VALLA, Lorenzo

Enciclopedia Italiana (1937)

VALLA, Lorenzo

Delio CANTIMORI

Lorenzo della Valle, in latino Laurentius Vallensis, detto comunemente il Valla, oriundo piacentino, nacque nel 1407 a Roma, dove morì il 1° agosto 1457. È il maggiore rappresentante dello spirito critico e innovatore dell'umanesimo italiano nel sec. XV, con la sua multiforme cultura e le battaglie da lui combattute nei campi della filologia, della filosofia e della storiografia. Il V. studiò a Roma, dove il padre era avvocato concistoriale. Appena ventenne si distinse per un opuscolo (ora perduto), De comparatione Ciceronis Quintilianique, dove opponeva alla tradizionale ammirazione per Cicerone la sua stima per Quintiliano. Svanita la speranza di diventare segretario papale, il V. lasciò presto Roma per Pavia, dove ottenne la cattedra di retorica all'università (1429-1431). A Pavia non rimase a lungo, ma ebbe agio di comporvi il famoso dialogo filosofico De voluptate, divulgato nel 1431 e, in una seconda edizione - mutati i personaggi del dialogo - col titolo De voluptate ac de vero bono, nel 1432. Se questa seconda edizione poté in certo modo ovviare allo scandalo provocato dalla spregiudicatezza di certe argomentazioni della prima, l'irritato scandalo dei giuristi per l'Epistola de insigniis et armis, nella quale il V. criticava aspramente il metodo giuridico allora dominante, e censurava l'opera del famoso Bartolo da Sassoferrato, costrinse il V. a partire da Pavia (1433). Nel 1437 lo ritroviamo, dopo un periodo di brevi soste a Milano e a Firenze, segretario di re Alfonso d'Aragona, al cui servizio passò una decina di anni fecondissimi. Oltre ai tre libri Historiarum Ferdinandi regis Aragoniae, composti fra il 1445 e il 1446 e pubblicati a Parigi nel 1521, e oltre ad alcune traduzioni dal greco (la più importante è quella dell'Iliade, incompleta) e varie epistole, il V. scrisse infatti nel periodo napoletano le sue opere più famose: Elegantiarum latinae linguae libri VI, composti tra il 1435 e il 1444 (Roma 1471); De libero arbitrio (Colonia 1482, ecc.); Dialecticae libri tres, seu Reconciliatio totius dialecticae et fundamentorum universalis philosophiae, del 1439, a stampa nel 1499; De falso credita et ementita Constantini donatione Declamatio, del 1440, edita solo nel 1517, dal Hutten; De professione religiosorum, del 1442, pubblicato solo nel 1869. Nel 1448, dopo un primo vano tentativo, segnato dall'Apologia adversus calumniatores, che seguì a una violenta disputa con frate Antonio da Bitonto sull'origine del simbolo apostolico, del 1444, il V. riuscì a tornare, come da tempo desiderava, a Roma, presso la vecchia madre. A Napoli aveva avuto contrasti non solo con i francescani, che avevano tentato di farlo processare per eresia, e contro i quali era stato protetto dal re, ma anche con il Panormita e con il Fazio, per rivalità e polemiche filologiche che importavano commissioni regie. L'animosità di questi umanisti e quella di Poggio, da lungo covata, doveva manifestarsi in tutta la sua violenza solo dopo lai chiamata del V. a Roma, e dopo le commissioni di traduzioni ivi da lui ricevute da parte di Niccolò V (Tucidide, 1448-52; Erodoto, 1452-57): famosa la polemica che ne seguì per la virulenza con la quale fu condotta, specie da parte di Poggio, e per gli strascichi che ebbe di altre polemiche fra i discepoli (1452-53). Al periodo romano appartengono anche le In Novum Testamentum ex diversorum utriusque linguae codicum collatone adnotationes (terminate nel 1449, dopo la nomina a scrittore apostolico pubblicate nel 1505 a Parigi da" Erasmo da Rotterdam), oltre a scritti minori, anche di carattere udificante, come lo Encomium S. Thomae Aquinatis (pubbl. nel 1888) e il sermone De mysterio Eucharistiae (pubbl. nel 1521 in capo all'edizione veneta delle opere dí Lattunzio). I dubbî antiaristotelici accennati dal V. sotto il velo del panegirico di S. Tommaso destarono grande scandalo a Roma: ma non impediron0 all'ormai vecchio umanista di leggere nel 1455 l'Oratio in principio sui studii, prolusione al suo corso d'eloquenza, nel quale era stato finalmente confermato. La morte colse il battagliero umanista nel bel mezzo d'un'altra polemica filologico-oratoria, col Morandi, altro umanista fedele alla tradizione.

Anche la polemica del V. contro Poggio e il Panormita e i loro amici ebbe infatti il carattere di polemica contro il metodo empirico dei primi umanisti, in nome di una considerazione critica, storica, scientifica della lingua latina e dei suoi classici come di tutta l'antichità. Dall'idea generalmentc diffusa tra gli umanisti del valore nazionale che aveva per gl'Italiani il ritorno alla latinità, il V. non traeva infatti motivo d'empirica e indiscriminata accettazione e imitazione dell'antichità latina; anzi, per lui quell'idea era incentivo a un esame critico della lingua latina, che ne facesse comprendere l'intima struttura, e che desse l'avvio a considerarne gli scrittori nelle loro prospettive storiche. Con lui si può dire che sorga il vero interesse filologico-critico, tendente alla comprensione storica dello svolgimento della lingua latina: e mentre egli aveva cominciato con uno scritto anticiceroniano, poneva così le basi del ciceronianesimo, che partiva dalla considerazione che non si può "imitare" una lingua presa nell'insieme delle sue forme storiche, ma si deve scegliere un momento di essa, rappresentato da un eccellente scrittore. Così il V. faceva implicitamente del latino, che ancora fino a lui era stato come nel Medioevo la lingua viva di una certa classe, una lingua valevole solo per uso letterario, cristallizzata attraverso quella che era stata nelle sue intenzioni opera di purificazione e restaurazione.

Trasportando la polemica dalla giurisprudenza e dalla teologia nel campo della cultura letteraria e filosofica, tutta compenetrata di preoccupazioni di rinnovamento etico, egli rinnovava dal fondo quella tradizione, conferendole insospettato valore: dopo cinque libri di questioni linguistiche, grammaticali, stilistiche, il libro VI delle Eleganze tratta del significato di tutta una serie di vocaboli, d'importanza fondamentale non solo per la filosofia, ma anche per la teologia e la giurisprudenza. Questo carattere della critica filologica e stilistica del V., che viene messo in luce dalla sua influenza sulla teologia e sull'ermeneutica delle correnti ereticali affioranti durante la Riforma, come dall'influenza sulla scienza giuridica d'un Gribaldi Mofa, si rispecchia nella critica filosofica del V. alla logica tradizionale, aristotelica, nelle Disputazioni dialettiche: come un secolo più tardi farà Pietro Ramo, il V. vuole sostituire al sistema logico dell'Organon, com'era stato elaborato dalla scolastica, e le cui deviazioni egli critica acutamente, un sistema fondato sull'interpretazione razionale del linguaggio, e che corrisponda il più possibile all'esigenza della semplicità: la logica è una parte della retorica, e ha carattere essenzialmente dinamico; le categorie sono ridotte a tre: la sostanza, i predicati di qualità, i predicati di attività. La parte più viva di questa teoria logica del V., che ebbe efficacia diretta solo sul Serveto, sul Ramo e sull'Aconcio, sta nella critica alla teoria tradizionale del sillogismo, le cui forme valide vengono ridotte a otto. L'ultimo libro delle Disputazioni dialettiche riguarda l'uso delle parole, e insiste sulla necessità della precisione che deve essere apportata nel linguaggio e che il V. identifica con la purezza linguistica e stilistica.

L'interesse filologico prevale anche nella critica storica del V. Il documento della donazione costantiniana è da lui dimostrato falso per ragioni linguistiche; egli per primo non esita a correggere gli antichi autori, confrontandoli gli uni con gli altri, sia pure in modo limitatissimo; per primo intacca il mito di "Livio che non erra" (v. la Adversum Livium... disputatio, del 1440) come è l'iniziatore della critica filologica al testo tradizionale dei libri evangelici. Però, allo stesso modo che il V. è migliore stilista quando teorizza che quando mette in pratica le sue teorie, egli è migliore storiografo quando affronta un problema particolare e critica un pregiudizio, che quando costruisce un'opera storica: la storia di Ferdinando d'Aragona la rompe sì con l'uso umanistico di rendere classici i nomi moderni di luoghi e di persone, e di "nobilitare", rendendoli generici, i particolari tecnici e concreti; ma, con tutta la sua ricchezza di osservazione acuta e precisa, rimane una raccolta di notizie sulla vita privata del re, non una storia del suo regno.

Più ampio respiro anche nella costruzione mostrano invece gli scritti filosofici del V., benché rimanga fortissima anche in essi l'esigenza critica e polemica. Nel De libero arbitrio il V. mostra l'inanità dei tentativi di risolvere razionalisticamente il problema del libero arbitrio come lo ponevano la teologia e la filosofia scolastica: i termini della prescienza divina e della libertà umana sono a priori inconciliabili, quando si vogliano intendere l'una e l'altra nel loro logico e coerente significato. Il V. riprende la questione da Boezio, e critica la sua soluzione, opponendogliene una mistico-fideistica, che taglia il nodo piuttosto che scioglierlo, come osservò il Leibniz, il quale nella sua Teodicea parte dal punto lasciato in sospeso dal V. col richiamo alla fede.

Nel De voluptate il V. espone in forma dialogica il contrasto fra la teoria stoica e quella epicurea, che per lui sono le due più importanti dottrine filosofiche dell'antichità. Il suo spirito avverso ai sistemi rifiutava tanto Aristotele, contro il quale polemizzava violentemente, quanto Platone, ch'egli non conosceva completamente: il vero interesse era per lui nelle dottrine morali, non nella metafisica e nella logica per sé presa. Fra le due dottrine ch'egli concepisce ancora opposte, il V. dà il primato a quella epicurea, criticando lo stoicismo di maniera, corrente nel mondo umanistico. Il fondamento di tale critica sta nella concezione del V. della natura, concepita come spontaneità divina ("idem est enim natura quod deus, aut fere idem"), alla cui legge tutto deve sottostare: e nella realtà naturale della vita umana così concepita (in contrasto con la natura razionale dell'uomo degli stoici) il V. riscontra, con gli epicurei, l'esigenza fondamentale della felicità e del piacere. Tale eudemonismo francamente professato sbocca nel misticismo, in quanto il vero piacere non è raggiungibile su questa terra. Il cristianesimo rimane però esteriore, in quanto la fede come la concepisce il V. prescinde dalla grazia, ed elimina quindi implicitamente la trascendenza; la virtù viene ridotta a semplice mezzo del raggiungimento del vero piacere, e con essa anche la fede. Pur non elaborato, il concetto ottimistico della natura fonte di piacere e di virtù che si afferma in queste pagine, come l'immanentismo a cui il V. tende in esse, hanno avuto notevole importanza nella filosofia del Rinascimento; se da una parte il V. riprendeva motivi della scolastica scotistica nell'affermazione dell'irrazionalità della fede, dall'altra metteva in rilievo l'eudemonismo implicito nelle dottrine più correnti del cristianesimo, facendolo proprio, ma insieme rinnovandolo in senso naturalistico e mistico allo stesso tempo.

Nel suo tempo il Valla rimase isolato: le sue concezioni cominciarono a diffondersi e a dare frutti solo dopo circa due generazioni, con Erasmo da Rotterdam e con L. Vives, col Serveto e col Ramo.

Edizioni delle opere: oltre a quelle citate (le Elegantiae raggiunsero dal 1471 al 1536 ben 59 edizioni) le opere del Valla furono pubblicate due volte a Basilea nel 1540 e nel 1543; vanno aggiunte le pubblicazioni di J. Vahlen, L. Vallensis Opuscula Tria (Vienna 1869) e l'Elogio di S. Tommaso, pubbl. nel 1886, nelle Sitzungsberichte der öst. Akademie der Wiss., sempre dal Vahlen. La storia di Ferdinando d'Aragona non è compresa nell'edizione delle opere di Basilea. Il De Constantini donatione è stato riedito da W. Schwan (autore di una tesi universitaria sul V., Berlino 1896) nel 1927, a Lipsia, nella collezione teubneriana; il De libero arbitrio nel 1934 da M. Anfossi, nella collez. di Opuscoli filosofici inediti o rari a cura di G. Gentile, n. VI, a Firenze.

Bibl.: G. Mancini, Vita di L. V., Firenze 1891; L. Barozzi e R. Sabbadini, Studi sul Panormita e sul V., in Pubblicazioni del R. istituto di studi superiori, ivi 1891, n. 25; recensione a queste due opere, e a quella scadente di M. v. Wolff, L. V., Berlino 1893, con una ricostruzione della cronologia della vita del V., di V. Rossi, Arch. stor. ital., s. 5ª (1893); G. Gentile, La filosofia, nella Storia dei generi letterarî del Vallardi (interrotto); esposizione accurata del contenuto delle principali opere del V. in G. Invernizzi, Il Risorgimento, Milano 1878, pp. 105-143; V. Rossi, Il Quattrocento, 2ª ed., Milano 1933.

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