SALUTATI, Lino Coluccio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 89 (2017)

SALUTATI, Lino Coluccio

Daniela De Rosa

– Figlio di Piero, nacque a Stignano in Valdinievole, la valle che si estende tra Lucca e Pistoia, il 16 febbraio 1331 o più probabilmente, in base a una recente ipotesi di Mario Martelli, nel 1332.

Il nome doppio fu frutto di un compromesso tra la madre, Puccina, che voleva dare al neonato quello del proprio padre, e la nonna paterna, che intendeva chiamarlo come il proprio defunto consorte. In seguito Salutati avrebbe di solito usato firmarsi Coluccius Pieri, ma verso la fine della vita avrebbe a volte adottato per vezzo il doppio nome, in quanto Lino ricordava il mitico poeta omonimo.

Della famiglia si conosce poco; all’inizio del XIV secolo almeno due rami di essa vivevano a Pescia, ma non sono chiari i legami con quella di Stignano. Vi è traccia di un quarto ramo a Buggiano, il Comune che comprendeva anche Stignano, Colle e Borgo a Buggiano. Del nonno paterno sappiamo soltanto che nel 1321 risiedeva a Stignano e aveva delle proprietà a Buggiano; di quello materno unicamente che si chiamava Lino.

La famiglia, di tradizione guelfa, aveva subito anni di repressione. Quando nel 1328 i guelfi presero il potere in Valdinievole, il padre di Salutati emerse come uno dei capi locali della Parte. In seguito a un colpo di mano dei ghibellini nel settembre del 1331, la situazione per Piero si fece particolarmente pericolosa. Rifugiatosi a Borgo, ancora in mano guelfa, dovette lasciare la moglie, incinta, a Stignano; probabilmente seguì in febbraio la ritirata delle truppe fiorentine. Due mesi dopo la nascita di Coluccio, Puccina e la suocera si riunirono a Piero in territorio fiorentino.

Incerto è il luogo di residenza della famiglia negli anni seguenti. Tuttavia nel 1337 Piero, avendo dimostrato spiccate virtù militari, attirò l’attenzione di Taddeo Pepoli, divenuto signore di Bologna nell’agosto di quell’anno, e si trasferì nella città emiliana. Una volta sistematisi a Bologna, i Salutati tornarono in Valdinievole, ora nuovamente in mano guelfa, soltanto per brevi soggiorni. Dopo che nel 1339, con l’affermazione di Firenze in virtù del trattato di Venezia con Mastino II della Scala (concluso il 20 gennaio di quell’anno) ai guelfi furono restituiti i beni confiscati, Piero mantenne nella zona i propri interessi, grazie al fratello Paccino.

In quel periodo, cominciando con Lovato a Padova negli anni Ottanta del Duecento, si manifestò in molte città dell’Italia settentrionale, compresa Bologna – una delle principali sedi universitarie d’Europa – un rinnovato interesse per gli studi classici, o piuttosto un nuovo approccio agli studi degli antichi. Qui, dopo la scuola elementare e quella di grammatica, Salutati frequentò la scuola di retorica di Pietro da Moglio, amico di Giovanni del Virgilio e uno dei più famosi maestri di tale disciplina. Da Pietro apprese a padroneggiare l’ars dictaminis e fu forse introdotto alla poesia latina, in particolare alle tragedie di Seneca; ma soprattutto – come in seguito avrebbe egli stesso ricordato – apprese da lui il potere che può esercitare una lettera. Senza dubbio da Pietro conobbe i segreti dello stilus rhetoricus che doveva fare di lui probabilmente il più grande dettatore della sua epoca.

Nel 1347 morirono sia Piero Salutati che il suo mecenate Taddeo Pepoli, ma Puccina e la numerosa famiglia trovarono protezione e favore presso Giovanni, uno dei figli di Pepoli, il quale avviò il giovane Coluccio, probabilmente secondo i desideri del defunto padre, alla scuola di notariato nello Studio bolognese, della durata di due anni ma che assicurava una buona carriera. Finiti gli studi nell’agosto del 1349, Salutati non poté tuttavia iscriversi all’Arte dei giudici e notai per esercitare a Bologna, in quanto i Pepoli, dopo aver venduto Bologna all’arcivescovo Giovanni di Milano, riservandosi alcune proprietà, erano stati da lui fatti incarcerare.

Puccina, ormai priva dei suoi protettori, decise di fare ritorno con i figli, decimati dalla peste, in Valdinievole, dove possedeva alcuni beni fondiari e una casa a Stignano, ereditata dal defunto marito, e dove poteva contare sull’appoggio del cognato Paccino e della propria famiglia. In tal modo Salutati dovette passare i successivi sedici anni della sua vita facendo il notaio privato, prendendo parte alla politica del Comune di Buggiano (oggi in provincia di Pistoia), svolgendo per esso di frequente il ruolo di notaio, ricoprendo incarichi notarili anche presso altri comuni della zona e delle province vicine.

Alcuni anni dopo il ritorno a Stignano, intanto, si imbatté – come ispirato dalla divinità – in Ovidio appassionandosi alla poesia antica, passione che doveva avvincerlo per molti anni a venire; e nel 1355, disponendo finalmente di una certa somma di denaro, acquistò per quattro fiorini d’oro quattro manoscritti contenenti rispettivamente Prisciano, Virgilio, Lucano e Orazio.

Negli anni intorno al 1359-61 Salutati fece conoscenza del circolo fiorentino degli ammiratori di Francesco Petrarca, composto da Giovanni Boccaccio, da Francesco Nelli priore di Santi Apostoli, dal famoso giurista guelfo Lapo da Castiglionchio e dal notaio Francesco Bruni, all’epoca presso i da Carrara di Padova e poi notaio papale ad Avignone. A partire da quell’epoca, Salutati decise di conservare la propria corrispondenza e si legò inoltre d’amicizia con importanti uomini politici fiorentini come Filippo dell’Antella, entrando in rapporti epistolari anche con il cancelliere della Repubblica, Niccolò di Ventura Monachi.

Nel 1366 si iscrisse all’Arte dei giudici e notai di Firenze e nell’inverno seguente contrasse matrimonio con Caterina di Tomeo Balducci, uomo famoso in Valdinievole per le ricchezze. Le nozze furono celebrate distribuendo una profusione di arance. Coluccio, del resto, era divenuto a sua volta uno dei principali esponenti politici di Buggiano, sedendo nei consigli e ricoprendo le più importanti cariche, sia del Comune sia della Parte, di cui fu spesso capitano.

Nell’agosto del 1367 Salutati ricoprì finalmente un’importante carica fuori della Valdinievole: ottenne l’ufficio di cancelliere e notaio delle Riformagioni a Todi, città che apparteneva al Patrimonio di San Pietro e a Urbano V, appena rientrato a Roma da Avignone. Nonostante l’importanza dell’incarico, Salutati mostrò di non gradirlo e si rivolse varie volte epistolarmente a Bruni, che nel frattempo era diventato segretario papale nel 1363, per indurlo a trovargli un lavoro a Roma. Appena scaduto il termine dell’ufficio, dunque, nell’aprile del 1368 si recò nell’Urbe per fare da segretario all’amico e, grazie a lui, contemporaneamente iniziò una corrispondenza con Petrarca, il quale tuttavia gli inviò una sola lettera nell’ottobre del 1369. Anche questa esperienza deluse le aspettative professionali di Salutati. I due anni trascorsi a Roma nel centro della cristianità si rivelarono però di fondamentale importanza per la sua crescita spirituale e intellettuale; infatti, a partire da qual momento cominciò a modificare la sua Weltangschauung, prima ispirata a un generico stoicismo, in una visione cristiana della vita: le lettere da lui scritte in questo periodo, infatti, non solo citano gli autori classici, ma spesso anche espressioni e concetti presi dalla Bibbia e, poco dopo, anche dai Padri della Chiesa.

Quando Salutati seppe che Urbano V aveva preso la decisione di tornare ad Avignone si affrettò ad abbandonare la Curia e a procurarsi un nuovo incarico; così nell’agosto del 1369, su raccomandazione di Bruni e del papa stesso, pose la sua candidatura a un’importante carica di notaio a Lucca (che poco prima – l’8 aprile – grazie all’imperatore Carlo IV era tornata libera dalla dominazione pisana, cominciata nel 1342). Salutati stesso, d’altra parte, vantava a Lucca potenti amici, quali Niccolò Diversi e gli Obizzi, esponenti della parte nobiliare di quel Comune.

Sebbene già il 27 settembre 1369, grazie a uno speciale privilegio, egli avesse avuto con i fratelli la cittadinanza lucchese, trascorse ancora un anno prima che ottenesse il posto, concesso nel luglio a Pietro di Tomeo Beati di Bologna, che godeva del favore di Carlo IV. Soltanto nel luglio del 1370, dunque, grazie a un breve del pontefice (9 febbraio), i lucchesi, accordatisi con Beati, quando riformarono gli statuti della città divisero il cancellierato in due membri, inaugurando l’ufficio di cancelliere degli Anziani per Pietro e quello di notaio delle Riformagioni per Salutati.

Coluccio entrò in carica in agosto ma, passato il primo anno, l’ufficio non gli fu riassegnato perché, come egli stesso affermò, una delle parti cittadine fece opposizione a tale reincarico. La fazione popolare di Lucca, infatti, tra l’estate del 1370 e il febbraio successivo aveva prevalso su quella nobiliare che aveva appoggiato Salutati; il suo salario d’altronde era sembrato troppo oneroso e per il nuovo notaio delle Riformagioni Pietro Saraceni, prima coadiutore di Beati, era stato stabilito un pagamento di soli sei fiorini al mese, mentre Salutati era stato assunto per otto fiorini. Per venirgli incontro gli amici della parte nobiliare fecero attuare una riforma dell’ordinamento della Corte dei mercanti, che prevedeva la carica di giudice maggiore, ufficio che Salutati tenne con verosimiglianza per un semestre, dall’agosto 1371 al febbraio 1372.

I due anni passati a Lucca furono sicuramente i più difficili per Salutati che – già disilluso per le vicende politiche e professionali – nel corso dell’epidemia di peste che imperversò nell’autunno del 1371 subì anche la perdita della moglie Caterina, da cui poco prima aveva avuto un figlio, battezzato con il nome di Bonifacio. Nel marzo del 1372 lasciò pertanto Lucca; nei mesi successivi verosimilmente andò spesso a Firenze in vista di un lavoro di notaio, mentre nel frattempo risiedeva a Stignano, dove rimase fino al febbraio del 1374. In quel periodo, verso il 1373, si sposò nuovamente, con Piera di Simone di Puccino Riccomi, uno dei rami dei Salutati che vivevano a Pescia.

Nel febbraio del 1374 si trasferì definitivamente a Firenze. Si può ipotizzare che, in base a un complesso progetto, alcuni capi della Parte guelfa intendessero sostituire Salutati, appena possibile, al cancelliere in carica Niccolò Monachi. Intanto costoro, come accaduto a Lucca, fecero creare un nuovo ufficio per Coluccio, quello di notaio delle Tratte, ovvero l’ufficio scorporato dalle Riformagioni che presiedeva alle varie operazioni di selezione, imborsazione e sorteggio dei candidati alle varie cariche comunali.

Non si sa se Salutati avesse una conoscenza personale di ser Piero di ser Grifo da Pratovecchio, chiamato di solito «ser Piero delle Riformagioni», dall’ufficio da lui esercitato fin dal 1348, ma tale ipotesi non è priva di fondamento. Da una serie di indizi si può scorgere infatti una rete di relazioni che devono avere posto in contatto Salutati con gli ambienti della Parte guelfa, che erano anche quelli di ser Piero: questi proveniva infatti dal Casentino e prima di venire a Firenze aveva lavorato dapprima presso i conti Guidi, alcuni dei quali erano conosciuti anche da Coluccio, e successivamente nella Cancelleria di Arezzo, il cui vescovo aveva offerto a Salutati – su richiesta del notaio fiorentino Giovanni Cambini – il posto di cancelliere della sua città, se fosse morto il cancelliere in carica Iacopo Maggini (a quel tempo malato), cosa poi non avvenuta. Giovanni Cambini stesso era stato notaio della curia fiorentina e appare nei protocolli di Lando Fortini, anche lui notaio del vescovo fiorentino, Angelo Ricasoli, nei primi anni Settanta; in tali protocolli, insieme al vecchio amico Lapo da Castiglionchio, si incontrano altri membri della Parte guelfa e vari coadiutori di ser Piero di ser Grifo, come Giovanni di Silvestro di Castel Santa Maria e Angelo Bandini. Alcuni collaboratori di ser Piero erano inoltre originari della Valdinievole, come Naddo di Nepo da Montecatini e Gabriello di Michele Orlandi, con il cui fratello Tommaso Coluccio era in corrispondenza. Non sembra pertanto inverosimile che ser Piero, nonostante la sua voracità di cariche e guadagni, probabilmente su richiesta della Parte, abbia accettato lo scorporo delle Tratte allo scopo di creare un ufficio per Salutati.

Nell’aprile del 1375 i Consigli presero la decisione di rimuovere Monachi e sostituirlo con Salutati. La sostituzione del cancelliere, che doveva scrivere le lettere dei Priori, comporre le loro istruzioni agli ambasciatori e trascrivere le discussioni delle principali magistrature, ebbe luogo ad ogni modo nel momento più adatto. Stava infatti per cominciare la guerra con il papa che iniziò nell’estate di quello stesso 1375. Questo conflitto era del tutto insolito per Firenze, da sempre seguace del guelfismo, e venne combattuto soprattutto attraverso la propaganda e le missive di Salutati si rivelarono straordinariamente eloquenti ed efficaci.

La guerra con il pontefice Gregorio XI, il quale nel marzo del 1376 aveva fulminato l’interdetto contro i fiorentini e nella primavera del 1378 aveva iniziato un processo con l’accusa di eresia contro Salutati stesso, ma che morì poco dopo, si avviava alla fine; essa tuttavia destabilizzò la società fiorentina, rendendo più acuti i conflitti tra la Parte guelfa e la fazione contraria che aveva voluto la guerra. Ne scaturì il celebre tumulto dei ciompi, che approfittarono dei contrasti del ceto dirigente per perseguire le loro rivendicazioni. Nel corso dei tumulti e degli incendi ser Piero di ser Grifo da Pratovecchio, l’onnipotente notaio delle Riformagioni, dovette fuggire in gran fretta dalla città e in seguito fu messo al bando. Salutati, che quando iniziarono i disordini, il 21 luglio, risiedeva nella sua dimora in piazza dei Peruzzi, cercò rifugio nella chiesa di S. Croce, ma subito fu chiaro che i ciompi non ce l’avevano con lui, anzi: in virtù delle sue lettere pubbliche era infatti considerato una sorta di eroe di guerra. La balìa, che fu stabilita dal parlamento del 22 luglio, decise tra altri decreti che egli fosse incaricato di redigere tutti i suoi atti insieme al notaio Andrea di Guido Corsini; e inoltre, il 28 luglio, che tutto l’ufficio delle Tratte, prima in parte rimasto alle Riformagioni, ne fosse diviso e venisse unito alla Cancelleria delle lettere, appannaggio di Salutati.

Del tutto riabilitato dopo la stipulazione della pace di Tivoli con la Chiesa (28 luglio 1378), Salutati fu benvoluto anche dal successivo regime dei mediocres, instaurato dopo che i ciompi erano stati sconfitti il 31 agosto, e destinato a dominare la città fino al gennaio del 1382.

Non danneggiò Coluccio neppure il fatto di essere incolpato di tradimento da Iacopo di Bartolomeo, detto Scatizza, il quale apparteneva alla cricca di Giorgio Scali e Tommaso Strozzi, due agitatori membri del patriziato. All’accusa mossa da Scatizza non fu infatti prestata fede, e il tentativo messo in atto dai suoi complici per trarlo dal carcere fu causa del nuovo cambiamento di regime che doveva portare nel 1382 al rimpatrio degli esiliati del 1378 e inaugurava la graduale formazione del «reggimento» oligarchico. Salutati si trovò in pieno accordo con questo regime, di cui condivideva la politica ispirata a un deciso realismo, la volontà di ampliare il territorio fiorentino e la visione meno personalistica dello Stato che distinse il governo fiorentino alla fine del Trecento, restando tuttavia attaccato alla concezione tradizionale di un mondo cristiano guidato dai poteri universali della Chiesa e dell’Impero. Dagli eventi del 1378-82 la reputazione di Salutati emerse comunque rafforzata, e nel 1383 egli fu iscritto insieme al nuovo notaio delle Riformagioni, Viviano di Neri Viviani, all’arte della Lana dominata dal patriziato.

Nel 1381-82, intanto, aveva composto il suo primo trattato importante, il De saeculo et religione, dopo che in gioventù aveva scritto due esercitazioni retoriche, la Conquestio Phyllidis e la Lucretia, e alcune ecloghe, queste ultime perdute. Il De saeculo, scritto su richiesta di un amico fattosi monaco, è una lode della vita monastica e del ritiro dal mondo, ispirato a un certo pessimismo, che probabilmente era stato suscitato in Coluccio dalle violenze del tumulto dei ciompi e dall’imperversare della peste (nonostante la quale non volle abbandonare la città e rifugiarsi in campagna, sostenendo che nessun uomo può evitare i decreti della Provvidenza riguardo alla sua morte). Nel 1383 completò la prima versione del De laboribus Herculis, un trattato dedicato alla poesia e alla sua difesa, che poi avrebbe ripreso continuandolo fino alla morte senza terminarlo.

Passato il movimentato quinquennio 1378-82, l’esistenza di Coluccio trascorse per lungo tempo quieta e soddisfatta; riorientò parzialmente i propri interessi dedicandosi meno alla cancelleria e più agli studi, alla raccolta di preziosi manoscritti, alla formazione di un gruppo di appassionati discepoli e alla famiglia, che doveva crescere fino a enumerare undici figli.

A cominciare dagli anni Novanta, tuttavia, Firenze iniziò a essere minacciata dalle mire espansionistiche di Gian Galeazzo Visconti, il quale, conquistata gran parte della Lombardia, si volgeva contro la Toscana. Da questa situazione scaturirono tra il 1390 e il 1402 tre guerre, durante le quali Salutati assunse nuovamente, nella sua qualità di cancelliere, il compito di ideare la propaganda fiorentina. In questa congiuntura, essa non fu più ispirata al concetto della libertà d’Italia dagli stranieri e a quello della libertà repubblicana di Firenze – come durante il conflitto con la Chiesa –; ma poiché la Repubblica aveva adesso quali alleati il re di Francia e l’imperatore, il filo conduttore fu il tema tradizionale dell’opposizione tra guelfi e ghibellini e il contrasto tra governo legittimo, basato sulla legge, e governo tirannico, fondato sull’arbitrio. Alla fine, dopo essere stata sul punto di capitolare, circondata com’era dalle conquiste territoriali che Gian Galeazzo aveva fatto in Toscana, in virtù della subitanea morte del tiranno milanese nel 1402 Firenze uscì dal conflitto indenne e resa più forte dall’emergere di un vivo patriottismo.

Nella stessa epoca, in particolare dopo il 1394, allorché ad Avignone venne nominato Benedetto XIII, Salutati tentò, mediante numerose e notevoli epistole private indirizzate a vari importanti personaggi e ai papi, di dare il suo contributo alla fine dello scisma d’Occidente che, iniziato nel 1378, preoccupava profondamente la sua coscienza cristiana, suggerendo o l’abdicazione di tutte e due i pontefici o un riconoscimento reciproco in attesa della morte di uno di loro. I tentativi di Salutati di consigliare una soluzione per la conclusione dello scisma, tuttavia, si rivelarono senza esito.

Gli ultimi anni della sua esistenza furono rattristati dalla morte della moglie Piera (1396) e poi dei figli Andrea e Piero, quest’ultimo da lui preferito e già destinato a succedergli nella Cancelleria: tragici eventi che egli affrontò con cristiana rassegnazione, cercando aiuto spirituale nella fede in Dio e nella lettura di Dante. Anche l’avvenire degli altri figli gli creava delle preoccupazioni, nella consapevolezza di non lasciare loro un grande patrimonio. Salutati era inoltre rattristato dalla lontananza dei discepoli più cari e dai contrasti che a volte caratterizzavano le sue relazioni con alcuni di loro, soprattutto Poggio e Leonardo Bruni, i quali avevano un concetto più laico degli studia humanitatis. Bruni, tuttavia, gli rimase sempre profondamente affezionato e dopo la morte del maestro passò due canonicati, che il pontefice gli aveva assegnato, a uno dei figli di Coluccio, Salutato, di salute cagionevole e quasi cieco.

Dopo avere scoperto nel 1392 in un codice vercellese le Ad familiares di Cicerone, fino ad allora sconosciute, Salutati riuscì a far arrivare a Firenze il famoso studioso bizantino Manuele Crisolora. Questi, infatti, fu assoldato dalla Repubblica nel 1397, su iniziativa di Coluccio, per insegnare il greco in città; grazie all’insegnamento di costui molti tra i giovani discepoli di Salutati, come Bruni, furono in grado in tal modo di apprendere la lingua omerica e così egli contribuì in maniera fondamentale alla ripresa in Italia degli studi greci.

Tra il 1396 e il 1399, compose il De fato et fortuna, in cui da una parte mostrava l’infondatezza dell’astrologia giudiziaria e dall’altra esaminava il rapporto tra il libero arbitrio umano e la provvidenza, sostenendo la libertà del primo nonostante l’azione divina. Nel 1399 scrisse poi il De nobilitate legum et medicinae, affermando la superiorità della vita attiva e dello studio della legge su un’esistenza dedita a quello delle scienze naturali. Nel 1400 fu la volta del De tyranno, in difesa della decisione di Dante di porre Bruto all’Inferno: in questo trattato Salutati distingueva il tiranno ex defectu tituli da quello ex parte exercitii, concludendo, dopo un realistico esame della politica di Cesare, che questi non era stato né l’uno né l’altro. Nel 1403, infine, rispose alla esaltazione di Gian Galeazzo Visconti, fatta dal cancelliere milanese Antonio Loschi durante l’ultima guerra tra il suo signore e Firenze, con l’Invectiva in Antonium Luschum, in cui tra l’altro avanzava l’ipotesi delle origini repubblicane di Firenze che sarebbe stata fondata dai veterani di Silla.

La Repubblica mostrò la sua gratitudine per i servizi di Salutati concedendo a lui e ai suoi discendenti in linea maschile la cittadinanza fiorentina, decreto questo che avrebbe favorito la sistemazione dei suoi figli e dei nipoti. Infatti sia Bonifacio, figlio della prima moglie, sia il nipote Giovanni di Corrado cominciarono a lavorare in Cancelleria con Salutati, il quale provvide a che questa fosse nuovamente separata dalle Tratte. In tal modo Bonifacio fu nominato notaio di queste ultime il 1° giugno 1405, vedendosi assegnato un salario di ottanta fiorini l’anno e con il fratello Antonio quale coadiutore, e detenne l’ufficio fino alla morte, avvenuta nel 1413, allorché le Tratte furono di nuovo unite alle Riformagioni.

Caduto ammalato nel 1405, Coluccio parve riprendersi dopo una cura ai Bagni di Morba in Val di Cecina e riassunse il suo lavoro fino alla fine dell’aprile 1406; l’ultima lettera di Stato da lui personalmente vergata venne composta il 23 di quel mese, l’ultima fu scritta da un’altra mano il 30. Nel corso della sua lunga carriera di cancelliere Salutati non aveva mai accettato un altro ufficio, ma adesso i Signori, per fargli onore, stabilirono di porre il suo nome nelle borse destinate al sorteggio di tutti i più importanti uffici riservati ai notai e fecero in modo che egli fosse tratto loro notaio per il bimestre maggio-giugno. La carica, su domanda di Salutati stesso, fu esercitata dal nipote Giovanni, e fu deliberato che da quel momento in poi, qualora fosse tratta la cedola con il suo nome, l’ufficio venisse dato o a Giovanni o al figlio Antonio.

Salutati morì sul far della sera del 5 maggio 1406.

La mattina successiva il celebre predicatore Giovanni Dominici, dalle cui accuse Coluccio aveva poco prima difeso la poesia classica, che il pio domenicano giudicava inadatta all’educazione dei giovani, tenne un sermone in piazza dei Peruzzi, davanti alla casa dove Salutati aveva vissuto. In seguito, presenti tutte le magistrature cittadine e il popolo in piazza della Signoria, il notaio delle Riformagioni Viviano di Neri mise sulla testa del defunto la corona di alloro dei poeti e pronunciò un discorso funebre. Salutati aveva lasciato disposizione di venire seppellito in S. Romolo, la chiesa adiacente alla sua abitazione, a fianco delle tombe della moglie Piera e dei figli, ma i Signori decretarono che fosse sepolto, dopo una solenne processione, nel duomo.

Salutati non lasciò un grande patrimonio. Il lavoro di cancelliere gli aveva certamente permesso di guadagnare discrete somme di denaro (verosimilmente circa seicento fiorini l’anno), che egli non intese accrescere – come avevano fatto ser Niccolò Monachi e ser Piero di ser Grifo – assumendo altre cariche o tessendo intrighi. Non aveva investito notevoli somme nel Monte, il debito pubblico consolidato della Repubblica, né acquistato importanti proprietà fondiarie; preferì usare il denaro in maniera onesta per comprare libri e rendere migliore la vita a sé e alla propria famiglia; non acquistò neppure la casa in piazza dei Peruzzi. Con una decisione certo consapevole, in quanto notaio, non fece nemmeno testamento: tale rinuncia doveva infatti simboleggiare il suo completo distacco dalle preoccupazioni terrene, lasciando ai sopravvissuti il problema di dividersi i suoi beni.

Edizioni delle opere. Epistolae ex cod. mss. nunc primum in lucem editae a Iosepho Rigaccio, I-II, Florentiae 1741-1472; Invectiva Colucii Salutati reipublicae florentinae..., a cura di D. Moreni, Firenze 1826; Epistolario, a cura di F. Novati, I-V, Roma 1891-1911; Il trattato “De tyranno” e lettere scelte, a cura di F. Ercole, Bologna 1942; De nobilitate legum et medicinae. De verecundia, a cura di E. Garin, Firenze 1947; De laboribus Herculis, a cura di B.L. Ullman, Padova 1951; De saeculo et religione, a cura di B.L. Ullman, Florentiae 1957; De fato et fortuna, a cura di C. Bianca, Firenze 1985.

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