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Muratori, Lodovico Antonio

di Mario Fubini - Enciclopedia Dantesca (1970)
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Muratori, Lodovico Antonio

Mario Fubini

Al rinnovato interesse per la poesia di D., che si manifesta nei primi decenni del sec. XVIII coi giudizi, a tacer d'altri, del Gravina, del Conti, del Vico, non partecipa il M., il quale anzi dimostra verso la Commedia una non dissimulata diffidenza per non dire avversione (" Troppo è famosa la sua, come chiamasi, Divina Commedia ", Perfetta poesia, I 3), e D. nomina sempre come " gran filosofo ", con sottinteso giudizio negativo sul poeta. Di fatto a tenerlo lontano dalla Commedia sin dal suo noviziato letterario dovette aver parte una prevenzione di carattere religioso-confessionale che si palesa in un altro passo della Perfetta poesia (" Si potrà... opporre a D., che in più d'un luogo dimenticò di trattare nel suo poema un argomento cristiano, permettendo che la sua fantasia mischiasse col profano il sacro, e spezialmente allorché introdusse nel Purgatorio Virgilio e Catone, uomini senza dubbio portati dalla lor falsa credenza ad un più infelice soggiorno ", ibid., I 21), dal quale risulta non solo la scarsa familiarità col poema per aver posto sullo stesso piano Virgilio e Catone rispetto alla salvezza eterna, ma soprattutto la persistente influenza di una tradizione controriformistica in contrasto con tanti altri atteggiamenti di lui, che più di una volta fu accusato di ‛ ghibellinismo ' e in cui la critica recente ha riconosciuto uno dei rappresentanti più autorevoli del cosidetto ‛ preilluminismo '. Ma a parte questa origine remota l'estraneità sua alla Commedia si spiega con l'orientamento del suo gusto, conforme ai canoni tardo-rinascimentali e razionalistici, alla conseguente diffidenza per quella che sarà poi esaltata come ‛ poesia primitiva ': nella querelle fra antichi e moderni egli si schiera risolutamente fra i moderni. " Il grande ossequio ", egli scrive (ibid., II 21) " mostrato da' popoli ai primi eccellenti poeti, ha forse troppo alle volte impegnata la posterità nella venerazione delle opere loro. Se si avesse ora da premiare il merito d'Omero primo fra' Greci, e di D. primo fra gl'Italiani, con qualche glorioso titolo, non mancherebbero genti di gran senno e letteratura che mal volentieri concederebbono loro il soprannome di poeti Divini ". Ma se pur criticando Omero per tanti passi ed episodi che offendono il gusto, la morale, la religione, era disposto a riconoscergli " virtù mirabili ", il giudizio suo sul D. della Commedia era del tutto negativo. L'offendeva l'oscurità di tanti suoi passi e del poema tutto (" Ora noi che per riverenza non accusiamo già, ma neppur lodiamo D. per la sua oscurità, accuseremo bensì di pessimo gusto coloro che amano piuttosto e lodano più la notte d'alcuni vecchi scrittori che il giorno risplendente de' nuovi ", ibid., II 9); un linguaggio ostico, per tante voci rozze, barbare, ormai desuete (e le sue censure erano ribattute dal Salvini nelle Annotazioni col monito di studiar meglio la lingua degli antichi per riconoscere l'appropriatezza e il vigore dell'espressione dantesca); ma sopra tutto l'intrusione in un'opera poetica del " barbaro linguaggio delle scuole sommamente disdicevole al genio della poesia " (ibid., III 7). Non che egli pensasse che si sconvenga al poeta la conoscenza della filosofia, che di per sé potrebbe rinvigorire la sua ispirazione, bensì riteneva vizio precipuo dell'autore della Commedia " l'aver trattato molte cose filosofiche e dottrinali in versi con termini scolastici e barbari, con sensi scuri, e per modo di disputa, come s'egli fusse stato in una scuola di qualche Peripatetico e non tra le amenità del Parnaso " (ibid.). Così il poeta era venuto meno al fine suo proprio, che è, egli diceva, concorde col Castelvetro, di " parlar col popolo " (ibid., II 9), e non già " co' soli Peripatetici ". La Commedia che, a parte queste censure, non è ricordata nella Perfetta poesia che incidentalmente per qualche, una o due, similitudine appropriata, non costituì per lui nemmeno un problema.

Per questo nella sua speculazione estetico-critica, che ha per fine di promuovere il retto intendimento dei " buoni autori ", determinando a un tempo i caratteri propri del vero poetico e che s'incentra sulla poesia petrarchesca, D. non avrebbe parte se non fosse che di contro al D. della Commedia egli non avesse scoperto il D. lirico tanto meno ostico al suo gusto. È questa una scoperta di cui egli particolarmente si compiace contrapponendo sin dalle prime pagine della Perfetta poesia al D. della Commedia il D. delle liriche. Così infatti prosegue il passo di cui è citato l'inizio: " Troppo è famosa la sua, come chiamasi, Divina Commedia: ma io per me non ho minore stima delle sue liriche poesie; anzi porto opinione che in queste risplenda qualche virtù che non appar sì sovente nel maggior poema. E nei sonetti e nelle canzoni sue si scopre un'aria di felicissimo poeta; veggonsi quivi molte gemme, tuttoché alle volte mal pulite o legate. Né la rozzezza impedisce il riconoscere ne' suoi versi un pensar sugoso, nobile e gentile " (Perfetta poesia, I 3). Non gli facevano velo in questo caso le prevenzioni di ‛ moderno ', e anche la " rozzezza " di quegli antichi versi trovava grazia presso di lui per una vena di poesia che poteva esser accolta dal nuovo gusto arcadico. Così nel discorrere delle immagini fantastiche gli soccorre fra gli altri esempi il sonetto dantesco Cavalcando l'altr'ier per un cammino presentato con queste significative parole: " Parvemi assai viva e vaga una di D. nella Vita nuova; e comeché sia espressa con umili parole, tuttavia è maravigliosamente aiutata da una graziosa purità " (ibid., I 15). Non solo, ma a riprova del suo giudizio sulle liriche dantesche riporta (ibid., I 3) dal codice Ambrosiano O 63 sup., pubblicandolo per primo, il sonetto Di donne io vidi una gentile schiera. " La sua lezione fu accettata in tutte le posteriori edizioni, e può darsi che il sonetto piaccia di più con quei concieri " ha scritto Michele Barbi nel presentarne un testo più rispondente alle esigenze della moderna filologia.

Né è da passar sotto silenzio la risolutezza del M. nell'attribuire a D. il De vulg. Eloq. (ibid., I 3 e passim) - negandogli altrettanto risolutamente la paternità della traduzione italiana -, in contrasto con la non ancor sopita opposizione di filologi e letterati fiorentini, ribadita in parecchie pagine delle Annotazioni di A.M. Salvini.

Ma fra quanti polemizzarono su questo o quel punto della critica muratoriana va ricordato Biagio Schiavo, che nella prefazione alla Retorica di Aristotele tradotta da Annibal Caro con vivacità e non senza eccessi controbatte giudizi del M. sul Petrarca e su D., del quale riporta copia di esempi di varia e robusta poesia, concludendo il suo discorso con le seguenti parole: " Tenete per infallibile, che 'l sugo e 'l nervo del dire, la grandezza e la varietà del numero, la proprietà dell'espressione, l'energia e l'enargia, non s'impara da nessuno scrittore italiano meglio che da Dante ".

Bibl. - L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, con le annotazioni critiche di A.M. Salvini, Milano 1821, voll. 4 (I ediz. 1953; A. Vallone, La critica dantesca nel Settecento, Firenze 1961; L.A. M., Opere, a c. di G. Falco e F. Forti, Milano-Napoli 1964; M. Fubini, D. dal Barocco all'Arcadia, in " Terzo Programma " 4 (1965); ID., Le ‛ Osservazioni ' del M. al Petrarca e la critica letteraria nell'età dell'Arcadia, in Dal M. al Baretti, Bari 1968³; ID., L.A.M. letterato e scrittore, ibid.

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