LONGOBARDI

Enciclopedia Italiana (1934)

LONGOBARDI

Augusto LIZIER
Giuseppe CIARDI-DUPRE'

. I Longobardi - o Langobardi - secondo tradizioni e leggende narrate dal loro storico Paolo di Warnefrido forse anche su fonti gotiche e reminiscenze classiche, si sarebbero chiamati originariamente Winnili (combattenti vittoriosi); poi avrebbero assunto il nome ab intactae ferro barbae longitudine dopo che longibarbati li aveva chiamati il dio Wotan, scambiandoli con le loro donne le quali, seguendo il consiglio di Frea moglie del dio, s'erano lasciati cadere sulla faccia, a guisa di barba, i capelli disciolti.

L'etimologia dal nome non è assurda; tanto più se si mette in relazione col culto di Wotan, fra i cui attributi era appunto l'imponenza della barba. Altri, invece, vorrebbe derivato il nome dalle lunghe lance (alabarde) e qualcuno, meno attendibilmente, da lange Börde o estesa pianura litoranea, come erano le loro sedi originarie, che, secondo indicazioni oscure e discusse di Paolo Diacono, sarebbero state l'"isola" della Scandinavia. Ma si ha ragione di sospettare che questa provenienza scandinava, come lo stesso nome di Winnili, siano entrati nella leggenda longobarda per contaminazione con le antiche tradizioni dei Goti, sulle quali, a un certo momento, per nobilitarsi alquanto, i Longobardi avrebbero ricalcato la loro prima storia. Invece le ricerche glottologiche, confermate da affinità di costumi, corrispondenza di istituzioni giuridiche e politiche, fanno appartenere i Longobardi ai Germani occidentali, ascrivendoli al gruppo ingavonico insieme ai Frisî, agli Angli, ai Sassoni. Le loro sedi più antiche, dove cominciarono a differenziarsi dagli altri popoli di comune origine, sarebbero state le regioni del basso Elba; e si vuol riconoscere nel Bardengau, nome di territorio, ed in Bardowick, nome di antica città presso l'attuale Lüneberg, traccia dell'antica dimora.

Stando ai pochi cenni delle fonti classiche sui Longobardi, essi, sottomessi da Tiberio nel 5 d. C., sarebbero subito dopo passati sotto i Marcomanni, liberandosene poi con l'aiuto di Arminio, re dei Cherusci. Nel 47, possono già dare aiuto al nipote di Amunio, cacciato dal trono. Nel 165, molti di essi, con altri popoli, fanno una incursione in Pannonia: segno che già si erano allontanati dalle loro sedi, costretti forse dalla pressione dei popoli finitimi più potenti. Dopo di allora le fonti classiche tacciono. Paolo Diacono, invece, che accoglie leggende tradizionali non prive di valore storico - il ricordo, se non altro, della grande instabilità di questo popolo, costretto a continue peregrinazioni attraverso terre spesso inospiti - ci narra che i Longobardi dalla Scandinavia passano in Scoringa (paese rivierasco) dove vengono a guerra coi Vandali e li sconfiggono, trasportandosi in seguito in Mauringa (paese acquitrinoso) dove trovano il passaggio ostacolato dalla resistenza degli Assipidi, che però sono vinti, e poi in Golanda (Yôlaida, la sconfinata steppa), donde passano ad abitare i distretti di Anthaib, Banthaib e Vurgundaib (Burgundaib, paese dei Burgundi). Di qui ripigliano, dopo qualche tempo, la loro marcia portandosi al di qua di un fiume, il cui passaggio, dice la leggenda, era difeso dalle Amazzoni. Ma subito dopo sono sorpresi e sconfitti dai Bulgari, che poi, alla loro volta, vincono. Infine, sotto la guida di Gûdeoc, quinto nella serie dei loro re, i Longobardi passano a occupare la terra dei Rugi, poco prima vinti e dispersi da Odoacre. Siamo così alla fine del secoloV, quando ormai la storia dei Longobardi esce dall'incertezza della leggenda.

A Gûdeoc succedono, di padre in figlio, Claffo e poi il figlio Tatone, sotto cui i Longobardi emigrano ancora verso una vasta pianura, campi patentes: certo, quella regione dell'Ungheria che va dalla Theiss al Danubio. Quivi, partiti i Goti, acquistano un potere preponderante e vasta rinomanza. Vincono e annientano gli Eruli, assoggettano gli Svevi, stringono alleanza con i Bizantini e con i Turingi e di alleanza sono richiesti dal re dei Goti, Vitige. Vacone, nipote e successore di Tatone, è il più potente re longobardo di questo periodo, che, con la vittoria sugli Svevi, dischiude al suo popolo un nuovo periodo di storia. Le parentele che egli contava con le case regnanti dei Turingi, dei Gepidi, degli Eruli, dei Franchi, mostrano il nome longobardo largamente conosciuto, rispettato, temuto. Dopo di lui, il figlio Waltari; poi, Audoin, col quale, attorno alla metà del sec. VI, i Longobardi passarono in Pannonia, stanziandovisi come federati dell'Impero. Loro compito, arginare l'avanzata dei Gepidi, estesisi, dopo la morte di Attila, dalla Theiss al corso inferiore della Sava. Certo sostennero fiere lotte coi Gepidi, mescolate a contese dinastiche. Ma ne ebbero ragione solo quando Alboino, figlio e successore di Audoin, si alleò al popolo turco degli Avari che premevano dalle Alpi di Transilvania. I Gepidi, assaliti su due fronti, furono vinti in una sanguinosa battaglia dai Longobardi; il re Cunimondo fu ucciso; Rosmunda sua figlia tratta a forza in moglie da Alboino. La vittoria dei Longobardi fu fatale alle sorti del germanesimo nell'Europa danubiana carpatica, poiché distrusse la germanica Gepidia, senza dare maggiore stabilità ai Longobardi nella Pannonia. Infatti, o inorgogliti della vittoria o allettati a nuove imprese dal mite clima, dalle terre fertili, dalle deboli condizioni politiche dell'Italia, o premuti dalla minacciosa avanzata degli Avari, che si erano tosto spinti fino alle rive della Theiss, certo è che, subito dopo vinti i Gepidi, i Longobardi lasciano la Pannonia per venire in Italia.

Da tutto quello che sappiamo dei Longobardi, si può con sicurezza argomentare che siano stati, tra i popoli germanici, dei più tardi a uscire dallo stato di civiltà primitiva. Le frequenti migrazioni, il perenne stato di guerra, come avevano mantenuto costumi rozzi e violenti, così avevano impedito lo sviluppo della loro economia e quello della loro organizzazione civile. Alla pari delle altre popolazioni germaniche, da principio ciascun gruppo deve aver provveduto da sé, sotto la guida di qualche capo, condottiero in guerra, giudice in pace, agli scarsi bisogni di un popolo pressoché nomade. Alle forme monarchiche, espressione di una volontà unita nella tutela d' interessi comuni, principio di una organizzazione politica, pare siano venuti in tempo abbastanza recente, stanchi del governo dei capi e tratti dall'esempio degli altri popoli.

Comunque, quando i Longobardi vennero in Italia, dopo essere stati al contatto di popoli più progrediti, in gran parte già guadagnati al cristianesimo, e dello stesso impero di Bisanzio, dovevano aver fatto notevoli passi sulla via della loro organizzazione militare e politica. E in Italia i Longobardi sentirono viva e progressiva l'azione della più alta civiltà dei vinti e dei più sviluppati ordinamenti dei popoli e stati confinanti, Bizantini, Franchi, Bavari. Ma anche per il carattere della loro invasione, di popolo cioè penetrato in Italia, a differenza dei barbari precedenti, senza alcun vincolo con l'impero, da vero conquistatore, non tenuto a riguardi verso i vinti (il traditum nobis a Deo populum romanorum) e le loro istituzioni, in condizioni quindi di maggiore indipendenza dalla civiltà loro, i Longobardi restarono un popolo profondamente germanico e furono, così, il principale veicolo dell'influenza germanica in Italia. D'altra parte questo stesso loro carattere di conquistatori segnò un netto distacco fra i Longobardi armati, ma poco numerosi e incolti, e gl'Italiani, vinti, ma costituenti la massa della popolazione, rimasti in possesso delle loro leggi, della loro religione, degli avanzi della loro cultura. Questo distacco non impedì una fusione fra i due popoli, ma permise ai vinti di meglio conservare la loro civiltà e di dare ai vincitori più di quanto da essi ricevessero.

Organizzazione politica, amministrativa e militare. - Per i Longobardi, lo stato originariamente è, e virtualmente non cessa mai di essere, l'unione di tutti i liberi atti alle armi, la cui volontà si esprime nelle assemblee generali, fonte di tutti i poteri, quello sovrano compreso. Anche quando, per l'irrobustirsi del potere regio, da una parte, per le crescenti difficoltà pratiche della loro riunione e del loro funzionamento, dall'altra, il valore politico di tali assemblee va scadendo ed esse si trasformano in adunanze di alti dignitarî, convocate e presiedute dal re, mentre il popolo vi assiste solo pro forma; anche allora le assemblee non sono mai soppresse. Anzi esse, espressione del principio che gli uomini liberi non possono essere costretti se non a ciò cui hanno acconsentito, restano sempre in possesso, virtuale almeno, della somma della pubblica potestà. Quindi anche il potere regio emana dall'assemblea, e la corona è, perciò, elettiva. La successione ereditaria ha potuto essere molte volte un fatto, e raramente nella elezione non è stato rispettato qualche vincolo di sangue; ma non è mai stata un diritto, e il re, come era eletto dalla nazione, o per lo meno, se la elezione era avvenuta per opera di pochi potenti, acclamato nell'assemblea, così poteva essere anche da questa deposto. Tuttavia i re longobardi presto mostrarono la tendenza ad assumere le forme e i caratteri dell'assolutismo romano. Li aiutò in questo lo stesso concetto cristiano del potere sovrano; più ancora, dovette influire il carattere che essi, di fronte alla popolazione italiana dei vinti, avevano di sovrani impostisi con pienezza di potere per diritto di conquista. Il primo e più alto potere del re è sempre quello militare, che è quello da cui pare tragga origine la stessa monarchia, la cui sovranità è essenzialmente rivolta al conseguimento dei fini per i quali è necessario l'impiego delle armi, e perciò, accettata in guerra, essa è contrastata in pace.

Con tutto ciò la monarchia, pure lottando con le forze decentratrici, ha raccolto in Italia tutti i poteri: il re comanda l'esercito, decide della pace e della guerra; convoca, in occasione dell'annuale rassegna dell'esercito, per solito nel mese di marzo, le assemblee che sono in origine l'esercito stesso, e le presiede con piena iniziativa della loro attività e con azione sempre più prevalente che gli dà, quindi, la direzione del supremo potere legislativo; è capo del potere giudiziario e giudica direttamente in tutte le cause più gravi e nei casi di denegata giustizia; accorda il suo alto patrocinio, mundium o mundiburdium regis, scutum regiae potestatis, a tutte le persone deboli, povere, incapaci di far uso delle armi, che manchino di un loro naturale e legittimo mundoaldo; presiede infine a tutta l'amministrazione del regno. I re longobardi non abbandonano il costume germanico di circondarsi di compagni d'arme fidati, gasindii, fideles; ne fanno anzi una categoria speciale munita di una particolare defensio regia, che si precisa in un guidrigildo superiore a quello degli altri arimanni. Ma da essi il re trae gli ufficiali della sua corte (marpahis, stolesazo, dudos, scapto) i quali, con l'allargamento del potere del re, si sono trasformati in alti funzionarî dello stato. La corte regia assume così il carattere di un'amministrazione centrale, che si foggia sul modello della corte imperiale, del palatium, e la sua sede, quello di una capitale. Questa, pur contrastata in qualche momento da Milano, sede essa pure di re longobardi, è Ticinum, Pavia.

L'amministrazione dello stato longobardo risente essa pure del suo originario carattere militare e del suo adattamento alle istituzioni romane. Il sistema amministrativo dei Longobardi si basava, in origine, sulla loro organizzazione militare, una serie di aggruppamenti familiari (fare) riuniti fra di loro in modo da formare unità sempre maggiori, i cui capi militari esercitavano, anche con il concorso degli uomini liberi e delle loro assemblee, funzioni giudiziarie e civili. Venuti in Italia e prese stabili sedi, i Longobardi si trovarono costretti ad adottare un sistema di circoscrizioni territoriali, che furono quelle dell'amministrazione romana: non la provincia, che scomparve, ma le civitates, coi loro municipia, vici e pagi, già più autonome, più intimamente legate alla vita locale, più resistenti. Ed esse servirono di base alle nuove circoscrizioni territoriali dei ducati (gau, districtus, iudiciaria). Alla loro testa stavano degli ufficiali, latinamente detti duces, o anche iudices (ignoriamo il vero originario titolo), provvisti, per quella inscindibilità di poteri propria degli stati primitivi, di autorità militare, giudiziaria, civile, arbitri del disbrigo degli affari delle assemblee locali. La loro nomina dipendeva dal re ed era di solito a vita. Ma, non ostante le tendenze assolutiste e gli sforzi centralizzatori della monarchia, i re longobardi non riescono mai a tenere pienamente soggetti a sé i duchi che rappresentavano le tendenze autonomiste, particolariste, decentralizzatrici. Essi furono specialmente impotenti contro i duchi delle regioni di confine (Friuli, Spoleto, Benevento) sempre pronti a insorgere, e di fatto resisi pressoché indipendenti.

Erano però sottratte alla giurisdizione dei duchi tutte le terre, città, villaggi dell'immenso patrimonio della corona, che erano governate direttamente dal re per mezzo dei suoi agenti preposti all'amministrazione delle pubbliche sostanze, incaricati di far valere i diritti del fisco, di difendere le donazioni, le immunità, i benefici concessi dal re: i gastaldii. I gastaldii, pur essendo anch'essi investiti di poteri amministrativi, giudiziarî e di autorità militare, e pur essendo del tutto indipendenti dai duchi, non avevano la pienezza di poteri di questi, e, nominati a tempo, restano più soggetti all'autorità del sovrano e meglio conservano il carattere di organi esecutori del suo potere. La monarchia tende così ad appoggiarsi ai gastaldi più che ai duchi e ad estendere l'area della loro giurisdizione, sottomettendo talora a quelli interi distretti tolti a questi. Entro le maggiori circoscrizioni dei duchi e dei gastaldi si differenziavano quelle minori, governate da ufficiali da essi dipendenti che portavano i nomi di sculdhais, sculdasius, o anche centenarius, scario, oberscarius (biscario). decanus, actionarius, nomi tratti in parte dalla gerarchia militare e che accoppiavano, con più limitate attribuzioni, le varie giurisdizioni.

Strettamente congiunta con l'ordinamento politico e amministrativo dello stato è l'organizzazione militare. Ogni libero è per dovere e per diritto arimannus, cioè exercitalis qui sequitur scutum regis, l'esercito è il popolo in armi. Base della formazione dell'esercito è in origine l'aggruppamento familiare della fara che ne costituiva la più piccola unità. I loro maggiori aggruppamenti formavano le unità maggiori, latinamente dette decania, centena. Più centene costituivano le maggiori unità comandate dai duchi. Dopo la conquista, distribuite le varie fare nelle varie parti del territorio, collocatisi i varî capi militari, i duchi nelle città, gli sculdasci, i decani da loro dipendenti nei centri minori, alla base gentilizia si è dovuta sostituire quella territoriale. Si perfeziona, inoltre, l'organizzazione militare con un più largo uso della cavalleria, imposto, fra l'altro, dalla necessità di combattere Franchi e Bizantini dotati di una bene agguerrita cavalleria pesante.

Anche presso i Longobardi la prestazione militare dovette essere subordinata alla condizione economica e differenziata dalla maggiore o minore ricchezza misurata principalmente dalla proprietà del suolo. Con Astolfo, le categorie della milizia sono definitivamente fondate sul diverso grado di ricchezza immobiliare. Esclusi dall'esercizio delle armi erano i non liberi, salvo le eccezioni determinate dalla suprema necessità di guerra; ed esclusa, da principio, anche la popolazione sottomessa. Ma adeguatosi l'obbligo militare alla capacità economica, avvicinatisi sempre più i vincitori ai vinti, l'esclusione, che sarebbe ormai stata un privilegio, dovette cessare. Lo provano i negotiatores, dei quali i più dovevano essere romani, chiamati alle armi da Astolfo. Il re dava l'ordine di raduno cui tutti dovevano obbedire pena la multa di 20 soldi, assumeva personalmente il comando dell'esercito, lo scioglieva appena compiute le operazioni militari. La conquista dell'Italia impose ai Longobardi la necessità della difesa dei confini sì dalla parte dei Greci che da quella dei Franchi. Lungo le varie linee di confine essi posero, con le stesse caratteristiche delle colonie dei milites limitanei dei Bizantini, degli stanziamenti di arimanni cui erano date in possesso delle terre e l'uso, come è probabile, di pascoli per il mantenimento dei cavalli, con l'obbligo, gravante sulle terre concesse, di provvedere alla difesa del fortilizio, della chiusa, della città cui erano assegnati. Tali stanziamenti vennero a costituire degli speciali distretti amministrativi (arimannia) sottratti alla giurisdizione ordinaria dei comuni iudices, sottoposti a quella diretta del re.

Di un sistema tributario e finanziario presso i Longobardi non è il caso di parlare. Nulla conosciamo di particolare. Scarsi, in ogni caso, i bisogni della loro rudimentale organizzazione politica. L'esercito bastava a sé stesso, i giudici si pagavano con le ammende e la giustizia, d'altra parte, era in molti casi affare privato. Alle opere pubbliche provvedevano i più direttamente interessati. Soccorrevano, inoltre, bottini e imposizioni di guerra, e spesse volte bastavano le sostanze del re e dei capi. In Italia, nei primi tempi della conquista, i Longobardi dovettero restar paghi di requisizioni e di bottino. Passato, però, il primo periodo di violenze depredatrici e di spogliazioni tumultuose e costretti essi a provvedere con una certa regolare continuità al loro sostentamento, imposero ai proprietarî romani, là dove trovavano comodo d'insediarsi - è improbabile infatti che si disperdessero per tutto il paese - una contribuzione o requisizione diretta di derrate nella misura di un terzo dei prodotti. Così i proprietarî romani diventavano tributarî dei Longobardi, già messi a loro carico; e questi furono hospites dei Romani in analogia al sistema di acquartieramento (hospitalitas), già in uso tra i Romani nei riguardi dei barbari insediatisi nelle terre dell'impero. Riorganizzatosi però, con Autari, il regno, veniva creato, con la cessione di metà delle sostanze e rendite dei duchi, un vasto demanio regio che sopperisse alle necessità finanziarie della corona; e venne anche rimaneggiata la contribuzione della tertia.

Delle imposte vigenti al momento dell'invasione, l'imposta diretta fondiaria romana e l'imposta sul capitale impiegato nel commercio non sono più ricordate. Del resto, il disorganizzarsi delle curie che ne erano l'organo di riscossione, gli sconvolgimenti portati nella proprietà fondiaria, la penuria crescente di moneta, forse anche la repugnanza germanica alle imposte dirette, dovettero concorrere a farle rapidamente sparire. È dubbio se continuasse il testaticum, o capitatio humana o plebeia, che già i proprietarî romani erano andati scaricando sui rustici della pars colonicia delle loro terre. Forse si trasformò in un censo patrimoniale, quale più tardi troviamo qua e là dovuto dai coloni alle curtes da cui dipendevano. Si mantenne invece, si andò anzi sviluppando, come più rispondente alle consuetudini dei nuovi dominatori, alla debole organizzazione statale, alla impoverita economia pubblica, tutto un sistema di tasse e d'imposte indirette che diventò il nerbo del sistema tributario dei Longobaldi: diritti di transito e di approdo, diritti sui mercati, diritti di pascolo, di caccia, di pesca, oneri relativi alle opere pubbliche, vie, mura, terme, cloache, contribuzioni per l'esercito in moto, per il sovrano e la corte al loro passaggio, per i pubblici ufficiali recantisi sul posto per l'esercizio delle loro funzioni. Molti di questi oneri erano in natura. Più, però, che da questi diritti fiscali, per la maggior parte consumati sul posto, assorbiti nei servizî stessi da cui avevano avuto origine, goduti dai duchi e dai loro ufficiali, l'erario regio era alimentato dalle rendite dell'immenso patrimonio del re, che, se era spesso assottigliato da donazioni e concessioni a luoghi pii, a fedeli del re o ad altri, era anche continuamente accresciuto dalle nuove occupazioni territoriali, dalle confische giudiziarie, dalle successioni devolute al fisco. Disseminato in tutte le parti del regno, più o meno discontinuo, diviso in curtes, actus e altre ninori unità, retto dalle curtes gastaldiali, i suoi redditi mettevano capo alla curtis regia di Pavia, o palatium, l'organismo centrale finanziario del regno.

Diritto. - I Longobardi, anche dopo la loro venuta in Italia, tutti intenti dapprima a rassodare la loro conquista, continuarono per varî anni ad attenersi alle loro antiche leggi o consuetudini, cavarfide, che essi sola memoria et usu retinebant (Paolo Diacono, IV, 44). La codificazione e il riordinamento delle leggi longobarde si ha solo con Rotari che, nella sua vasta opera intesa a ordinare e a consolidare lo stato all'interno e all'esterno e a ravvivarvi la vita nazionale, volle mettere per scritto le antiche leggi, completandole col consiglio e il consentimento dei primati giudici e di tutto il popolo dei liberi. L'Edictus regis Hrotaris (v. rotari: Editto di), promulgato in Pavia il 22 novembre 643, indirizzato a tutti i sudditi, con evidente tendenza a dare alla legge carattere universale e territoriale, diventò la base fondamentale della legislazione longobarda. I re successivi non fecero che apportarvi aggiunte e modificazioni: Grimoaldo con 9 capitoli (688), Liutprando con 153 (713-731), mentre 8 ne aggiunse Rachi (746) e 22 Astolfo (750 e 755). Caduto il regno, i duchi di Benevento, considerandosi quasi successori dei re longobardi, emanarono essi pure alcune leggi come aggiunte all'editto. Però, nemmeno là dove sottentrò la dominazione franca il diritto longobardo scomparve. Esso continuò a vivere come diritto personale. Anzi, sviluppatisi gli studî di diritto, fu oggetto di una elaborazione il cui centro fu Pavia e le cui più importanti manifestazioni si hanno nel sec. XI con il Liber regis longobardorum, o Papiensis e con la Lombarda. Però, verso la metà del sec. XIV, si può considerare vinto dal risorgente diritto romano e solo rimasto a informare alcuni istituti del diritto feudale e del diritto statutario. Qualche maggiore resistenza ebbe nelle provincie degli antichi ducati meridionali dove se ne ha qualche traccia ancora nel sec. XVI.

Il diritto longobardo è certo fra i barbarici quello che ha meglio sentito gl'influssi delle idee cristiane, del diritto romano, di quello volgare, e degli usi della vita del popolo vinto. Se ne hanno manifestazioni evidenti nell'Editto di Rotari e più ancora nelle aggiunte dei successori e specialmente di Liutprando. La sua ispirazione, tuttavia, è decisamente germanica, e si rivela in specie nel diritto penale, fondato sul concetto primitivo che il reato sia solo violazione dell'interesse particolare della parte offesa, dalla quale quindi deve partire la reazione contro il colpevole. L'azione punitiva è quindi d'iniziativa privata, vindicta, faida quod est inimicitia, cioè perdita della pace di fronte all'offeso e ai suoi solidali, quando l'offesa colpisce il singolo; e d'iniziativa pubblica, per cui il colpevole perde la pace di fronte alla collettività, cade sotto il bannus del re, quando vi è violazione dell'interesse collettivo. La inimicitia privata o pubblica, però, si può estinguere pagando un'indennità (v. guidrigildo) alla parte offesa.

Vero è che al momento della codificaziome delle leggi longobarde, questi concetti, sotto l'azione del diritto romano e della chiesa, hanno avuto un ulteriore sviluppo e hanno subito qualche modificazione. Si fa strada sempre più evidente la concezione del reato come violazione del diritto sociale; lo stato meglio organizzato tende a sostituire in tutti i casi la sua azione a quella privata, il guidrigildo va perdendo del suo carattere di prezzo di riscatto per assumere quello di ammenda, mulcta, e pene pubbliche si introducono nei casi di offesa di pubblici interessi. Il legislatore longobardo cerca, così, di restringere sempre più la sfera di azione della vendetta, facendo prevalere il sistema della composizione pecuniaria, e regola questa proporzionandola all'offesa, non trascurando nemmeno l'elemento morale intenzionale. Anche il procedimento giudiziario è, nella sua essenza, germanico. La partecipazione infatti di più persone, iudices, il carattere, cioè, popolare della sentenza, rappresenta il concetto fondamentale del processo longobardo. È cessata però la completa distinzione fra chi dirige il giudizio e chi pronuncia la sentenza, nella formazione della quale concorrono tanto gli altri giudici quanto il presidente dell'assemblea, cioè il duca, il gastaldo, lo sculdascio o un loro messo. La procedura è orale e quindi formalistica. Alla prova è tenuto il convenuto ed essa consiste nel sacramentum, il giuramento, convalidato da quello di altri sacramentales, e nella pugna o duello giudiziario. Ma anche in questo campo, si nota un continuo progresso. Già Rotari, in alcuni casi di grave importanza, esclude il duello; Grimoaldo ne restringe ancor più l'uso; e Liutprando lo proibisce in parecchi casi, introducendo invece la prova documentaria e testimoniale che va gradatamente sostituendosi al duello e al giuramento. Contemporaneamente va introducendosi il principio romano che la prova spetta all'attore.

Germanico è anche il concetto della capacità giuridica e intimamente legato alla prova giudiziaria della pugna. Per la sua pienezza si richiede non solo la condizione di libero, ma anche la capacità fisica e morale dell'uso delle armi. Il libero che, per ragioni di sesso, di età, di invalidità fisica, non sia atto alle armi, ha una capacità giuridica limitata, che è però integrata dal presidio familiare. Interviene infatti allora l'istituto tutto germanico del mundio (v.) che investe tutto il diritto familiare e patrimoniale longobardo e che è dominio, ma, essenzialmente, rappresentanza giuridica, protezione e difesa che il padre di famiglia esercita verso i suoi familiari parzialmente incapaci, per tutto il tempo in cui dura la loro incapacità: quindi, fino all'età maggiore per i maschi; per tutta la vita per la donna, che non può mai selmundia vivere. Anche il servo è sottoposto al mundio del padrone, fino a che, almeno, una piena manomissione non lo renda fulfreal e amund. Chi non ha un legittimo munduald, passa sotto la protezione del re. Anche il concetto di proprietà, per quanto modificato dall'influsso delle idee romane, risente ancora dell'originaria incapacità germanica di renderlo indipendente da un rapporto materiale fra le persone e le cose, di distinguere la proprietà dal possesso, di svincolarlo dall'elemento sociale. I Longobardi, venuti in Italia, avevano certamente oltrepassato lo stadio della proprietà comune; ma prevale ancora in essi il concetto che la proprietà sia legata alla famiglia. I membri presenti di questa hanno su essa, più che un diritto di libera disponibilità, un diritto di godimento e di aspettativa.

Al centro dell'ordinamento sociale e politico longobardo, sta la famiglia. Essa, in quanto è unione di tutti quelli che si potevano considerare derivati dallo stesso stipite, cioè fara o gens, famiglia in senso largo, è, almeno alle origini, base dell'ordinamento militare e politico, centro della vita economica. Come consorzio domestico vero e proprio, che lega in una stretta solidarietà d'interessi gli immediati ascendenti, discendenti e collaterali, famiglia in senso stretto, essà è organo di quella protezione e tutela che la originariamente debole organizzazione dello stato non era in grado di dare all'individuo. Questi trova, infatti, nella famiglia assistenza ed aiuto: sia nella vindicta parentum o faida, sia nell'espiazione del crimine (concorso al pagamento del guidrigildo), sia nella prova giudiziaria del giuramento, prestato dai proprî consorti, i sacramentales e, se è ancora incapace, nella rappresentanza in giudizio e nella pugna. Per ciò, la famiglia è saldamente organizzata, tenuta unita sotto l'autorità del capo, che si esercita specialmente nel mundio, che, se è dominio che arriva fino al diritto del padre di liberarsi dei figli appena nati, esponendoli, di venderli e, in certi casi riconosciuti dalla legge, di punirli fino all'uccisione, è anche dovere di mantenimento, di protezione e di difesa. Altro beneficio per i membri della famiglia, ed elemento pure di coesione, è il godimento del patrimonio familiare.

Solenni e pubblici pertanto gli atti costitutivi della legittima famiglia: la cerimonia degli sponsali, davanti alle due parentele, con la costituzione della mêta o mêtfio, assegno maritale dello sposo alla sposa, e quella delle nozze con la traditio della sposa e la costituzione del morgengabe, cioè la donazione dello sposo alla sposa, il mattino successivo alle nozze. Più tardi si aggiunse l'assegnazione alla donna del faderfio, quod mulier de parentibus adduxit, la quota cioè che le spettava dei beni della famiglia paterna, che andò acquistando il carattere di vera e propria dote. Dalle giuste nozze si originavano i figli legittimi. Notevoli però le differenze fra i maschi e le femmine, non soltanto nei riguardi della perpetua soggezione al mundio, ma anche nella limitata capacità a succedere, che però fu di molto aumentata da Liutprando. Minori diritti, limitati diritti successorî, una qualche partecipazione alla vita della famiglia avevano i nati di concubinato, i quali potevano essere legittimati. Esclusi da ogni diritto, e per lo più esposti, erano i figli adulterini ed incestuosi. A cominciare da Liutprando, sotto la manifestazione della chiesa, si va peggiorando la condizione dei figli naturali e degli stessi legittimati.

La società longobarda non era costituita diversamente dalle altre società antiche. Anche essa era divisa in servi e in liberi. Quelli sono privi di diritti civili e politici e solo personalmente responsabili dei loro reati; sono cose, capitale di lavoro, confusi con gli animali e a essi equivalenti. Questi, sciolti da ogni dipendenza personale, hanno l'uso delle armi e fanno parte, con pienezza di capacità civile e di partecipazione alla vita pubblica, del popolo dei liberi e perciò arimanni o exercitales. Queste due classi non sono però rigide, né immobili. Esse si differenziano in categorie varie più alte o più basse e si notano in esse movimenti di ascesa e di discesa. Fra i veri servi e i liberi stanno tutti coloro la cui servitù era mitigata da qualche diritto o la cui libertà menomata da qualche vincolo. In primo luogo gli aldî, vincolati al fondo di cui godevano il possesso, obbligati, quindi, verso un dominus, ma con diritto a famiglia legittima ed a libera proprietà; condizione non dissimile da quella dei coloni romani coi quali facilmente si confusero. Accanto a questi, in condizione inferiore, ma che tende a migliorare, tutta una classe di servi: manentes o massarii, adibiti al lavoro dei campi, ma verso corresponsione di solo una quota parte del prodotto e di determinati servizî personali, che formano essi pure famiglia legittima, hanno proprio peculio e protezione della legge contro gli arbitrî del padrone; i servi regi, i servi ecclesiae, servi addetti a qualche ufficio o arte manuale, ministerium, cioè i servi ministeriales; categorie tutte nelle quali il diritto assoluto del padrone, spesso anche per solo effetto di consuetudini locali, va di molto attenuandosi, avvicinandole alla condizione degli aldî. Parimenti dai liberi si distacca, ancora prima della conquista, la classe dei nobili; nobiltà di schiatta d'incerte origini, forse guerresche e forse in parte anche sacerdotali.

L'antica nobiltà, di molto assottigliatasi dopo la conquista, si andò confondendo con la nobiltà nuova che traeva le sue origini dal servire il sovrano a corte, negli uffici, nell'esercito, o dalle ricchezze, specialmente dal possesso fondiario diventato misura del grado del servizio militare e quindi della dignità personale. Differenza di grado fra i liberi troviamo nelle carte e nelle leggi ove si parla di optimates, maiores, proceres, mediani, minores e anche minimi (qui nec casas nec terras suas habent); il che ci mostra un progressivo differenziarsi di categorie nella classe dei liberi in modo corrispondente alla diversa condizione economica e quindi uno svalutarsi della libertà che non fosse sostenuta e difesa da altri fattori economici e sociali. La differenza fra il semplice libero e il nobile è riconosciuta anche dalla legge che attribuisce un diverso valore ai rispettivi guidrigildi come al mundio delle rispettive donne.

La libertà non era tale che non si potesse perdere o acquistare. Per determinati delitti, per insolvenza, per prescrizione, per oblazione si poteva scendere dalla libertà alla servitù come si poteva uscire dalla servitù per emancipazione. Vi erano forme di emancipazione che non attribuivano libertà illimitata perché mantenevano il servo sotto il mundio del padrone.

Vita economica. - La venuta dei Longobardi in Italia non giovò certo alla già impoverita e sconvolta economia italiana, cui nuove rovine aggiunsero i primi tempi della conquista con le fughe e gli eccidî della popolazione urbana, con le requisizioni forzate, le espropriazioni, le interruzioni di comunicazioni fra le terre invase e quelle rimaste ai Greci. I più colpiti dall'ira e dalla cupidigia degl'invasori furono i nobili, i grandi proprietarî e, con ogni probabilità, fu nei latifondi del fisco e dei privati che i Longobardi, cui conveniva, per ragioni d'offesa e difesa, rimanere piuttosto raccolti, s'insediarono in gruppi, per fare, imponendo l'onere della tertia o la cessione di una parte di terre. Rassodata la conquista, anche la vita economica riprese ritmo più regolare e fu vita essenzialmente agricola. Molti degli stessi arimanni longobardi, diventati proprietarî di terre, da guerrieri si trasformarono in agricoltori. Certo l'editto di Rotari è già in gran parte la legge d'un popolo agricolo.

L'assetto fondiario rimase sostanzialmente quello precedente. La proprietà privata rimase la regola. Jugeri e moggia, le unità catastali romane, restarono nell'uso comune, come rimasero le locuzioni tecniche romane indicanti il modo e la locazione dei terreni. Se al momento dell'invasione molte grandi proprietà furono sconvolte e disgregate, altri grandi possessi si formarono con le terre del re, dei duchi, con quelle delle chiese e di potenti privati. In essi, più territori costituiti da terre lavorate a economia per mezzo di famigli o di servi, o con prestazioni di opere fornite da altri soggetti (terrae dominicae), da terre coltivate da coloni dipendenti, organizzati nei piccoli villaggi, vici, presso le chiese rurali, o dispersi nelle case tributariae, ingenuiles, massariciae, tenuti a corresponsioni varie di canoni, censi in denaro, in natura, in servigi ed opere (pars colonicia o massaricia), erano amministrativamente uniti intorno a una villa centrale, sala o curtis dominica, retta direttamente dal proprietario, o dai suoi actores, servi, ouescarii. Che l'economia rurale, favorita anche dalla povertà della vita economica, si andasse adattando, specialmente nei maggiori possessi, a quell'economia chiusa, non ignota al latifondo romano, bastante entro certi limiti a sé stessa, in cui i consumi e i prodotti tendono ad adeguarsi a vicenda, è più che certo. E così nelle corti maggiori meglio organizzate funzionano anche quelle attività industriali più frequenti e più necessarie ai bisogni dei loro abitanti e dei lavori agricoli, quali quelle dei fabbri, tessitori, calzolai, ecc. Ma questa forma di economia, l'economia della corte, non fu esclusiva e nemmeno prevalente. La vita economica e civile italiana era troppo imperniata sulla città perché questa non dovesse, appena possibile, riprendere la sua funzione. Del resto i Longobardi non rifuggivano dalla vita della città. Le città furono fatte sede dei duchi, centro dell'amministrazione civile e militare, divennero residenza di molti signori longobardi; così vediamo nel periodo longobardo continuare i rapporti fra città e campagna e fra città e città, e i rapporti economici di produzione e consumo oltrepassare l'ambito della corte.

Nelle corti, salvo che in qualche monastero - ma nell'Italia longobarda, e in generale nell'Italia dell'epoca, non erano i grandi monasteri centri di grandi pellegrinaggi e perciò centri di una più attiva vita economica che permettesse una più larga produzione industriale - si produceva solo per gl'immediati e più comuni bisogni agricoli e domestici. Per la produzione industrialmente più costosa e artisticamente importante la campagna deve dipendere dalla città. L'industria a scopi commerciali è esercitata in città da liberti e da liberi. Essa trova la sua organizzazione nella officina che di solito si trova intorno al mercato cittadino, e che conserva la stessa organizzazione romana, governata da un magister, assistito da un numero, certamente esiguo, di operai uniti al dirigente da legami di interesse, non già da vincoli corporativi: i collegia romani si devono considerare scomparsi. L'industria cittadina in genere continua ad essere esercitata da artigiani romani, ridotti forse alla condizione di redditiales, costretti, cioè, non diversamente dai proprietarî di terre, a qualche corresponsione in denaro o natura. Ma vi erano anche artefici longobardi, esperti nella lavorazione dei metalli e nelle costruzioni in legno. Con i Longobardi, sulla casa laterizia dei Romani prevale quella in legno, e si modifica il tipo stesso della casa sostituendosi la struttura con la grande sala centrale a quella greco-romana ad atrio e peristilio.

L'attività commerciale nel periodo longobardo si svolge nelle stationes del mercato cittadino e nei minori mercati, per solito intorno alle chiese, centro delle vicinie, per il commercio al dettaglio. Quivi il mercante è per solito anche il produttore. Ma vi erano anche veri e proprî negotiatores, che Astolfo parifica nel servizio militare alle classi dei maggiori proprietarî del suolo. E vi erano anche nel regno mercanti stranieri, veneziani, gaietani, amalfitani, mentre mercanti longobardi troviamo nel mercato di Parigi aperto dal re Dagoberto. Venezia e Ravenna erano le teste di linea del commercio della valle del Po, Pisa, potente sotto i Longobardi, di quello dell'Italia centrale. Le strade di comunicazione erano ancora le antiche vie. Salvo che negli ultimi tempi del regno, quando con una maggiore sicurezza e certezza giuridica si avverte una più intensa attività agricola e commerciale, la vita economica dei Longobardi appare povera e rispondente a esigenze rozze ed elementari.

Delle monete longobarde si conoscono il soldo, moneta reale, il tremisse sottomultiplo del soldo, il quale nell'uso si tagliava anche in quattro parti eguali, e la siliqua che valeva 1/20 di soldo.

Religione. - Poco conosciamo della vita spirituale dei Longobardi. La loro antica leggenda, quale è raccolta nel racconto di Paolo Diacono (v. sopra), attribuiva una loro vittoria sui Vandali all'aiuto di Wotan e all'intercessione della moglie di lui Frea (v. frigg). La loro antica religione era quindi legata al culto di Odino, una delle divinità principali dell'Olimpo germanico, il dio guerriero che conduce i suoi protetti di vittoria in vittoria, ma che può anche votarli alla disfatta e trascinarli nel Walhalla. Venuti però a contatto con l'Oriente bizantino e con altri popoli germanici che avevano accettato l'arianesimo, si fecero anch'essi in gran parte ariani, per passare poi gradatamente al cattolicismo in seguito alla loto venuta in Italia. Tuttavia l'antico paganesimo, non radicalmente estirpato, continuò a sopravvivere a lungo qua e là in riti e pratiche superstiziose, di cui conservano memoria documenti pontifici del tempo e le stesse leggi di Liutprando.

Lingua. - Della lingua parlata dai Longobardi non possediamo documenti. Conosciamo circa 200 vocaboli e alcune centinaia di nomi proprî, personali e locali, conservatici in testi e documenti latini. La scarsità e la qualità del materiale, nonché il modo in cui ci venne trasmesso, non consentono di ricostruire se non frammentariamente la storia della lingua longobarda. Alcuni suoi caratteri fonetici si possono tuttavia riconoscere. Si può affermare che il vocalismo longobardo nelle sillabe radicali generalmente rispecchia una fase abbastanza arcaica in confronto di quella rappresentata nei monumenti letterarî delle altre lingue germaniche occidentali. Ad esempio, dalle vocali germaniche ü ed ē2 in longobardo, al contrario di ciò che avviene in tedesco, non si svolgono dittonghi; e; dittonghi germanici ai, au restano per lo più inalterati. Senza dubbio l'alfabeto latino non era adeguato alla rappresentazione foneticamente rigorosa d'un linguaggio germanico, soprattutto nei riguardi delle consonanti. A ogni modo si vede che le consonanti longobarde subirono il cosiddetto "2° spostamento fonetico" (Lautverschiebung) caratteristico dei dialetti alto-tedeschi. In complesso lo sviluppo delle singole consonanti è simile a quello delle corrispondenti consonanti tedesche, ma il punto d'arrivo non è sempre il medesimo nelle due lingue. Ad esempio, dal suono germanico î in longobardo si svolge d soltanto nell'interno di parola mentre all'inizio, e probabilmente anche in fine, nel corso del secolo VIII si svolge t. Della declinazione si può ricostruire ben poco, poiché i nomi longobardi nei testi latini che ce li tramandano o sono dati nella forma del nominativo singolare, trattata come indeclinabile, o assumono desinenze latine. Della coniugazione non sappiamo pressoché nulla: l'imperativo lîd "va'" e il participio passato fulboran "vollbürtig", che occorrono nell'editto di Rotari (173 e 154) sono le sole reliquie superstiti; alcuni infiniti, quali gamaitare, thingare, uuîffare, sono latinizzati nella desinenza.

Dei vocaboli attestati come longobardi taluni si ritrovano in italiano: gastald "castaldo", sporo (spero) "sperone", fara famiglia, stirpe" e gahagium (gagium, cafagium) sopravviventi nella toponomastica (l'ultimo anche nel derivato cafaggiaio). Criterî linguistici, soprattutto fonetici, ai quali talvolta si aggiungono considerazioni d'ordine storico, permettono di riconoscere, entro la massa dei prestiti fatti da lingue germaniche all'italiana, un buon numero di vocaboli d'origine longobarda, distinguendoli sia da quelli importati anticamente dai Goti o da altri Germani sia da quelli introdotti più tardi dai Franchi o da altre genti tedesche. Possiamo così attribuire ai Longobardi l'importazione di parole come federa, schiena, snello che hanno un e aperto mentre, se risalissero al gotico, avrebbero un e chiuso (da i); e di un'altra serie di parole come schermo, scherno, stormo che hanno vocale chiusa in condizioni in cui il gotico darebbe vocale aperta; e di altre ancora, quali bara e strale in cui il gotico avrebbe dato e al posto di a. Spesso il criterio è fornito da una consonante: ff; f da p in staffa, tuffare, tanfo, tonfano, ecc. (in tuffare e tonfano va notato anche t da d); z da t in zana, zazzera, zecca (animale), gazza, ecc.; cc da hh (invece di c da k) in biacca, ricco, spaccare; particola mente caratteristico è lo scambio tra media e tenue nelle coppie balco palco, balla palla, banca panca e simili (v. anche italia: Lingua e dialetti).

Che per tutto il sec. VIII i Longobardi conservassero in Italia l'uso della propria lingua è ormai generalmente riconosciuto. Ciò risulta non solo dal fatto che Paolo Diacono, il quale scriveva sul declinare di quel secolo, poté registrare un manipolo di voci longobarde, ma anche e principalmente dal dialogo che egli (Historia Langob., VI, 24) narra avvenuto tra il duca friulano Ferdulfo e lo sculdhais (rector loci, come traduce lo stesso Paolo) Argait. Testimonianze isolate permettono di stabilire che nei secoli IX-X il longobardo ancora viveva e intorno il 1000 non era del tutto spento. Sono significativi a tale riguardo certi soprannomi, quali drancus "giovane gagliardo", dungo "grasso" o "grave", zanvîdus "che ha i denti divergenti", scarnafol "sporcaccione", che troviamo attestati rispettivamente per gli anni 812, 818, 919 e 1003, poiché evidentemente furono coniati da chi aveva il senso vivo della lingua. A ciò non contrasta l'espressione che troviamo nel Chronicon salernitanum (scritto verso il 978), cap. 38: "lingua todesca, quod olim Langobardi loquebantur", poiché si deve pensare che nelle singole regioni italiane, come era diversa la densità dell'elemento longobardo, così la sua vita abbia durato più o meno lungamente.

Il longobardo apparteneva al gruppo occidentale delle lingue germaniche. Il "2° spostamento fonetico" lo avvicina all'alto-tedesco. D'altra parte esso presenta alcune concordanze lessicali con lingue proprie o originarie della Germania settentrionale, specialmente con l'antico inglese. Se si riflette che i Longobardi, stanziati dapprima nella Germania di NO., dopo varie peregrinazioni giunsero a SE., il contrasto si appiana: la loro lingua, che in origine doveva essere prossima al gruppo anglo-frisio e al basso-tedesco, si trovò poi esposta agl'influssi da cui dipende il "2° spostamento fonetico" e in genere prese uno sviluppo simile a quello dei dialetti tedeschi del mezzogiorno.

Bibl.: C. Meyer, Sprache und Sprachdenkmäler der Langobarden, Paderborn 1877; W. Bruckner, Die Sprache der Langobarden, Strasburgo 1895. - Sugli elementi longobardi nel lessico italiano: W. Bruckner, Charakteristik der german. Elemente im Italienischen, Basilea 1899; W. Meyer-Lübke, Einführung in d. Studium d. roman. Sprachwiss., Heidelberg 1901; 3ª ed., 1920; G. Bertoni, L'elem. germ. nella lingua italiana, Genova 1914.

Cultura. - Non è il caso di parlare di una cultura presso i Longobardi. La facilità con la quale i Longobardi accettarono il latino come lingua dei documenti e delle leggi e la prevalenza che acquistò abbastanza presto il latino volgare come lingua parlata mostrano, se pure ve ne fosse bisogno, l'assenza presso di loro di un qualche patrimonio spirituale. Se mai qualche manifestazione letteraria ebbero in canti popolari, traccia dei quali possiamo trovare nel racconto di Paolo Diacono, questi, con l'abbandono della lingua nazionale e dell'antica religione, andarono perduti. I pochi avanzi di genere letterario dell'Italia longobarda a noi pervenuti, qualche epitaffio, qualche carme, qualche pagina di storia, mostrano, dai nomi dei loro autori, di essere stati prodotto di elementi romani e chiesastici. L'unico scrittore longobardo, e scrittore di notevole valore, è Paolo di Warnefrido (v. paolo diacono). Ma egli compare solo negli ultimi tempi, quando sono pressoché scomparse le differenze tra Romani e Longobardi ed è, inoltre, uomo di chiesa. Migliori manifestazioni di studio e di progresso di sapere si hanno nel diritto. L'editto di Rotari e le successive aggiunte mostrano che si era andata formando nei Longobardi una dottrina giuridica che tiene sempre più conto delle idee della chiesa e del diritto romano, il quale quindi doveva essere coltivato. Tutto presuppone l'esistenza, sin da tempo assai remoto, di qualche scuola, che non è difficile ammettere a Pavia. Tuttavia anche nella redazione delle leggi si trova la maggiore anarchia grammaticale e rozzezza di espressione, la quale è, anzi, maggiore in Liutprando che in Rotari.

Povere del pari le manifestazioni dell'arte longobarda, della quale del resto abbiamo poche e non sempre sicure tracce. Esse consistono specialmente nelle suppellettili delle necropoli di Benevento, Bolsena, Castel Trosino (Ascoli), Civezzano (Trento), Cividale, Nocera Umbra, Testona (Torino), che ci hanno dato spade e altre armi, fibule, croci pettorali d'oro, e del tesoro di Teodolinda nel quale non è facile precisare che cosa sia dovuto ad artisti longobardi o sia prodotto d'arte straniera. Si tratta in ogni caso di lavori in metallo, arte trattata dai Longobardi anche prima di lasciare la Pannonia (v. barbarica, arte, VI, p. 126 seg.).

I Longobardi ci sono rappresentati rozzi di costumi e feroci d'animo. Che l'invasione e i primi tempi della conquista dessero luogo ad atti di violenza e sfoghi di crudeltà è facilmente ammissibile. Che vi fosse nei loro costumi qualche cosa di grossolano e ferigno può essere provato dalle loro stesse leggi. La stessa storia dei loro principî è intessuta di drammi sanguinosi e il piissimo e clemente Liutprando non manca di vendicarsi atrocemente dei suoi nemici. Ma gli stessi tratti e le stesse manifestazioni si trovano anche fra gli altri barbari, dei quali i Longobardi non dovettero essere peggiori. Solo che sulla loro fama influì molto l'insanabile odio, sia pure spiegabilissimo, della Chiesa romana e la mancata fusione con l'elemento indigeno poco propizia così a disarmare gli animi come a mitigare i costumi. I Longobardi, almeno al tempo di Agilulfo e di Teodolinda, usavano larghe vesti ornate di liste intarsiate di larghi colori e portavano calzari aperti quasi fino alla cima del pollice e alternamente allacciati da stringhe di pelle. Radevano il capo al di dietro fino alla nuca e lasciavano cadere i capelli, divisi alla metà della fronte, da una parte e dall'altra del volto. I servi erano completamente rasati.

Fonti: Velleio Pat., II, 106; Tacito, Ann., II, 45, 46; XI, 17; Germ., 40; Strabone, Geogr., VII, 1, 3; Tolomeo, Geogr., II, 16; Origo gentis Langobardorum, in Mon. Germ. Hìst., Scriptores rerum langobardicarum et italicarum saec. VI-IX, ed. Waitz, Hannover 1878, p. 1 segg.; Historia Langobardorum codicis Gothani, ibid., p. 7 segg.; Pauli historia Langobardorum, ibid., p. 12 segg.: Edictum ceteraeque Langobardorum leges, ed. Bluhme, in Mon. Germ. Hist., Leg., IV, Hannover 1868; Gregorii I Papae Registrum Epistolarum, ibid., Ep., I e II, ed. Ewald e Hartmann, 1887-1889; Gesta pontificum romanorum. I. Libri pontificalis, pars prior, ed. T. Mommsen (fino all'anno 715), Berlino 1898; Regesta pont. rom., ediz. Jaffé; Codex Carolinus, ed. Gundlach, in Mon. Germ. Hist., III; C. Troya, Codice diplomatico longobardo, Napoli 1852-1859; Codex diplomaticus Langobardiae, XIII, Torino 1873; N. Tamassia e P. S. Leicht, Le carte longobarde dell'archivio capitolare di Piacenza, in Atti R. Ist. veneto sc. lett. ed arti, 1908-1909, LXVIII, 2; L. Bethmann e O. Holder-Egger, Langobardische Regesten, in N. Archiv, III (1878).

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Il regno dei longobardi in Italia.

I Longobardi, non molto dopo di aver vinto e sterminato il popolo dei Gepidi, abbandonarono la Pannonia, terra troppo aperta e troppo minacciata da Avari, Slavi e Bizantini, perché potesse offrire sufficiente sicurezza a un popolo, come essi erano, non molto numeroso. Dovette sollecitare il loro spirito di avventura anche la non lontana Italia, ben conosciuta da quelli di essi che vi avevano militato con Narsete. E da considerare favola il racconto di Paolo Diacono che i Longobardi fossero invitati dal patrizio Narsete, comandante delle forze greche in Italia, per odio alla corte di Costantinopoli. Se mai, si potrebbe pensare che Narsete intendesse, con i contingenti longobardi, parare le minacce di altri barbari (Franchi specialmente) e tenere a freno la poco docile popolazione italiana. Comunque, è certo che i Longobardi, sotto il re Alboino, vincitore dei Gepidi, stretti accordi con gli Avari, ingrossatisi con forti contingenti di Sassoni (20.000 secondo Paolo Diacono) e con schiere raccogliticce di Gepidi, Bulgari e di altre genti, il 2 aprile 568 iniziarono la loro marcia verso l'Italia. Sboccano, attraverso il Fasso di Predil, a Forum Iulium (Cividale): e Cividale, presidiata con forze scelte e posta sotto il fratello del re, Grasulfo (Paolo Diacono dice il nipote Gisulfo; ma mal concordano i dati cronologici), diventa la prima base delle loro operazioni. Rafforzatisi con l'occupazione di tutto il settore fra il Tagliamento e l'Isonzo fino al mare, mentre i Greci si rinchiudono nel sistema difensivo Oderzo, Padova, Monselice, Mantova, i Longobardi per Treviso, Vicenza, Verona, muovono verso la Liguria (attuale Lombardia) facendo fuggire dinnanzi a sé la popolazione della Venezia, parte della quale cerca rifugio temporaneo, poi definitivo, nelle isole lagunari. Il 3 settembre 569 (secondo alcuni 568), Milano apre loro le porte. Ma resiste la ben munita Pavia (Ticinum), chiave strategica della regione, che perciò Alboino non può trascurare e investe di assedio, mentre una parte delle sue forze, passato il Po, opera alla sua destra impadronendosi di Parma, Reggio, Modena e Bologna e, passato l'Appennino (passo della Cisa?), scende a Lucca e si avanza forse fino a Chiusi. Pavia si arrende dopo circa tre anni di assedio. Ma non molto dopo Alboino cade a Verona, vittima di una congiura, nella quale sotto i particolari romanzeschi di Paolo Diacono è da vedere un intrigo ordito dai Greci, con la complicità di personaggi della corte longobarda e della stessa moglie di Alboino, Rosmunda (vendetta del sangue), per disfarsi, con mezzi insidiosi, di quei Longobardi, dai quali essi non erano in grado di liberarsi (28 giugno 572). I Longobardi, allora, radunatisi a Pavia, si diedero un nuovo re, di nobilissima schiatta, Clefi (572-574), che, per vendicare Alboino, fece strage di nobili romani, morendo poi egli stesso di mano assassina, dopo appena un anno e sei mesi di regno.

Troppo giovane il figlio Autari per raccoglierne la eredità, non si addivenne alla elezione di un nuovo re, e i capi militari, i duchi, sparsi nei varî territori assoggettati, li governarono per conto proprio in una specie di federazione politico-militare. La morte di Alboino dovette rallentare alquanto l'impeto primo dell'avanzata dei Longobardi: ma essa non si arrestò. Per quanto privi, come si mostrano, di un vero e proprio programma, assottigliati di numero, dispersi spesso in scorrerie depredatrici, i Longobardi, divisi in piccole schiere, infiltrandosi tra gli ostacoli, continuano a spargersi ovunque, nell'Italia settentrionale, centrale e anche meridionale, dando origine ai ducati di Spoleto e di Benevento. Capi animosi, come Zotto di Benevento e Faroaldo di Spoleto, si estendono nella Campania e nella regione fra Roma e Perugia e fra Perugia e Ravenna, assediano Roma, e, mentre l'uno minaccia Napoli, l'altro espugna la stessa Classe, porto militare di Ravenna. Ma, privi di ogni direzione unitaria, i Longobardi non sanno sfruttare i loro successi. Sprovvisti di flotta, non possono togliere ai Bizantini i luoghi che potevano essere difesi e soccorsi per acqua: come Napoli, Roma, Ravenna, centri di grande importanza militare e civile.

Il periodo del governo dei duchi è nella storia longobarda il momento del maggiore disordine, delle stragi e delle spogliazioni più crudeli. Ciò non vuol dire però che la popolazione italiana, i Romani, siano stati ridotti in servitù e privati dei loro beni. Senza dubbio, i vincitori conservarono per sé l'uso delle armi, il governo e l'amministrazione dello stato, mantenendosi quindi in una condizione di superiorità di fronte ai vinti. Ma questi, salvo i prigionieri di guerra, non furono asserviti, privati delle loro proprietà, tolti alle loro occupazioni e nemmeno ridotti a uno stato di semilibertà che li vincolasse alle persone dei vincitori. I Romani conservano la piena capacità giuridica e, negli affari in cui fossero essi soli interessati, l'uso del diritto giustinianeo. Essi non diventarono arimanni o exercitales, ma rimasero liberi homines. Egualmente conservarono, quelli che non ne furono violentemente spogliati per rappresaglia politica, le loro possessioni. Per cui, quando le necessità militari fecero che il possesso diventasse la base del servizio militare, anche gl'Italiani dovettero essere ammessi nell'esercito e pareggiati perciò in diritti politici ai Longobardi. Furono tuttavia gravati di una contribuzione in derrate nella misura di un terzo dei prodotti. Regna incertezza sull'estensione di questa contribuzione. Parrebbe che i colpiti fossero stati i nobili romani scampati alla strage, i maggiori proprietarî di terre. Ed è presumibile veramente che i Longobardi, poco numerosi e interessati a restare raccolti in gruppi, si siano preferibilmente insediati in fare nelle maggiori proprietà, e specialmente in quelle più vicine alle città o ai posti di maggiore importanza militare, obbligando i rispettivi proprietari a somministrare loro un quantitativo di viveri, in analogia al sistema romano della hospitalitas (acquartieramento), seguito negli stanziamenti dei barbari nelle terre dell'impero. Così i proprietarî romani, tenuti alla corresponsione della tertia, diventarono, limitatamente a essa, tributarii dei Longobardi messi a loro carico, fatti loro hospites, e fra essi perciò distribuiti.

Il governo dei duchi durò appena un decennio. L'insostenibile disordine interno, e forse più ancora le esterne minacce dei Greci e dei Franchi, dovettero consigliare i Longobardi a stringersi nuovamente attorno a un re. E Autari fu innalzato al trono. Con lui (584-590), la monarchia si riorganizza. Egli cerca di dare a essa autorità e prestigio anche di fasto esteriore; forse per questo e per affermare una derivazione di poteri dagl'imperatori romani si orna del titolo di Flavio. Cerca di contenere il potere dei duchi cui toglie parte delle terre per costituire un demanio della corona e dare a essa mezzi indipendenti di vita. La ribellione del duca Droctulfo, che passa ai Greci, le defezioni posteriori dei duchi di Piacenza, di Parma, di Reggio, che fanno causa comune coi Franchi, mostrano quale reazione la sua politica accentratrice suscitasse fra le tendenze autonomiste dei duchi. Stando a Paolo Diacono, Autari rimaneggia anche la tertia, mirando forse a una normalizzazione dei rapporti fra Longobardi e Romani. In rapporto a questa sistemazione e pacificazione interna di rapporti fra Longobardi e Romani è il caldo elogio che Paolo fa del regno di Autari come restauratore dell'ordine e della pace all'interno.

Autari appare altresì tutto impegnato a estendere e consolidare la conquista, e difenderla contro i Greci e i Franchi. Non riesce tuttavia a impedire una grande azione combinata fra questi, (590), che trova l'appoggio dei duchi di Reggio, Parma e Piacenza e che mette in serio pericolo la capitale stessa del regno. Ma Autari, favorito dalla fame e dalle malattie che travagliavano l'esercito dei Franchi, riuscì a concludere con questi una pace che, sebbene onerosa, toglieva ai Greci la speranza dell'agognata riconquista. La vigorosa opera di riorganizzazione e di consolidamento del regno svolta da Autari segnò un netto distacco dal procelloso periodo precedente, così che il nome di Autari passò celebrato nella leggenda, che attribuì a lui anche una simbolica presa di possesso delle spiagge meridionali d'Italia. Morto giovane, gli fu dato per successore Agilulfo, duca di Torino, che, dopo avere sposato Teodolinda, fu confermato re a Milano dall'assemblea. Egli seguì le orme di Autari sia nell'affermare l'autorità regia contro le rinnovantisi resistenze dei duchi, inclini a ribellione e ad una politica indipendente, sia nello stabilire rapporti di pace coi Franchi per meglio combattere i Greci. Col concorso di Arichi, duca di Benevento, cui si deve buona parte dell'espansione dei Longobardi nell'Italia meridionale, e di Ariulfo, duca di Spoleto, Agilulfo prese ad assalire Ravenna, Roma, Napoli. Egli stesso muove alla volta di Roma. Ma i suoi sforzi si spuntano dinanzi alla resistenza organizzata a Napoli e a Roma da Gregorio Magno. Si aggiunse la sollevazione dei duchi di Verona, di Bergamo, della stessa Pavia che, richiamando altrove il re, lo indusse ad accordare ai Romani, dietro annuo tributo, una tregua, poi ripetutamente rinnovata. Più fortunato nell'Italia settentrionale, Agilulfo invase l'Istria, distrusse Padova, espugnò Monselice, Mantova, Cremona, ebbe Valdavia e Brescello, facendo cadere tutta la rete di fortificazioni greche che difendeva i corsi inferiori dell'Adige e del Po, e impadronendosi del territorio che si estendeva fra il vecchio corso del Brenta e l'Adige.

Importante altresi la politica religiosa della corte longobarda al tempo di Agilulfo. I Longobardi, ariani, e in parte ancora pagani, avidi di preda, al momento delle invasioni trattarono certo senza riguardo chiese, luoghi pii, persone ecclesiastiche. La fama della loro empietà e ferocia faceva, al loro avanzare, fuggire dalle loro sedi i vescovi con le reliquie ed i tesori delle chiese. E solo poche eccezioni sono registrate. Avvenne così che molte sedi vescovili rimasero vacanti, molti vescovati scomparvero, e la gerarchia ecclesiastica, che già aveva sofferto nei calamitosi tempi precedenti, fu maggiormente sovvertita. Non pare, tuttavia, che i Longobardi agissero per fanatismo anticattolico. Cessato il furore delle invasioni, chiese e vescovi ebbero pace, e ripresero la loro propaganda cattolica: propaganda certo non vana, se Autari dové vietare ai Longobardi il battesimo cattolico. Agilulfo stesso non rifuggì dallo sposare una principessa cattolica. L'elezione di questo re, anzi, opera dovuta ai duchi di Asti e di Trento, congiunti di Teodolinda, segnò il prevalere del partito bavarese cattolico, da cui il cattolicismo riceveva aiuti e favori. Teodolinda, confortata da Gregorio I, assecondò l'opera missionaria del clero cattolico; e se è dubbio che Agilulfo passasse al cattolicismo, è certo che Adaloaldo, figlio di Agilulfo e di Teodolinda, fu il 7 aprile 603 battezzato con rito cattolico. Concessione questa che va messa in relazione a tutta una politica della corte che si appoggia di preferenza all'elemento romano-cattolico. Questa politica si accentua ancor più alla morte di Agilulfo, finché la vedova Teodolinda tenne la reggenza per il figlioletto Adaloaldo (615-627). Ma, morta Teodolinda nel 625, scoppiò una viva reazione che metteva capo ad Ariovaldo, duca di Torino, ariano. L'intervento del papa e dell'esarca di Ravenna a favore di Adaloaldo strinse maggiormente il partito nazionale attorno ad Ariovaldo, che, spodestato e trucidato il giovane re, salì al trono (627-36). E, tuttavia, sotto di lui l'irlandese Colombano fondò il monastero di Bobbio, che, per quanto da principio irretito nella questione dei Tre capitoli, non tardò a diventare un centro di azione missionaria cattolico-romana; il che fa pensare che il cattolicismo sotto Ariovaldo fosse rispettato.

Più risoluto sostenitore di una politica nazionale, e quindi antiromana e antigreca, appare il successore di Ariovaldo, Rotari (636-652), egli pure ariano, sebbene sposasse poi la cattolica Gundeberga, vedova del suo predecessore. Sotto di lui la chiesa ariana dovette avere una più salda organizzazione, se in tutte le città lombarde troviamo un vescovo ariano. Ma era rispettata anche la gerarchia cattolica; e il re non dovette nemmeno egli mostrarsi verso i cattolici severo. Certo, Rotari fu energico e illuminato instauratore dell'ordine interno e continuatore dell'opera della conquista. Combatté il separatismo dei duchi, impose ai sudditi, con l'Editto (643), il preciso governo di una legge scritta, diede nuovo impulso alla guerra contro i Greci, togliendo loro, sul Tirreno, il litorale ligure da Luni ai confini franchi, e, ad Oriente, con l'occupazione di Oderzo, l'ultimo lembo di terra che restasse ai Greci al limitare della laguna veneta. Morto Rotari, perito di morte violenta il figlio Rodoaldo dopo appena sei mesi di regno, riprese forza il partito bavarese cattolico, propenso a una politica di raccoglimento e d'intesa coi Greci. Con Ariperto (653-661), figlio di un fratello di Teodolinda, pare, secondo l'elogio che di lui ci resta, ed è quanto sappiamo di lui, che l'arianesimo avesse fine: sebbene le lotte e i dissidî interni che scoppiarono alla sua morte rivelino non ancora sopite le divergenze religiose mescolate alle tendenze separatiste dei duchi e a quelle bellicose espansioniste del partito nazionale. Tra i figli e successori di Ariperto, cioè Pertarito e Godeperto, scoppia una guerra civile, durante la quale Grimoaldo, duca di Benevento e ariano, intervenuto a sostegno di Godeperto, finisce con ucciderlo e impadronirsi del trono, non senza sposare prima, per legittimare la successione, la figlia di Ariperto, sorella dell'ucciso. Grimoaldo tuttavia, per difendere il trono, deve lottare prima contro i Franchi, accorsi col pretesto di difendere Pertarito che si era salvato con la fuga, poi contro i Bizantini, che avevano assalito il ducato di Benevento e posto assedio alla capitale. Li costringe a ritirarsi. Ma tosto defezioni di duchi, intrighi di Greci, lo costringono ad accorrere nell'Italia superiore. Contro il ribelle duca del Friuli, Lupo, deve sollecitare l'aiuto degli Avari; è costretto poi a liberarsi da questi con le armi, e a combattere in seguito gli Slavi che il figlio di Lupo aveva chiamato in soccorso. Distrugge Oderzo, dove forse i Greci avevano ordito intrighi ai suoi danni, e ne ripartisce il territorio fra le città vicine; occupa di sorpresa Forlimpopoli, che gli si era mostrata ostile, e fa strage degli abitanti. Grimoaldo ristabilisce così la situazione militare e politica, nello stesso tempo che provvede al riordinamento del regno e prosegue l'opera legislativa di Rotari. Morto nel 671, il figlio Garibaldo è privato del trono da Pertarito (671-688) ritornato dall'esilio. "Uomo pio, di fede cattolico, tenace nella giustizia" (Paolo Diacono), Pertarito rappresenta le tendenze cattolico-romane e la politica di raccoglimento interno. Con lui, verso il 680, fu stipulato un accordo coi Greci, molto facilmente una ratifica di tregue precedenti, che dava una maggiore stabilità alle reciproche posizioni territoriali dei Greci e dei Longobardi. Nel 678, certo per consolidare il trono, si associò nel regno il figlio Cuniberto. Ma non tacquero le opposizioni, rappresentate specialmente da Alachi, duca di Trento, che il re non riuscì a piegare se non dandogli anche il ducato di Brescia. Morto poi Pertarito e succedutogli Cuniberto (688-701), Alachi si fece arditamente araldo dell'opposizione antiromana, tentando d'impadronirsi del trono e, scacciatone, prolungando la resistenza nelle provincie orientali, finché non fu vinto in una fiera battaglia a Comate sull'Adda (688 c.). Tanto più quindi Cuniberto seguì la politica paterna, con l'appoggiarsi al clero cattolico e fiaccare gli avanzi dell'arianesimo e dello scisma dei Tre capitoli (sinodo di Pavia del 688 che riuniva i vescovi dissidenti del patriarcato aquileiese) nei quali le tendenze autonomiste dei duchi trovavano i loro alleati. Nello stesso tempo, il vescovo Barbato, assecondato da Teoderada, moglie del duca di Benevento, Romualdo, vince le ultime resistenze dell'arianesimo nell'Italia meridionale. È ormai evidente che i Longobardi cercano di unificare spiritualmente la nazione nel cattolicismo. Alla morte di Cuniberto, però, il regno cade nella confusione di competizioni dinastiche e d'insurrezioni di duchi. Nello spazio di poco più di dieci anni si succedono il figlioletto di Cuniberto, Liutperto, che regna sotto la tutela di Ansprando, uomo sapiente e illustre, ma che è detronizzato dopo otto mesi; Ragimberto, figlio di Gundeperto, che regna egli pure pochi mesi (700-701); Ariperto suo figlio, che, imponendosi col terrore, conserva per qualche anno il regno (704-712), ma sempre in lotta con Ansprando e col duca di Bergamo, Rotari, finché è cacciato dal trono da Ansprando e perisce nella fuga; Ansprando, per pochi mesi nel 712; finalmente, il figlio suo, Liutprando.

Con Liutprando, si ha un grande re (712-744), tutto intento a riordinare lo stato, a rafforzare la monarchia caduta in balia delle grandi famiglie dell'aristocrazia, a sottomettere i grandi ducati, ad allargare i confini. La sua attività legislativa, svolta in quindici assemblee generali, dal 713 al 735, con un complesso di 153 disposizioni, frutto di una cresciuta maturità giuridica e tutta penetrata di idee romane e cristiane, mostra la sollecitudine del sovrano e la nobiltà delle sue concezioni. Re ormai di soli cattolici, egli è re cattolico, fondatore e generoso donatore di chiese e monasteri, ossequiente ai dettami della religione e alle leggi della Chiesa. Vi entrava certo anche il calcolo politico. Impegnato, infatti, in una vasta opera di restaurazione interna che gli procacciava nemici palesi e occulti, Liutprando è costretto a cercare l'appoggio degli elementi ecclesiastici e romani che sembrano effettivamente gli arbitri della situazione. Desideroso di sicurezza all'esterno, stabilisce rapporti di amicizia con i Franchi, ai quali anche presta qualche aiuto contro gli Arabi, e pare disposto, da principio, a vivere in pace anche con i Bizantini. Per questo e forse anche per opporsi ai pericolosi successi del duca di Spoleto, costringe questo a rendere all'esarca il porto di Classe. Ma poi, scoppiato il dissidio politico-religioso fra gl'Italiani, il papa e Bisanzio, Liutprando scende in campo contro i Greci dell'esarcato e inizia quel periodo di tentativi contro i Greci, che l'intervento del papa rende oltremodo drammatico e che si complica con le lotte dei duchi del Friuli, di Spoleto e di Benevento.

Non è facile, con i pochi e frammentarî dati delle fonti, ricostruire gli eventi e intendere l'animo del re. Certo è che i papi, sempre vigili a impedire l'ingrandimento dei temuti Longobardi, si oppongono tenacemente ai successi di Liutprando e che questi, per reverenza al papa, dicono le fonti, ma certo anche per debolezza di fronte ai nemici coalizzati, deve successivamente rinunciare ai frutti, certi o probabili, delle sue operazioni militari; deve, anzi, propiziarsi il papa con importanti donazioni alla Chiesa di terre e castelli tolti ai Greci. Quasi unico, e certo il maggiore risultato di una lotta condotta con sempre rinnovato ardimento per oltre tre lustri (dal 726 circa fino quasi alla sua morte), fu l'avere spezzata per il momento la resistenza dei due ducati ribelli, vincendo, spodestando quei duchi, sostituendoli con persone fidate. A Liutprando succede il nipote Ildebrando, associato fin dal 736 al trono, ma subito deposto (744). Ed è eletto Rachi, cui Liutprando stesso aveva dato il ducato del Friuli, sposo di una donna di origine romana, solito a far donazioni nella forma giuridica romana, eletto col favore degli elementi romani ed ecclesiastici. Rachi (744-49) inizia una politica di pace (rinnovando col papa la tregua già nel 742 stipulata da Liutprando) e di benefica attività legislativa. Non riesce a mantenere soggetti i duchi di Spoleto e di Benevento, che appaiono ora del tutto indipendenti; ma, sospinto forse dal partito nazionale, riapre nel 749 le ostilità contro i Greci nella pentapoli e nel territorio di Perugia. Un'altra volta l'intervento del papa costringe il re longobardo ad abbandonare l'impresa. Ma questa volta il partito di opposizione si ribella, e approfittando dell'assenza di Rachi per un pio pellegrinaggio, proclama re il di lui fratello Astolfo. Rachi rinunzia a ogni resistenza e si ritira nel chiostro di Montecassino. Astolfo (749-756) restando nella tradizione dei suoi predecessori, venera la religione cattolica; ma, innalzato al trono dall'elemento nazionale, non può rinunziare a una politica di espansione. Riorganizzato l'esercito con la riforma militare del 750, muove subito contro l'esarcato, che, con l'espugnazione di Ravenna (751), resta definitivamente in mano dei Longobardi. S'impadronisce successivamente del ducato di Spoleto, e fa riconoscere la suprema sua giurisdizione su quello di Benevento. Padrone dell'esarcato, sicuro dalla parte dei Franchi, con i quali continuava l'amicizia stretta da Liutprando, rafforzato dagli aiuti di Spoleto e di Benevento, Astolfo crede di poter procedere sicuro nella spogliazione dei Greci, e stringe dappresso il ducato romano. L'intervento del papa Stefano II sembra far fallire anche questa volta l'impresa e Astolfo si ritira conchiudendo una pace per quarant'anni; ma, quattro mesi dopo, riprende le armi più risoluto che mai. Sennonché questa volta, non le preci del papa, ma le armi dei Franchi, guadagnati dal papa alla sua causa, fanno fallire i piani del re. Riuscita vana l'azione diretta del papa presso la corte di Pavia e falliti i tentativi di accordi dei messi del re Pipino, questi scende in Italia e in due brevi spedizioni (754 e 756) costringe Astolfo a rinunciare alle terre tolte ai Greci, dandone il governo al papa. Poco dopo, Astolfo moriva in un incidente di caccia (dicembre 756). Il fallimemto della sua politica diede forza al partito di Rachi che, uscito da Montecassino, si era già insediato nella reggia di Pavia. Ma il partito nazionale, sostenuto dal duca del Friuli, gli contrappose Desiderio, duca di Brescia, che con accorte promesse riuscì a porre dalla sua il papa, inducendo il pio Rachi a rientrare nella pace del chiostro. Desiderio (756-774), dopo qualche allarmante ambiguità di condotta che indusse il papa a fare nuovo appello a Pipino, firmati con lui nuovi accordi (763), in sostituzione di quelli stretti dopo la sua elezione, poté consolidarsi nel trono mantenendosi per un certo tempo in normali relazioni col pontefice. Ma poi torbidi scoppiati a Roma, che resero assai precaria la sorte del papa, contrasti fra Carlo e Carlomanno, figli ed eredi di Pipino, e nuovi orientamenti della politica franca, che appare, per opera specialmente della vedova di Pipino, Bertrada, e di Carlomanno favorevole a un riavvicinamento coi Longobardi (Desiderata-Ermengarda, figlia di Desiderio, nonostante ogni sforzo contrario della curia papale va sposa al primogenito di Pipino, Carlo) dànno a Desiderio la speranza di poter riacquistare la libertà di azione. Ma in quella che riprende le ostilità, morto Carlomanno, resosi Carlo padrone di tutta l'eredità paterna, questi trova vantaggioso solidalizzare col papa contro i Longobardi e intanto rimanda a Desiderio, fattosi difensore della vedova e dei figli di Carlomanno, la ripudiata Ermengarda. Quando poi Desiderio, dopo una prima spedizione contro Roma, iniziata tra la fine del 772 e il principio del 773 e troncata per le minacce del papa, rifiutò con lui i nuovi accordi, tentati col mezzo di una ambasceria franca, e respinse pure altre proposte per una pacifica composizione fattegli fare, quasi a guisa di ultimatum, da Carlo, questi prese le armi. Inferiore di forze, soverchiato, e forse aggirato dall'avversario, Desiderio fu vinto alle Chiuse di Susa e costretto a riparare a Pavia, mentre il figlio Adelchi correva a fortificarsi a Verona. Verona e poi Pavia, assediate, caddero (giugno 774, Pavia). Adelchi riparò a Costantinopoli; Desiderio fu internato nel convento di Corbeia in Francia, ove morì.

Carlo lasciò in vigore le leggi e le istituzioni dei Longobardi e assunse il titolo di re dei Longobardi. Ma il regno longobardo era ormai finito. Autonome e pressoché indipendenti, con principi, leggi, istituzioni longobarde, seguiteranno solo a vivere le provincie meridionali del ducato, poi principato beneventano; finché, spartite tra Benevento, Salerno e Capua, non saranno assorbite nel sec. XI dall'unificatrice conquista normanna. Ma, come nell'Italia meridionale il dominio longobardo aveva impedito che essa diventasse bizantina, così nell'Italia superiore la conquista longobarda aveva ritardato per circa tre secoli l'inevitabile conquista franca.

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