Valla, Lorenzo

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Storia e Politica (2013)

Lorenzo Valla

Francesco Tateo

Nell’opera di recupero del pensiero e della lingua dell’antichità e nella revisione critica della cultura filosofica e storiografica del Medioevo, Lorenzo Valla occupa un posto di prima grandezza, anche se la natura e le forme del suo intervento nel dibattito del 15° sec., squisitamente polemiche e talora spregiudicate, hanno in parte ritardato, o ridotto, il consenso verso l’originalità del suo pensiero. La sua battaglia culturale, fortunata sul versante della Riforma, e l’incisività del suo metodo filologico, che ebbe fortuna nella scuola europea, sono state particolarmente riconosciute nell’ultimo secolo in concomitanza con l’approfondimento della critica e della filologia dell’Umanesimo italiano.

La vita

Lorenzo della Valle, detto il Valla, nacque da una famiglia originaria di Piacenza, probabilmente nel 1407, a Roma, dove rimase fino al 1429; da Giovanni Aurispa (1376-1459) e da Ranuccio da Castiglion Fiorentino fu avviato, non ancora ventenne, agli studi grammaticali e filologici che gli consentirono di inserirsi giovanissimo nella polemica sulla superiorità fra Cicerone e Quintiliano con un opuscolo nel quale propendeva per quest’ultimo. La frequentazione della cancelleria pontificia lo mise in contatto con eminenti studiosi dell’epoca, come Poggio Bracciolini (segretario apostolico fino al 1453), il quale però gli fu ostile, impedendogli forse di trovare per tempo una sistemazione romana, e con il quale non ci fu mai un buon rapporto.

Si spostò quindi a Piacenza, ma fu a Pavia che ottenne il primo stabile impiego (dal 1431 al 1433) come insegnante di eloquenza nello Studio, e poté incontrare Antonio Beccadelli, detto il Panormita (1394-1471), la cui amicizia si riflette nell’opera conclusa in questi anni, il dialogo De voluptate, che porta nel suo rifacimento, immediatamente successivo, i segni dell’amicizia interrotta e mai più sanata. Strinse amicizia con Maffeo Vegio (1407-1458), agiografo e poeta, anche lui vissuto fra Milano, Pavia e Roma, e con il giurista Catone Sacco. Nella stessa Pavia, fervido centro di studi giuridici, illustrato dalla presenza del grande maestro di greco Emanuele Crisolora, Valla attaccò l’insigne giurista Bartolo da Sassoferrato (1313/ 1314-1357) e dovette lasciare la città nel marzo del 1433, per raggiungere dapprima Milano, trovandovi un gruppo di studiosi, fra cui il religioso Antonio da Rho (1398 ca.-1450 ca.), maestro di eloquenza, che assieme a Vegio entrò come interlocutore nel rifacimento del De voluptate, quindi Genova e Roma, dove non riuscì a inserirsi nella curia ai tempi del pontificato di Eugenio IV.

Riuscì invece a stabilirsi a Napoli presso Alfonso d’Aragona, dove rimase dal 1435 al 1446 seguendo faticosamente il re nelle campagne militari, ma continuando la sua opera di filologo e di polemista, che gli attirò nel 1444 un’accusa di eterodossia sostenuta dal domenicano Antonio da Bitonto in un processo inquisizionale. Risale a quest’epoca lo scontro con Bartolomeo Facio, che lo vide rispondere con l’Antidotum in Facium (1447), in quattro libri, alle quattro Invectivae in Vallam lanciate contro di lui l’anno precedente. La successiva sistemazione romana presso la curia all’inizio del pontificato di Niccolò V, dopo un altro tentativo fatto con il papa Eugenio IV, al quale dedicò una Defensio dalle accuse che lo avevano fatto processare e una successiva Apologia, durò fino alla fine della vita, essendo egli rimasto come segretario apostolico anche sotto il pontificato di Callisto III. Appartiene agli anni 1452-53 lo scontro violento con Bracciolini, che lo vide rispondere con quattro Antidota e due dialoghi comici alle due Invectivae dell’umanista, che diveniva frattanto segretario della Repubblica fiorentina. Morì a Roma il 1° agosto 1457.

La revisione dell’etica

La costante avversione di Valla per le opinioni tradizionali assunte senza un’analisi critica si manifesta sin dalle prime sue riflessioni nell’accettazione condizionata di Cicerone, nella confutazione di Boezio quale epitomatore del pensiero antico passato attraverso l’esegesi cristiana, e nella discussione di alcuni principi attuali della pratica religiosa. La sua è una delle forme, particolarmente polemica e consapevole, in cui si attua la lotta umanistica contro la scolastica e contro la superstizione intesa nel suo significato più ampio di ossequio critico alle norme tradizionali.

Lo stesso titolo con il quale esce la prima redazione del dialogo scritto a Pavia e contenente una discussione sul problema fondamentale dell’etica, De voluptate, porta i segni di una volontà profondamente innovativa nei confronti sia di Aristotele, autore dell’Etica Nicomachea rimasta per lunghi secoli attuale nelle traduzioni medievali, pur rinnovate nelle recenti traduzioni umanistiche di Giovanni Argiropulo e di Leonardo Bruni, sia di Cicerone, autore di cinque libri in forma dialogica sui confini del bene e del male (De finibus bonorum et malorum) e del diffusissimo trattato sui doveri (De officiis), recepito all’interno della cultura cristiana. La critica della morale aristotelica, fondata sul principio del giusto mezzo, per cui ciascuna virtù è definita dai suoi due vizi contrari, e sulla considerazione della virtù come fine a se stessa, identificata con la felicità, rispecchia anche la predilezione umanistica per l’analisi dei problemi attraverso il contrasto dialogico, rispetto alla trattazione asseverativa, e si accompagna alla negazione dello stoicismo che, adottando quel concetto di virtù, aveva respinto il principio naturalistico del piacere quale motore della vita, in quanto ricerca dell’utile o rifiuto del dolore. La scelta dialogica di Cicerone si confaceva al gusto umanistico del contraddittorio, ma non all’esigenza valliana di capovolgere i valori tradizionali, ostili al principio epicureo del piacere e favorevoli a identificare la virtù con l’onestà, a trovare semmai una mediazione fra l’utilità-piacere e il dovere-onestà nel concetto di utilità pubblica, non privata, e di onestà non nociva alle attese dell’individuo.

Valla, capovolgendo anche l’ordine della discussione ciceroniana del De finibus, in cui la tesi epicurea veniva esposta per prima e confutata in seguito dalla proposta stoica che diventa la premessa dell’accomodante tesi accademica, fa esaltare inizialmente da Bruni lo stoicismo, irrigidito nei termini e quindi esposto alla facile confutazione, fa esporre successivamente in termini perfino estremi e provocatori dal Panormita la tesi epicurea, per poi recuperare quest’ultima nella requisitoria di Niccolò Niccoli introdotto pretestuosamente a sostenere la felicità paradisiaca. Le novità di questo discorso sono principalmente nella predilezione espressa verso il principio naturalistico, si direbbe anche realistico del piacere come evidente fine dell’azione umana, nella confutazione della morale stoica riconosciuta come sostanzialmente ipocrita e quindi addirittura immorale, nel sottile suggerimento dell’affinità fra il piacere che muove il desiderio umano e la felicità quale sommo dei beni desiderabili, quantunque nella trama della discussione figuri avversaria del piacere terreno. La morale cristiana viene così considerata come superamento delle dottrine antiche riguardanti la virtù e il piacere, ma ricondotta in definitiva al principio epicureo che vede anche l’azione virtuosa non come fine a se stessa, ma mirata al raggiungimento del sommo piacere ultraterreno.

Nonostante tale conclusione, il discorso del Valla nascondeva un’interpretazione del problema del sommo bene al limite dell’eterodossia per il primato concesso al piacere, sia pure come felicità eterna, del resto evidenziato nel titolo, e per la critica profonda allo stoicismo nel quale prevalentemente si riconosceva l’etica cristiana con la sua opposizione fra bene e male e con la sua distinzione fra un bene apparente e relativo, e un bene vero e assoluto.

A questa difficoltà Valla cercò di ovviare durante il soggiorno milanese con una redazione, composta nel 1433, che conserva in sostanza il testo precedente, ma con una variazione del titolo, De vero falsoque bono, che nasconde la provocazione precedente, ma soprattutto accentua, nella scelta dei due campioni dello stoicismo e dell’epicureismo, il carattere pretestuoso della posizione da loro professata, facendone piuttosto degli espositori che dei convinti assertori: Sacco e Vegio non hanno infatti un profilo tale da farli riconoscere come rappresentanti delle due sette filosofiche e la figura del terzo attore principale, Antonio da Rho, risponde bene per il suo stato di religioso al compito ufficiale di difensore della dottrina cristiana. In effetti l’autore, più che rivelare nell’esito della disputa le sue personali convinzioni al di là degli argomenti demolitori, sembra interessato a mostrare, con dialettica e storicistica acutezza, come le due tesi tradizionalmente opposte si elidano, e la terza le abbia storicamente superate entrambe, pur costruendo la sua verità sulle tracce dell’epicureismo, quasi mettendo a nudo un aspetto inedito delle origini cristiane. Valla, in realtà, si manifesta in alcuni spiragli che corrispondono alla sua battaglia culturale moderna, ossia nell’approfondimento del significato effettivo delle testimonianze della cultura antica, spogliate delle incrostazioni secolari e riportate alla loro autentica identità, nella confutazione del principio del giusto mezzo attraverso il terzo personaggio che respinge, né tenta di far convergere con un compromesso, come nella trattazione ciceroniana, le opposte opinioni precedentemente espresse. Anche il cristianesimo, inevitabilmente fondato sulla natura umana pur nella sua versione mistica, è trattato come una realtà storica da recuperare nella sua autenticità.

La tendenza a cercare l’autenticità ed eliminare le incrostazioni che snaturano le idee condusse Valla, dopo circa un decennio, a sfidare l’istituzione ecclesiastica e l’opinione comune affrontando l’altro tema etico della differenza fra lo stato laico e quello religioso. Il dialogo De professione religiosorum (1442), in cui il personaggio dell’autore si confronta con un frate, negando attraverso considerazioni di ordine filologico e storico la sostanziale diversità fra il semplice cristiano e colui che ha preso i voti e pretende di avere meriti maggiori di fronte a Dio, porta alle estreme conseguenze l’equiparazione fra la vita monastica e la vita solitaria dello studioso affermata da Francesco Petrarca (1304-1374) nel De otio religiosorum (1347), sviluppando il problema sul piano dello stato sociale e dei valori morali in un modo polemico che alimenterà lo scontro teologico della Riforma. All’invettiva contro i frati, diffusa nel mondo medievale, si sostituisce un ragionamento ben più sovversivo, che svaluta la professione dei religiosi come condizione sociale e morale perfetta, attribuendo la possibilità di perfezione anche ai laici e facendo della religio una condizione comune del cristiano. A fondamento della nuova prospettiva ci sono l’analisi linguistica del ‘voto’ quale ‘promessa’ rivolta alla divinità da parte dell’uomo e la critica del ‘giuramento’ quale inutile atto (e anzi perfino colpevole in base al testo evangelico: Matteo, 5, 36-37), che distinguerebbe la devotio dei religiosi dalla religiosità del volgo dei laici. Ne viene corroborata la considerazione moderna della virtù come merito personale, e non fondato sullo stato sociale e istituzionale.

La riforma della dialettica

Ben presto, dopo la demolizione delle tradizionali tesi sull’etica e il suo pretestuoso rifugio nella soluzione mistica cristiana, Valla aveva cercato di formalizzare i presupposti teorici della sua critica affrontando il tema più spinoso dell’etica teologica, il libero arbitrio, e le norme della dialettica, di cui la filosofia e la teologia scolastica si valevano poggiando sul sincretismo di Boezio. Il De libero arbitrio (1439) raffigurava, nella forma umanistica del dialogo, l’insanabile contraddizione cui era pervenuta la tradizionale diatriba, irretita nella terminologia e nelle distinzioni di una dialettica complessa e minuziosa, impelagata fra i concetti di prescienza, provvidenza, onnipotenza, intelligenza e volontà divine, accidentalità, libertà e necessità. Ancora una volta una sorta di misticismo, o di irrazionalismo, e perfino di scetticismo, che respinge la pretesa razionalità di soluzioni inattingibili dalla ricerca umana, si allea con la critica radicale della tradizione scolastica e con una ricerca di semplificazione dei problemi, ricondotti ai loro termini essenziali. Il ripiegamento verso la superiore volontà divina, ma soprattutto verso la responsabilità e la volontà dell’uomo reale, apre un discorso nei modi che il secolo successivo recepirà in vario senso, o quello del «servo arbitrio» di certo protestantesimo, o quello del volontarismo occamistico.

Analogamente nelle Disputationes dialecticae (1439), e poi nella loro riproposizione come reconcinnatio e repastinatio, l’aristotelismo viene attaccato da Valla nei suoi nodi fondamentali, quali il concetto di sostanza come distinta dalle qualità; la molteplicità delle categorie che andrebbero ridotte a quelle di sostanza, qualità e azione, ma soprattutto considerate punti di vista particolari dell’unica res, la quale prende il posto di astratte definizioni scolastiche come quella di ens; la determinazione del giusto mezzo, che non può esaurire la molteplicità e la varia interpretazione possibile di vizi e virtù, per cui termini medi ed estremi arrivano spesso a scambiarsi e confondersi; la rigidità del sillogismo e delle sue meticolose tipologie. Già a questo momento di formazione del messaggio valliano appartiene la critica rivolta al testo del Nuovo Testamento nella traduzione vulgata, la cui interpretazione, come il trattato sulla dialettica, sarebbe stata ripresa e arricchita dall’autore, per diventare poi una fonte e un pretesto del dibattito futuro nell’età della Riforma.

Il primato della storiografia

Presso la corte di Alfonso, dove la contesa fra il nuovo regnante aragonese e le prerogative vantate dalla Santa Sede sul regno meridionale, insieme alla questione della legittimità della stirpe insediatasi a Napoli contro le pretese del contendente angioino, spiegano anche la scelta degli argomenti, Valla applicò la sua attitudine critica nella Declaratio de falso credita et ementita Constantini donatione (1440) e nei Gesta Ferdinandi regis Aragonum (1445) cui avrebbe dovuto seguire in un secondo tempo la narrazione delle gesta di Alfonso, figlio di Ferdinando. Due opere d’ispirazione diversa, e diverse nel genere, ma entrambe tese a dimostrare il primato della storia come fonte di conoscenza del presente e della filologia come strumento della storiografia. La prima era una sorta di pamphlet, originalissimo, rivolto a confutare l’autenticità della donazione che Costantino avrebbe fatta al papa Silvestro del futuro Regno di Napoli; la seconda rispondeva alle esigenze attuali dei principi e degli Stati a fondare la loro identità su un supporto storico, ma sceglieva con altrettanta originalità un metodo lontano dall’opus oratorium generalmente attribuito alla storiografia nella cultura umanistica.

Nella dimostrazione dell’infondata pretesa papale, la Declaratio, pur svolta in toni appassionati, l’interpretazione dei fatti politici secondo l’utilità, variante del piacere posto alla base della vita morale, e la critica del testo raggiungono un’efficacia al di là dell’occasione in cui venivano impiegate. Esercitarono, infatti, un’azione propulsiva sullo sviluppo del pensiero politico (si pensi al ruolo dell’utilità nella dottrina di Niccolò Machiavelli) e sulla polemica che ingaggiò il protestantesimo contro la malignità e l’avidità ecclesiastiche, sebbene nel discorso di Valla non sia esplicito né un realismo di tipo machiavelliano, né il radicalismo della Riforma. In virtù di questo metodo le osservazioni storiche iniziali ricorrono all’argomento dell’impossibile atto di donazione da parte di un imperatore e dell’interesse della Chiesa e dell’impero a servirsi di un tale documento, mentre il successivo esame del testo, riconosciuto apocrifo, formalmente incongruo con i tempi in cui sarebbe stato redatto e non avallato da alcun’altra testimonianza sicura, mette in evidenza l’ipocrisia e la slealtà dell’apparato ecclesiastico cattolico. Comunque l’intervento di Valla superava la condanna dell’errore carico di conseguenze disastrose formulata da Dante, l’infondatezza meramente giuridica di contestatori presenti nel seno stesso della Chiesa, e il rilievo semplicemente storico di Niccolò Cusano e di Enea Silvio Piccolomini, secondo i quali il potere temporale risalirebbe a epoca ben posteriore all’atto esibito dalla Curia.

Nei Gesta Ferdinandi regis non mancano i segni della celebrazione della stirpe aragonese approdata a Napoli nell’immagine iniziale della Spagna (come in un excursus geografico) destinata a capovolgere la tradizionale convinzione dell’Oriente quale origine di civiltà, data la provenienza occidentale della nuova stirpe. E tuttavia l’argomento encomiastico, fondato sulla considerazione della relatività dei movimenti astronomici in ragione dei punti di vista, costituisce una consapevole dichiarazione del proprio atteggiamento spregiudicato da parte di Valla. Il quale, non fondando la sua opera storiografica su uno specifico registro celebrativo, ma su una ricerca di particolari anche biografici, non tutti favorevoli, e di strategie politiche, spesso disinvolte, mentre incorreva in errori che gli saranno contestati da Bartolomeo Fazio e dal Panormita, rivelava l’intenzione di non seguire modelli retorici e di assumere un atteggiamento disinteressato, privilegiando una ricerca precisa e finanche minuta, senza selezione ideologica, per ottenere un risultato anzitutto veritiero.

Proprio queste qualità della storiografia inducono Valla a lasciare nella prefazione un altro segno del suo anticonformismo, delineando una graduatoria fra i generi letterari, e ponendo al primo posto la storiografia, al secondo la poetica, al terzo la filosofia, a seconda del modo tenuto da ciascuna di queste arti nel rapportarsi alla verità. Di qui la distinzione fra la verità degli eventi perseguita con difficoltà dallo storico, l’esemplarità fondata sull’invenzione dal poeta e la cognizione astratta privilegiata dal filosofo. Giocano in questa prospettiva la difesa della propria professione, che richiede una maggiore fatica che le altre, il limitato interesse per le opere d’immaginazione e l’atteggiamento critico verso lo statuto della filosofia imperante. La scelta della forma storiografica, come dell’invettiva, risponde a un concetto di retorica che esclude l’ornamento, divenendo la necessaria e adeguata espressione della realtà indagata.

La critica del linguaggio

Si presenta come una celebrazione della lingua latina al culmine della sua potenzialità, ossia nelle forme testimoniate dall’opera di Cicerone e di Quintiliano, il trattato che sarebbe rimasto il più famoso punto di riferimento per quel che riguarda la grammatica, la lessicografia, la semantica dell’antica scrittura, con cui Roma aveva unificato l’impero romano e sconfitto la barbarie, sia che se ne condividesse, sia che se ne respingesse il presunto carattere normativo. Le Elegantiae latinae linguae, che contengono il frutto di una vita di ricerche acute e puntuali, direttamente condotte sui testi con metodo filologico molto avanzato rispetto a quei tempi, furono completate a Napoli nel 1444 e diffuse quando l’autore non aveva dato ancora l’ultima mano a un lavoro che si prestava necessariamente a un infinito approfondimento. Netto è il distacco di Valla dalla tradizione medievale dei manuali normativi, che privilegiavano le regole e l’esemplificazione priva di una selezione fatta con criterio storico, e perfino dall’insegnamento di Guarino Guarini (1374-1460), già avviato verso la selezione classicistica dei modelli eccellenti, ma soggetto al criterio di ridurre e semplificare le regole per lasciare spazio alla lettura diretta della molteplicità di testi autorevoli emersi dalle recenti riscoperte.

L’analisi della lingua latina, o romana – come Valla indifferentemente la denominava disconoscendo implicitamente le varietà linguistiche, volgari e colte, dell’impero –, ha invece un’articolazione scientifica tale da contemplare organicamente le diverse branche dell’erudizione linguistica di scuola, portandole ai livelli più alti della filologia. Nei primi tre libri viene esaminato il livello grammaticale del discorso, concernente la compositio e la proprietà con cui le varie parti del discorso vanno collocate nel periodo; nel quarto e quinto l’esame dei sinonimi avvia alla trattazione della semantica, la quale vede nel sesto libro una trattazione del significato proprio di alcuni vocaboli che coinvolge la sfera filosofica e perfino teologica. Vi si discute il valore di termini che implicano una presa di posizione circa il loro contenuto ideologico, come avviene nel caso più famoso di persona, designante la qualità e non l’essenza della triplice configurazione divina. Conclusioni come questa erano destinate a nutrire il dibattito cinquecentesco sul dogma trinitario al centro della Riforma, come lo era stato al centro dei precedenti concili, e ad aggiungersi alla raffinata penetrazione del linguaggio biblico, la quale condurrà Valla ad annotare filologicamente e a correggere la vulgata del Nuovo Testamento, in una prima redazione fatta conoscere da Erasmo nel 1505, e più volte ripubblicata nel secolo della Riforma, e in una seconda rimasta inedita e pubblicata nel secolo scorso (Collatio novi Testamenti).

Questa indubbia impostazione grammaticale del discorso critico, che fu anche rilevata come un limite ‘elementare’ del suo insegnamento, per es., da Bracciolini, e che risale alla più schietta formazione originaria di Valla favorita anche dalla consuetudine giuridica di considerare preventivamente la definizione dei termini, colloca in effetti il filologo su una linea diversa da quella del ciceronianismo in via di affermazione nella scuola e nella pratica oratoria degli studiosi delle humanae litterae. Costoro combattevano la tradizione scolastica in nome della retorica, ossia di un modo non tecnico di usare la lingua latina, ma attento all’ornatus e alla finalità morale della persuasione, sin dal capostipite dell’avversione al linguaggio scolastico, giuridico e naturalistico, quale fu Petrarca, pur ostile all’eccessiva preoccupazione formale sulla scia agostiniana.

Valla interpreta in senso moderno sia l’eccessivo uso della retorica, quando in accordo con la sua dialettica sostiene l’identificazione fra res e verba e, questa volta aristotelicamente, considera la retorica la forma espressiva del pensiero dialettico, sia l’eccessiva tecnicizzazione del linguaggio che nella scolastica aveva travisato e imbarbarito la lingua latina. Sebbene la struttura stessa della sua opera linguistica abbia favorito il lavoro lessicografico e grammaticale di continuatori, fraintenditori e riduttori della sua proposta, e abbia rinforzato i fondamenti del ciceronianismo italiano ed europeo con la fissazione di un modello storico determinato e del canone dell’imitazione, Valla può essere considerato, invece, come la coscienza critica dell’umanesimo retorico che porterà i suoi frutti nella stagione innovativa dell’emulazione dei classici con la crisi del ciceronianismo.

In effetti, se non si può chiamare storicismo l’attenzione posta da Valla nel precisare il significato originario dei vocaboli e confrontarlo con gli usi successivi, plausibili o non plausibili, che si sarebbero diffusi, perché ancora il concetto di restaurazione prevale su quello di evoluzione, non si può negare che la sua considerazione dell’uso antico e dell’uso moderno delle parole, e la stessa intenzione di ripristinare l’uso corretto e non ambiguo dei termini si fondano su una straordinaria consapevolezza della storicità del linguaggio. Inoltre, la comprensione dimostrata verso alcune voci che hanno assunto significati diversi in seguito alla necessità di aderire alle nuove res, come nel caso emblematico della nuova realtà cristiana (si pensi al senso nuovo di sacramentum), e la stessa accettazione di taluni neologismi, che non contraddice lo stesso Cicerone, dimostrano la disposizione a favorire una certa duttilità, in vista della comunicazione del pensiero, che corrisponderà al successivo sviluppo dell’uso colto latino in tutta l’Europa. Né la fortuna delle Elegantiae può confondersi con la rigidità didattica intervenuta con l’adozione del modello ciceroniano nella scuola gesuitica. La stessa accezione del termine usato nel titolo (eleganza), mentre esclude il riferimento al livello oratorio e a quello volgare della tradizione latina, serba nel suo originario significato una sicura affermazione della ‘scelta’ consapevole come fondamento della buona lingua.

Una scelta oratoria, in funzione del compito persuasivo e polemico che l’autore si assume in quest’opera, caratterizza invece la famosa prefazione che contiene propriamente la celebrazione della lingua latina per il merito, da essa acquisito lungo i secoli della Repubblica e dell’impero, di aver unificato i popoli al pari del diritto e della civiltà di cui è stata portatrice, e per il fatto di essere qualitativamente superiore alle altre lingue, due ragioni che variamente e alternativamente emergeranno nella questione della lingua. Fanno parte di questa oratoria sia la raffigurazione di sé come il Camillo restauratore di Roma dopo la sua fondazione e la sua caduta in mano ai barbari, sia il tema dell’impero portatore della pace nel mondo, meglio e più delle armi. Anzi, come il tema dell’unificazione apre la via a un confronto con la lingua greca che al contrario è intrinsecamente molteplice con i suoi dialetti, così il tema della pace apre la via all’ulteriore affermazione, in cui va riconosciuto un vanto professionale, dell’ideologia umanistica che pone la parola, e quindi la cultura, al di sopra delle armi, ossia della vita attiva, secondo l’opinione di Seneca e Cicerone, celebratori dell’otium delle lettere e della vita privata. Né la svalutazione della guerra, quale strumento di formazione e causa del decadimento dell’impero, e la rivalutazione della lingua di Roma mancano di inserirsi nel grande tema delle rovine come frutto della violenza e della rinascita, come frutto della rifondazione del linguaggio civile. Non è un caso che nel rifacimento dell’opera proprio durante l’ultimo soggiorno romano Valla insista sulla restaurazione dell’impero non attraverso le conquiste, ma attraverso la corretta diffusione e unificazione linguistica. Analogamente è significativo che le Elegantiae, con l’acribia filologica esercitata sui testi dall’autore, abbiano potuto essere messe in relazione con il libello sulla falsa donazione di Costantino.

Ma le Elegantiae rispondevano in modo diverso, proprio per il loro assunto critico e filologico di prendere in esame, concretamente, i testi tramandati, non ipotesi sulle origini e sulla essenza delle lingue, a una delle questioni più rinomate del secolo, sorta negli anni Trenta, e riguardante il rapporto fra latino e volgare, l’origine di quest’ultimo e il suo rapporto con la lingua dei padri. Come poi nella polemica intrapresa con Facio e con Bracciolini, le osservazioni di Valla, spesso dettate dall’acrimonia della polemica e dal desiderio di salvaguardare la propria competenza in fatto di grammatica, vanno incontro a contraddizioni e cavillose interpretazioni, ma sono in fondo ispirate dalla convinzione che i suoi colleghi umanisti discutessero su una questione mal posta e spesso male istruita sul piano delle conoscenze linguistiche. Forse concordando con Bruni circa l’originaria autonomia delle due lingue, ma non la natura grammaticale del latino, e rimpiangendo come Leon Battista Alberti e Biondo Flavio l’impero linguistico di Roma, il suo interesse per il volgare si limitava, da una parte, a lamentare il suo influsso su alcuni esiti medievali del latino e la presunzione che alcune colorite espressioni volgari attuali risalissero alla lingua antica (Bracciolini), dall’altra, a rifiutare il latino paludato di Facio. Il che spiega anche l’apparente trasandatezza del suo latino e la sua scelta di una lingua della comunicazione non lontana dall’uso, sempre non scolastico, del recente passato.

Opere

Opera omnia, Basileae 1540 (rist. con una premessa di E. Garin, 2 voll., Torino 1962).

De libero arbitrio / Il libero arbitrio, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli 1952, pp. 521-65.

Elegantiarum libri. In sex libros elegantiarum praefatio / Le Eleganze. Prefazione ai sei libri delle Eleganze, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli 1952, pp. 594-631.

De falso credita ed ementita Constantini donatione declamatio, a cura di P. Ciprotti, Milano 1967.

Collatio Novi Testamenti: redazione inedita, a cura di A. Perosa, Firenze 1970.

De vero falsoque bono, ed. M. De Panizza Lorch, Bari 1970.

Gesta Ferdinandi regis Aragonum, edidit O. Besomi, Patavii 1973.

Antidotum primum. La prima apologia contro Poggio Bracciolini, a cura di A. Wesseling, Amsterdam 1978.

Antidotum in Facium, edidit M. Regoliosi, Patavii 1981.

Repastinatio dialectice et philosophie, edidit G. Zippel, 2 voll., Patavii 1982.

Epistole, ediderunt O. Besomi, M. Regoliosi, Patavii 1984.

De professione religiosorum, ediderunt M. Cortesi, Patavii 1986.

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Su Bartolomeo Facio:

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Studi su Bartolomeo Facio, a cura di G. Albanese, Pisa 2000.

Approfondimento
Bartolomeo Facio
Francesco Tateo

S’incontrò e si scontrò con Lorenzo Valla sul piano della più schietta professione umanistica, l’arte del dire, la storiografia, l’etica, senza farsi coinvolgere però dagli aspetti più acuti e specifici della dialettica e della filologia, un suo coetaneo, Bartolomeo Facio (La Spezia 1405 ca.-Napoli 1457), anche lui passato attraverso i centri più rinomati dell’epoca, da Pavia a Venezia, da Roma a Napoli, per svolgere il compito d’insegnante pubblico e privato, ma anche quello di notaio, di cancelliere e di ambasciatore: fu infatti precettore dei figli del doge Francesco Foscari, di altri patrizi veneziani e del doge genovese Francesco Adorno, e fu inviato ambasciatore a Napoli da parte della Repubblica di Genova. Ai tempi di Niccolò V tentò di entrare nella cancelleria pontificia, fu in relazione con Guarino Guarini, che lo introdusse a Venezia, con Poggio Bracciolini, che lo sostenne nella composizione dell’Invectiva in Vallam (1446), e con il Panormita, che gli fu particolarmente amico e con il quale fu alleato nella polemica contro Valla.

Argomenti che furono propri di Valla trattò Facio nel De differentiis verborum (1436 ca.), sul significato dei vocaboli e sui sinonimi, un manuale d’impronta scolastica che figura manoscritto anche con il titolo di Elegantiae; nel De vitae felicitate (1445), dove in un dialogo tradizionalmente impostato sulla controversia fra vita attiva e vita contemplativa il Panormita figura (contrariamente al De voluptate) difensore di quest’ultima, e nel De excellentia et praestatia hominis, che riguarda un tema caro agli umanisti, ma da lui tutt’altro che problematicamente svolto con riferimento alle difficoltà teologiche del libero arbitrio, come da Valla.

Le sue ambizioni di storico e di narratore d’impostazione retorica, e ben lontane dall’esperienza storiografica di Valla, si rivelano però in un racconto sulle origini della guerra fra Galli e Britanni, nella lunga narrazione in versi del De bello Clodiano (1444), nell’eloquente traduzione della novella X 1 del Decameron e, soprattutto, nel De rebus gestis ab Alphonso primo Neapolitanorum rege (1451-57), opera storica in dieci libri, che deriva dalla committenza regia e dove il prevalente modello liviano s’intreccia con quello cesariano, rispondendo a un preciso intento ideologico di legittimazione del monarca aragonese. Il dissidio fra i due umanisti si acuì per varie ragioni, da una parte per le critiche rivolte da Facio all’opera storica di Valla, e per l’appoggio dato alle accuse rivolte a quest’ultimo dall’Inquisizione, dall’altra per il duro attacco da parte di Valla alle annotazioni su Livio e alla storia veneta di Facio. Ma fra le critiche rivolte da Valla a Facio ne figura una particolarmente significativa per il profilo dei due umanisti, ed è quella rivolta da Valla alla struttura incongrua con lo statuto dialogico del De vitae felicitate, dove non vi sarebbe traccia di reale scontro dialettico (introduzione all’Antidotum in Facium, a cura di M. Regoliosi, 1981, p. XXXIII). Segno evidente della consapevolezza metodologica di Valla, a differenza del suo avversario, nell’affezione allo scontro polemico e ad accentuare i termini delle contese.


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