Luraghi 1993, 1997³), cioè se deve prevalere la considerazione che le sue caratteristiche non conservate nelle altre lingue siano arcaiche, oppure siano indice di maggiore allontanamento dell'anatolico dal modello originario. Di recente, ad attrarre l'attenzione è stata la distinzione di genere, che in anatolico risulterebbe notoriamente limitata al comune e al neutro. Gli studi compiuti porterebbero a ritenere il quadro più complesso. Prosegue la discussione (Gusmani 1989-90) anche riguardo alle relazioni di prossimità di alcune lingue del gruppo, in particolare per la collocazione del miliaco (licio B). Le alternative sono due: a) considerarlo derivato con il licio da un protolicio, secondo la soluzione tradizionale; b) ritenerlo più prossimo al luvio (Carruba 1981, 1995). La ricerca è resa difficile anche dalla scarsità della documentazione.

Resta ancora incerto se l'accento dell'avestico mantenga la caratteristica originaria di accento musicale oppure abbia anch'esso innovato assumendo i caratteri di accento dinamico intensivo, come nel medio persiano. Non è stata data definitiva collocazione alle lingue dette nuristane o kafire, attualmente parlate da popoli stanziati nell'Hindu Kush nell'area del confine afghano-pakistano. Si è tuttora incerti se si tratti di iranico arcaico con rilevanti influssi indiani, oppure di una lingua distinta, diversa sia dall'indiano che dall'iranico.

Linguistica e archeologia

Ha ripreso vigore a livello archeologico e linguistico la discussione sulla sede originaria degli Indoeuropei. Successivamente alle tesi di M. Gimbutas, presentate e perfezionate soprattutto dalla fine degli anni Sessanta in poi (Gimbutas 1970), e in genere accettate dai linguisti, le quali identificavano la primitiva cultura indoeuropea nella cultura dei kurgan (termine di origine turca designante le tombe a tumulo) risalente al 5° millennio a. C., da collocarsi nella sua fase più arcaica nelle steppe meridionali dell'Ucraina, è stata proposta da Gamkrelidze e Ivanov (1980) una nuova teoria che si armonizza sotto numerosi aspetti con la revisione del consonantismo indoeuropeo mediante la sopra ricordata teoria glottalica. La nuova concezione, che pone la Urheimat tra la regione caucasica meridionale e la Mesopotamia, è stata proposta originariamente in lingua russa ed è rimasta per qualche tempo quasi del tutto ignorata in Occidente. Il punto di partenza è stato la constatazione di isoglosse lessicali tra indoeuropeo e semitico e tra indoeuropeo e cartvelico. In questo quadro la cultura dei kurgan sarebbe da considerare una fase indoeuropea intermedia tra la patria originaria e le sedi definitive dell'Europa centrale. Secondo I.M. Diakonov (1982, 1985) la Urheimat sarebbe piuttosto da ricercarsi in una zona non precisabile situata tra i Carpazi e i Balcani, con maggiori probabilità nel territorio identificato dalla cultura di Vinča, e i popoli caucasici e indoeuropei nord-balcanici sarebbero i discendenti di un popolo che avrebbe parlato una lingua definibile come proto-indo-cartvelico.

Una terza ipotesi è quella dell'archeologo inglese C. Renfrew (1987; 1992). In questo caso la patria originaria indoeuropea sarebbe da ricercarsi in Asia Minore; in particolare il nucleo originario si identificherebbe con la cultura di Çatal-Hüyük. Quest'ultima teoria comporta, contro l'ipotesi tradizionale - che considerava gli indoeuropei popoli nomadi invasori di un'area precedentemente occupata da popoli neolitici agricoltori, appartenenti a una cultura identificata come 'mediterranea' -, che siano stati gli indoeuropei a neoliticizzare i popoli delle aree occupate e a trasmettere loro l'agricoltura. Anche la cronologia assoluta si sposterebbe indietro, ai millenni 7°-6° a.C. Sarebbe, per molti versi, un vero rovesciamento di posizioni. Tutto questo in un quadro non di invasioni indoeuropee, ma piuttosto di lente diffusioni, con una preminenza di trasformazioni culturali rispetto a movimenti di popoli. V.A. Safronov (1989) sembra possa mettere in accordo varie teorie con la proposta di considerare tre stadi successivi: il primo ( e millennio a.C.), rappresentato dalla cultura di Çatal-Hüyük, corrisponderebbe alla cultura indoeuropea più arcaica; il secondo ( e millennio), sarebbe localizzabile nella zona balcanica settentrionale di Vinča; il terzo ( e millennio) viene localizzato nell'Europa centrale e corrisponderebbe alla cultura di Lengyel e alla distribuzione della ceramica imbutiforme. La discussione non è conclusa (Proto-Indo-European 1987; Villar 1991, 1996²). Per la composizione e derivazione etnica dei popoli dell'Europa, nel corso degli anni significativi contributi (Ammerman, Cavalli Sforza 1973; Cavalli Sforza, Menozzi, Piazza 1994) hanno delineato, dal punto di vista della genetica, alcune possibili direttrici di avanzata e di espansione (anche Renfrew 1992) delle popolazioni preistoriche e protostoriche indoeuropee.

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