Longobardi

Dizionario di Storia (2010)

longobardi


(o langobardi)  Popolazione germanica che appare nelle fonti scritte nel 5° sec., quando si stanziò nell’area dell’od. Meclemburgo (a E dell’attuale Amburgo).

Le origini

Secondo l’antico mito longobardo delle origini, i l., provenienti dalla Scandinavia, sarebbero partiti verso il continente europeo a causa di una grave carestia. La scienza storica delle migrazioni, tuttavia, tende ormai a vedere il problema delle origini delle gentes germaniche in una luce diversa; queste ultime si sarebbero formate solo durante le migrazioni e i gruppi che, secondo le varie tradizioni, avrebbero iniziato il cammino migrante, sarebbero stati solo un elemento delle posteriori gentes di età storica. In questo senso i l. come stirpe germanica definitivamente formata non sono più antichi dei loro stanziamenti in area tedesca. Del resto lo stesso mito chiama gli antenati scandinavi dei l. winnili (forse «cani vittoriosi»), il che lascia supporre che dal punto di vista culturale ed etnico fossero diversi dai l. posteriori. La trasformazione che portò i winnili a divenire l. («lungabarba») sul continente si collega all’adozione del culto magico-guerriero di Wotan, il dio dalla lunga barba, e degli Asi, e a un’accentuazione del carattere guerriero della stirpe.

La discesa in Italia

I l. riappaiono nelle fonti durante la guerra dei romani contro i marcomanni allorché, alleati di questi ultimi, tentarono una prima penetrazione verso il Danubio. Sconfitti, rimasero per altri due secoli sulla Bassa Elba. Nel 488 giunsero nel Rugiland (Bassa Austria); guidati dal re Vacone, passarono il Danubio (527-528) penetrando in Ungheria; all’epoca il loro regno comprendeva anche la Boemia. Nel 547-548 si spinsero nella Pannonia meridionale e nel Norico mediterraneo, regioni-chiave per il collegamento tra Italia e Balcani; la loro nuova qualità di federati trascinò i l. nella grande politica mediterranea di Bisanzio: prima si scontrarono con i gepidi, poi furono coinvolti nella guerra greco-gotica come alleati dei bizantini; lo scoppio aperto delle ostilità contro i gepidi vide in seguito i l. vittoriosi ma a prezzo di una pericolosa alleanza con gli avari, che divennero la forza dominante in area balcanica. Per lasciare loro spazio, i l. furono costretti a dirigersi più a O e, guidati dal re Alboino, nel 569 penetrarono in Italia; al momento dell’invasione i l. mantennero quasi intatta la loro antica cultura tribale l’unico elemento di chiara influenza romana fu la loro conversione al cristianesimo ariano.

Il regno longobardo

L’occupazione dell’Italia da parte dei l. non fu rapida né totale; Alboino occupò parte del Veneto e puntò su Milano e Pavia; il fatto militarmente più rilevante fu il lunghissimo assedio di Pavia, l’antica capitale del regno gotico, che si arrese dopo tre anni. L’assassinio di Alboino (certo per manovre bizantine), poco dopo la presa di Pavia (572), gettò i l. nel caos, bloccando lo sviluppo di razionali piani di conquista. Assassinato dopo due anni il nuovo re Clefi, una parte dei l. cadde sotto l’influenza bizantina; d’altro canto la struttura anarchica dei l. permise a molti duchi e alle loro fare (➔ fara) non solo di rimanere indipendenti, ma anche di continuare a estendere l’area da essi controllata. Durante la cosiddetta anarchia ducale (574-584), il Paese fu percorso da bande di guerrieri che saccheggiavano e devastavano; tramontò così quello che restava in piedi dell’apparato statale e dell’assetto sociale e culturale tardo-antico, e con esso la classe dei senatori-proprietari di terre. Nel 584, di fronte alla concreta minaccia di un’invasione franca, i l. si sottomisero al re Autari, ma il caos politico cominciò a diradarsi solo con il suo successore, Agilulfo (590-616). In questo periodo fu stipulata una prima pace con l’impero, che riconobbe il regno longobardo nella sua configurazione territoriale: esso comprendeva l’Italia del Nord (eccetto la fascia costiera veneta e la Liguria), la Tuscia, il cuore dell’Umbria e delle Marche e vaste regioni del Sud. Già in quest’epoca fu chiaro però che l’autorità del re longobardo era debole a S degli Appennini: i duchi di Spoleto e di Benevento rappresentavano dei poteri quasi autonomi. Nel resto del regno i duchi, stretti collaboratori del re, erano posti a capo di civitates, città con il loro territorio. In tale contesto emerge la figura del gastaldo, in origine semplice amministratore dei beni fondiari (curtes) del re; dal 7° sec. gli furono affidate anche intere civitates da governare al posto del duca. Il re risiedeva a Pavia, dove aveva un palatium, sede della corte e di una rudimentale amministrazione centrale, il cui fondamento economico era rappresentato dalla vastissima rete di curtes di proprietà regia. Sotto Agilulfo e sua moglie Teodolinda aumentò la collaborazione con i residui elementi colti della popolazione romana e si stabilì un rapporto di parziale convivenza con il papato, allora rappresentato da Gregorio Magno.

La massima potenza

Una nuova fase di aperto contrasto con i bizantini si ebbe con il re Rotari (636-652), che conquistò la Liguria e prese Oderzo, cacciando i bizantini in laguna e vincendoli a Scultenna. Egli inoltre mise per iscritto le leggi del suo popolo, il cui valore rimase inizialmente limitato, con tutta probabilità, ai soli longobardi. Nella seconda metà del 7° sec. la dinastia cosiddetta dei re bavaresi (discendenti da Teodolinda e da suo fratello Gundoaldo, che avevano nelle vene sangue bavarese) si distinse per una lenta ma sempre più netta apertura verso il cristianesimo nella sua forma romana: nel 653 il re Ariperto I abbandonò l’arianesimo e, nel 698, con il sinodo di Pavia cadde l’ultima barriera, rappresentata dallo scisma dei Tre capitoli, nei confronti della popolazione romanica d’Italia. Nell’8° sec., abbandonata la loro lingua per adottare il latino d’Italia, i l., cattolici, si fusero con la popolazione locale. Contemporaneamente, il termine «longobardo», sinonimo di guerriero, esercitale, arimanno, venne impiegato per indicare l’uomo libero che porta le armi nel quadro dell’esercito longobardo. Il momento di massima potenza politica del regno si ebbe con Liutprando (712-744) che, sfruttando i gravi contrasti che indebolivano l’Italia bizantina, lacerata dalla controversia dell’iconoclastia, riuscì a estendere i possessi longobardi in Emilia, a prendere per breve tempo Ravenna, ad arrivare fino alle porte di Roma e a sottomettere i due ducati di Spoleto e Benevento.

Figura

La fine del regno

L’elemento decisivo che bloccò Liutprando, impedendogli di spazzare via in modo definitivo i bizantini, fu rappresentato dal papato, il cui prestigio nei confronti di un popolo di neoconvertiti era immenso. La Chiesa romana, con Gregorio II, Gregorio III e Zaccaria, si presentò allora sulla scena come decisa continuatrice della respublica Romanorum, nel momento in cui la forza politico-militare dei bizantini (sottoposti, in Oriente, alla tempesta dell’espansione araba) appariva in netto declino. Quando, sotto Astolfo, nel 750 la stessa Ravenna cadde in mano longobarda, papa Stefano II, di fronte alle pesanti richieste da parte del re longobardo di un tributo (che avrebbe sancito la supremazia longobarda su Roma), si rivolse ai franchi. Si ebbero così le due discese del re Pipino in Italia: i franchi sconfissero i l. costringendoli a cedere le recenti conquiste, ma non li sottomisero. Ciò avvenne, in modo definitivo, con il figlio di Pipino, Carlomagno, nel 774, dopo che l’ultimo re longobardo Desiderio aveva rinnovato le aggressioni contro i territori romani. Carlo assunse la corona longobarda, cercando un accordo con l’aristocrazia. Nel 776 una violenta rivolta dei l. del Friuli costrinse Carlo a destituire una serie di duchi longobardi sostituendoli con conti franchi. Tuttavia, l’aristocrazia longobarda non cedette del tutto le leve del potere locale e, nonostante le novità introdotte dai conquistatori, la società longobardo-italica mantenne molti dei suoi caratteri precedenti all’invasione franca. L’eredità politica, sociale e giuridica del regno longobardo, proseguita esplicitamente nel sud nella Longobardia minore dai duchi di Benevento, continuò anche nel centro-nord nel ducato di Spoleto, andando a confluire nella più complessa realtà dei secoli centrali del Medioevo italiano.

La Longobardia minore

Erede dell’Italia meridionale longobarda sfuggita alla conquista franca fu il ducato longobardo di Benevento, fondato nel 6° secolo. Comprendeva la Campania, la Marsica, il Molise, l’Abruzzo, la Puglia, la Calabria, con l’eccezione di molte zone costiere, dove le città «greche» (bizantine) della costa, Napoli, Amalfi, Sorrento (più a nord Gaeta), offrirono un’inflessibile resistenza ai l. dell’interno, pur restando in continuo contatto con i territori da loro occupati. Dopo la conquista del regno longobardo da parte dei franchi, il duca beneventano Arechi (758-787) assunse il titolo di principe e difese l’indipendenza del suo dominio dagli eserciti di Carlomagno. Il peso di Bisanzio, non appena essa si fu ripresa dalle invasioni arabe, divenne massiccio nel Sud italiano e così pure la presenza stessa degli arabi o saraceni. La storia della Longobardia minore è un susseguirsi caotico di conflitti interni. Approfittando della guerra civile scoppiata tra Benevento e Salerno, gli arabi penetrarono nel Sud come mercenari. Dopo la divisione della Longobardia minore nei due principati di Benevento e Salerno (849), i saraceni fondarono emirati a Bari e Taranto e basi piratesche ad Agropoli e sul Garigliano, eliminati faticosamente tra 9° e 10° secolo. Alla fine del 10° sec. i bizantini fondarono in Puglia il tema di Longobardia, dominando così i deboli principi longobardi di Benevento, Salerno e Capua. Ma l’estrema frantumazione del quadro politico, complicata anche dalla persistente presenza dei saraceni, rese impossibile l’affermazione di un unico potere forte; la stessa unificazione della Longobardia minore sotto il principe longobardo Pandolfo Capodiferro (m. 981) si rivelò effimera. Nell’11° sec. la Longobardia minore cadde sotto la dominazione dei normanni che, nel 1130, fondarono il regno di Sicilia.

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Scisma dei tre capitoli

Pandolfo capodiferro

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