LOCRI EPIZEFIRI

Enciclopedia dell' Arte Antica (1961)

LOCRI EPIZEFIRI (Λοκοί οἱ ᾿Επιζεϕύριοι; Locri, Locris)

A. de Franciscis
P. Zancani Montuoro

Città della Magna Grecia sul litorale ionico, sita presso gli odierni abitati di Portigliola, Locri, Gerace (provincia di Reggio Calabria). Fu fondata dai Locresi di Grecia, ma non è sicuro se Opunzi, od Ozoli oppure entrambi, verso il principio del sec. VII a. C. (Eusebio, 673-72; Gerolamo, 679-78) in una zona ove era già un centro di italici, di cui conosciamo la necropoli dei secoli IX-VIII nelle località Canale Ianchina, Patariti, a monte di L., con tombe a camera scavate nella roccia e suppellettile costituita da vasi d'impasto, vasi italo-geometrici, armi e monili di bronzo e di ferro. Prima di fissarsi quivi i colonizzatori s'erano fermati poco più a S, al Capo Zefirio (oggi Capo Bruzzano) ma forse per la limitata fertilità del suolo vi restarono appena tre o quattro anni: nulla s'è finora trovato che confermi la notizia di questo primo stanziamento dei Locresi.

Poco dopo la fondazione della città, Zaleuco diede ai Locresi un corpo di leggi che va considerato il più antico di quanti abbiamo notizia in Europa, ma il periodo di maggior sviluppo, di L. fu nei secoli VI e V a. C., quando la città estese il suo dominio sopra un largo territorio dal Mare Ionio al Tirreno, comprendente anche le città di Metauros, Medma, Hipponion; nello stesso tempo sostenne con varia vicenda lotte con Reggio e fermò un attacco dei Crotoniati al fiume Sagra, poco dopo la metà del sec. VI. In politica estera fu legata, soprattutto a Sparta, Taranto, Siracusa e di quest'ultima fu alleata al tempo della spedizione ateniese in Sicilia.

Più tardi aiutò Dionisio I nelle operazioni militari contro Reggio e la lega italiota ed in compenso ebbe un ampliamento di territorio. Nel 356 a. C. accolse Dionisio Il espulso da Siracusa, ma ben presto lo cacciò per i suoi soprusi e le sue crudeltà.

Dal 282 a. C. entrò nell'orbita della guerra tra Roma e Pirro passando più d'una volta da questa a quella parte. Nella seconda punica si arrese ad Annibale nel 216, ma Scipione la conquistò nel 205. Ormai inserita nel mondo romano perdé di importanza, anche se Procopio la considerava ancora una grande città nel sec. V d. C. La città dové gradualmente decadere tra l'VIII ed il IX sec. in seguito alle incursioni dei Saraceni, e l'erede di L. per tutto il Medioevo e l'età moderna fu Gerace, sorta sulle vicine alture.

Una prima pianta delle rovine di L. è, per quanto si sappia, quella che è a corredo della dissertazione del Duca de Luynes, in Annali Inst., 11, 1830, p. 3 ss. ed è pubblicata in Mon. Inst., i, tav. xv, e ripubblicata nella traduzione italiana con aggiunte di A. Capialbi, Napoli 1849. Altra pianta è nell'opera di P. Scaglione, Storia di L. e Gerace, Napoli 1856. P. Orsi ne delineò una al 5000 conservata a stampa presso la Soprintendenza alle Antichità della Calabria, ed una sua riproduzione, semplificata e ridotta, è quella che pubblica l'Oldfather nel suo articolo Lokroi del Pauly-Wissowa, xiii, 1927. Attualmente al Museo Nazionale di Reggio Calabria è esposta una nuova pianta di L. aggiornata con le ultime scoperte.

Sito e mura. - La pianta di L. si avvicina alla forma di un quadrilatero allungato, di cui il lato corto S-E di m 850 è parallelo alla linea del mare; ne dista circa 300 m; in lunghezza poi si estende tra la fiumara Portigliola a S-O ed i valloni Polisa e Lucifero a N-E, per km 2,500 su un terreno che comincia pianeggiante e poi sale fino a 150 m di altitudine ove il lato N-O tocca i colli di Castellace, Abbadessa e Mannella. La linea delle mura si può seguire facilmente nel suo percorso generale: inoltre sono stati messi allo scoperto alcuni tratti, insieme con torri quadrate (Marzano, Castellace, Abbadessa) e rotonde (Parapezza, Mannella), più difficile riconoscere le porte; di esse sono sicure una presso la torre Parapezza e l'altra sul lato del mare, mentre se ne postulano due alle estremità del Dromo (v. appresso) e se ne suppone una presso la torre Marzano. Le mura in complesso sembrano di epoca relativamente recente, probabilmente non anteriore al IV sec. se non del III, epoca quest'ultima per la quale abbiamo documentati lavori di πυργοποιία nelle ancora inedite tabelle inscritte, recentemente scoperte. Solo qualche tratto appare più antico (Centocamere, Parapezza) ed inglobato o sostituito dalla successiva cinta muraria.

Sviluppo urbanistico. - Come in altre città antiche, anche a L. pare che l'area entro le mura non sia stata mai occupata del tutto da costruzioni, ma in parte tenuta libera per eventuali sviluppi o per essere messa a cultura.

Non si capisce però bene la funzione d'un muro che, in località Cusemi, sembra dividere la zona pianeggiante da quella in declivo: se elemento di difesa oppure distinzione tra due nuclei di abitato. Sono invece chiare le tracce di muri atti a regolare i corsi d'acqua che solcano la città. Un'acropoli nel senso pieno della parola non può ancora collocarsi e forse non c'è mai stata; mentre all'estrema difesa bastavano le tre cime fortificate dei colli menzionati più sopra. Anche l'ubicazione del porto, che è ricordato sovente dalle fonti antiche, non è affatto sicura: non ne sono state trovate ancora le tracce e probabilmente si sarà trattato d'un semplice approdo lungo il litorale basso e continuo oppure di un porto canale alle foci d'una fiumara, per esempio quella che oggi si chiama Portigliola (toponimo che ricorda l'antica funzione?). Per il tessuto urbano di L. è fondamentale l'attuale strada del Dromo che, come conserva il nome greco, forse senza mediazione toponomastica bizantina, così è ancora una via che taglia l'area cittadina nella sua larghezza: in antico dovettero gravitare intorno ad essa prima l'agorà e poi il Foro d'età romana. Come strada principale della città forse era saldato ai suoi estremi con la via che, seguendo l'andamento del litorale ionico, collegava tra loro i vari centri abitati di questa regione. Inoltre un interessante agglomerato urbano è stato scoperto in località Centocamere. I grossi isolati sono divisi tra loro da strade in terreno battuto, con resti notevoli di canalizzazione idrica e di sistemi di scarico; ogni isolato conta un certo numero di abitazioni, con intercapedini tra l'una e l'altra, in strutture povere fatte di ciottoli e laterizi probabilmente destinate ad un ceto modesto, forse d'artigiani. In alcune di esse sono delle fornaci per prodotti figulini. Il quartiere è appena entro le mura, mentre al di fuori, ed a queste adiacenti, è un vasto spiazzo limitato per due lati da stoài ed al quarto da una grossa fornace: i reperti che si sono trovati copiosi in tutta l'area (per lo più statuette fittili e frammenti di ceramica) sono stati interpretati e classificati come materiale sacro di 371 bòthroi. Un altro nucleo di abitazioni è stato localizzato in contrada Caruso, anche qui ambienti modesti con fornaci, dolî, macine.

Inoltre si può riconoscere qualcuna delle aree sacre ed il centro cittadino con i suoi edifici pubblici, ma non sappiamo come questi nuclei si inserissero nella urbanistica generale.

I monumenti del centro urbano. - A monte del Dromo è il teatro, in corso di scavo: le gradinate sono poggiate ad un pendio naturale del terreno, ed il loro complesso è diviso in due zone da un diàzoma ed in sette settori (kerkìdes) da scalette. In pianta è maggiore di un semicerchio, quindi di tipo greco. Al basso dell'orchestra è un balteo in grossi lastroni, dietro il quale si apre al centro del giro una stanzetta: è un rifacimento romano, come lo sono alcune parti della gradinata e le pàrodoi con relativo tratto di analemma. Lo smaltimento delle acque era assicurato da un canale semicircolare e da uno radiale. Della scena resta molto poco, ma se ne può riconoscere la pianta con parasceni. Si notano infine gli apprestamenti per i pali del velano. Dietro la scena è una costruzione, forse portico. Al teatro va probabilmente collegato il vicino tempio detto di Casa Marafioti: è d'ordine dorico con singolarità di elementi, come un "pentaglifo" al posto del solito triglifo, una sima traforata con teste leonine in sola funzione decorativa; la parte migliore è un bell'acroterio di terracotta con giovane cavaliere e sfinge sottostante, molto simile nella concezione ai gruppi acroteriali di Marasà e ad essi contemporaneo. Il complesso pare, da qualche traccia, recinto da un muro, e forse questo tèmenos è il santuario di Zeus Olimpio di cui parlano le inedite tavolette bronzee. Queste ultime sono state trovate a poca distanza dal teatro e dal Dromo, racchiuse entro una teca cilindrica di pietra; contengono atti amministrativi con i quali la città (πόλις) compie opere pubbliche con denaro d'un sacro deposito, oppure restituisce tale denaro: principio del III sec. a. C. Pertanto dal punto di vista topografico la teca di pietra si spiega con la presenza d'un pubblico edificio pertinente al tempio oppure alla civica amministrazione, lo ἀρχεῖον (archivio) della città.

A valle del Dromo sono invece cospicui ruderi affioranti di età romana, tra cui un muro molto lungo con speroni, ma ogni identificazione è impossibile. E probabile che qui si restrinse la vita di L. negli ultimi secoli, poiché vicino, ed entro la città greca, sono state segnalate tombe romane.

Il santuario di Persefone. - Ne parlano gli antichi scrittori ed era certo il più importante della città, anzi secondo Diodoro (xxxvii, 4, 3) era ἐπιϕανε0στατον tra tutti i santuari d'Italia.

Nella valletta tra i colli Abbadessa e Mannella, ove gira il muro di cinta, e al difuori di questo, esiste un immenso deposito di ex voto, non ancora del tutto esplorato, ma tale che per la parte conosciuta si è dimostrato molto ricco e si riferisce senza dubbio al culto di Persefone: bastino a prova le tavolette votive o pìnakes (v. più avanti) e le iscrizioni dedicatorie alla dea (ταῖ ϑεοῖ ecc.). Accanto sono i resti d'un edificio che per le sue piccole dimensioni non può essere che un'edicola tesauraria. Il tempio vero e proprio non è stato ancora trovato; s'è affacciata l'ipotesi d'un culto all'aperto, mentre una recente indagine volta ad ubicare il tempio sulla cima del colle Mannella è ancora allo stato di tentativo; comunque urta contro varie considerazioni, tra cui la difficoltà di ammettere con la mentalità dei Greci una sede di culto ctonio posta in luogo elevato.

Il santuario di Marasà. - È detto così dalla località all'angolo N-E della città dove si trova; le ultime scoperte ne hanno meglio chiarito la topografia, mentre per la divinità eponima regna ancora l'incertezza: sono stati fatti i nomi di Persefone, Dioscuri, Zeus.

Nella sua più antica fase, alla fine del VII sec., era un tempio a cella allungata (m 8,43 × 25,86) divisa internamente in due navate, lo zoccolo della cella era in pietra, l'elevato forse di materia meno solida, comunque rivestito da lastre di terracotta con motivo a meandro. Più tardi, nel corso del VI sec., la cella fu arricchita d'una peristasi forse esastila (m 17,03 × 35,30) con colonne di pietra di cui resta qualche frammento: di questa fase possediamo molti elementi delle terrecotte architettoniche, e si sono trovati anche altari terragni posti dinanzi al tempio. Nell'ultimo terzo del V sec. il tempio arcaico venne rovinato oppure abbattuto e sulle sue rovine, ma con orientamento leggermente mutato, ne sorse uno più grande e nobile (m 19,03 × 45, 42) in bella pietra calcarea con cella, pronao, opistodomo e peristasi di ordine ionico. Era esastilo, con diciassette colonne sui lati lunghi, quindi una proporzione molto allungata.

Conosciamo il tipo delle colonne di cui si calcola l'altezza in m 9,59, la cornice a dentello, le teste leonine in pietra della sima, che possono scendere anche al IV sec., e la decorazione acroteriale in marmo. L'acroterio centrale era un gruppo formato da una nereide al centro ed i Dioscuri ai lati su cavalli sostenuti da tritoni: gli acrotert laterali erano a grandi palmette. Forse anche i frontoni avevano la loro decorazione marmorea. Di fronte al tempio è il grande altare per i sacrifici e su un fianco era forse un propileo d'ingresso al tèmenos. Un deposito di terrecotte, considerato come favissa del tempio, fu trovato nei pressi, ma fuori la cinta, delle mura.

Altri luoghi di culto. - Sul lato orientale della Mannella, un po' fuori le mura, è stato riconosciuto un tempietto in antis, forse di Atena; sul ciglione di Contrada Caruso-Polisa una sacra grotta dedicata alle ninfe con numerosi ex voto rappresentanti le stesse e inoltre Pan, le Muse, Afrodite, ecc.

Le necropoli. - Oltre a quelle già ricordate di lanchina, Canale e Patariti, che appartengono allo stanziamento indigeno anteriore e forse in parte coevo alla colonizzazione greca, si conosce di L. una vasta necropoli in contrada Lucifero a N-E della città con tombe prevalentemente di metà VI-fine V sec., ma con seppellimenti anche successivi: tombe a cassa di tegoloni o a baule la cui suppellettile funebre è varia ma non particolarmente ricca, per lo più bronzi e vasi. D'una necropoli più antica, VII-VI sec., con sovrapposizioni ellenistiche, si è trovata traccia in contrada Monaci. Più sopra s'è accennato già alle tombe romane trovate presso la zona centrale del Dromo, segno di un restringimento della città; infine una necropoli del Il sec. a. C. fu segnalata all'Orsi a S-O di L. presso la fiumara Portigliola.

L'arte in Locri. - Sebbene le fonti scritte non offrano testimonianze in proposito, è certo che L. fu, tra l'altro, anche un centro di produzione artistica che ebbe una qualche originalità creativa. Già nell'architettura si nota la presenza d'un tempio d'ordine ionico, cosa rara nel mondo italiota e siceliota, ma che si ritrova forse nelle colonie locresi di Medma e di Hipponion; oltre a ciò abbiamo visto la singolarità del rivestimento fittile del tempio primitivo a Marasà nonché il pentaglifo e la sima del tempio Marafioti. Nelle arti plastiche sono di fabbrica locale gli innumerevoli ex voto trovati un po' dappertutto ed eseguiti nella tipica argilla pallida locrese, a cominciare dai primitivi xòana di Persefone: notevoli anche le tabelle votive a rilievo di cui si sono riconosciuti 176 tipi pervenuti a noi in varî esemplari (v. più avanti). Anche nella coroplastica L. influenza centri da lei dipendenti come Medma. Le numerose fornaci e le molte matrici trovate nello scavo di Caruso e di Centocamere sono indizio d'una forte attività produttiva. Accanto alla coroplastica conviene ricordare la ricca serie degli specchi di bronzo, quelli a sostegno con figura umana e gli altri con manico ornato da elementi vegetali o da quadretti traforati. Tutto ciò tra il VII ed il V sec. a. C. Della grande scultura resta una mutila figura fittile di Kore arcaica, ma maggiore importanza hanno i gruppi acroteriali di Marasà in marmo e quello di Marafioti in terracotta, espressioni non solo d'una esecuzione, ma anche d'un gusto locale sul finire del V secolo. In seguito, la produzione coroplastica non diminuisce, ma sembra meno originale, come gli ex voto alle ninfe, tuttavia anche qui abbiamo i modelli fittili di grotticelle e di ninfei che sono di particolare interesse. Del resto, oltre a questa grande e piccola scultura cui si può attribuire una origine locale, non mancano a L. altri pezzi che sono da ritenersi piuttosto di importazione. Più difficile è indicare quanto di locale vi sia nella produzione dei vasi; sembrerebbero per ora da ascrivere a L. alcune imitazioni del protocorinzio e del corinzio, qualche serie a vernice nera ed altre a figure rosse della fine V-IV sec. a. C.

Bibl.: Notizie di scavi e scoperte: Not. Scavi, 1882, p. 402 ss.; 1884, p. 261 ss.; 1886, p. 172 ss.; p. 436; P. Orsi, ibid., 1890, p. 248 ss.; 1891, p. 296; 1902, p. 39 ss.; 1906, p. 35; 1909, p. 319 ss.; Suppl. 1911, p. 3 ss.; Suppl. 1912, p. 3 ss.; Suppl. 1913, p. 3 ss.; 1917, p. 101 ss.; S. Ferri, ibid., 1926, p. 339 ss.; 1927, p. 359; P. E. Arias, ibid., 1946, p. 138 ss.; 1947, p. 165 ss.; P. Orsi, in boll. d'Arte, 1909, p. 406 ss.; p. 463 ss.; Fasti Arch., V, 1701; VI, 1912; IX, 2124; X, 1926; XI, 2048, 2049; P. Orsi, Le necropoli preelleniche calabresi, in Mon. Ant. Linc., XXXI, 1926, col. 5 ss.; A. W. Oldfather, Gli scavi di Locri, in P. Orsi, Roma 1935, p. 187 ss.; P. E. Arias, Note di archeologia locrese, in Arch. Stor. Cal. e Luc., XV, 1946, p. 71 ss.; U. Zanotti Bianco, Le ricerche archeologiche in Calabria durante l'ultimo cinquantennio, in Arch. Stor. Cal. e Luc., XXIV, 1955, p. 257 ss.; A. de Franciscis, La Calabria, in La ricerca archeologica nell'Italia Meridionale, Napoli 1960, Vol. II, pp. 105 ss. - Storia e topografia: P. Orsi, Appunti di Protostoria e storia locrese, in Saggi offerti a G. Beloch, Roma 1910, p. 155 ss.; A. W. Oldfather, in Pauly-Wissowa, XIII, 1927, col. 1289 ss., s. v. Lokroi; G. Giannelli-G. Caputo, in Enc. Ital., XXI, 1934, p. 374 ss., s. v.; J. Bérard, La colonisation grecque, Parigi 1957, p. 199 ss.; 342 ss.; A. de Franciscis, Locri antica, Napoli 1957; id., in Enc. Ital., App. III, s. v. - Architettura ed arti figurative: E. Petersen, Tempel in Lokri, in Röm. Mitt., V, 1890, p. 161 ss.; R. Koldewey-O. Puchstein, Die griechischen Tempel in Unteritalien und Sizilien, Berlino 1899, p. i ss.; S. Ferri, Divinità ignote, Firenze 1929, p. 95 ss.; U. Jantzen, Bronwerkstätten in Grossgriechenland und Sizilien, Berlino 1937, p. 3 ss.; P. E. Arias, Il teatro greco-romano di Locri Epizefiri, in Dioniso, VIII, 1941, p. 188 ss.; W. B. Dinsmoor, The Architecture of Ancient Greece, Londra 1950, p. 98 ss.; 136 ss.; A. de Franciscis, Un frammento di arula da Locri, in Atti e Mem. Società Magna Grecia, N. S., II, 1958, p. 37 ss.; P. Zancani Montuoro, Il tempio di Persefone a Locri, in Rendic. Lincei, 1959, p. 225 ss.; A. de Franciscis, Gli acroteri marmorei del tempio di Marasà a Locri Epizefiri, in Röm. Mitt., LXVII, 1960, p. i ss.; id., Agalmata. Sculture antiche nel Museo Nazionale di Reggio Calabria, Napoli 1960, passim. Per le tavolette votive fittili, v. infra.

(A. de Franciscis)

I pìnakes di Locri. - Le tabelle fittili (pìnakes, pinàkia, da πίναξ) con decorazione figurata a rilievo e vivacissima policromia, furono l'ex voto preferito per parecchi decenni dai fedeli del santuario, probabilmente di Persefone, a monte della città antica (contrada Marasà: v. sopra).

Erano quadretti rettangolari - sviluppati in larghezza o in altezza secondo la rappresentazione, la cui misura massima supera di rado e di poco 30 cm - da sospendere alle pareti degli edifici o forse anche agli alberi nel sacro recinto della dea. Come tutte le immagini di culto, oltre che offerti nel santuario, furono venerati nelle case, a quanto dimostra qualche pezzo trovato nei quartieri di abitazione o in tombe della città bassa. Un esemplare fu dedicato alla Malophoros presso Selinunte ed un altro nell'antica Ipponio.

Ma l'enorme massa di frammenti ed i pochi esemplari interi provengono tutti dal vallone ai piedi del colle Mannella e dai terreni sottostanti, dove gli oggetti votivi precipitarono, spezzandosi e sparpagliandosi, in seguito alle frane.

I primi pezzi apparvero nel commercio antiquario verso la metà del secolo scorso, ma solo cinquant'anni più tardi, quando si andarono formando collezioni locali (la più cospicua di D. Candida, acquistata dallo Stato, fu destinata temporaneamente al museo di Taranto) e un centinaio di frammenti entrarono in quella dell'Università di Heidelberg, si poté stabilire con certezza la loro provenienza e s'intrapresero regolari scavi sul posto (Orsi, 1908-13). Salvo pochi pezzi ancora dislocati in altri musei italiani (Taranto, Napoli, Siracusa, Rovereto) ed in qualche collezione privata, le tabelle sono ora tutte riunite ed esposte nel Museo Naz. di Reggio Calabria; all'estero, oltre al gruppo principale di Heidelberg, vi sono alcuni frammenti nel British Museum, a Tubinga, Filadelfia, Amsterdam e Berlino ed uno rispettivamente a Monaco, Gottinga ed al Metropolitan Museum di New York.

I rilievi erano impressi nell'argilla locrese - facile a distinguersi per le pagliuzze di mica - da matrici, di cui non si è trovato finora alcun resto. Che però anche queste fossero di terracotta e prodotte a L. può affermarsi senza esitazione, sia per lo stile delle rappresentazioni, sia per i loro soggetti relativi a miti e riti locali, sia perché esse furono rifatte e rimaneggiate in molti modi, come risulta chiaramente dalle positive superstiti.

Quando una matrice rotta o logorata dall'uso non poteva più servire, se ne otteneva una nuova, ricalcando una positiva; naturalmente gli esemplari espressi da questo secondo stampo risultavano di dimensioni minori per la contrazione dell'argilla nelle due cotture e, poiché il procedimento è stato ripetuto più volte per i tipi più popolari, si hanno esemplari di proporzioni ridottissime rispetto a quelli formati dalla matrice originaria e col rilievo molto attenuato attraverso la successione dei calchi. In questi casi i coroplasti ritoccavano le positive con la stecca riproducendo pressappoco le linee primitive ed aggiungevano con argilla fresca i particolari svaniti. Tali metodi spesso sommari di rifacimento riflettono intenti più commerciali che artistici e complicano per noi il lavoro di ricostruzione dei prototipi; d'altro canto forniscono qualche prezioso indizio cronologico sulla continuità della produzione, mostrando acconciature, abiti o mobili modificati nel ritocco secondo la moda di un'età successiva precisamente determinabile.

Le varianti non appaiono solo negli esemplari più tardi; al contrario i figuli locresi hanno sfruttato fin da principio molti espedienti per aumentare con un minimo sforzo la varietà dei rilievi da offrire al gusto, al sentimento religioso ed alle possibilità finanziarie dei diversi clienti. Hanno usato piccoli punzoni per modificare da un esemplare all'altro dello stesso tipo qualche oggetto od ornamento; hanno tagliato ai margini le positive, riducendo il campo ed il numero dei personaggi; hanno raschiato dalla positiva umida particolari o intere figure, sostituendoli col solo colore; hanno combinato parti stampate da due matrici, ritoccando quanto capitava lungo la linea di giuntura; ed infine hanno ritagliato i contorni delle figure per adattarle ad altri usi.

Di alcuni rilievi, contornati da una larga fascia a mo' di cornice, accanto agli esemplari ravvivati dalla solita policromia, se ne hanno altri uniformemente cosparsi di un colore metallico (biossido di stagno all'analisi) fino al limite della zona marginale, ch'è dipinta di rosso, per simulare nell'umile terracotta una lamina d'argento con le figure a sbalzo applicata su d'un fondo ligneo o d'altra materia più pregiata. In ciò si ha una materiale riprova delle analogie, che sono già state osservate, fra i nostri rilievi ed i prodotti della metallurgia locrese, ossia degli stretti rapporti, se non addirittura dell'identità, dei bronzieri con i modellatori dei pinàkia.

I colori violenti e generalmente convenzionali (ad esempio i muli d'una pariglia spiccano giallo croco l'uno e l'altro d'un rosso fiammeggiante; le carni femminili rosa pallido e le maschili brunastre; i capelli rossi o gialli) sono applicati sull'ingubbiatura di latte di calce, spesso senza riguardi per le linee accurate del rilievo; il fondo è azzurro o, più di rado, rosso, a caso e indipendentemente dal soggetto.

Il periodo di creazione dei tipi si può approssimativamente circoscrivere entro la prima metà del V sec. a. C. con una punta massima di attività fra il 470 e il 460 circa: pochi pezzi, difficili a giudicarsi perché frammentarî e da matrici consunte, risalgono allo scorcio del VI e pochissimi sono databili dopo il 450; ma la produzione, via via più sciatta, delle positive si protrasse per tutto il secolo, se non oltre.

Le prime tabelle sono più piccole, più semplici nella composizione e contengono un minor numero di personaggi: si complicano poi gli schemi e le figure si addensano, benché persista (salvo le scene del ratto) una ricercata compostezza di gesti e d'atteggiamenti, ispirata dal tema e dalla destinazione dei rilievi, ma più evidente nell'opera di taluni coroplasti.

Sullo sfondo del comune indirizzo d'arte si distinguono infatti le personalità di singoli plasticatori tanto per l'età e lo stile, quanto per la tecnica e la scelta dei soggetti. I caratteri vagamente ionici di tutta la serie (schemi e tipi di figure, composizione in prevalenza paratattica, predilezione per le forme opulente, interesse per le minuzie dei panneggi e degli ornamenti a scapito della struttura e dei valori plastici) hanno fatto richiamare a confronto sculture insulari e della Ionia d'Asia o postulare l'influsso di una determinata corrente, anche in rapporto con eventi storici, come l'immigrazione a L. di coloni da Samo. In realtà tali caratteri si possono riportare alla tendenza generalizzata nel periodo di formazione di questa scuola, mentre la mescolanza di altri fattori non sempre organicamente assimilati, taluni accenti ingenuamente enfatici e la stessa esuberanza nell'ideare e rappresentare ogni soggetto rispecchiano con chiarezza l'ambiente coloniale di Locri. Anzi, la straordinaria ricchezza di questa classe di rilievi ne fa l'esponente più significativo e rivelatore dell'arte italiota nell'età dell'arcaismo maturo; e ne sono ovvie le affinità di pensiero e di forme con molti prodotti tarantini, in ispecie le cosiddette arule.

Quanto ai soggetti, si riconoscevano nei quadretti votivi noti fino a qualche anno fa (una quarantina in tutto) Persefone e Plutone raffigurati come idoli, il ratto della dea (cui si attribuiva a preferenza significato allegorico) ed immagini della beata vita nell'Oltretomba promessa agli iniziati d'una setta misteriosofica. La più recente esegesi, fondata sulla ricostruzione di 176 tipi e 28 varianti, esclude invece il culto dei morti e l'ispirazione mistica, riportando il complesso delle rappresentazioni ad un solo ciclo figurativo di soggetto mitico: la leggenda di Kore-Persefone, che si compendia nel trasformarsi della fanciulla per antonomasia nella donna e dea sovrana del mondo sconosciuto ai sensi. Alla dolorosa violenza del ratto seguono i riti catartici e propiziatori, poi le festose cerimonie per le nozze e per l'insediamento sul trono col concorso di molti altri numi. Alcuni scrittori antichi assicurano che questa theogamia si celebrava con annuali solennità dai Greci in Sicilia, come in altri luoghi del mondo antico, e tutto induce a credere che la sua sostanza informasse la religione del santuario locrese.

Le tabelle sono state quindi ripartite per soggetti in 10 gruppi numerati, sotto i quali sono elencati i singoli tipi, mentre le rispettive varianti sono state contrassegnate da lettere: si potrà così citare, ad esempio, la tabella 2-3 B per indicare la seconda variante del terzo tipo nel secondo gruppo.

La successione dei gruppi è la seguente:

1) Animali sacri alla dea, mobili e arredi del culto, senza personaggi. 2) Il ratto di Kore ad opera di Plutone o, più spesso, d'un delegato, probabilmente un Dioscuro. 3) Scene di sacrificio e allestimento del rito. 4) Raccolta delle frutta per la sposa ed altre scene con alberi e piante. 5) Preparazione, trasporto e consegna alla dea del peplo nuziale insieme con la corona e le frutta; ed altre processioni. 6) Vestizione ed acconciatura della dea (kòsmesis). 7) Preparazione del letto, corteo nuziale e porta del talamo. 8) Persefone sola o con Plutone riceve altre divinità o semi-dei, recanti dono (anakalyptèria). 9) Persefone apre la cista, che contiene nn bimbo o una bambina. 10) Rappresentazioni varie o dubbie e frammenti incerti.

Bibl.: Le sole pubblicazioni d'insieme sono ancora quelle di Q. Quagliati, in Ausonia, III, 1908, p. 136 ss.; P. Orsi, in Boll. d'Arte, III, 1909, pp. 406 ss.; 463 ss. Per i frammenti: di Heidelberg: Sitzungsber. d. Heid. Akad. d. Wiss., Phil.-hist. Kl., 1911, 9. Abh. p. 9 ss.; Arch. Anz., XXXVI, 1921, p. 292 ss.; Röm. Mitt. LX-LXI, 1954, p. 62 ss.; di Filadelfia: Bull. Univ. Mus. Philad., VIII, n. 2-3, p. 12 ss., tav. VIII s.; di Londra: R. H. Higgins, Cat. of the Terrac., brit. Mus., I, nn. 1215-1225; di Napoli: A. Levi, Le Terrac. fig. del Museo Naz. di Napoli, nn. 69-79; di Reggio, già Museo Civico: Italia Antichissima, III, p. 123 ss. Descrizioni e riproduzioni di uno o più pezzi si trovano in molti lessici, manuali e articoli di storia della arte e delle religioni antiche; principalmente: A. W. Oldfather, in Philologus, LXIX, 1910, p. 212 ss.; id., ibid., LXXI, 1912, p. 321 ss.; id., in Pauly-Wissowa, XIII, 1927, p. 1289 ss., s. v. Lokroi; B. Ashmole, Greek Sculpture in Sic. a. S.-Italy, 1934, p. 15 ss., tav. VI ss.; T. J. Dunbabin, The Western Greeks, p. 293 ss. Per le ricostruzioni recenti (in complesso inedite) e l'interpretazione dei soggetti: P. Zancani Montuoro, in Paolo Orsi, Suppl. Arch. Stor. Cal. e Luc., V, 1935, p. 195 ss., tav. XIII ss.; id., in Riv. Ist. Arch. St. Arte, VII, 1940, p. 205 ss.; id., in Atti e Mem. Soc. Magna Grecia, N. S., I, 1954, p. 73 ss., tav. XIII ss.; id., in Rend. Acc. Archeol. Lett. e B. A., Napoli XXIX, 1954, p. 79 ss., tav. VIII s.; id., in Arch. stor. Cal. e Luc., XXIV, 1955, p. 283 ss., tav. I ss.; id., in Arch. Class., XII, 1960, p. 37 ss., tav. I-VIII.

(P. Zancani Montuoro)