CELSI, Lorenzo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 23 (1979)

CELSI, Lorenzo

Laura Ginnasi

Figlio di Marco procuratore di S. Marco, del confinio di San Martino a Venezia, nacque molto probabilmente nel primo decennio del secolo XIV (nell'anno 1308 secondo il Cicogna), dalle prime nozze del padre con una donna di cui ignoriamo il nome. Ricco ed ambizioso, percorse in breve tempo una prestigiosa carriera, che all'età di poco più di cinquant'anni lo portò al dogado in modo pressoché inatteso, sia per la natura e l'importanza non particolarmente rilevante degli incarichi fino ad allora esercitati, sia perché egli apparteneva a una famiglia quasi estranea alla vita politica (lo stesso Marco, con cui iniziò la rapida ma breve fortuna dei Celsi, ottenne il titolo di procuratore dopo l'elezione del figlio a doge).

Il quadro dell'attività, essenzialmente militare, svolta dal C. prima dell'elezione alla massima dignità presenta i consueti margini di dubbio, mancando spesso le indicazioni necessarie ad, escludere ogni possibilità di omonimia e dovendocisi basare, nell'attribuzione di alcune cariche, solo sulla autorità dei genealogisti. Il dubbio è tanto più fondato per l'esistenza di un Lorenzo Celsi del sestiere di San Marco, forse uno zio del C., che fu nel 1350 candidato al Senato e nel 1351 (gennaio-luglio, ottobre-gennaio 1352) uno dei venticinque savi deputati alla guerra di Genova.

Il C. entrò nella vita pubblica probabilmente prima del 1349, se in quell'anno era già stata proposta la sua candidatura al Consiglio dei rogati, riproposta in seguito nel 1352. Nel luglio 1353, durante la guerra contro Genova, fu nominato capitano da Mar. Al comando di cinque galee scortò le navi veneziane che erano andate "in Turchia" a caricare frumento, catturando "aput Marmoram" (o nell'Arcipelago) alcune navi nemiche. I controlli effettuati sul transito marittimo lo coinvolsero, insieme con altri ufficiali, in una lunga controversia internazionale, sotto l'accusa di aver illegalmente confiscato beni appartenenti a un mercante francese.

Inviato nell'agosto 1354 podestà a Treviso, appena rientrato a Venezia, dal 3 al 25 ag. 1355, fece parte della commissione di savi istituita per deliberare sui disordini provocati a Candia da Tito Venier e Francesco Gradenigo. Di fronte a una situazione già tesa e compromessa il C. assunse un atteggiamento cauto. Contrariamente alla decisa reazione dei suoi colleghi, che volevano l'invio nell'isola di provveditori per procedere non solo alle inquisizioni ma anche all'attuazione di riforme, egli propose, con successo, che il giudizio sui due maggiori responsabili e sugli eventuali complici fosse demandato ai rettori di Creta, sancita comunque la confisca dei loro feudi.

Nel dicembre 1355 fu nominato capitano del paesanatico di Schiavonia, una milizia regionale organizzata all'approssimarsi del conflitto con il re d'Ungheria per garantire la difesa della Dalmazia. Oltre le normali responsabilità inerenti al governo militare della regione, egli ebbe il compito specifico di procurare l'acquisto di Clissa e Scardona, in cui erano già impegnati il capitano generale da Mar e i provveditori di Schiavonia. Rimase in carica sino alla fine del gennaio 1357, risiedendo, con il titolo di conte, a Scardona, finalmente ceduta a Venezia il 10 genn. 1356, alcuni giorni dopo il suo arrivo in Dalmazia.

Nel novembre 1357 fu eletto capitano generale in Istria, ma, conclusesi le trattative di pace con Luigi d'Ungheria, doveva essere a Venezia già nel febbraio successivo. Per un biennio circa, dal gennaio 1359 (nel dic. 1358 era ancora a Venezia, presente come testimone agli accordi intercorsi con Ulrico di Reinferberg per Grisignana), fu impegnato in una missione diplomatica presso l'imperatore Carlo IV, rivolta a rinsaldare le relazioni fra le due potenze e a ottenere il riconoscimento del possesso veneziano di Treviso e Conegliano.

Le trattative si articolarono in due momenti distinti. Nei primi colloqui, avuti all'inizio del 1359 da una legazione formata dal C., Paolo Loredan e Andrea Contarini, si prospettò per Treviso la soluzione del vicariato imperiale. In giugno una seconda legazione, di cui faceva ancora parte il C. insieme a Marco Corner e Giovanni Gradenigo, riprese i negoziati essendo il governo veneto, nonostante le iniziali perplessità, disposto ad accettare il vicariato. Si parlò inoltre di aiuti veneziani riguardo a un progetto di crociata. Nel gennaio 1360 il Corner e il Gradenigo furono richiamati in patria; a continuare le trattative per Treviso e Conegliano, che non giunsero tuttavia ad alcuna conclusione, e a tutelare gli interessi del commercio veneziano rimase solo il Celsi. Verso la fine di gennaio dovette adoprarsi a procurare l'intervento imperiale presso il duca d'Austria a favore dei suoi colleghi fatti prigionieri, sulla via del ritorno, dal castellano di Sench. Non poté ottenere che generiche assicurazioni: il Corner e il Gradenigo furono rilasciati dopo due anni circa; egli stesso, tornando a Venezia, evitò di passare per i territori austriaci.

Nel novembre 1360 il C. fu nominato capitano del Golfo. Il Caroldo narra come egli, condotta, con due galee di Cipro e di Rodi alleate a Venezia, un'azione contro i Turchi nelle acque di Gallipoli, abbia preso e distrutto alcune navi nemiche, in cui si sospettava la presenza di genovesi.

È difficile poter stabilire con sicurezza se fosse proprio il C. o piuttosto uno o più omonimi a ricoprire gli incarichi seguenti: capitano delle galee di Romania (23 apr. 1350); "solutor armamenti" (19 giugno 1351); avogador de Comun (agosto 1351 -presumibilmente luglio '52); inquisitore a Conegliano su una congiura di fuorusciti (settembre 1352); savio per uno scambio di prigionieri con Genova (marzo-maggio 1353); sopracomito d'armata (maggio 1353); avogador de Comun (dal settembre forse non oltre il dicembre 1355); capitano delle galee della Riviera marchigiana, deputate poi all'armata del Golfo (20 nov. 1355); savio agli Ordini (ottobre 1357); savio con due colleghi sulle cose d'Istria (aprile-maggio 1358); provveditore a Capodistria (nominato il 17 maggio dalla commissione di cui sopra); savio di Trevigiana e Istria (10 luglio-29 ott. 1358); savio a trattare con ambasciatori imperiali e con il legato pontificio (26 settembre-10 ott. 1358); provveditore a Capodistria (ottobre 1358); savio su una vertenza sorta con mercanti aragonesi (13 dic. 1358-gennaio 1359); infine savio al Porto (luglio 1360, ma la carica fu rifiutata).

Mentre era capitano del Golfo, il 16 luglio 1361 fu eletto doge succedendo a Giovanni Dolfin. A determinare la decisione degli elettori, che fino ad allora non avevano nemmeno prospettato la sua candidatura, indecisi nella scelta fra Pietro Gradenigo, Leonardo Dandolo, Marco Corner cavaliere e Andrea Contarini procuratore, valse, secondo alcuni cronisti, l'arrivo di notizie di successi militari del C. contro i Genovesi. Ma c'è anche nella tradizione, forse alla luce delle vicende posteriori, la tendenza a scoprire nella circostanza un disegno preordinato e, addirittura, a dubitare della veridicità di quelle notizie. Dodici ambasciatori furono inviati incontro al nuovo doge, che giunse a Venezia, con grande trionfo, il 21 agosto.

I quattro anni del dogado del C. coincisero con il momento finale, estremamente critico, del conflitto che, con grave pericolo per lo Stato e la società veneziana, divideva il patriziato: gli "oltranzisti" da una parte, decisi a instaurare il predominio economico e politico di una ristrettissima oligarchia, i "moderati" dall'altra, fautori di una partecipazione più vasta al commercio e alla vita politica. Il ripristino, nel 1361, a opera degli oltranzisti, dell'"officium de navigantibus" che con le sue restrizioni finanziarie favoriva i pochi grandi mercanti con larga disponibilità di denaro, costituì solo un temporaneo successo della loro fazione. Ma i danni provocati nei traffici dalle restrizioni dell'"officium" non fecero che acuire lo stato di crisi e diffuso malessere, di cui fu sintomatica espressione la ribellione di Creta, che determinò la sconfitta del partito oltranzista. L'"officium" fu abolito di nuovo il 22 novembre 1363. La lotta continuò sotterranea e non è da escludere che, fra gli oltranzisti o addirittura al di fuori del gioco dei partiti, maturasse il progetto di una soluzione dittatoriale. L'esistenza di trame eversive o di timori in tal senso sembra provata dalle inquisizioni e dai processi riaperti dal 1363 al 1365 contro antichi complici di Marino Falier e dai provvedimenti di rigore presi contro quelli già condannati.

In questo conflitto fu coinvolto, con un ruolo difficilmente determinabile, il C. stesso, perché solo nel contesto di incertezze e sospetti dell'ultimo biennio può essere inserito e spiegato il processo istituito contro di lui dal Consiglio dei dieci, poco prima della sua morte o immediatamente dopo. Il 30 luglio 1365, a dodici giorni dalla morte l'istruttoria si chiuse con la decisione di distruggere tutti gli atti inquisitoriali e con l'ordine di mantenere su essi il massimo segreto.

Non sappiamo dunque quali precisamente fossero i capi di imputazione. Ma una delle correzioni apposte alla promissione ducale, approvata il 19 luglio 1365, un giorno dopo la morte del C., lascia supporre che egli fosse sospettato di aver mirato a un maggior potere personale. Infatti, per impedire ai suoi successori di agire "contra formam, sue promissioni", si dava facoltà agli avogadori de Comun, qualora risultasse che il doge "in aliquo fecisse vel commisisse contra libertatem et arbitrium sibi datum, volens sibi attribuere quae non sunt sibi concessa per formam suae promissionis", di assegnare un termine alla cessazione dell'abuso. In particolare la nuova clausola doveva riferirsi, per sancirlo e perfezionarlo, al divieto di dare "operam ad habendum maiorem potestatem in ... regimine ad ... propriam utilitatem et proprium factum ...", espresso nel 1249 nella promissione di Marino Morosini. Tutto ciò comunque non costituisce ancora la prova della colpevolezza del C., anche se nel Consiglio dei dieci non fu accolta la proposta dei capi di riabilitarlo ufficialmente. Forse, nonostante i capi affermassero: "facta examinatione diligenti, est repertum iliam infamiam nullatenus esse veram", qualche ombra gravava ancora sull'azione del C., o piuttosto prevaleva la volontà di far dimenticare tutto al più presto, quasi che la morte del doge fosse giunta al momento opportuno perché lo scandalo non coinvolgesse altre persone.

Nessun documento d'altra parte presenta prove della colpevolezza del C. e tanto meno comprova una sua identificazione con gli oltranzisti, né prima del dogado né durante. Nemmeno l'elezione dogale può essere giustificata apriori con una adesione del C. alla loro parte, data la presenza fra i quarantuno elettori di esponenti di tutte e due le fazioni e la candidatura di due oltranzisti (Pietro Gradenigo e Antonio Contarini). Né il C. da doge appoggiò i disegni più intransigenti come il ripristino dell'"officium de navigantibus" a cui anzi si oppose, prima avvalendosi di correttivi costituzionali e poi proponendo la soluzione di compromesso che, caduta nel 1361, sarebbe stata, nella sua sostanza, approvata nel novembre 1363. Durante il biennio protezionista, coerentemente alle posizioni iniziali, sembrò condividere il programma del Senato volto a vuotare di valore la dannosa normativa dell'"officium", anche se si allineò con lo Zane, il capo oltranzista, nel proporre provvedimenti dettati da precisi interessi di parte. Negli anni successivi, fino al processo, non è possibile trovare testimonianze di una involuzione in senso oligarchico.

Ad alimentare i sospetti potrebbe aver contribuito l'abitudine del C. di farsi precedere da un servo con in mano una bacchetta che poteva ricordare lo scettro regale e apparire come simbolo di un potere non accordato al doge. Ma forse questa abitudine è spiegabile ricordando la particolare tendenza del C. al lusso e alla magnificenza che caratterizzò anche il suo dogado (si ricordano infatti le fastose cavalcate per la città e alla Giudecca, la sfarzosa accoglienza riservata al duca d'Austria e al re di Cipro e i grandi festeggiamenti in occasione della vittoria sui ribelli di Creta).Morì il 18 luglio 1365 e fu sepolto nella chiesa della Celestia, ora demolita. Dal suo matrimonio con Maria, di cui ignoriamo il casato e che nelle genealogie è confusa con Marchesina Ghisi, moglie di Lorenzo Tiepolo, nacquero varie figlie (sopravvissero solo Anna ed Orsa), ma nessun figlio maschio, come invece vorrebbe la tradizione.

Il Caresini traccia di lui questo profilo: Hic magnanimus et robustissimae aetatis fuit: bonum reipublicae procurare et feliciter augere plurimum anhelavit", riconoscendogli grandi meriti nella repressione della rivolta cretese, che fu l'avvenimento più pericoloso del suo dogado. Anche il De Monacis gli attribuisce in questo frangente un ruolo importante, poiché fu lui a proporre l'invio a Creta dell'armata vincitrice sui ribelli.

Il Petrarca, che durante il dogado del C. visse gli anni più felici del soggiorno veneziano, partecipando fervidamente alla vita e alla politica della Repubblica, godendo dell'ammirazione e della stima del doge, ne esaltò le virtù e la lealtà verso lo Stato: "Dux Laurentius, vere celsus vir … et magnitudine animi et suavitate morum et virtutum studio superque omnia singulari pietate atque amore patriae memorandus...".

I rapporti con il Petrarca testimoniano la sensibilità e l'interesse del C. per la cultura, affinatisi grazie all'amicizia con Benintendi de' Ravignani, che gli dedicò un'opera, ora perduta, Commendatoria vitae actae, et exhortatoria peragendae, e che si adoperò, mediatore fra il doge e il poeta, perché fosse accolto, come avvenne infatti il 4 sett. 1362, il dono del Petrarca che offriva la sua raccolta di codici in cambio di ospitalità a Venezia.

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