CAMPEGGI, Lorenzo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 17 (1974)

CAMPEGGI, Lorenzo

Stephan Skalweit

Appartenente alla eminente famiglia bolognese, il C. nacque nel 1474 a Milano da Giovanni Zaccaria, professore di diritto civile, e da Dorotea di Tommaso Tebaldi.

Primogenito di cinque fratelli (tra i quali Tommaso), studiò diritto e insegnò già nel 1493 a Padova, insieme con il padre. Dal 1496 al 1499 fu attivo a Venezia, poi si trasferì a Bologna, dove si addottorò in utroque iure e ottenne una cattedra a soli ventisei anni. Nello stesso anno (1500) sposò Francesca Guastavillani e dal matrimonio nacquero tre figli maschi (tra i quali Alessandro, cardinale e vescovo di Bologna), e due figlie. La morte prematura della moglie (1509) dette un nuovo indirizzo alla vita del Campeggi. Decise di abbracciare la carriera ecclesiastica e di entrare al servizio della Curia. La decisione fu agevolata dalla particolare benevolenza dimostrata da Giulio II verso la sua famiglia, che l'aveva sostenuto decisamente nei contrasti con la città di Bologna.

Subito dopo il suo trasferimento in Curia, il C. fa nominato auditore della Sacra Rota. Ricopriva questa carica solo da sei mesi, quando gli fu affidata la prima missione diplomatica: fu mandato alla corte di Massimiliano I in Germania, per dissuaderlo dall'alleanza con Luigi XII e impedire che inviasse i suoi ambasciatori al concilio scismatico di Pisa convocato dal re francese. Dovette aspettare due mesi prima che l'imperatore lo riconoscesse come nunzio e lo ricevesse. Ma grazie alla mediazione di Matteo Lang vescovo di Gurk e della figlia dell'imperatore, Margherita d'Austria, al C. riuscì di eseguire brillantemente la missione. Massimiliano cambiò l'indirizzo della sua politica, si impegnò a difendere lo Stato della Chiesa contro Luigi XII e inviò Matteo Lang al concilio lateranense convocato da Giulio II (1512-1517). Tornato in Italia nell'ottobre del 1512, fu nominato conte palatino del sacro palazzo lateranense dall'imperatore e premiato dalla Curia con il vescovato di Feltre.

Subito dopo Giulio II gli affidò un'altra missione diplomatica. Nel novembre del 1512 si recò così a Milano per impedire al duca Massimiliano Sforza di sostenere il concilio di Pisa e favorire i ribelli bolognesi nel ducato. La morte di Giulio II, sopraggiunta il 21 febbr. 1511, Mise fine de iure alla sua nunziatura milanese, ma il nuovo papa Leone X lo confermò nella carica, affidando a lui e al fratello Tommaso, che l'aveva accompagnato, l'amministrazione di Parma e Piacenza occupate da Massimiliano Sforza al tempo del conclave. Anche questa volta il C. eseguì la sua missione con molta abilità. Nell'agosto del 1513 tornò a Roma, per recarsi poco tempo dopo, nel dicembre del 1513, per la seconda volta in Germania.

Lo sfondo politico della missione era costituito dall'espansione turca verso la Persia, la Siria e l'Egitto. Per costituire un fronte compatto contro i Turchi, Leone X accarezzava il progetto di promuovere una pace "inter omnes principes Christianos". Nell'ambito di questo piano generale, il C. doveva indurre l'imperatore a concludere la pace con Venezia. Le grandi difficoltà che si opponevano alla realizzazione di questo progetto, lo trattennero alla corte imperiale per quattro anni. Ma vi acquisì tanta stima che Massimiliano lo raccomandò al papa per elevarlo alla dignità cardinalizia. Leone X infatti lo creò cardinale il 1º luglio 1517, insieme con altri trenta prelati, assegnandogli inizialmente la chiesa di S. Tommaso in Parione. In seguito rappresentò la S. Sede presso l'imperatore con la qualità di cardinal legato. Con la nomina del suo successore presso la corte imperiale ebbe inizio la nunziatura permanente di Germania. Per manifestare la grande stima nutrita nei suoi confronti, Massimiliano lo nominò cardinale protettore della Germania - una dignità confermatagli anche dal successore di Massimiliano, Carlo V - che il C. tenne fino alla morte.

Nell'aprile del 1518 il C. si mise nuovamente in viaggio. Leone X mandava cardinali legati in Germania, Francia, Spagna e Inghilterra per conquistare i sovrani più potenti d'Europa ai suoi progetti di una "Pax christiana" e promuovere una tregua quinquennale fra di loro in difesa dai Turchi. Al C. fu affidata la missione d'Inghilterra, dove lo attendevano difficoltà ancora maggiori di quelle incontrate cinque anni prima alla corte imperiale. Dovette combattere anzitutto contro l'opposizione tenace dell'uomo più potente della corte di Enrico VIII, il cardinale Wolsey, che non volle riconoscere la missione del C. in Inghilterra, richiamandosi al privilegio della Corona inglese di non ammettere legati a latere. Solo quando il Wolsey fu nominato anche egli legato a latere e gli fu confermato il possesso della diocesi di Bath e Wells, il C. poté attraversare la Manica (luglio 1518). Aveva dovuto aspettare tre mesi a Calais prima di potersi imbarcare. La sua missione infatti non rientrava nelle direttive della politica inglese. Per Enrico VIII un'alleanza con la Francia era molto più importante della partecipazione alla comune difesa contro il pericolo turco tanto lontano per l'Inghilterra. Per contrastare il progetto pontificio, l'Inghilterra concluse nell'ottobre del 1518, per le pressioni del Wolsey, una "pace universale" con la Francia, alla quale invitò tutte le altre potenze ad aderire. Anche Leone X fa costretto a confermarla, e con ciò fallì il suo progetto di una crociata comune delle potenze europee contro i Turchi sotto la guida diplomatica del Papato. Il C. non era riuscito a far valere il proprio punto di vista nei confronti del Wolsey. Nel giugno del 1519 fu richiamato, ma lasciò l'Inghilterra solo nell'agosto. Malgrado l'insuccesso diplomatico, riuscì a instaurare buoni rapporti personali con il Wolsey e ad acquistare il favore particolare di Enrico VIII. Il quale gli concesse l'aspettativa sulla ricca diocesi di Salisbury e gli donò un palazzo a Roma, l'odierno palazzo Torlonia in via della Conciliazione.

Eletto membro della Signatura iustitiae dopo il suo ritorno dall'Inghilterra, il C. si trattenne in seguito a Roma per quattro anni. Morto Leone X il 1º dic. 1521, fu eletto successore, il 9 genn. 1522, Adriano di Utrecht, l'ultimo pontefice di origine non italiana. Nel conclave anche il C. aveva dato il suo voto all'educatore e consigliere del nuovo imperatore Carlo V, schierandosi così dalla parte del partito asburgico in Curia. Visto che il nuovo papa non aveva partecipato al conclave, i cardinali si adoperarono per indurlo a trasferirsi al più presto possibile in Curia. Anche il C. partecipò a questa iniziativa mandando nel marzo del 1522 suo fratello Tommaso in Spagna, dove Adriano teneva la reggenza fino al ritorno del suo imperiale discepolo dalla Germania. Tommaso aveva l'incarico di trasmettere al papa un memoriale redatto dal C., De depravato statu Ecclesiae, che presentava una serie di proposte per rimediare a certi abusi, riformare la collazione dei benefici ecclesiastici e combattere efficacemente l'eresia luterana. Il programma di una autoriforma della Chiesa sviluppato in questo memoriale oltrepassava di molto i limiti del possibile, ma corrispondeva certamente ai sentimenti del pio pontefice, pervaso da sacro zelo per la purificazione della Chiesa e da ostilità per l'eresia che stava nascendo in Germania. Tuttavia non si può provare se da questa convergenza di vedute sia nato anche un rapporto di particolare fiducia tra il C. e Adriano. Il fatto che non ottenne il canonicato di S. Pietro da lui richiesto né un véscovato redditizio, al posto di Feltre al quale aveva rinunciato nel 1520, non depone certamente a favore di questa ipotesi. La nuova, importante carica che il C. ricevette al tempo del pontificato di Adriano non gli fu conferita dal papa ma dal re inglese. Il 22 genn. 1523Enrico VIII lo nominò infatti cardinale protettore d'Inghilterra. Il C. fu l'ultimo a ricoprire questa dignità, prima che fosse eliminata in seguito al distacco dell'Inghilterra dalla Chiesa di Roma.

Il pontificato di Adriano VI non durò neanche due anni. Fu eletto suo successore, il 19 nov. 1523, un Medici che assunse il nome di Clemente VII. Riprendendo la tradizione del cugino Leone X, il nuovo papa si dimostrò molto più generoso nella concessione di benefici del suo predecessore. Già nel dicembre del 1523 al C. venne conferito il vescovato di Bologna, che fino al 1563 rimase in possesso della sua famiglia, e al quale si aggiunsero altri quattro vescovati, concessi al C. nel corso degli anni (Salisbury nel 1524, Huesca nel 1530, Parenzo nel 1533e Candia nel 1534).Il C. poté prendere possesso del suo nuovo vescovato di Bologna soltanto durante un viaggio di passaggio, perché il nuovo pontefice si volle subito servire della sua abilità diplomatica.

Nel gennaio 1524 fu nominato legato per la Germania, l'Ungheria e la Boemia, con l'incarico di partecipare in tale veste alla Dieta di Norimberga di quell'anno. Arrivò a Norimberga il 14 marzo e fu il suo primo incontro con la tumultuosa Germania della Riforma.

A Norimberga non riuscì a ottenere dagli Stati tedeschi un impegno per il grande compito comune della difesa contro i Turchi. Non poté neanche impedire la deliberazione, ugualmente pericolosa per il papa e per l'imperatore, di trattare la causa di Lutero nel corso di un concilio nazionale tedesco, al quale avrebbero partecipato anche gli Stati laici. Ma in base alle esperienze fatte alla Dieta il C. intraprese subito il tentativo di ovviare al pericolo dell'abbandono dell'editto di Worms prospettato a Norimberga, con la concentrazione delle forze ortodosse su scala regionale. Era questo il significato del convegno dei due duchi bavaresi e di dodici vescovi della Germania meridionale che si riunì nel giugno del 1524 a Ratisbona su invito dell'arciduca Ferdinando, fratello dell'imperatore, e del cardinal legato stesso.

Il C. fu la mente direttiva di questa iniziativa. Riuscì a mettere al centro delle consultazioni la questione della fede e fu probabilmente lui ad indurre i partecipanti al convegno a concludere una lega contro gli eretici. Nella "formula reformationis" deliberata dal convegno di Ratisbona, i partecipanti si impegnarono ad adoperarsi per rimediare agli abusi esistenti nella Chiesa, e nella lega da loro conclusa si impegnarono ad osservare l'editto di Worms e a prendere misure comuni contro i seguaci di Lutero nei loro territori. Nelle deliberazioni del convegno di Ratisbona si scorge già la volontà di promuovere una riforma cattolica oltre alla difesa contro il movimento luterano. Senza sopravvalutare gli effetti immediati di queste iniziative sulle vicende della Riforma, tuttavia occorre sottolineare che si trattò della prima lega confessionale conclusa in territorio tedesco. E fu merito precipuo del C. se assunse questo carattere.

Da Ratisbona proseguì per Vienna, dove rimase fino al dicembre del 1524. per trasferirsi poi, su richiesta del re Ludovico d'Ungheria, a Budapest. A Vienna si adoperò innanzitutto per la pacificazione religiosa della Boemia, ma in Ungheria il problema dominante era il pericolo turco sempre più minaccioso. Si trattenne in Ungheria per sei mesi, poi fa richiamato dal papa, e, passando per Venezia e Bologna, tornò a Roma, dove arrivò nell'ottobre del 1525.

Prima di riprendere il viaggio di ritorno dall'Ungheria, il C., in una lettera diretta al Sadoleto, dichiarò di ritornare dalla missione "con poco frutto" e, a giudicare dai risultati, disse la verità. Non aveva potuto dare l'indirizzo desiderato alle trattative svoltesi nel corso della Dieta di Norimberga, indubbiamente aveva sopravvalutato il risultato del convegno di Ratisbona, e anche i suoi sforzi per un'efficiente difesa contro i Turchi in Ungheria - un anno prima che la catastrofe di Mohács mettesse definitivamente fine alla politica offensiva perseguita dalla Curia nei confronti dei Turchi - risultarono vani. Tuttavia, nella situazione politica ed ecclesiastica del momento, difficilmente un legato pontificio poteva conseguire risultati migliori. Il vero motivo del suo richiamo non si deve cercare nell'insuccesso dei suoi sforzi, ma nel cambiamento della politica pontificia. Clemente VII, che fino ad allora si era mantenuto neutrale tra gli Asburgo e i Valois, nel 1524 si schierò apertamente dalla parte della Francia e non cambiò indirizzo neanche dopo la grande vittoria riportata da Carlo V su Francesco I presso Pavia (1525). Il C. invece rimase di sentimenti imperiali. Come nel 1521 aveva mandato il fratello Tommaso da Adriano di Utrecht, il 25 luglio 1525 inviò da Bologna l'altro fratello, Bartolomeo, dall'imperatore con una lettera, nella quale lo felicitava per la vittoria riportata a Pavia, gli riferiva della sua legazione in Germania e in Ungheria e offriva i suoi servizi. Una simile iniziativa era in contrasto con le direttive della politica curiale. Il C. infatti restò nell'ombra negli anni seguenti, quando i rapporti tra la Curia e l'imperatore toccarono il punto più basso con la conclusione della lega di Cognac (1526). Rimase tuttavia a Roma, dove assistette al colpo di mano di Pompeo Colonna del 20 sett. 1526 e al sacco dell'anno successivo. Condivise con Clemente VII la prigionia in Castel Sant'Angelo e fu nominato dal pontefice, quando poté lasciare Roma, legato nell'Urbe, probabilmente in considerazione dei suoi buoni rapporti con la corte imperiale.

Solo nell'estate del 1528 al C. fu affidata un'altra missione diplomatica, ma l'iniziativa questa volta non partì né dalla Curia né dalla Germania. Fu mandato in Inghilterra, su richiesta di Enrico VIII, per studiare insieme al Wolsey la questione della validità giuridica del matrimonio del re con Caterina d'Aragona. Il C., valente giurista, dovette sembrare particolarmente adatto a questo incarico, visto che conosceva bene la situazione inglese e godeva di grande stima presso il re. La difficoltà principale di questa missione stava nell'interesse romano ad impedire una soluzione definitiva della questione. Clemente VII sapeva bene che con il suo arbitrato doveva inimicarsi necessariamente il re inglese o l'imperatore vittorioso. Il C. aveva perciò istruzioni di tirare per le lunghe le trattative e di evitare una decisione, infine di ritardare per quanto possibile, senza offendere però Enrico VIII, il suo arrivo in Inghilterra. Così si spiega come, partito nel giugno del 1528 da Roma, impiegasse due mesi e mezzo per giungere in Inghilterra. Questa tattica dilatoria era dettata dalle speranze pontificie in una riconciliazione del re con la regina, che avrebbe reso superfluo il processo. Ma queste speranze andarono deluse: Enrico insistette per l'istruzione del processo e Caterina si dimostrò inflessibile, rifiutando di ritirarsi in convento per permettere al re il matrimonio con Anne Boleyn. Il processo era dunque inevitabile e il C. poté solo tentare di trascinarlo il più a lungo possibile, nella speranza di riuscire a sottrarsi all'obbligo di pronunciare la sentenza.

Vi riuscì, ma solo al prezzo di deludere tutti e due i partiti che fino ad allora avevano riposto le loro speranze su di lui. Come cardinale protettore dell'Inghilterra e della Germania, era uomo di fiducia sia di Enrico VIII sia di Carlo V, il quale come nipote di Caterina d'Aragona era il vero antagonista del re d'Inghilterra. Il proposito di non impegnarsi a favore di nessuna delle due parti, ebbe la conseguenza inevitabile di screditarlo sia con l'uno sia con l'altro. I giudizi contrastanti espressi nei suoi confronti dai contemporanei attestano che ciascuna delle parti in causa lo riteneva fautore della parte avversaria, mentre in realtà egli si attenne solo alle istruzioni ricevute. Adoperandosi in ogni modo per rimandare la decisione, cadde in disgrazia presso il re inglese. Il trasferimento del processo a Roma concluse la sua missione che da un lato acuì ulteriormente la tensione tra l'Inghilterra e la Curia, ma dall'altro guadagnò al papa il margine di tempo che desiderava.

La concessione del castello di Dozza presso Bologna al C. e ai suoi eredi attesta quanto Clemente VII avesse apprezzato questo risultato. Lasciata l'Inghilterra nell'ottobre del 1529, il C. rientrò a Bologna, dove il 6 dicembre Clemente VII aveva accolto Carlo V. Il 24 febbraio successivo assistette il papa in S. Petronio nella cerimonia dell'incoronazione imperiale di Carlo V che si disponeva a dirigersi nell'Impero, non più visitato da nove anni. Già nel gennaio del 1530 era stata convocata ad Augusta, per l'aprile, la Dieta alla quale il C. doveva partecipare come cardinale legato. La grande esperienza della situazione tedesca lo aveva particolarmente raccomandato per questo incarico. La circostanza che in Inghilterra aveva resistito a tutte le pressioni, ottenendo il trasferimento del processo a Roma, gli aveva inoltre riconquistato l'antico favore presso la corte imperiale. Il 16 marzo 1530 fu nominato, quindi, legato presso Carlo V con l'incarico di accompagnarlo in Germania. La partenza da Bologna ebbe luogo il 22 marzo 1530.

Iniziava così l'ultima e più importante legazione del C., che lo avrebbe tenuto lontano da Roma per due anni. La Dieta di Augusta non costituisce soltanto una svolta decisiva nella storia della Riforma, ma anche una cesura importante nella politica dell'imperatore al quale il C. fu associato come legato. Egli si trovò così al centro delle grandi decisioni nel campo ecclesiastico e politico, come mai nel corso delle sue missionì precedenti. A dispetto dei limiti impostigli dalla sua condizione di diplomatico costretto ad attenersi alle istruzioni ricevute, intervenne incisivamente nelle trattative, come attestano le fonti, particolarmente ricche e circostanziate per questo periodo, che permettono di cogliere il ruolo specifico svolto dal C. molto meglio di quanto non sia possibile per le sue missioni precedenti.

Poco dopo la sua partenza, Clemente VII precisò i termini del suo incarico in un breve: con tutti i mezzi in suo potere egli doveva cercare di eliminare, addirittura di estirpare, l'eresia diffusa in Germania. Un compromesso sulla questione della fede era fuori discussione: ai seguaci di Lutero si doveva porre solo l'alternativa tra la sottomissione e l'eliminazione. A queste direttive, alle quali aderiva pienamente, il C. si attenne. Già nel corso del lungo viaggio non mancò di approfittare dei suoi rapporti con l'imperatore per influenzarlo in questo senso. Prima dell'apertura della Dieta, Carlo V aveva incontrato alcuni principi cattolici che gli erano venuti incontro fino ad Innsbruck (maggio 1530). Al C. riuscì di convincerlo ad evitare ogni cedimento nei confronti dei luterani e a concordare con i principi cattolici, in vista della Dieta, una linea comune sulla questione della fede. Fu il primo successo della sua tattica, che dette buoni risultati anche nei confronti dei protestanti, i rappresentanti dei quali, pur non essendo stati invitati, si recarono ugualmente a Innsbruck per sollecitare clemenza dall'imperatore e chiedergli comprensione per i loro problemi politici e religiosi. In difesa della loro dottrina gli presentarono i cosiddetti "articoli di Schwabach", che tracciavano le linee dell'organizzazione ecclesiastica riformatrice nell'Elettorato di Sassonia, il più grande territorio luterano. Carlo V si rimise subito al giudizio del C. che non esitò a pronunciarsi, inequivocabilmente, sul contenuto eretico di essi, soprattutto per quel che riguardava la dottrina dei sacramenti. In tal modo impedì ogni possibile cedimento dell'imperatore nei confronti dei protestanti, già prima dell'inizio della Dieta. Non poté impedire invece che l'imperatore mantenesse la promessa, contenuta nella lettera di convocazione della Dieta, di ascoltare personalmente gli argomenti addotti dai rappresentanti delle varie confessioni. La Dieta si aprì con grande ritardo nel giugno del 1530 e il C. si accorse subito che proprio questa promessa costituiva il pericolo più grande per la politica da lui rappresentata. La situazione tedesca gli apparve molto più sfavorevole di quanto non avessero ritenuto egli stesso e la Curia.

I protestanti erano ben preparati al dibattito teologico che la lettera di convocazione sembrava promettere. Le grandi speranze suscitate dalla Dieta, soprattutto in campo protestante, erano motivate proprio dall'incarico dato ai protestanti di definire la loro fede. Tanto più grande fu la delusione per l'intransigenza dimostrata nei loro confronti sin dall'inizio dall'imperatore e dal legato. Non solo dovevano rinunciare al diritto di predicare, ma persino a partecipare alla processione del Corpus Domini in Augusta. Fu proprio questa intransigenza dei loro avversari che indusse i protestanti a superare le forti divergenze politiche e religiose che ancora li dividevano, per unirsi in un fronte compatto anticattolico.Il C. comunque non poté impedire che la professione di fede protestante, la cosiddetta "confessio Augustana", fosse letta pubblicamente alla presenza dell'imperatore. La teologia riformatrice condannata a Roma già da tempo fu portata così ufficialmente a conoscenza degli Stati imperiali e ivi discussa. La portata storica di questo avvenimento fu grandissima: per la prima volta la fede protestante fu infatti proclamata davanti ad una assemblea degli Stati dell'Impero. Per il momento tuttavia l'interesse convergeva su un altro evento che si svolgeva dietro le quinte della Dieta e sembrava promettere una svolta imprevedibile nelle discussioni sulla fede: le trattative particolari condotte da Melantone con la corte imperiale e il Campeggi.

Visto che Lutero, il quale era stato messo al bando dall'Impero, non poteva partecipare alla Dieta, Melantone si era assunto il compito di rappresentare ad Augusta la causa protestante dal punto di vista teologico. In lui, come in nessun altro riformatore, era viva la speranza che fosse ancora possibile ricostituire l'unità della fede. Questo atteggiamento non corrispondeva soltanto alla sua indole pacifica ma anche al sentimento cristiano-umanistico di solidarietà che lo animava. Nessun sacrificio gli sembrava troppo grande per evitare la scissione della cristianità e riteneva che il più grande servizio che egli potesse rendere alla causa protestante era quello di tenere quanto piùaperta possibile la porta per un'intesa con gli ortodossi. Sin dall'inizio della Dieta Melantone entrò in rapporti con i segretari imperiali Alfonso de Valdés e Cornelius Schepper, conducendo con loro una serie di colloqui preliminari ad un compromesso nelle questioni della fede. Al punto in cui stavano le trattative era inevitabile che anche il legato della Curia fosse ammesso a questi colloqui. Per il C. Melantone non era un interlocutore indesiderato. Già nel 1524, dopo la Dieta di Norimberga, gli aveva mandato il suo segretario Nausea per tentare di indurlo, ma senza successo, a tornare alla fede cattolica. Dal canto suo Melantone si aspettava, da un giurista ed esperto negoziatore politico come il C., una maggiore disposizione al compromesso di quanto non potesse manifestare un teologo come il Caetani atteso originariamente come legato. Anch'egli aveva visto quindi favorevolmente la sua partecipazione alla Dieta.

Il C. imboccò con sorprendente prontezza la strada che queste trattative sembravano aprire ad una soluzione della questione della fede. Aveva capito che in quel momento non era possibile far valere il punto di vista giuridico sostenuto dalla Curia, che richiedeva l'applicazione rigorosa dell'editto di Worms, anche perché l'imperatore stesso, sotto l'effetto dei colloqui, insisteva per un'intesa. Ma il C. seguì il nuovo corso non solo per ragioni tattiche. Dai suoi dispacci alla Curia si desume che egli improvvisamente giudicò ancora possibile e più facile di quanto non avesse inizialmente temuto ricondurre sulla giusta via il movimento riformatore e raggiungere un accordo con i luterani. Tutte e due le parti si illudevano di poter evitare con le trattative in corso la presentazione della "confessio Augustana" e per questo motivo Melantone ne interruppe di proposito la stesura. Alla fine approntò una redazione piuttosto conciliante che cercava ogni possibile aggancio delle dottrine riformatrici con le posizioni della Chiesa cattolica. Inoltre considerò la lettura della "confessio" solo come un'interruzione non desiderata, nelle trattative sulle quattro condizioni la cui accettazione avrebbe reso possibile il ritorno dei protestanti nel campo cattolico: la comunione sotto le due specie anche per i laici, la soppressione del celibato, la modifica del "canon missae" e la convocazione di un concilio generale. I consiglieri imperiali accolsero favorevolmente le sue proposte, ma determinante era considerato l'atteggiamento che avrebbe assunto il rappresentante pontificio. I dispacci del C. alla Curia attestano che egli avvertì tutta l'importanza del tentativo di Melantone. Con la sola eccezione del concilio, riteneva accettabili tutte le altre condizioni, chiedendo alla Curia istruzioni in questo senso. Indubbiamente il C. non riteneva più inconciliabili le divergenze teologiche tra la dottrina ufficiale romana e quella del riformatore di Wittenberg. Lo stesso giorno, il 26 giugno 1530, i protagonisti più importanti delle trattative di Augusta scrissero alle autorità dalle quali dipendevano rispettivamente: il C. alla Curia, il Melantone a Lutero. Tutti e due accennarono alla lettura della "confessio", ma nessuno dei due chiese di prendere posizione su di essa. Sollecitarono invece la risposta ad un problema emerso anch'esso fuori dalle discussioni ufficiali della Dieta, cioè se Chiesa e Riforma potessero riconciliarsi sulla base di concessioni di parte cattolica.

La risposta di Lutero, motivata da una conoscenza approfondita delle difficoltà che si ponevano a una vera intesa teologica, fu negativa. Egli riteneva un'astuzia del C. e del pontefice il tentativo di mascherarle con alcune concessioni in campo liturgico e giuridico-disciplinare. La presa di posizione di Lutero non lasciava adito ad equivoci; la Curia fece attendere la sua risposta. Il dispaccio del C. del 26 giugno 1530 fu discusso in concistoro, ma non si riuscì a giungere a una delibera. La decisione fu rimandata. Solo alla fine di agosto, quando anche l'imperatore chiese la convocazione del concilio, la Curia si dichiarò pronta a tollerare tacitamente alcune usanze liturgiche dei protestanti, approvando così in linea di principio le trattative svoltesi nel corso della Dieta di Augusta. Ma questa decisione venne troppo tardi per sortire ancora un effetto positivo. Nel frattempo avevano preso il sopravvento altre forze, in netto contrasto con gli sforzi di Melantone, per giungere ad un accordo. L'incarico conferito dall'imperatore, con il consenso del C., ai teologi tedeschi ortodossi di elaborare una confutazione della "confessio Augustana", la cosiddetta "confutatio", accentuò nuovamente i contrasti teologici, attenuati, anche se non completamente obliterati, negli articoli di Melantone relativi all'unione.

Il C. approvò la "confutatio" distanziandosi in tal modo dagli articoli di Melantone relativi all'unione che un mese prima sembrava ancora accogliere favorevolmente. Nonostante ciò, sarebbe un errore considerare i suoi sforzi per un accordo pacifico soltanto come una manovra di diversione. Non era affatto così fermamente deciso a mantenere un atteggiamento di chiusura nei confronti dei protestanti come si è ritenuto per lungo tempo. L'attenta lettura dei suoi dispacci suggerisce piuttosto che in lui la volontà di procedere duramente contro i luterani si sia alternata con la speranza di giungere presto all'appianamento dei contrasti religiosi. La sua decisione di preferire; nel luglio del 1530, la inequivocabile confutazione della dottrina evangelica ad una intesa sulle differenze di fede e di dottrina, da lui stesso giudicate per un certo tempo esigue, segnò le sorti delle trattative, nel corso delle quali cattolici e riformati si erano avvicinati come mai più nei tempi successivi. Il C. non partecipò più alla continuazione delle trattative, rimesse dall'imperatore alle apposite commissioni della Dieta composte pariteticamente. Nel settembre esortò Carlo V ad evitare concessioni troppo ampie, invitandolo a tornare all'intransigenza nei confronti dei protestanti. In un dispaccio del 13 sett. 1530 espresse il suo giudizio complessivo sul fallimento degli sforzi compiuti nel corso della Dieta per un appianamento dei contrasti religiosi con le parole seguenti: "Dio volesse che non si fosse mai trattata cosa alcuna, né venuta S. M.tà in Germania, né fatta questa dieta per questa causa".

Il fallimento delle trattative religiose di Augusta lasciò libera la via all'intransigenza sancita, con vincolo di legge imperiale, dai deliberati della Dieta. Ma la minaccia che essi comportavano per gli Stati protestanti li indusse ad accordarsi molto più presto di quanto non si potesse prevedere all'inizio della Dieta. La loro unione in una lega con stabile organizzazione politica e militare (la lega di Smalcalda) fu determinata in modo decisivo dall'esito della Dieta di Augusta. Il problema irrisolto che la Dieta lasciò all'imperatore - la riduzione degli eretici nel seno della Chiesa - ormai era diventato molto più difficile. La conclusione negativa delle trattative non ebbe invece lo stesso peso per la Curia. Non la toccò neanche il fallimento dell'arbitrato imperiale, sancito dall'insuccesso dei colloqui condotti nel corso della Dieta. In questi anni per il papa e per i suoi consiglieri il problema dei protestanti tornò in seconda linea rispetto a due pericoli molto più gravi ai loro occhi: la richiesta di tutti gli Stati tedeschi, anche di quelli cattolici, e soprattutto dell'imperatore stesso, di convocare il concilio, e una nuova invasione turca che minacciava di abbattersi sull'Europa centrale. Anche la legazione del C. alla corte imperiale si concentrò ormai su questi due problemi.

Dopo la conclusione della Dieta il C. aveva lasciato Augusta, il 20 nov. 1530, seguendo l'imperatore nei suoi domini fiamminghi. Per tutto l'anno 1531 si trattenne alla corte imperiale, a Bruxelles o a Gand. Nel novembre lo raggiunse l'arcivescovo di Brindisi, Girolamo Aleandro, inviato pontificio, con l'incarico di sostenere il cardinal legato, spesso afflitto da malattie, nel corso della prossima Dieta. Indubbiamente l'orgoglioso "autore dell'editto di Worms" (Jedin) non era per il C. un collaboratore gradito, tanto più in quanto l'Aleandro era considerato in Germania, anche se forse a torto, un avversario degli Asburgo e un fautore della Francia. Non mancarono neanche attriti personali tra i due, ma non si arrivò tuttavia ad un vero e proprio contrasto, dato che il C. non si lasciò mai esautorare dall'Aleandro. Anche se le critiche rivoltegli dall'Aleandro suggerirono conclusioni diverse, i due rappresentanti pontifici concordavano nella valutazione dei problemi religiosi e politici, per la cui soluzione si adoperavano. Anche l'Aleandro in effetti nell'autunno del 1531 giudicò il luteranesimo un pericolo maggiore di quello turco. Anche lui riteneva il ricorso alla forza l'unico mezzo per sottomettere gli Stati imperiali protestanti.

L'imperatore invece non prese in considerazione l'eventualità di far valere i deliberati di Augusta con le armi. La sfavorevole situazione internazionale lo costrinse ad evitare ogni complicazione bellica. Fece addirittura un tentativo di accordarsi con i protestanti, rimandando perciò ripetutamente la Dieta promessa. Neanche la Curia desiderava per quell'inverno una guerra contro i protestanti, la sua più grande preoccupazione era la difesa della costa orientale dell'Italia contro il pericolo turco, piuttosto sopravvalutato a Roma. La Curia sapeva che solo l'imperatore poteva difendere efficacemente l'Italia, per mare e per terra. Sconsigliò perciò un'impresa militare contro i protestanti, che avrebbe impegnato fatalmente tutte le forze imperiali in Germania, nella speranza che un atteggiamento più cedevole nei confronti dei luterani avrebbe portato presto alla conclusione dei conflitti religiosi. Era un'illusione, dalla quale il C. mise in guardia non solo l'imperatore ma anche la Curia. Per questo stesso motivo non ripose neanche molte speranze nella Dieta, convocata oltre che per deliberare i necessari armamenti contro i Turchi anche per definire la questione religiosa, e aperta finalmente nell'aprile del 1532 a Ratisbona.

Risultò subito evidente che gli Stati protestanti non avrebbero appoggiato la lotta contro i Turchi senza concessioni sul piano religioso. Non si poterono tuttavia sottrarre completamente all'impegno comune per la difesa antiturca. Le trattative su questo punto si trascinarono per tre mesi. Visto che i principi protestanti non si erano presentati personalmente alla Dieta, furono condotte con loro speciali trattative, prima a Schweinfurt: e poi a Norimberga. Ne erano esclusi i rappresentanti della Curia, che tuttavia furono informati del loro contenuto.

Il risultato fu la "pace religiosa di Norimberga" (25 luglio 1532), concessa dall'imperatore ai protestanti. Se è vero che questa "tregua" doveva durare soltanto fino alla riunione del concilio, in verità ancora molto lontano, si trattava tuttavia di un documento valido anche sul piano giuridico che dispensò - sia pure solo temporaneamente - gli Stati protestanti dall'osservanza delle disposizioni imperiali, imposte loro dai deliberati di Augusta meno di due anni prima. I rappresentanti della Curia accettarono la "tregua di Norimberga" senza alcuna protesta e trasmisero a Roma il testo del mandato imperiale, astenendosi da ogni commento. Lo fecero perché convinti che l'incombente pericolo turco rendesse inevitabile un accordo dell'imperatore con i protestanti. Il C. forse si consolò al pensiero che il compromesso concluso con i protestanti non era di natura religiosa solo giuridico-politica. Anche lui era dell'opinione che una vittoria imperiale sui Turchi avrebbe annullato gli accordi di Norimberga, dando l'avvio alla sottomissione militare dei protestanti.

Con la "tregua" e il contemporaneo compromesso di Norimberga, era conclusa la missione degli inviati pontifici presso la corte imperiale.

Preoccupazioni personali indussero il C. a desiderare ancora di più la partenza dalla Germania così irrequieta. Era tormentato dalla sua vecchia malattia, la gotta, e temeva per la sua sicurezza personale; secondo le informazioni più recenti si pensava di abbandonare ai Turchi, senza combattere, l'Ungheria e addirittura Vienna, e di contrastarli soltanto nella zona di Ratisbona. Nel luglio chiese personalmente di essere richiamato e lasciò Ratisbona il 22 ag. 1532.

Non tornò a Roma come vincitore dell'eresia luterana. La sua missione diplomatica presso la corte imperiale - egli stesso lo intendeva - era fallita. Immediatamente dopo la sua parte la situazione politica tedesca cambiò improvvisamente e il C. dové constatare - con amarezza - che la rinuncia all'intransigenza verso i protestanti non trovava più in essa alcuna giustificazione. La grande lotta contro i Turchi che tutti si erano aspettati non ebbe luogo. I Turchi evitarono la battaglia decisiva e si ritirarono. Il pericolo turco per il quale all'imperatore e alla Curia per un certo periodo nessun sacrificio era sembrato troppo grande, si era dissolto nel nulla. La "tregua di Norimberga", si presentò come una frettolosa rinuncia al punto di vista puramente giuridico, che non si poté revocare all'insegna della grande vittoria imperiale sui Turchi, come il C. aveva ancora sperato nel luglio.

Non si sa molto degli ultimi anni trascorsi dal C. in Italia. Non gli furono più affidate missioni diplomatiche, ma sotto il pontificato di Paolo III fu investito ancora una volta di un ufficio degno delle sue capacità. Dopo essere stato chiamato dal papa nel 1536 a far parte della commissione conciliare, l'esperto canonista nel marzo del 1538 fu nominato presidente del concilio convocato a Vicenza. Erano i primi passi concreti verso la realizzazione della promessa di convocare il concilio che Carlo V aveva strappato a papa Farnese. Ma il tentativo naufragò nel mare degli interessi contrastanti delle potenze, e se anche fosse andato in porto, il C. non ne avrebbe visto la conclusione. Quando la proroga dell'agosto 1538 suggellò il destino del concilio di Vicenza, il C. era già gravemente ammalato.

Morì neanche un anno più tardi, a Roma, il 25 luglio 1539. Fu sepolto nella chiesa di S. Maria in Trastevere.

Assieme all'Aleandro fu il diplomatico pontificio più importante della sua generazione. Non si considerò mai solo un informatore e tentò sempre di influenzare la politica della Curia. La sicura competenza giuridica condizionò decisamente il suo modo di impostare i grandi problemi del tempo che dovette affrontare come diplomatico. Egli si rese conto, senza trovare tuttavia sempre comprensione adeguata negli ambienti curialì, che a lungo andare l'inflessibile affermazione del principio giuridico costituiva l'arma migliore della Chiesa, costretta alla difensiva da tutti i lati. Non era un umanista dotato di cultura letteraria, come il suo brillante rivale Aleandro, ma lo superò in chiarezza e coerenza sul piano politico. Il suo senso pratico determinò anche il suo atteggiamento nei confronti della "Riforma cattolica", della quale vide gli esordi negli ultimi anni di vita. Tra i cardinali di Curia di Paolo III non appartenne al gruppo dei riformatori decisi, i quali, come Contarini, chiedevano il rinnovamento radicale della Chiesa e della sua struttura. Hubert Jedin l'ha giudicato acutamente "il rappresentante, in ogni senso eccellente e aperto" di un gruppo di cardinali composto prevalentemente di giuristi, non ostili alle riforme ma piuttosto conservatori, i quali cercarono, come più tardi il fratello del C., Tommaso, a Trento, "di conciliare le richieste dei riformatori con la tradizione della Curia".

Fonti e Bibl.: Römische Dokumente zur Geschichte der Ehescheidung Heinrichs VIII. von England, a cura di St. Ehses, Paderborn 1893; Legation L. C.s..., in Nuntiaturberichte aus Deutschland, suppl., a cura di G. Müller, I, 1, Tübingen 1969; Acta Reformationis Catholicae, a cura di G. Pfeilschifter, I, Regensburg 1959; C. Sigonio, De vita Laurentii Campegii card., Bononiae 1591; E. V. Cardinal, Card. L. C., Boston 1935, H. Jedin, Storia del conc. di Trento, I, Brescia 1949, ad Ind.;G. Müller, Die röm. Kurie u. die Reform. 1523-1534, Gütersloh 1969, ad Indicem; Realency-klopädie f. prot. Theologie u. Kirche, III, coll.698-704; Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., XI, coll. 634-640.

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