LITURGIA

Enciclopedia Italiana (1934)

LITURGIA (λειτουργία, o λῃτουργία)

Vincenzo ARANGIO-RUIZ
Umberto CASSUTO
Cuniberto MOHLBERG
Egidio CASPANI
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Nicola TURCHI

Presso i classici significa un servizio (ἔργον) intrapreso a favore del popolo (λεώς = λαός), generalmente molto dispendioso, che i cittadini più ricchi prendevano a loro carico. Nella grecità più tarda λειτουργία (nel Nuovo Testamento anche λιτουργία) significò qualunque ufficio pubblico. Nella versione greca della Bibbia, detta dei Settanta, λειτουργία indica quasi sempre il servizio di culto prestato dai sacerdoti e dai leviti, e più particolarmente quello del sacrifizio. Spesso il verbo λειτουργεῖν è usato come sinonimo di ἱερατεύειν. Quest'uso passò nel Nuovo Testamento per significare il sacrifizio di Cristo e il culto cristiano. Nella chiesa greca λειτουργία, dal tempo antico (cfr. Constit. apost., 8, 6) fino a oggi, significa la celebrazione del sacrifizio eucaristico e nello stesso tempo si applica in senso più esteso al complesso di cerimonie religiose pubbliche compiute da chi è insignito di ordini sacri.

La liturgia greca.

Liturgia, come si è detto, è, nel mondo greco, una prestazione imposta dallo stato all'individuo, allo scopo di soddisfare un pubblico interesse. In un senso assai vasto, l'espressione si adatta a ogni specie di sacrificio di attività o di danaro, dalle magistrature gratuite al servizio militare, specie per il soldato delle classi superiori che di regola è tenuto a procurarsi a sue spese il cavallo o l'armatura; ma la terminologia più rigorosa riserva il nome di liturgia a prestazioni che importano una spesa considerevole e che sono imposte più o meno saltuariamente a cittadini delle classi superiori. L'istituto, che può rassomigliarsi a un'espropriazione per pubblica utilità, trova la sua giustificazione nello scarso sviluppo del sistema tributario: colpendo a turno i cittadini più abbienti (Demostene calcolava, per l'Atene dei suoi tempi, 60 liturgie ordinarie e 1200 cittadini capaci di sopportarle), il carico avrebbe dovuto distribuirsi equamente; ma è facile pensare alle iniquità cui praticamente davano luogo la difficoltà di valutazione dei patrimonî e il giuoco delle amicizie e delle inimicizie politiche.

L'istituto era egualmente diffuso in tutte le città (se ne ha il ricordo per 90, fra cui Mitilene, Corinto, Orcomeno, Delfi, Rodi); ma è naturale che le notizie siano assai più abbondanti nei riguardi di Atene. Ivi i liturgi sono designati ogni anno in numero eguale da ciascuna tribù, e definitivamente investiti dall'arconte competente o dagli strateghi: l'unica limitazione legale è che un cittadino non può essere caricato di due liturgie nello stesso anno o in due anni successivi. Il designato poteva evitare il carico anche mediante l'antidosi, designando cioè un cittadino più abbiente e offrendo a questo, in caso di resistenza, uno scambio dei patrimonî rispettivi; rimedio al quale effettivamente si è fatto ricorso in qualche caso, ma che presentava troppi rischi per essere frequentemente applicato. Vi erano anche cittadini che, per desiderio di popolarità o per devozione alla cosa pubblica, si offrivano spontaneamente ogni anno.

Vi sono liturgie periodiche (ἐγκύκλιοι) da prestarsi tutti gli anni, e liturgie di guerra. Ricordiamo fra le prime la coregia, apprestamento di cori per i pubblici spettacoli; la ginnasiarchia, addestramento di giovani e provvista di materiali per i giuochi ginnici, specialmente per le corse alle fiaccole; l'estiasi (ἑστίασις), offerta di una banchetto al demo o alla tribù cui il liturgo appartiene; l'arciteoria, organizzazione e accompagnamento di una processione che rappresenti la città in una delle grandi feste nazionali. Più onerosa era la trierarchia, imposta in tempo di guerra a numerosi cittadini: si trattava di armare ed equipaggiare a proprie spese una trireme di cui la città forniva la carcassa, di condurla in guerra e di conservarla in buono stato. La prestazione di questa liturgia costava all'incirca un talento, somma esorbitante in un'epoca (V e IV sec. a. C.) in cui dieci talenti rappresentavano un patrimonio dei più cospicui: è dunque facile intendere come durante la guerra del Peloponneso la frequente imposizione della trierarchia abbia condotto alla rovina molte famiglie nobili. Si rimediò dapprima affidando ogni trireme alle cure di due cittadini solidalmente responsabili, poscia, per mettere a contributo anche più modeste fortune, si creò (357 a. C.) il sistema delle simmorie, che distribuiva tutti gli abbienti in tanti gruppi quante erano le navi da armare; infine (340 a. C.), si dovette accogliere la proposta di Demostene, che entro le simmorie ciascuno contribuisse in proporzione dei suoi averi. Così finalmente la liturgia si trasformava in imposta.

Non sembra che il sistema delle liturgie esistesse nelle monarchie ellenistiche: organizzate come regni dispotici (βασιλεῖαι), non hanno riguardi nell'attingere direttamente al patrimonio dei sudditi quanto occorre alle pubbliche spese. Il sistema rimase, invece, specie ai fini dell'attività dei ginnasî e delle cerimonie religiose, nelle città greche autonome di cui i varî territorî erano intramezzati.

Non può quindi far meraviglia se la prima menzione delle liturgie che ricorre in un documento romano si trova proprio nell'editto di Augusto ai Cirenei (7-6 a. C.), di cui è per l'appunto destinatario un paese tutto ordinato in città greche, riunite - come dallo stesso e da altri documenti si ricava - in stretta federazione. L'editto dimostra la cura che i Romani mettevano nell'assicurare alle città la continuazione delle liturgie: alla domanda dei provinciali ammessi alla cittadinanza romana, che conseguentemente chiedevano di esserne esenti, l'imperatore risponde con un diniego; e perfino le precedenti concessioni individuali d'immunità sono interpretate restrittivamente, cioè nel senso che l'esenzione resti limitata ai soli beni posseduti al momento in cui la concessione era stata fatta.

Appartiene del resto ai Romani l'idea di applicare il sistema delle liturgie all'amministrazione delle provincie. A questo fine i giuristi hanno elaborato la teoria dei munera, distinguendoli in m. personae e m. patrimonii e stabilendo alcune esenzioni (ad es., per i minorenni, per i vecchi in età superiore - secondo le provincie - ai 60 o ai 70 anni, per i medici, gli atleti, i veterani).

Grazie ai papiri d'Egitto, possiamo assistere, dalla fine del secolo I d. C. in poi, al dilagare delle liturgie. Esse fanno parte, d'altronde, di un sistema di coazione che si fa di generazione in generazione più intollerabile: coazione sui contadini, per obbligarli a prendere in affitto dallo stato anche le terre più difficili da dissodare; coazione sui cittadini più eminenti perché assumano le funzioni di comando, ἀρχαί, che dalle liturgie si distinguono soltanto per il conferimento di un certo barlume di dignità. Ai fini delle liturgie, e servendosi probabilmente dei libri dei possessi tenuti in ogni metropoli di distretto, si tengono al corrente le liste delle persone aventi un determinato reddito, πόρος, e dette perciò εὔποροι: da queste liste i funzionarî dei capoluoghi e le corporazioni dei villaggi traggono i nomi da proporre alle autorità superiori, e queste provvedono (in seguito a sorteggio, se i nomi proposti sono parecchi) all'imposizione. L'organizzazione cittadina elargita nel III secolo ai capoluoghi dei distretti (μητροπόλεις), con le loro curie o senati (βουλαί) e le loro file (ϕυλαί), ebbe appunto lo scopo di meglio assicurare il funzionamento delle liturgie aventi a oggetto la percezione delle imposte e i lavori pubblici: la designazione dei cittadini capaci è affidata appunto alle βουλαί e ai capi delle file (ἀμϕοδάρχαι), e i partecipi di questi pubblici uffici sono solidalmente responsabili insieme coi liturgi designati: più volte vediamo inflitta la liturgia all'anfodarca che ha designato persona non in grado di sostenerla.

La crisi economica del sec. III e dei seguenti non poteva non influire sinistramente sul sistema: di mano in mano, tutti quelli che erano stati impieghi pubblici retribuiti si trasformavano in liturgie, e i sacrifici personali che si pretendevano dagli assuntori di pubblici servizî e dai loro corresponsabili erano sempre più grandi. I papiri offrono numerose testimonianze di tentativi di sfuggire alle curie e alle liturgie mediante l'emigrazione, di carichi spietatamente imposti anche a uomini che avevano superato i 70 anni, di disgraziati che offrivano larghe frazioni del loro patrimonio per essere esentati da questa o quella liturgia: al tempo di Giustiniano un benestante è stato ridotto a tale da dover dare in pegno per un solido la sua figliola (Pap. Cairo Masp., I, 67023). Anche prima che i papiri ci offrissero tanti particolari, sapevamo che per trovar cittadini disposti a farsi iscrivere nelle curie si era dovuto fare dell'oblatio curiae un modo di legittimazione dei figli naturali.

Non è quindi esagerata l'opinione che il sistema delle liturgie abbia per gran parte contribuito alla distruzione della borghesia greco-romana, gíà tanto favorita dai Tolomei e dai primi imperatori, e alla riduzione della popolazione della provincia a una massa di servi della gleba posti sotto la ferula di pochi signori feudali.

Bibl.: G. Busolt, Griechische Staatskunde, in Müller, Handbuch der Altertumswissenschaft, IV, ii, Monaco 1928, pp. 1218 seg.; P. Jouguet, La vie municipale dans l'Égypte romaine, Parigi 1911, p. 97 segg. e passim; O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, I, Lipsia 1885, p. 603 segg.; E. Kuhn, Städtische und bürgerliche Verfassung des römischen Reiches, I, Lipsia 1864, p. 35 segg.; Ch. Lécrivain, Munus, in Daremberg e Saglio, Dictionn. des antiq. gr. et rom., III, ii, 1926, p. 2038 segg.; A. Martin, Leitourgia, ibid., p. 1095 segg.; J. Öhler, Leitourgie, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XII, Stoccarda 1925, col. 1871 segg.; F. Örtel, Die Liturgie: Studien zur Verwaltung Aegyptens, Lipsia 1917; F. Preisigke, Liturgie und Grundbuch, in Klio, XII (1912), p. 452 seg.; A. v. Premestein, Die fünf neugefundenen Edikte des Augustus aus Kyrene, in Zeitschr. d. Savigny-Stiftung, XLVIII (1928), pagine 466 segg.; M. Rostovtzeff, Storia economica e sociale dell'Impero Romano, trad. it., Firenze s. a. (1933), p. 434 segg.; U. Wilcken, Grundzüge u. Chreston der Papyruskunde, Lipsia 1911, I, p. 339 segg.

Storia delle religioni.

Dal significato originario il termine λειτουργίαsi è poi ristretto a designare le funzioni religiose in quanto sono manifestazioni del culto pubblico reso alla divinità da un dato gruppo. Essenziale dunque nella liturgia non è tanto l'individuo singolo o il ministro interprete del gruppo, quanto il gruppo stesso.

La liturgia presuppone due elementi fondamentafi: l'azione o gesto (detto "rito manuale" dalla scuola sociologica, δρώμενον dai Greci) e la parola ("rito orale", λεγόμενον). L'equilibrio di questi due elementi dipende dal grado culturale del gruppo. Nelle società meno progredite ha uno sviluppo maggiore l'azione, grazie alla quale il primitivo esprime in forma spontanea, naturalmente mimetica, quello che desidera o che vuol deprecare, dando al suo gesto un valore di efficienza magica. I riti agrarî intesi ad assicurare il ritmo della vegetazione e la riproduzione del bestiame, i riti venatorî per provocare una buona caccia, i riti di passaggio per garantire il felice trapasso da una situazione all'altra della vita familiare o sociale riproducono tutti mimicamente l'azione che intendono conseguire. La parola, in questi casi di rituale magico, è breve e imperativa e serve anch'essa a provocare il fatto in associazione col gesto, e a commentarlo alla massa che vi aderisce con parole di approvazione o di giubilo (del tipo amen, alleluia, ecc.).

La liturgia in quanto azione è dunque eminentemente drammatica e tanto più quanto più sono miticamente sviluppate le figure divine che stanno al centro dell'atto liturgico. La liturgia, in questo caso, riproduce con mimica più o meno simbolica i fatti salienti relativi alla storia di questa figura divina, non soltanto per rinfrescarne la memoria in seno al gruppo, ma anche per rinnovarne, in maniera mistico-magica, gli effetti benefici che la prima volta ne vennero al gruppo stesso. Tutto ciò è ben visibile nelle religioni di mistero dove gl'iniziati, assistendo alle celebrazioni periodiche, rinnovano la loro provvista di santità e riattivano l'unione col dio con il quale si sono assimilati.

Accanto all'azione sta la parola, la quale, come espressione del pensiero, tende ad assumere, sotto varie forme, uno sviluppo sempre maggiore, specie nelle civiltà più evolute. Queste forme sono: 1. la formula imperativa o deprecatoria di tipo magico; 2. la preghiera con invocazione del dio, sue lodi per captarne la benevolenza, richiesta con promessa di ricambio (do ut des), elevazione spirituale; 3. la narrazione, di carattere mitico o teologico, di storie o leggende relative all'azione che si compie. Questa narrazione, inframmezzata talora da passi di carattere parenetico, viene fatta sui codici o libri sacri, nelle religioni che li possiedono. Il gruppo prende parte anch'esso all'azione mediante parole che da semplici formule o giaculatorie si sviluppano in cantici, salmi, inni, talora di grande bellezza, accompagnati dal suono di appositi strumenti ed eseguiti da un personale addestrato. In tutte le liturgie organizzate l'associazione della parola all'azione è essenziale nel momento culminante dell'azione sacra, anzi è questa coincidenza che realizza misticamente in mezzo al gruppo il significato sacro della cerimonia.

Così, nei misteri eleusini, gl'iniziandi, dopo aver ripetuto, appresso al daduco, la ricerca affannosa che Demetra fa, con la fiaccola, della figlia Core rapita, a un dato momento - in coincidenza con il racconto del mito che narrava della bevanda di ciceone gustata dalla dea dietro offerta della famiglia di Celeo - sumevano il ciceone e toccavano oggetti sacri (τὰ ἱερά) realizzando così la loro figliolanza con Demetra e gioivano infine, con lo squassamento delle fiaccole, per il ritrovamento di Core.

In tutti i gruppi che hanno sedi di culto fisse e organizzate, la liturgia si divide in giornaliera e periodica. La giornaliera si riduce al servizio quotidiano del tempio, alla toletta del dio e del suo tabernacolo, a tenere il luogo aperto ai fedeli. La periodica ha luogo in varî tempi dell'anno, in genere in coincidenza con il ritmo delle stagioni, con l'anniversario di vicende storiche della vita del gruppo, o di avvenimenti storici o mitici del dio o dell'eroe patrono del gruppo. Così nel calendario sacro egiziano si rappresentava la morte di Osiride, il ritrovamento del suo corpo e la sua risurrezione (Inventio Osiridis, 12-14 novembre); nei misteri di Attis dal 15 al 27 marzo si celebrava il lutto per la morte (Sanguem) e la risurrezione del dio (Hilaria). Questa periodicità è indispensabile per rinnovare nel gruppo il senso dell'unione sociale, per richiamare le idee e i fatti che hanno presieduto alla sua costituzione e rafforzare la compagine ideale del gruppo stesso. Senza questo richiamo periodico e senza il dosaggio sapientemente disciplinato di parole e di gesti che la liturgia compie, si avrebbero manifestazioni individuali sregolate e intemperanti, destinate a esser prive di valore normativo.

I documenti liturgici delle varie religioni antiche (Egitto, Babilonia, Grecia, Roma) non ci sono disgraziatamente pervenuti. Conosciamo lo svolgimento di talune solenni festività di questi popoli, ma non ne possediamo né le formule né le rubriche, salvo qualche monco frammento che non possiamo ricollocare se non congetturalmente al momento preciso dell'azione liturgica, eccettuando, per Roma, la preghiera alle Moerae nella celebrazione dei Ludi secolari e il carme dei Fratelli Arvali: entrambi conservati da lapidi. Questa perdita si spiega considerando che ogni religione vittoriosa, specialmente se a carattere dogmatico, tende a sopprimere tutti gli elementi di culto anteriori incompatibili con la propria visuale, limitandosi solo a incorporare il lato esterno di riti e di cerimonie che, data la consuetudine del popolo, non sarebbe possibile sopprimere radicalmente.

Liturgia giudaica.

È il complesso delle funzioni del culto sinagogale (ebraico ‛ăbōdāh, a cui già nelle traduzioni greche di alcuni libri della Bibbia corrisponde il vocabolo λειτουργία, ovvero tĕfillāh, "preghiera", in senso generico), quale si venne costituendo dopo che, distrutto il Santuario di Gerusalemme nell'anno 70 d. C., e cessato il culto sacrificale, l'istituto, già in germe preesistente, della preghiera pubblica integrata dalla lettura di testi biblici assunse più ampio sviluppo e acquistò importanza fondamentale nella vita religiosa del giudaismo.

Oltre all'antichissimo uso liturgico dei Salmi, sempre continuatosi nel Santuario di Gerusalemme, era venuto a poco a poco formandosi, in seno alla comunità giudaica postesilica, un costante sistema di preghiere e di letture di testi biblici in accompagnamento dei sacrifizî. A quando precisamente esso risalga non è possibile determinare; certo è che almeno negli ultimi tempi del Santuario la compagnia sacerdotale di turno soleva ogni mattina intrammezzare le funzioni sacrificali con la lettura di determinati testi biblici, cioè il Decalogo e la professione di fede, ShĕmaYisrā'ēl (Deut., 6, 4-9; 11, 13-21; Num., 15, 37-41), inquadrati da due eulogie, e con la recitazione di una breve preghiera, e che le rappresentanze (maămādōt) della compagnia di turno della popolazione (tutta la popolazione giudaica della Palestina era divisa, come i sacerdoti e i leviti, in ventiquattro compagnie, di turno ciascuna per una settimana una volta ogni semestre) assistevano quotidianamente ai sacrifizî e si riunivano per pregare e per leggere i libri sacri in comune quattro volte al giorno (la mattina probabilmente insieme coi sacerdoti), mentre i loro rappresentati si riunivano analogamente per lo stesso scopo nelle sinagoghe locali. A poco a poco l'uso della preghiera quotidiana si diffonde e si fa continuativo, anche all'infuori del turno suindicato, e in ogni centro abitato una sinagoga raccoglie i fedeli nella mattina e nel vespro, all'inizio e al termine della giornata lavorativa, in corrispondenza coi due sacrifici quotidiani. Dai due elementi della surrimrdata funzione sacerdotale si sviluppano le due parti essenziali della preghiera pubblica sinagogale: la professione di fede, lo Shĕma Yisrā'ēl con le sue eulogie d'introduzione e di conclusione (l'uso della recitazione del Decalogo è presto abbandonato), e la tĕfillāh, o "preghiera" in senso ristretto. Nel sabato e nelle feste si aggiunge la lettura di passi del Pentateuco e dei Profeti, e anche nei giorni di mercato (lunedì e giovedì) in cui convengono nelle città gli uomini della campagna, si dedica qualche minuto alla lettura di passi del Pentateueo. Il culto sinagogale si diffonde anche nella diaspora, ove forse è da prima limitato ai soli giorni del sabato e delle feste: gran parte naturalmente è ivi data all'esplicazione dei testi biblici in greco; ma i testi stessi sono probabilmente letti in ebraico. La diffusione e la stabilità del culto sinagogale fecero sì che la vita religiosa del giudaismo non risentisse dalla distruzione del Santuario una scossa così grave come altrimenti avrebbe risentito. I sacrifizî cessano, ma la preghiera che li accompagnava resta e li sostituisce.

Già nell'età dei Tannaiti (70-220 d. C. circa) s'inizia il processo dell'ordinamento sistematico della liturgia. Alle due preghiere quotidiane, della mattina e del vespro, se ne aggiunge una terza, quella della più tarda sera, in quanto che quello che era prima atto di devozione privato inteso a impetrare da Dio la protezione dai pericoli della notte acquista a poco a poco carattere ufficiale. Nel sabato e nelle feste si aggiunge una preghiera in più dopo quella mattutina, in ricordo del sacrifizio aggiuntivo (mūsāf); nei digiuni pubblici si aggiunge dopo la preghiera vespertina quella di chiusura (īlāh), già praticata nell'epoca del Santuario dai maămādōt. Elemento costante di tutte quante le preghiere è la tĕfillāh; di quelle della mattina e della sera lo Shĕma‛ con le sue eulogie (due d'introduzione e una di chiusa la mattina, due e due la sera). L'ordine e il contenuto delle eulogie costituenti la consueta tĕfillāh, in numero di diciotto (shĕmōnēh esrēh) venne definitivamente determinato verso la fine del sec. I d. C. da Gamaliel II; pare che già fin d'allora il loro numero fosse limitato a sette in ogni tĕfillāh del sabato e delle feste, eccettuata quella del mūsāf del capo d'anno, che ne aveva nove. Però il testo preciso non era ancora fisso: la forma dell'espressione era lasciata alla volontà del celebrante. Le letture del Pentateuco e dei Profeti rimasero fissate nei giorni suindicati. Nell'età degli Amorei (secoli III-V d. C.) alcuni dei testi liturgici cominciarono ad assumere forma definitiva, e la liturgia venne alquanto ampliata, con aggiunta di altri testi biblici e di nuove preghiere, alcune delle quali in forma poetica. Nella Babilonia, che in questo periodo divenne un importantissimo centro culturale giudaico, lo sviluppo della liturgia fu alquanto diverso da quello della Palestina, e si ebbero così i due diversi riti, palestinese e babilonese: notevole soprattutto in Babilonia l'aggiunta alla tĕfillāh di una diciannovesima eulogia, per la restaurazione della dinastia davidica, che poi fu accolta dovunque, pur restando alla tĕfillāh la denomìnazione di shĕmōnēh esrēh, o "diciotto" eulogie. Nell'età dei Saborei (sec. VI) i testi liturgici vennero fissati per iscritto. Verso il 550 può considerarsi chiuso il periodo dello sviluppo delle preghiere fondamentali.

Come ulteriore ampliamento del formulario delle preghiere, comincia a svolgersi, a partire probabilmente dalla seconda metà del see. VI, un nuovo tipo di poesia liturgica, le cui composizioni, pur intercalandosi nelle preghiere fondamentali, non acquistano un generale riconoscimento ufficiale, ma sono usate a beneplacito del celebrante o della comunità, e rappresentano l'elemento variabile della liturgia giudaica. Essa sta, a quanto sembra, sotto l'influsso della poesia bizantina (è infatti designata con un termine d'origine greca, piyyūṭ [plur. piyyūṭīm], nome d'azione da payṭān, "poeta", cioè ποιητής) e di quella siriaca; poi si aggiunge anche l'influsso di quella araba. L'epoca della fioritura del piyyūṭ continua fino al sec. XVI. Specialmente le differenze nell'uso dei piyyūṭīm, oltre a tenui differenze nei testi delle preghiere fondamentali, vengono a costituire i varî riti che si diramano dagli antichi di Palestina e di Babilonia: particolarmente collegati col palestinese sono il greco, l'italiano, l'antico francese, il tedeseo, e col babilonese lo spagnolo e l'yemenita: una posizione intermedia ha quello provenzale. Ognuno di questi riti principali (per tacere dei secondarî) ebbe numerose varietà nel tempo e nello spazio; maggiore fissità si ebbe quando l'invenzione della stampa permise la moltiplicazione dei formularî liturgici. Nelle varie cerchie del giudaismo riformato (v. ebrei: Religione) sono state adottate modificazioni più o meno profonde dalla liturgia, ne sono state soppresse o semplificate alcune parti, ed è stata sostituita, completamente o in vasta misura, la lingua del paese all'ebraico.

Tra i principali atti simbolici della liturgia che accompagnano la preghiera possono esser ricordati: il 1° dell'anno il suono della buccina (shōfār) antica forma di proclamazione della regalità di Dio; nella festa delle capanne (Sukkōt) l'uso del mazzo festivo (lūlāb) e la processione intorno al pulpito del celebrante; le cerimonie di lutto nel digiuno del 9 del mese di Āb, in ricordo della distruzione del santuario di Gerusalemme.

Bibl.: I. Elbogen, Der jüdische Gottesdienst in seiner geschichtlichen Entwicklung, 3ª ed., Francoforte sul Meno 1931; E. Schubert e Christaller, Der Gottesdienst der Synagoge, Giessen 1927; W. Rosenau, Jüdische Sitten und gottesdienstliche Gebräuche, Berlino 1929; H. L. Strack e P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament, IV, Monaco 1928, pp. 115-249.

Liturgia cristiana.

Nel cristianesimo antico liturgia e comunità sono due idee connesse strettamente tra loro, poiché la liturgia può avere luogo solamente in una comunità e a vantaggio d'una comunità.

La formazione concreta della liturgia è caratterizzata e determinata da due motivi: dalla necessità di fissare in forme adatte la vita e la professione della religione, che per sé non hanno forma né regola per poterle tramandare; e dal desiderio di rappresentare il contenuto religioso in maniera visibile e drammatica. Come in ogni liturgia, si trovano sempre due elementii collegati tra loro: la parola e l'azione. Nella parola si ha la forma più semplice, ch'è la descrizione che accompagna l'azione, poi il cantico e la preghiera. Parte essenziale della liturgia è l'invocazione della divinità (epiclesi, benedizione, consacrazione). Una forma ulteriore della parola è l'iniziazione ai misteri (catecumenato), in cui la parola assume la forma di predica per annunziare il messaggio della salvezza, oppure la forma di lettura di testi sacri. Alla parola nella liturgia si riporta la tendenza, cumune a tutte le religioni, a foggiarsi un linguaggio culturale, sia per secondare la pietà, sia per tener distinto ciò che riguarda il culto da ciò ch'è della vita comune. Infine la soppressione della parola può richiamare l'attenzione col silenzio, indicante preghiera e unione. Alla parola fa riscontro l'azione. Sono sempre azioni tipicamente espressive: gesti di preghiera, inchini di capo, prostrazioni, genuflessioni, processioni, ecc. Quindi l'azione liturgica rappresenta simbolicamente la storia della salvazione (dramma liturgico), a cui si ricollega l'idea tipica dei misteri, poiché nell'azione del culto non v'è solo un ricordo, ma la ripetizione attuale del fatto storico (culti dei misteri). Il centro di tutte le azioni cultuali è il sacrifizio: soprattutto per esso è sorta la grande molteplicità delle cerimonie rituali.

Primi sviluppi. - Una sommaria liturgia cristiana è contenuta negli Atti, II, 46-47, da cui risulta che i primi cristiani di Gerusalemme usavano ancora assistere alle preghiere israelitiche del tempio e che solevano tenere in casa le agapi eucaristiche. Nella diaspora poi, invece dell'intervento alla sinagoga, si stabilì la predica cristiana insieme con la preghiera (Atti, XXI, 7-12). Con i Salmi passarono nel culto cristiano altre forme giudaiche di preghiera; così la preghiera in tre tempi della giornata consisté dapprima nella recita del Pater noster tre volte al giorno e più tardi nella preghiera liturgica quotidiana. La prima parte della messa (letture, preci, canti) si basa sul servizio religioso delle sinagoghe nella mattina del sabato. Dalla liturgia giudaica nel seno della famiglia derivano i cantici cristiani più antichi, in ringraziamento di tutti i benefizî divini (cfr. il Prefazio della Messa); ma è prettamente cristiana la recita del racconto dell'istituzione dell'Eucaristia dai testi combinati di Matteo, XXVI, 26-29 e I Cor., XI, 23-25. Quando il cristianesimo penetrò nel mondo ellenistico, che aveva sue costumanze e molti culti di misteri, dovette subirne l'influenza nello sviluppo della sua liturgia. Di tal genere è, per es., una preghiera generica d'intercessione di cui le Costituz. Apost., 8-10, ci porgono il primo modello: il diacono recita delle preci per i bisogni della comunità e i fedeli rispondono col Kyrie eleison. La liturgia ambrosiana ha adottato questa forma di preghiera evidentemente sotto l'influenza della liturgia orientale, alla quale fanno pure pensare le litanie dei santi. Un tipo analogo di preghiera si trova, per es., nella iscrizione del tempio di Zeus a Magnesia sul Meandro (principio del sec. II a. C.). L'uso di porgere ai neobattezzati latte e miele dopo la comunione, tramandatoci dal rituale egiziano attribuito ad Ippolito (Const. eccl. aegypt., c. 16, 22) e conservatosi a Roma fino al secolo VI (Sacramentarium Leonianum, in Patrol. Lat., LV, 40), è attestato espressamente per i misteri di Attis e probabilmente per il culto di Dioniso nell'Italia meridionale nel sec. III e IV a. C., e forse non fu estraneo alla religione d'Iside. L'antica usanza d'incoronare la sposa, in origine per allontanare l'influsso dei demonî, si ritrova nella cerimonia del matrimonio in tutte le chiese orientali. Se, a differenza di tutte le altre liturgie, solo la romana, tra le altre cerimonie del battesimo, ha quella dell'unzione dei lobi delle orecchie e del naso con la saliva, ciò fa ripensare all'uso analogo praticato dalle nutrici romane nel sec. I d. C., e attestato da Persio (Sat., II). È certo a ogni modo che idee e usanze popolari sono passate in formule e cerimonie religiose, quantunque sia spesso difficile indagarne il processo storico. (V. in proposito H. Delehaye, Les légendes hagiographiques, 2ª ed., Bruxelles 1906, pp. 168-240; Les origines du culte des martyrs, 2ª ed., Bruxelles 1933, pp. 404-417, ove sono indicate esagerazioni da evitare in proposito).

origine dei formularî e dei libri liturgici. - Dopo la Bibbia, da cui la liturgia prese canti e lezioni (vangeli, lettere apostoliche), abbiamo nel sec. I la Didachè, che contiene determinate formule liturgiche. Secondo la descrizione di Giustino, chi dirige la cerimonia liturgica prega ὅση δύναμις αὐτῷ.' (Apolog., I, 67, 5), sicché non ha limitazioni né quanto al tenore né quanto all'estensione della sua preghiera. Secondo Origene (Contra Celsum, VI, 40), Celso vide presso i sacerdoti cristiani alcuni libri barbari con nomi e racconti demoniaci; si è discusso se si trattasse di dittici o d'esorcismi, ma, comunque sia, certo erano elenchi di nomi di vivi e di defunti, di chiese e di pastori, di cui si faceva memoria nelle preghiere liturgiche; forse erano anche preci approvate per i catecumeni e per le comunità di fedeli, e norme per i lettori e cantori. Tutte queste parti avevano valore unicamente per il distretto ecclesiastico ove erano state redatte, e le loro raccolte continuavano fino a che la chiesa si estendeva, e allora le chiese filiali ricevevano dalla chiesa matrice i testi da essa raccolti. Il sec. III ci ha conservato il più antico rituale della chiesa romana con la liturgia detta "egiziana". Alla fine del sec. IV si raccoglievano nella Siria le formule liturgiche che venivano incorporate nella più grande raccolta giuridica della chiesa antica. La prima collezione di formule della liturgia romana, che risale a S. Simmaco (498-514) e a S. Leone I (440-461), ci è stata conservata nel cosiddetto Sacramentarium Leonianum. Per la storia della composizione di nuove formule e della raccolta delle antiche è di gran valore l'informazione dataci da Giovanni Archicantor; oltre ai due pontefici ora citati, egli nomina S. Damaso (366-384) per la sistemazione delle pericope, Bonifacio II (530-532) per il canto ecclesiastico, S. Gelasio (492-496) per le preci della messa, Giovanni I (523-526), S. Gregorio Magno (590-604), S. Martino I (649-655) e tre abati di S. Pietro: Catoleno, Mariano e Virbono. Gennadio (De scriptoribus eccles., 78-79) ricorda come raccoglitori di formule liturgiche per la Gallia Museo di Marsiglia, e per l'Africa Voconio di Castellum; per Ravenna e il periodo dal 546 al 567 Agnello da Ravenna (Liber pontificalis) ci tramanda il nome di Massimiliano. Si può concludere che, sebbene anche fino al sec. III la preghiera si sia mantenuta libera da formule fisse, pure siffatte formule spuntano già dai primi tempi, p. es., nella Didachè. Lo sviluppo pare che abbia proceduto quasi di pari passo in Oriente e in Occidente.

La prima descrizione d'una liturgia cristiana è stata tramandata da Giustino (Apolog., I, 65-67) circa il 150, e si riferisce a Roma. Le riunioni liturgiche hanno luogo la domenica: si leggono i Commentaria Apostolorum o gli Scritti dei Profeti, quoad licet per tempus, con istruzioni fatte da chi presiede alla cerimonia; poi i fedeli si alzano in piedi per fare la preghiera in comune, e dopo questa si scambiano il bacio di pace. Quindi i diaconi presentano il pane, il vino e l'acqua al celebrante, il quale vi pronunzia sopra le preci di ringraziamento (eucharistia) e il pane e il vino si tramutano nel corpo e nel sangue del Signore. Alla fine i fedeli rispondono Amen e ricevono le specie, che i diaconi porgono a ciascuno di essi e portano agli assenti. Giustino, come già la Didachè, chiama questa celebrazione un "sacrifizio" (ϑνσία) che i cristiani per "comando" del Signore offrono a Dio "in memoria della sua passione" (Dial., 41, 70, 117). Così in Giustino si hanno già le due parti essenziali della messa orien. tale e occidentale: ossia la messa dei catecumeni (lettura e predica, a cui potevano prender parte anche i non battezzati, e la messa dei fedeli, celebrazione del mistero eucaristico, riservato ai battezzati. Il testo di questi "eucharistia" si ritrova, poco dopo il 200, nel rituale d'Ippolito. A un dialogo segue quasi sempre la preghiera eucaristica col trisagio, e poi la narrazione dell'istituzione dell'eucaristia, dalle cui ultime parole si è svolta l'anamnesi, che fa rilevare il carattere di memoriale e il sacrifizio. Viene appresso, nell'"epiclesi", la preghiera che sulle specie discenda lo Spirito Santo. Dopo l'epiclesi, nei primi tempi, era inserita una seconda preghiera impetratoria seguita dal Pater noster. Una forma simile a questa romana primitiva si conservò per lungo tempo nelle Gallie, nella Spagna e nell'Irlanda. A Roma, forse nel sec. VI, avvenne una riforma del testo, che sconvolse la compagine organica della messa e ne tolse via l'epiclesi. Il canon missae, che venne così a formarsi, era già fissato verso il 600, e da allora a oggi è rimasto quasi invariato. Il più antico rituale per il battesimo si può desumere già da Tertulliano, principalmente dal suo De baptismo che ne è il trattato più antico. Non molto più tardi, nel rituale egiziano d'Ippolito, si ha il formulario più antico, con un interessantissimo interrogatorio per i candidati al battesimo (c. 10-16). Dal sec. IV, oltre a occasionali descrizioni del servizio divino (Cirillo di Gerusalemme, la pellegrina Eteria, Giovanni Crisostomo), troviamo un'ampia citazione nella liturgia Clementina del libro VIII delle Costituzioni Apostoliche (c. 5-15), che è un formulario completo del servizio religioso della domenica; il libro VII contiene (c. 39-45) una liturgia battesimale, mentre nel libro II si riporta una lunga preghiera di lode e di ringraziamento (c. 33-38), una norma per l'istruzione dei catecumeni e sul modo d'amministrare il battesimo (c. 39-45), e dopo un elenco dei vescovi consacrati dagli Apostoli (c. 46) tre altre preghiere del mattino, della sera e della mensa (c. 47-49). Ciò che si riferisce nel libro II intorno alla casa di Dio e alle riunioni per il servizio religioso (c. 57) e il trattato sulle solennità e i giorni festivi (c. 13-20) sono uno svolgimento delle didascalie apostoliche ch'ebbero origine in Siria o Palestina nella seconda metà del sec. III.

Differenziazioni. - Dal sec. IV al VII il culto si sviluppa e dà origine a diverse famiglie liturgiche: tale sviluppo è dovuto alla pompa sempre maggiore nelle cerimonie da Costantino in poi, alla necessità di accorciare i testi delle preghiere, e al bisogno di accordare la liturgia con le formule di fede dei concilî, facendo servire la liturgia ai fini dell'insegnamento dogmatico. Mentre in Occidente sui testi liturgici si faceva sempre più sentire l'influenza dell'anno ecclesiastico, in Oriente i formularî liturgici erano trasportati in un ambiente nuovo con la formazione delle sette del sec. V e VI. Ma ovunque le differenziazioni liturgiche locali andavano man mano scomparendo, sostituite dai formularî provenienti dai centri principali, fra cui sono da annoverarsi le sedi patriarcali di Antiochia, Alessandria e Roma. Così si formarono grandi territorî liturgici, che s'influenzarono grandemente a vicenda.

I. Le liturgie orientali hanno conservato assai fedelmente l'aspetto primitivo e rivelano l'influenza dell'anno ecclesiastico solamente nelle lezioni della S. Scrittura e in piccoli brani di cantici. Il nucleo di queste liturgie è costituito dall'"anafora" (preghiera d'oblazione e prefazio) in cui il contenuto delle formule varia secondo le solennità e i tempi festivi, senza tuttavia dipendere da essi strettamente. Si possono distinguere 5 diversi territorî liturgici orientali, di estensione diversa.

1. Tipo liturgico siriaco-occidentale con la lingua liturgica primitiva greca. a) Antiochia. Le liturgie usate originariamente in questa provincia cominciarono con la liturgia Clementina del libro VIII delle Costituzioni apostoliche, ch'è la liturgia del sec. IV. Anche citazioni dirette e referenze di S. Giovanni Crisostomo gettano luce su di essa. Meritano pure d'essere ricordati gl'inni di Severo d'Antiochia (morto nel 538). A. Baumstark ritrova avanzi dell'antica liturgia antiochena nella "liturgia di S. Atanasio", composta in Egitto nel sec. VI in lingua siriaca. b) Gerualemme. La liturgia dei primi tempi ci è nota dalle Catechesi di S. Cirillo (circa il 348). Per l'epoca posteriore vale la relazione della pellegrina Eteria (Silvia). In un rotolo di pergamena della Biblioteca Vaticana (Cod. vat. graec. 2282), scritto alla fine del sec. VII e usato in Antiochia, è conservato il testo più antico della liturgia detta "di S. Giacomo". Questa, nel suo originale greco, si diffuse per un certo tempo in tutta la Siria occidentale e fino al Sinai, a Cipro, nella penisola balcanica e (nei secoli VIII e IX) nelle colonie greche dell'Italia meridionale e nei monasteri greci di Roma, fino a che dovette cedere, anche in Palestina, alla liturgia bizantina. Ma nel sec. XII T. Balsamone (canone 22 del concilio Trullano) fa sapere che nella stessa Gerusalemme si celebrava soltanto nelle grandi solennità; solo in questi ultimi tempi i Greci ortodossi di Gerusalemme hanno ripreso a celebrarla una volta l'anno nella festa di S. Giacomo. Al contrario acquistò grande importanza: c) la liturgia dei Siri cattolici e monofisiti, i quali aggiunsero 64 anafore mutabili, tutte modellate su quella di S. Giacomo. La lingua liturgica siriaca dal sec. XVI ha ceduto il posto all'arabo, eccetto che per le anafore. I Maroniti del Libano seguono la liturgia antiochena, interpolata, specie nel rituale, con poco felici infiltrazioni del rito romano e di devozioni moderne.

2. Tipo liturgico siriaco-orientale. - Edessa era il centro più importante della Mesopotamia settentrionale. Si ha notizia, fin dai primi tempi, di un rito proprio a Edessa e a Nisibi e abbastanza indipendente da quello siriaco occidentale: alcune allusioni se ne trovano negli scritti di Sant'Efrem; ancora non studiate sono le poesie di Giacomo di Sarug per la liturgia delle regioni a sud d'Edessa, e le prose di Filosseno di Mabbūgh (v.) per i riti del suo vescovato di Ierapoli sull'Eufrate. Documenti assai pregevoli sono alcuni brani di un'anafora siriaca orientale in due fogli pergamenacei del sec. VI, provenienti dal monastero giacobita della B. Vergine di Wādī en-Naṭrūn in Egitto, ora nel British Museum. La Persia è la vera patria della nestoriana "liturgia degli Apostoli" cioè di Addai e Mar(j), in uso a Seleucia-Ctesifonte sul Tigri. Con l'anafora normale di questi due apostoli si alternano due testi composti più tardi sullo schema del tipo liturgico siriaco orientale e tradotti dal greco dal patriarca Mari Abha, ossia la "Liturgia di Teodoro" di Mopsuestia (dalla prima domenica dell'avvento alla domenica delle Palme) e la "Liturgia di Nestorio" (per l'Epifania, la Pasqua e altri 3 giorni dell'anno eeclesiastico). Un materiale assai pregevole contengono gli atti sinodali della Chiesa persiana, ossia nestoriana, che comincia con le decisioni d'un concilio dell'anno 410; molto importante per la formazione sostanziale di tutta la liturgia nestoriana fu anche l'attività del "katholikos" Isō‛yahb III (647-658). Dei manoscritti di liturgia nestoriana per la messa a noi noti, nessuno va più in là del sec. XV; interessanti sono le spiegazioni liturgiche e altri lavori simili di scrittori nestoriani. Accanto alla chiesa nestoriana debbono essere ricordate due comunità caldee non dissidenti, l'una orientale dei cristiani di S. Tommaso del Malabar, che nel sinodo di Jampur (1599) aderirono a Roma, e l'altra occidentale con centro a Mossul (v. caldea, chiesa). Gli atti del sinodo di Jampur (1599) hanno dati importanti sulla liturgia dell'India nel sec. XVI, mentre il rito speciale caldeo è presentato da molti manoscritti liturgici dal secolo XVII in poi. Il messale di questa comunità, stampato ufficialmente a Roma (1767), risente molto dell'influenza romana e ha pochissimo valore per lo studio dell'antico rito siriaco orientale. Migliore è l'edizione di Mossul 1901. Al contrario l'edizione stampata del breviario caldeo (Lipsia 1886-1887) è fonte preziosa per le litanie e le parti variabili della messa. Il messale dei cristiani malabarici ha subito un'influenza profonda da Roma e rappresenta un vero rito misto romano e siriaco orientale.

3. Tipo liturgico egiziano. - Dati sulla liturgia d'Egitto, o d'Alessandria, si trovano in Origene e in Clemente Alessandrino, e più tardi in Dionisio Alessandrino, S. Atanasio e S. Cirillo Alessandrino. La traduzione araba delle Didascalie e dei primi 6 libri delle Costituziomi apostoliche, invece del rito originale siriaco, ne presentano uno egiziano. Il testo più antico (sec. IV) che possediamo è il Sacramentario di Serapione vescovo di Thmuis, nel basso Egitto. Il testo delle anafore è un rifacimento d'un modello più antico, mentre altri brani conservano la forma primitiva. D'una liturgia del sec. IV farebbe testimonianza un papiro in tre fogli (sec. VI-VII) noti come "papiri liturgici di Dayr Balyzeh" e proveniente dall'alto Egitto. Nel sec. VI un redattore del Testamentum Domini si servì della liturgia d'Alessandria come base del formulario astratto della sua opera conservata in traduzione araba. Più recente è la liturgia greca di S. Marco (mss. più antichi dei sec. XII-XIII), che nel tardo Medioevo, con le liturgie greche di S. Basilio e di S. Gregorio Nazianzeno, cedette alla bizantina. L'antico rito egiziano si è conservato presso i monofisiti e cattolici copti. La "Liturgia di S. Cirillo", usata solo nella quaresima, risale a un formulario d'Alessandria, anche più antico della liturgia di S. Marco. Come testo normale serve la "Liturgia di S. Basilio" e anche la "Liturgia di S. Gregorio" (Nazianzeno), che rivolge la parola a Cristo invece che all'Eterno Padre. Oltre al testo di questi tre formularî in copto-bohairico, sono rimasti anche brani d'un testo copto-sahidico. Si conserva pure un manoscritto (sec. XIV) d'un testo greco delle liturgie di S. Basilio e di S. Gregorio, e sopra un óstrakon il frammento di un'anafora copta altronde sconosciuta. L'influenza copta e siriaca si avverte nella liturgia della chiesa etiopica. È notevole che l'oratio eucharistica Iesu Christi del messale etiopico sia stata tolta dal Testamentum Domini. Per anafora normale serve il formulario del "Rituale egiziano" in una struttura proveniente dalla liturgia copta di S. Cirillo. Altre anafore, prescindendo da una revisione della liturgia copta di S. Basilio e della siriaca di S. Giacomo, sono tarde creazioni etiopiche.

4. Tipo liturgico dell'Asia minore e bizantino. - Questo andò a poco a poco sostituendosi alle liturgie antiche e da molto tempo è l'unico dominante. Il suo luogo d'origine è l'Asia minore. Delle liturgie più antiche, quella di Laodicea ci è nota dalle prescrizioni del concilio tenuto ivi nel 363. Sulla liturgia di Mopsuestia si fonda la liturgia nestoriana di Teodoro, e su quella di Nazianzo la liturgia copta di S. Gregorio. A grande importanza salì la liturgia di Cesarea di Cappadocia: le prime notizie di essa sono nella lettera di S. Firmiliano vescovo di Cesarea (256-257) a S. Cipriano, e altre particolarità ci sono date da S. Gregorio Taumaturgo e dai sinodi della Cappadocia; fu poi riformata da S. Basilio. Questa liturgia di S. Basilio, rimasta anche in una recensione copta, penetrò per mezzo del monachismo a Costantinopoli, in una seconda recensione. La liturgia di Costantinopoli, che fu in vigore accanto alla precedente, si avvicinava a quella dell'Asia Minore. Della sua forma alla fine del sec. IV e al principio del V si hanno scarse testimonianze negli scritti più recenti di S. Giovanni Crisostomo. Una recensione più antica contiene le basi della liturgia di Nestorio, e una più recente, che la tradizione chiamò "Liturgia di S. Giovanni Crisostomo", fu il modello normale della "Liturgia bizantina". Insieme con questa s'usano ancora la suddetta recensione del testo di S. Basilio e un formulario attribuito a S. Gregorio il Teologo (Nazianzeno), confuso più tardi con S. Gregorio Magno, per la messa dei presantificati. Queste tre forme, oltre che nell'originale greco, sono usate in numerose traduzioni: dagli slavi cattolici e dissidenti di rito bizantino, nella lingua bulgara antica; dai melchiti siri, in siriaco e oggi comunemente in arabo; da tutti i georgiani, in georgiano; dai romeni (dal 1690), in romeno. Speciale attenzione merita la liturgia greca usata nell'Italia meridionale dal sec. VIII al XVI. Oltre ai tre formularî bizantini, ora ricordati, e a quelli di S. Giacomo e di San Marco, ve ne fu un sesto che adattava il rito romano al bizantino e fu chiamato "Liturgia di S. Pietro". Esiste tuttora una traduzione greca dell'ordo e del canon della messa romana col proprium de SS. Tranitate, detta "Liturgia di S. Gregorio Magno".

5. La liturgia armena fa parte a sé. In essa, dal sec. III al VI, si associarono il rito antiocheno (siriaco), per l'ufficiatura e il primo tipo degli inni (sistema romano), e il rito alessandrino per i sacramenti (sec. V). Col sec. VI-VII sopravviene il rito bizantino primitivo, che si sviluppa indipendentemente dal sec. VIII al IX, per poi passare all'attuale rito armeno con influenze gallicane al tempo delle crociate (sec. XIII). L'anfora normale, l'unica in uso oggidì, che si suole attribuire a S. Giovanni Crisostomo, contiene in una cornice bizantina elementi siriaci occidentali. Nel Medioevo si usavano anche le traduzioni dei tre principali formularî bizantini e delle anafore siriache, oltre ad alcune creazioni armene e, presso alcuni armeni uniti, una versione della messa domenicana.

II. Le liturgie occidentali, dopo il sec. VI, mutano sotto l'influenza dell'anno ecclesiastico. Invece dell'unico formulario delle liturgie orientali abbiamo qui un intero libro che contiene le messe giornaliere, il sacramentarium (senza i brani da cantarsi e le lezioni) e il messale (con lezioni e canti). D'altra parte, di fronte alle molte lingue liturgiche orientali, stanno la latina e la staroslava sole nelle liturgie occidentali.

1. Il tipo liturgico gallicano, dapprima esteso alla Spagna, Francia, paesi renani, isole britanniche, e zone dell'Italia superiore, si avvicina al rito bizantino. Il suo luogo d'origine è la Gallia. Come primi documenti di questo genere possiamo citare le "Messe di Mone" (630-640), il lezionario di Luxeuil, che probabilmente riproduce l'uso della chiesa di Parigi, i due sacramentarî di Autun e di Auxerre, nonché il Missale gothicum e il Missale gallicanum vetus (ambedue della fine del sec. VII) che risentono profondamente la influenza di Roma. Il cosiddetto Missale Francorum è un libro romano con pochi avanzi dell'uso gallicano: Carlomagno ebbe gran parte nel trionfo della liturgia romana nelle Gallie. Le due lettere attribuite a Germano di Parigi (555-576), la cui data deve essere ritardata di un mezzo secolo, sono la glossa a un sinodo franco del sec. VII inoltrato, o anche posteriore, tenutosi ad Autun o in Borgogna. Vi si scorgono pure influenze del rito gotico occidentale e del bizantino; ma il compilatore è gallicano e riporta la tradizione liturgica della chiesa delle Gallie nei sec. V e VI. Nelle isole britanniche la liturgia romana penetrò con la missione inviatavi da S. Gregorio Magno, però i manoscritti liturgici più antichi presentano vestigia di usi preromani; per l'ufficiatura corale è noto l'antifonario di Bangor. La Spagna, sotto i Visigoti, adottò la liturgia delle Gallie. La prima influenza del rito romano è nella risposta di papa Vigilio (537-555) a Profuturus arcivescovo di Braga e nella richiesta fatta da costui nel 538; nel 561 il sinodo nazionale di Braga rese obbligatorio per tutto il regno degli Svevi il rituale di Vigilio. Da quell'epoca incomincia il rito misto gallicano-romano nella Spagna. Sono rimasti una spiegazione liturgica di S. Isidoro di Siviglia (morto nel 636), e due manoscritti riguardanti specialmente l'uso della chiesa di Toledo nella seconda metà del sec. VII, ossia il lezionario, il Liber Comicus, il rituale contenente numerose formule di messe, il Liber ordinum del 1065 e il Liber mozarabicus sacramentorum. Dopo la conquista degli Arabi (711) si consolidò nella Spagna la liturgia locale, detta mozarabica, che resistette ai tentativi di Alessandro II, Gregorio VII, e Urbano II, di sostituirla con la romana, la quale però finì per avere il sopravvento sullo scorcio del sec. XI. Più tardi il cardinale Ximenes (v.) fece rivivere il rito mozarabico unicamente in una cappella della cattedrale di Toledo e l'anno 1500 ne curò un'edizione a stampa completandolo con il rito romano. Nell'Italia superiore l'influenza di Roma si fece sentire assai presto; l'unione delle liturgie gallicana e romana appare principalmente nel "Messale di Bobbio", detto erroneamente Sacramentarium gallicum, e continua tuttora nella liturgia ambrosiana di Milano. Questa, minacciata seriamente sotto Carlomagno e i papi Niccolò II, Gregorio VII ed Eugenio III, fu riordinata da S. Carlo Borromeo. Le fonti più autorevoli e più antiche della liturgia ambrosiana sono, oltre al trattato De sacramentis, da usarsi con precauzione, il sacramentario di Biasca (Bibl. Ambrosiana, A 24 bis inf.) del sec. X e quello di Bergamo (S. Alessandro ìn Colonna), contenente orazioni ed elenchi di letture, del sec. X-XI. Il più antico hymnarium di Milano è del sec. VI-VII (Biblioteca Vaticana, Reg. lat. 11).

2. Tipo liturgico romano. - Ha conservato un nucleo invariato, ossia il canone, che per contenuto e forma differisce dall'anafora orientale. La redazione definitiva del canone romano fu compiuta solo da S. Gregorio Magno, benché sui particolari di questa riforma vi sia disparità di pareri. Delle parti variabili della messa romana si hanno diverse raccolte dei tempi più antichi: il Sacramentarium Leonis, collezione non ufficiale delle preci della messa al tempo di S. Simmaco: il Sacramentarium Gelasii, passato nella Gallia, che dovrebbe risalire a Gelasio I; il cosiddetto Sacramentarium gelasianum del sec. VIII, il Sacramentarium Gregorii o "Messale di S. Gregorio Magno" nella forma più sviluppata, che da Adriano I fu mandato a Carlomagno, aumentato poi da Alcuino di orazioni che non si trovano nella liturgia di Roma. Estendendosi nel regno dei Franchi, la liturgia romana prese molti elementi gallicani, e da questa mescolanza nacquero varietà locali (riti di Sarum e di Eboracum (York) in Inghilterra; liturgie di Parigi, di Rouen, di Lione in Francia; di Colonia e di Treviri). Questa varietà fu soppressa dal Concilio di Trento, ma sopravvisse con composizioni talvolta del tutto nuove in molte diocesi della Francia fino alla metà del sec. XIX. Il messale romano, riformato da Pio V nel 1570, si fonda sull'uso della cappella papale nel tardo Medioevo servita dai francescani, manoscritto nei Missalia romanae curiae. Il rito dei domenicani rispecchia la liturgia romana in uso a Parigi nel sec. XIII.

3. Altre liturgie occidentali, di tipo tra il romano e il gallicano, ebbero: l'Africa nel periodo anteriore al concilio di Nicea (Tertulliano, Cipriano) e dopo quel concilio (Agostino, Ottato di Milevi, Mario Vittorino, Fulgenzio di Ruspe, Arnobio e altri); la cosiddetta "Liturgia di S. Pietro" è un tentativo fatto nei locali monasteri greci d'introdurre nella liturgia bizantina il canone romano; l'Italia settentrionale, specialmente Ravenna e Aquileia: per quest'ultima va ricordato, fra altro, il Ritus patriarchinus, che fu in vigore in S. Marco di Venezia fino al 1807

Protestantesimo. - Con la Riforma gli antichi concetti fondamentali furono abbandonati. Lutero ruppe radicalmente con ogni forma di culto tradizionale, ritenendo soltanto ciò che gli sembrò non essere anticristiano o pericoloso; egli esprime il suo pensiero in proposito con queste parole: "Iniquus sum cerimoniis etiam necessariis, hostis autem non necessariis, Christus haec non magnopere curabit, esto hoc liberum, nec res digna est contentione". Ciò che Lutero stabilì circa il rito religioso (Von Ordnung Gottesdiensts in der Gemeinde, 1523; Formulae missae et communionis pro ecclesia Wittembergensi, 1523; Deutsche Messe, 1326) fu solo provvisorio. Proponendosi di purgare la messa latina da ogni accessorio indegno di essa, ne ritenne lo schema generale, ma tolse via l'offertorio e trasformò il canone, pur lasciando le pericope e le collette; mantenne pure gl'indumenti sacri, l'altare con i candelieri, l'accesso alla comunione e la sua amministrazione, ma diede un'interpretazione nuova dell'elevazione. Ma anche questo ordinamento decadde durante la guerra dei Trent'anni; più tardi il pietismo soppresse per sempre le forme tradizionali. Tentativi di ristabilire l'originario servizio divino si ebbero fino ai nostri giorni. Anche Zwingli soppresse tutte le parti integranti latine, abbandonò tutto lo schema della messa e separò per principio la predica dalla comunione. Calvino nel regolamento da lui introdotto a Ginevra (La forme des prières ecclesiastiques, 1542) si mostra dipendente da Lutero e da Zwingli, ma soprattutto da M. Bucer; la sua posizione di fronte alla liturgia è espressa da questa frase: "Fatemur omnes etiam singulas ecclesias hoc ius habere, ut leges et statuta sibi condant ad politiam communem inter suos constituendam, cum omnia in domo Dei recte et ordine fieri oporteat, modo ne conscientias adstringant neque superstitio illic adhibeatur". Egli costituì un servizio religioso in forma diversa dalla romana e dalla luterana: non altare, ma tavolo; separazione della predica dalla comunione, e in questa il pensiero non deve posarsi sul pane e sul vino, ma i cuori debbono sollevarsi in alto, dove Cristo vive nella gloria del Padre, onde essere nutriti della sua sostanza e resi partecipi del regno di Dio. Il regolamento calvinista della comunità dei fedeli trovò una singolare trasformazione nel cosiddetto "Rituale per gli stranieri" di Londra, composto da Giovanni Laski (Ioannes a Lasco) nel 1550; la comunione ha luogo sedendo a tavola in comune, e dopo finita la cerimonia i diaconi portano i residui del pane e del vino ai vecchi, agl'infermi e ai poveri (cfr. Giustino, Apolog., I, 67). Il rituale del servizio divino seguito nella chiesa anglicana era quello indicato nel Book of Common Prayer (1549), in cui si sentiva l'influenza luterana, l'orientale e la cattolica romana; oggi quel libro, riformato già nel 1662, è oggetto di animate discussioni.

Movimento liturgico. - Un movimento riformatore della liturgia si è manifestato e svolto negli ultimi tempi, sia nella Chiesa cattolica sia nel protestantesimo; è dovuto a parecchie ragioni, specialmente a una reazione contro il soggettivismo dei tempi passati, a una tendenza verso il misticismo, a un'inclinazione di armonizzare l'atteggiamento esteriore con i sentimenti interni, ecc. Fra i protestanti il movimento s'iniziò verso il 1890 per opera soprattutto di F. Spitta e Julius Smend, che cercavano di destare il gusto per la forma del servizio liturgico. Più recentemente Rodolfo Otto, i suoi discepoli e Federico Heiler (v.) asserivano la necessità della preghiera e della partecipazione attiva dei fedeli al culto, mentre nella comunione anglicana la High Church affermava l'importanza dei sacramenti e il loro carattere obiettivo. Più innanzi ancora si spingeva la "Lega Ecumenica" della High Church traendo nuove forme dall'intima conoscenza del cristianesimo evangelico. Il movimento liturgico cattolico mira ad attingere alle fonti della liturgia il nutrimento per la vita spirituale dei fedeli e a foggiare sul culto la vita cristiana. Così, prende vivo interesse per il battesimo, fondamento di questa vita, per il suo rito e per il suo contenuto storico e teologico; inoltre, invece di considerare il sacramento dell'eucaristia più o meno separato dal sacrifizio della Messa, promuove l'intelligente partecipazione della comunità alla ripetizione del sacrificio di Gesù nella Messa; ancora, diffonde la pratica delle messe dialogate, in cui i fedeli pregano insieme col celebrante e ne seguono attentamente gli atti e le parole. Si tratta insomma d'un movimento che si riannoda alla tradizione cristiana primitiva e al valore sostanziale del culto. Questo ritorno all'antico fu favorito dagli studî archeologici e dalle diligenti investigazioni sul cristianesimo primitivo e sugli scritti dei Padri intraprese principalmente in Germania. I principali rappresentanti del movimento liturgico furono in Francia, i benedettini di Solesmes con l'abate P. Guéranger (morto nel 1875) e, in Germania, i benedettini Mauro e Placido Wolter (fine del sec. XIX), fondatori della Congregazione di Beuron. Con Pio X il nuovo indirizzo ebbe un grande impulso, prima nel Belgio (Università cattolica di Lovanio), poi in Olanda, in Germania (Abbazia di Maria Laach) e in Austria (Klosterneuburg). Attualmente è diffuso in ogni paese e penetrato anche in ambienti popolari.

Libri liturgici. - 1. Rito romano. - I libri usati anticamente per la messa furono: il Sacramentarium (preci, prefazio e canone), lo Apostolus o Epistolarius (epistole), l'Evangelarius (Vangeli) e l'Antiphonarius missae o Liber gradualis o Cantatorium (parti cantate); questi furono riuniti verso il Mille in un Missale plenarium. Nel Medioevo si aggiunse il Liber troparius e il sequentialis. Per la salmodia servivano il Liber responsorialis, l'Antiphonarius, il Psalterium, il Passionarium, l'Homiliarium e l'Hymnarium, dai quali, nel corso dei secoli XI e XIII, venne a formarsi un unico volume detto Breviarium. L'attuale Rituale è stato preceduto da diversi libri detti Agenda, Liber agendorum, Benedictionale, e il Caeremoniale episcoporum dall'Ordo. Quelli ora in uso sono: il Missale rom., il Lectionarium rom., il Graduale rom., il Pontificale rom., il Breviarium rom., il Caeremoniale episcoporum, il Rituale rom. e il Martyrologium rom.

2. Rito bizantino. - I libri più importanti sono: per l'ordinamento di tutta l'ufficiatura, il Typikon, specie di Ordo perpetuus; il Leitourgikon o Hieratikon, in slavo Sloužebnik, contenente la parte del sacerdote e del diacono nel Vespro e Mattutino, più le liturgie di S. Giovanni Crisostomo, di S. Basilio e dei "presantificati"; l'Euchologion, in slavo Trebnik, pontificale e rituale completo; l'Apostolos (epistole) e l'Evangelion (vangeli). Per l'ufficiatura: lo Psalterion; l'Horologion per l'officio ordinario; l'Oktoekhos per gli uffici domenicali e feriali; il Triodion per la Quaresima e il Pentekostarion per il periodo dalla Pasqua alla Pentecoste.

3. Rito caldeo (in lingua siriaca). - Oltre a parecchi libri corrispondenti più o meno a quelli greci, i principali sono: Dawīdhā o salterio; Hudhrā (ciclo) per le antifone, gl'inni, ecc. di tutte le domeniche; ūthā d'Ninwāyē (preghiera dei Niniviti), raccolta d'inni di S. Efrem per la quaresima; inoltre varî rituali speciali per l'amministrazione dei sacramenti e per le esequie.

4. Rito antiocheno. - I monofisiti adoperano manoscritti o libri stampati dai cattolici. Nel 1848 la Congreg. di Propaganda ha dato la prima edizione di un Missale, riveduto poi e ridotto alle sole anafore (non tutte furono conservate) dal Patriarca Efrem Raḥmānī nel 1922. Il medesimo ha pubblicato un rituale corretto su buoni codici; i Domenicani di Mossul hanno stampato in sette volumi l'insieme degli uffici corali dietro revisione del dotto metropolita di Damasco, Clemente Dāūd. I Maroniti hanno edizioni speciali, e per certi riti e uffici adoperano ancora manoscritti.

5. Rito alessandrino (in lingua copta con rubriche in arabo e spesso con la versione del testo copto). - I più importanti sono: Kitāb al-Khulāgī o Euchologion a uso del sacerdote, detto erroneamente "messale"; Katamārus contenente le pericope dell'epistole e del Vangelo; Synaxār leggende di santi; Theotokia, uffici della B. Vergine.

6. Rito alessandrino-etiopico. - Questi libri sono poco studiati: si ricordi il Qeddāse, liturgia completa, con varie anafore, e il Ser'āta gesāwē, lezionario.

7. Rito armeno. - I libri più importanti sono: Donatzouitz, corrispondente al Typikon dei Greci; Badarakamadzouitz, contenente le parti della messa proprie del solo sacerdote celebrante, mentre le epistole, i Vangeli e le parti appartenenti al coro, anche estranee alla messa, sono contenute nel Giaschotz o Tschaschotz; Treboutioun per il canto; Gaysmavourk con elogi di santi e omelie per i vespri, quest'ultime contenute pure nel Djareundir; Jamarkik corrispondente all'Horologion greco. I Mechitaristi di Venezia hanno riunito i libri per l'officiatura in un breviario, detto Jamargarkoutioun. Il Maschtotz corrisponde all'Eucologio dei Greci.

Colori liturgici. - Sono i colori stabiliti dalla Chiesa per i paramenti sacri. Nel rito romano sono cinque: il bianco, il rosso, il verde, il violaceo, il nero; nella terza domenica d'avvento, detta Gaudete, e nella quarta di quaresima, detta Laetare, è permesso il roseo (scuro), invece del violaceo. I titoli stessi di queste due domeniche, che rompono con una nota di gioia la severità di quei due tempi di preparazione, spiegano il perché di questa sostituzione. L'uso infatti dei colori è subordinato al simbolismo che è stato loro congiunto. Il bianco si usa nelle feste e domeniche pasquali, in quasi tutte le feste di Cristo, in quelle della Madonna, degli angeli, delle vergini, ecc., come pure nella benedizione eucaristica (il rito ambrosiano vi usa il rosso), nei funerali dei bambini, ecc. Il rosso si usa nelle feste della Passione, di Pentecoste, degli apostoli, dei martiri, ecc. Il violaceo si usa nei tempi di penitenza. Il nero è riservato per i defunti e per il venerdì santo. Nei tempi in cui non prevale nessuna delle suddette note (innocenza, martirio, mestizia, ecc.), si usa il verde che parla di speranza nel pellegrinaggio terreno, ad es., nelle domeniche dopo Pentecoste. Queste determinazioni risalgono a Pio V (1570), né si possono usare altri colori ove vige il rito romano, salvo una speciale autorizzazione della S. Sede. Invece del bianco, del rosso o del verde, si possono usare paramenti a lamina d'oro; invece del bianco, altri a lamina d'argento. Una giusta causa può scusare lo scambio provvisorio tra i colori prescritti. Si possono aggiungere ornati anche di altri colori, ma non si debbono mischiare talmente i colori che non se ne possa più capire il fondamentale. Le leggi dei colori non ammettono eccezioni neanche là ove il simbolismo laico dei colori fosse diverso, come p. es. in Cina.

Bibl.: Sull'uso della parola nell'antichità: I. Ölsler, Leiturgie, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswiss., XII, pp. 1871-1879.

Sulla liturgia cristiana in generale: F. A. Zaccaria, Bibliotheca ritualis, voll. 3, Roma 1776-1787; K. Mohlberg, Ziele und Aufgaben der liturgiegeschichtlichen Forschung. Liturgiegeschichtliche Forschung, I (1919); C. Callewaert, Liturgicae institutiones, I, 2ª ed., Bruges 1925.

Collezioni di testi: Orientali: E. Renaudot, Liturgiarum orientalium collectio, voll. 2, Parigi 1715-16 (Francoforte s. M. 1847), F. E. Brightman, Liturgies Eastern and Western, I: Eastern Liturgies, Oxford 1896; Occidentali: I. M. Thomasius e A. Vezzosi, Opera omnia, voll. 7, Roma 1748-1754; L. Muratori, Liturgia Romana vetus, voll. 2, Venezia 1748; E. Martène, De antiquis ecclesiae ritibus libri IV, Rouen 1702; I. Mabillon, Museum italicum, Parigi 1687-1689, 1724 (Patrol. Lat., LXXVIII, Ordines Romani); F. Cabrol e H. Leclercq, Monumenta ecclesiae liturgica, I, Parigi 1900; le pubblicazioni della Bradshaw Society, ecc.

Orientali e occidentali: A. Assemani, Codex liturgicus ecclesiae universalis, voll. 13, Roma 1749-1766; K. Mohlberg e A. Rücker, Liturgiegeschichtliche Quellen und Forschungen, Münster 1918-1933.

Per lo sviluppo storico delle liturgie: L. Duchesne, Les origines du culte chrétien, 5ª ed., Parigi 1920; A. Baumstark, Vom geschichtlichen Werden der Liturgie. Ecclesia orans, 10, Friburgo in B. 1923.

Enciclopedie: F. Cabrol, Dictionn. d'arch. chrét. et de liturgie, voll. 15, Parigi 1903-1933; I. Braun, Liturgisches Handlexikon, 2ª ed., Ratisbona 1924.

Riviste: Ephemerides liturgicae, voll. 1-47, Roma 1881-1933; oriens Christianus, voll. 1-29, Lipsia 1901-1933; Jahrbuch für Liturgiewissenschaft, voll. 1-11, Münster i. W. 1921-1931; il Literaturbericht in Jahrsbuch für Liturgiewissenschaft.