GIORDANO, Luca

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 55 (2001)

GIORDANO, Luca

Maria Giovanna Sarti

Nacque a Napoli il 18 ott. 1634 da Antonio e da Isabella Imparato.

Antonio, mercante di quadri di origine pugliese ma anche modesto pittore, dovette avviare il figlio all'arte della pittura. Di fatto, secondo l'aneddoto narrato da Bernardo De Dominici (pp. 394 s.), lasciò che il figlio a soli otto anni terminasse due putti da lui avviati, ancora oggi a S. Maria la Nova; ciò dimostra quantomeno la precoce presenza del G. sui cantieri paterni. Inoltre, secondo la Relazione del 1681 sulla vita del G. - posseduta da Filippo Baldinucci e fondata su dati forniti plausibilmente dallo stesso artista - Antonio condusse con sé il figlio a Roma intorno al 1650 (p. 166).

Nonostante questo primo, non altrimenti comprovato, viaggio romano, fu a Napoli che il G. crebbe e si formò, all'ombra delle molteplici esperienze pittoriche maturate dai protagonisti di una grande stagione artistica, profondamente segnata dal passaggio a Napoli di Caravaggio, e in continuo dialogo con le opere da lui realizzate durante i due soggiorni partenopei. Le prime opere attribuite al G., collocabili agli inizi degli anni Cinquanta, sono un tributo alla pittura di impronta caravaggesca e un esercizio sull'arte di Jusepe de Ribera, presso la bottega del quale è possibile che egli, già padrone dei primi rudimenti del mestiere, fosse stato introdotto dal padre, "famigliare" del pittore valenciano e suo testimone di nozze nel 1616 (De Vito, 1997, p. 88).

L'iniziale formazione è evidente nel S. Luca dipinge la Vergine con il Bambino del Museo di Ponce (Puerto Rico), dove il G. si ritrasse nei panni del santo, nel S. Sebastiano della Gemäldegalerie di Dresda, dipendente da un prototipo riberesco, e in alcune figure di Filosofi (per esempio l'Euclide degli Staatliche Museen di Berlino o il Chilone di Besançon), ancora sulla scorta del fortunato modello costituito dalle due serie eseguite dallo spagnolo intorno agli anni Trenta. Realizzati più volte dal G. durante la propria attività, i Filosofi rientrano in una tipologia piuttosto diffusa in Europa, caratterizzata da una rappresentazione dei vari pensatori dell'antichità in chiave di ostentato verismo, a volte al limite del grottesco, che fu favorita dalla mancanza di un'iconografia filologicamente certa, ma anche dalle contemporanee tendenze realistiche della pittura, nonché da un sostrato culturale e filosofico di impronta neostoica: ciò che consentì di liberare quelle immagini da qualsiasi riferimento colto, e autorizzò a dipingere i personaggi come pezzenti, privi di ogni decoro rappresentativo. A Napoli, dove il neostoicismo venne coltivato da alcune figure di intellettuali, quali Leonardo Di Capua e Giuseppe Valletta, ricordati da De Dominici in rapporti con il G. (p. 439), questi soggetti furono molto frequentati e riscossero un notevole successo.

Le prime opere documentate del G. risalgono al 1653. Se l'incisione rappresentante Cristo e l'adultera deve molto allo stile di Ribera, la Guarigione dello storpio (Atene, Galleria nazionale) denuncia un'attenzione alle opere dei maestri nordici, in particolare di Albrecht Dürer, che il G. in questa fase della sua attività ripropose da un punto di vista tipologico e finanche stilistico, giungendo ai limiti della falsificazione (De Vito, 1997, pp. 85 s.): il dipinto di Atene è infatti siglato A.D. e solo sotto la cornice, in basso a sinistra, è stata ritrovata la firma e la data apposte dal G., appunto nel 1653 (Tamvaki, p. 90).

Benché le due tele per la tribuna della chiesa di S. Pietro ad Aram, la Traditio clavium e l'Incontro dei ss. Pietro e Paolo sulla via del martirio, saldate da padre Francesco Damascelli il 4 luglio 1654, siano ancora condotte su moduli ribereschi, mostrano tuttavia un pittore alla ricerca di altri riferimenti culturali. Fin dal 1653 a Napoli era attivo Mattia Preti. Giungeva da Roma, dove, a S. Andrea della Valle, aveva avuto modo di porsi in diretto confronto con le novità di Peter Paul Rubens e con l'opera di Giovanni Lanfranco, che a Napoli, nei decenni immediatamente precedenti, aveva lasciato significative testimonianze della sua pittura, specialmente al Gesù Nuovo e nella cappella del Tesoro di S. Gennaro al duomo. L'incontro con Preti fu per il G. di grande importanza: gli consentì non soltanto di adottarne alcune caratteristiche tipologie compositive (Cristo tra i dottori: Roma, Galleria nazionale di arte antica in Palazzo Barberini), ma di meditare anche sulle fonti del pittore calabrese, Rubens in primo luogo. Prova ne sono alcune opere realizzate dal G. entro la fine del decennio, tra cui Rubens dipinge l'allegoria della Pace del Museo del Prado. Fu poi soprattutto attraverso Preti che il G., grazie alla grande facilità esecutiva e di invenzione così tipiche della sua arte già fin dai momenti iniziali, diede avvio a una produzione incline a suggestioni più prettamente barocche. Questa tendenza lo avrebbe portato ben presto a interessarsi alle esperienze di Pietro Berrettini da Cortona. Poté studiare la sua maniera a Napoli - fin dal 1638 il S. Alessio era ai Gerolamini - ma ancor meglio lo avrebbe potuto fare a Roma, dove, ancora secondo la Relazione, il G. si sarebbe recato, questa volta solo, intorno al 1654 (p. 166).

Che il G. fosse a Roma attorno a questa data lo attestano alcuni disegni, nei quali, con una tecnica particolarissima - sanguigna su carta preparata in rosso - riprodusse graficamente brani tratti dall'antico, come il Marco Aurelio o l'Ercole Farnese, oppure dal Raffaello delle stanze e delle logge. Ritrasse però anche alcuni particolari del soffitto di Pietro da Cortona in palazzo Barberini, studiandone l'arditezza prospettica, l'impianto compositivo, le singole figure (Scavizzi, pp. 132 s.). Esiti, e finanche personaggi, cortoneschi si ritrovano allora nel S. Nicola di Bari salva il fanciullo coppiere, la pala firmata nel 1655 dal G. per la chiesa napoletana di S. Brigida. Ma in genere tutte le opere del sesto decennio risentono di una tale ricerca: le storie di s. Giovanni Battista (Predica, Battesimo di Cristo, Decollazione) realizzate ancora nel 1655 per l'intradosso dell'arco di accesso alla cappella dedicata al santo nella chiesa francescana di S. Maria la Nova; le due pale commissionate dai padri celestini del monastero dell'Ascensione a Chiaia (S. Anna e la Vergine e S. Michele Arcangelo) licenziate nel 1657; o i coevi dipinti per S. Agostino degli Scalzi (Estasi di s. Nicola da Tolentino, Elemosina di s. Tommaso da Villanova).

Al 1657 risalgono i primi lavori del G. eseguiti su richiesta del viceré napoletano García de Avellaneda, conte di Castrillo, e dei suoi dignitari: i pagamenti per la Madonna del Rosario nella chiesa della Solitaria (distrutta agli inizi del XIX secolo), ora a Capodimonte, furono infatti corrisposti da Giovanni Matteo de Salas y León, uomo al servizio del viceré.

Nel 1658 il G. si sposò a Napoli con la giovanissima Angela Margherita Dardi, andando inizialmente ad abitare in una casa in affitto in via Trinità degli Spagnoli, dove rimase fino al 1668, quando si trasferì a S. Anna di Palazzo, e di lì, nel 1686, in via Nardones. La moglie gli sarebbe stata accanto per tutta la vita, dandogli numerosi figli, almeno dieci tra maschi e femmine. A queste ultime, il G. avrebbe riservato un'adeguata educazione presso il collegio della Solitaria, nonché doti cospicue per contrarre ottimi matrimoni (Nappi, 1991, pp. 165-167).

Il nuovo decennio si aprì con altre importanti commissioni pubbliche.

Il colto e potente cardinale Ascanio Filomarino - proprietario di un'importante collezione di opere del Seicento romano raccolte a Roma e portate a Napoli nel 1642 quando assumeva l'incarico arcivescovile - aveva fatto costruire nel 1652 in duomo un secondo organo, dirimpetto al primo realizzato con l'intervento di Giorgio Vasari circa un secolo prima per volere di Ranuccio Farnese. Al G. l'arcivescovo chiese di realizzare le portelle, raffiguranti all'interno la Vergine Annunziata e l'Angelo, all'esterno i Santi protettori di Napoli; le quattro tele, documentate nel 1660-61, furono rimosse alla fine del Settecento e poste nella parete alta del transetto sinistro ai lati del finestrone.

Al 1660 risale pure la Sacra Famiglia che ha la visione dei simboli della Passione, la grande pala per l'altare maggiore della chiesa di S. Giuseppe a Pontecorvo.

Al completamento della vicenda costruttiva e decorativa della chiesa, appartenente al ramo femminile dell'Ordine dei carmelitani scalzi, contribuì in larga misura il nuovo viceré, il conte di Peñaranda Gaspar de Bracamonte, che diede così seguito a quel rapporto avviato dal G. con l'autorità vicereale, e proseguito con altre commissioni di natura privata e pubblica. Molti sono infatti i dipinti pagati per conto del viceré al G. tra il 1660 e il 1664 da Michele López Barrionovo, documentati nelle carte dei banchi napoletani ma quasi tutti dispersi (Nappi, 1991, pp. 159, 171), tra cui vanno forse inseriti quelli di soggetto cristologico oggi a Peñaranda de Bracamonte, nel convento delle carmelitane scalze fondato dallo stesso conte (Ferrari - Scavizzi, p. 274).

Al Bracamonte è legata anche la commissione al G. delle tele per S. Maria del Pianto, chiesetta votiva edificata a seguito della peste del 1656 per volere della Congregazione di S. Maria Vertecoeli e grazie ai cospicui donativi del viceré e a quelli disposti, tra gli altri, dai mercanti fiamminghi Caspar Roomer e Jan Vandeneynden e dal fiorentino Santi Maria Cella (Nappi, 1980, pp. 33-35), che proprio a partire dagli anni Sessanta acquistarono opere del G., richieste da un mercato sempre più ampio (Borrelli, p. 16). Nell'impresa di S. Maria del Pianto furono impegnati i due artisti più importanti presenti a Napoli dopo la partenza definitiva di Preti per Malta: l'anziano Andrea Vaccaro, cui spettò di realizzare la pala dell'altar maggiore collocata nel 1660, e il G., con le due grandi tele per gli altari laterali, il S. Gennaro intercede per la cessazione della peste e i Santi protettori di Napoli adorano il Crocifisso, entrambe già in situ nel 1662, data di consacrazione della chiesa (ora Napoli, palazzo reale). Ancora decisivo dovette essere il viceré per affidare al G. l'esecuzione dei due dipinti (Riposo durante la fuga in Egitto, e S. Anna e s. Gioacchino con la Vergine bambina) per gli altari delle cappelle di transetto in S. Teresa a Chiaia, datati al 1664, dove, specialmente nel Riposo, puntuali sono i richiami all'arte di Guido Reni e alla sua Adorazione dei pastori, in S. Martino dal 1642: ulteriore testimonianza di un'attenzione ai modelli del pittore bolognese è il S. Michele Arcangelo di Berlino (Staatliche Museen).

Il legame con l'ambiente vicereale portò inoltre il G. a realizzare molti dipinti per committenti spagnoli (Nappi, 1991, pp. 159 s., 171). Tra di essi, Sebastiano López Hierro de Castro, marchese di Colforte e presidente della Regia Camera, agente generale del duca di Medina e intermediario, insieme con il figlio Antonio, di pagamenti al G. per don Sebastiano Cortizzo e per il marchese Agostino Fonseca. Quest'ultimo chiese all'artista alcuni dipinti (non altrimenti identificati) tra il 1662 e il 1664 e lo ospitò a Venezia, dove risiedeva, nel 1665 (De Vito, 1991, p. 37). In quell'anno, infatti, il G. risulta essere assente da Napoli. Dopo aver dato procura al padre di riscuotere per suo conto (Borrelli, pp. 17 s.) e aver lasciato incompleta la decorazione della vecchia sagrestia (o cappella dell'Immacolata Concezione) della cappella del Tesoro di S. Gennaro, per la quale aveva sottoscritto un accordo alla fine del 1663, era partito alla volta di Venezia. Durante il viaggio si fermò, forse, a Firenze e in Lombardia (Relazione, p. 166). A Venezia poté confrontarsi direttamente con le opere del Tintoretto, del Veronese e di Tiziano, anche se, di quest'ultimo, aveva già avuto modo a Napoli di studiare e copiare (Madrid, Congregación del Cristo de San Ginés) l'Annunciazione allora in S. Domenico Maggiore. Tuttavia, i dipinti realizzati dal G. per Venezia e documentati dalle fonti (De Vito, 1991, pp. 38-40) furono eseguiti alla maniera di Ribera. La Madonna delle Grazie con le anime purganti della cappella Vendramin a S. Pietro di Castello risale a questo momento, ma non risulta citata in loco fino al 1684 (Martinelli). Si tratta, infatti, con ogni probabilità del "quadro grande con le anime del Purgatorio" (Relazione, p. 166) posseduto da Fonseca e rimasto presso di lui almeno fino alla sua morte, nel 1681.

Al 1665 si collocano altri dipinti veneziani, caratterizzati da una maniera che raggiunse via via esiti simili a quelli proposti dalle contemporanee opere di Giovan Battista Langetti, Carl Loth o del giovane Antonio Zanchi: la Deposizione, già in S. Maria del Pianto e dal 1810 nelle Gallerie dell'Accademia; la Madonna con Bambino e i ss. Giuseppe e Antonio da Padova, per la chiesa dello Spirito Santo, oggi in deposito da Brera al seminario di Venegono; l'Annunciazione per S. Daniele, irreperibile.

Il rientro da Venezia fu forse indotto da un'importante commissione: l'invio al monastero dell'Escorial in Spagna di un numero non precisato ma considerevole di dipinti, ordinati da Filippo IV per il tramite di Sebastiano Cortizzo, da eseguire "a imitazione di Tiziano e del Tintoretto" (Baldinucci, p. 345). Se ne ignora il soggetto, ma non è improbabile che tra essi ci fossero il Balaam fermato dall'angelo e l'Ebrezza di Noè, oggi entrambi nella sagrestia del monastero spagnolo. Comunque, almeno dal luglio del 1665 il G. è di nuovo documentato a Napoli, da dove spediva a Venezia l'Assunzione della Vergine per la chiesa della Salute, firmata e datata 1667. Aveva certamente ottenuto la commissione l'anno prima, durante il suo soggiorno nella città lagunare; e, come si ipotizzava nella lettera del 20 ott. 1668 indirizzata al cardinale Leopoldo de' Medici dal suo agente veneziano Paolo Del Sera, furono forse gli amici mercanti del G. a perorare la sua causa presso i procuratori di S. Marco, insoddisfatti delle ingiustificate lungaggini di Baldassarre Franceschini, detto il Volterrano, cui inizialmente era stata affidata la realizzazione dell'opera.

Nel 1668 il G. lavorò nella nuova sagrestia della cappella del Tesoro di S. Gennaro in duomo, per la quale realizzò a fresco il S. Gennaro in gloria nella volta e i piccoli dipinti su rame di soggetto sacro (Santi e Storie cristologiche) applicati sugli armadi e sugli inginocchiatoi. Fu quello anche il momento in cui si avviò il sodalizio con Giuseppe Recco che proprio allora firmava la Natura morta con pesci e un pescatore, figura dipinta dal Giordano. È quanto si desume dalla polizza di pagamento del committente, Giuseppe Paravagna marchese di Noja, in data 30 dic. 1669, per il quale i due pittori avevano già eseguito, con le medesime modalità, l'Interno di cucina con cuoca, in collezione privata napoletana ma proveniente dalla raccolta del marchese di Noja.

Nel 1669 nacque il primogenito Lorenzo e nello stesso anno venne commissionata al G. la Deposizione per il Pio Monte della misericordia, datata 1671. Ancora nel 1669, in novembre, gli vennero saldati da Lucrezia de Sangro gli affreschi della cupola di S. Gregorio Armeno (intradosso della cupola, Gloria di s. Gregorio Armeno; tra i finestroni del tamburo, otto Sante dell'Ordine benedettino), dipinti dal G. alla maniera di Lanfranco e di Pietro da Cortona.

Nei primi anni Settanta si devono porre le opere per la cappella dell'oratorio del Monte dei poveri, nel palazzo ora sede dell'Archivio storico del Banco di Napoli: la prima a essere eseguita fu l'Immacolata Concezione, a fresco, pagata il 25 ott. 1672, cui seguì nella seconda metà del 1673 la Circoncisione per l'altare maggiore. Quest'ultima anticipa compositivamente le pale veneziane per la Salute, la Presentazione di Maria al tempio e la Natività di Maria, eseguite entro il 1674, quando Marco Boschini le citava in situ (pp. 26 s.). Il rapporto con il Veneto si intensificò in quegli anni: per due altari in S. Giustina, inviava a Padova la Morte di s. Scolastica e il Martirio di s. Placido, saldato tra il febbraio e il marzo del 1675; l'anno successivo eseguiva per S. Maria in Organo a Verona Il beato Bernardo Tolomei battuto dai demoni; si ricordano, infine, i dipinti, di dimensioni pressoché identiche - Strage degli innocenti, Cacciata dei mercanti dal tempio (Venezia, Museo diocesano), Giudizio di Salomone e Ratto delle Sabine (ora sul mercato antiquario americano) - forse appartenuti a una medesima collezione lagunare (Sponza, pp. 91-94). Intorno agli stessi anni il G. consolidava i rapporti con i mercanti veneziani, Guglielmo Samueli e Simone Giogali, e stringeva quelli con il lombardo Carlo Arici e con il fiammingo, trapiantato a Napoli, Ferdinand van den Eynden.

Nella seconda metà del decennio le commissioni napoletane si susseguirono incessantemente. Oltre a realizzare per la cappella di S. Francesco Saverio al Gesù Nuovo i tre dipinti con Storie della vita del santo, il G. fu attivo in duomo, all'interno di un'opera di ridecorazione complessiva dell'edificio in chiave barocca, che andò a ricoprire di stucchi e cartigli le strutture angioine, promossa tra il 1667 e il 1685 dal cardinale Innico Caracciolo, successore di Filomarino alla guida della diocesi napoletana. Nel 1676 su incarico dell'arcivescovo, che nel febbraio aveva battezzato sua figlia, il G. realizzò i dipinti mistilinei tra le finestre della navata centrale (Apostoli e Santi protettori di Napoli), saldati il 1° agosto, e del transetto (Dottori della Chiesa e altri Sei santi protettori), eseguiti in fretta ricorrendo ampiamente ad aiuti e collocati nel settembre del 1678.

Dall'aprile del 1677 fu attivo nella chiesa abbaziale di Montecassino, impegnato nella decorazione della volta della navata completata entro la fine dell'anno. Distrutte durante l'ultima guerra, le Storie di s. Benedetto furono realizzate dal G., ancora per S. Gregorio Armeno (1679), entro una preziosa spartitura in stucco bianco e dorato e costituirono, anche per la modalità compositiva "a quadro riportato", un illustre precedente delle più tarde scene di analogo soggetto, e persino superiore ricchezza decorativa; diversamente, lanfranchiana è l'impaginazione della Gloria di s. Brigida, che il G. portò a termine nel 1678 nel catino dell'omonima chiesa napoletana insieme con le Eroine bibliche dei pennacchi.

Del 1680 sono i Ss. Francesco Borgia e Francesco Saverio (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte) per l'altare maggiore della chiesa dei gesuiti già intitolata a S. Francesco Saverio e poi dedicata a S. Ferdinando, dove è di sapore cortonesco la grande macchina scenica allestita con un eccezionale dominio dei mezzi pittorici. Al contempo, eseguiva le tele con il Cristo che cade sotto la croce e il Cristo posto in croce sulle pareti laterali della cappella del Crocifisso in S. Maria Regina Coeli, dove sarebbe stato attivo nuovamente in seguito: nel febbraio e settembre 1681 riceveva, infatti, da Giovanni Battista e Giovanna Pignatelli pagamenti per i due dipinti (S. Agostino nel deserto e S. Patrizio vescovo di Ginevra) della cappella di S. Agostino, e nel 1684 ne firmava la pala d'altare (S. Agostino converte l'eretico).

In quello stesso 1681 concludeva il Passaggio del Mar Rosso per S. Maria Maggiore a Bergamo.

La grande tela giunse a Venezia nell'aprile del 1682 presso Giogali, intermediario tra il G. e i committenti dell'opera, e suscitò profonda ammirazione non solo tra i veneziani, ma anche presso il consiglio della basilica bergamasca, che per voce di Leandro Basso, fu talmente soddisfatto da aggiungere 100 scudi ai 700 pattuiti; al contempo, fu disposto a intavolare trattative con Giogali per affidare al G. parte della decorazione della chiesa: dieci affreschi per la navata e quattro pitture a olio. Il fitto scambio di corrispondenza (1682-86) non portò ad alcun risultato. Solo nel 1691, quando il G. era in procinto di partire per la Spagna, su proposta di Giogali si accettò la presenza a Bergamo di un suo allievo, Nicola Malinconico, che portò il lavoro a compimento nel 1694.

Almeno dalla fine degli anni Settanta, il G. stava lavorando anche per committenti fiorentini. Forse già verso il 1678 giunsero a Firenze i quadri (tra cui l'Apollo e Marsia del Museo Bardini) che l'abate Pietro Andrea Andreini aveva acquistato nella città partenopea, dove tra il 1674 e il 1675 era stato agente del cardinale Leopoldo per l'acquisto di disegni. Quando Giovanni Cinelli nel 1677 pubblicò gli aggiornamenti alle Bellezze della città di Firenze di Francesco Bocchi, in casa del senatore Ascanio Samminiati si potevano osservare del G. un Trionfo di Venere (in realtà Trionfo di Galatea, oggi a palazzo Pitti) e un Pilato che si lava le mani (perduto), proveniente dalla raccolta di Roomer della cui vendita, a eccezione di quei dipinti che passarono ai van den Eynden, fu lo stesso G. a occuparsi (p. 402). E ancora, Cinelli (pp. 164-167) ebbe occasione di vedere in casa di Andrea, Ottavio e Lorenzo Del Rosso alcuni dipinti del pittore napoletano, tra cui un grande Trionfo di Bacco, identificabile forse con l'esemplare della Herbert Art Gallery di Coventry.

Il 7 febbr. 1682 Andrea Del Rosso scriveva ad Apollonio Bassetti, canonico di S. Lorenzo e segretario della Cifra del granduca, appassionato di antiquaria e illustre rappresentante della cultura del tempo: tra le altre informazioni, Andrea Del Rosso riferì che il G. era nella sua casa a Firenze, dove aveva eseguito il modello dell'affresco per la cupola della cappella Corsini al Carmine.

Già dal 1676 i marchesi Neri e Bartolomeo Corsini avevano dato avvio, su disegni dell'architetto attivo anche alla corte medicea, Pier Francesco Silvani, alla costruzione della cappella dedicata al loro avo Andrea, canonizzato nel 1629. L'intervento del G., certo favorito dalla fortuna incontrata dalla sua pittura presso i collezionisti fiorentini, si collocava all'interno di un apparato scultoreo approntato da Giambattista Foggini: a quest'ultimo spettò il compito di raffigurare sugli altorilievi marmorei delle pareti i miracoli del santo; al G., di coronarli con la rappresentazione del suo ingresso in paradiso, attraverso il rutilante e affollato affresco della cupola, nel quale trovava posto anche la gloria familiare nell'episodio della dedicazione della cappella. Il G. condusse a termine l'opera - per la quale realizzò alcuni modelli (gli unici due rimasti sono ancora oggi a Firenze, Galleria Corsini) - in pochi mesi, dal febbraio all'agosto del 1682, quando venne pagato il doratore degli stucchi posti a cornice degli affreschi. La cupola del Carmine costituì una novità entro l'orizzonte artistico fiorentino: nuova, e solo in partenza lanfranchiana, la struttura compositiva delle figure poste a cerchi concentrici, continuamente contraddetti da gruppi di personaggi in movimento verso l'alto o il basso; inedito, e romano, il modo di rappresentare nei pennacchi le virtù del santo (Osservanza della legge divina, Predicazione della parola divina, Penitenza, Contemplazione) attraverso più personificazioni, sotto le quali il G. firmò e datò l'opera.

La cupola venne scoperta più di un anno dopo la sua conclusione, il 24 ott. 1683, nell'ambito della fastosa cerimonia di traslazione ed esposizione del corpo di s. Andrea. Qualche mese prima, i Fiorentini avevano avuto modo di osservare un'altra opera pubblica del pittore napoletano (dipinta e saldata, anch'essa, nel 1682). Il 5 agosto era stata, infatti, presentata la Visione di s. Bernardo, la tela di grandi dimensioni per il soffitto della chiesa della Madonna della Pace (già dal 1790 all'Annunziata), nella quale il G. abbandonò il consueto modulo compositivo del quadro riportato, cimentandosi per la prima volta con il tipo di rappresentazione prospettica così caro alla decorazione barocca romana, già apprezzata a Firenze attraverso l'opera di Pietro da Cortona a palazzo Pitti. D'altro canto, la commissione era importante. La chiesa di patronato mediceo fu edificata per volere di Cosimo II, ornata sotto Cosimo III con un soffitto intagliato che ospitò il dipinto del G., eseguito su incarico della granduchessa madre Vittoria Della Rovere, per la quale il pittore realizzò anche la Fuga in Egitto (appartamenti monumentali di palazzo Pitti), databile a questo momento. Ancora per i Medici dipinse la cortonesca Allegoria della pace tra Fiorentini e Fiesolani, su tela, voluta da Cosimo III e incastonata al centro della volta dell'odierno salone verde, un tempo anticamera, o sala della guardia, dell'appartamento di palazzo Pitti riservato al figlio Ferdinando.

L'attenzione che la corte granducale stava dimostrando nei confronti del G. fu di certo tenuta in gran conto dal marchese Francesco Riccardi, ministro fedele di Cosimo III (nominato nel 1688 consigliere di Stato e nel 1693 maggiordomo maggiore), quando si trovò ad affidare al G. l'incarico di affrescare la volta della galleria nel proprio palazzo, acquistato dai Medici un ventennio prima. Destinata anche ad accogliere le collezioni di oggetti antichi e rari, la galleria era anzitutto luogo di ricevimento e di rappresentanza: la decorazione, pensata quasi certamente da Alessandro Segni, accademico della Crusca, bibliotecario e memorialista granducale nonché precettore del marchese, doveva riflettere la condizione del signore, e la sua sudditanza nei confronti della corte medicea. Su tali premesse, a partire almeno dalla metà del 1682, il G. elaborò alcuni bozzetti (nove, nella collezione Mahon; uno, in collezione privata), eccezionalmente curati nella stesura, destinati certo al vaglio della committenza e a essere riproposti, con le opportune varianti, in scala monumentale sulla volta, incorniciata dall'architettura e decorazione scultorea ideata da Foggini. I lavori, iniziati forse già nel settembre del 1682, furono sospesi alla fine di dicembre, quando il G. si dovette recare urgentemente a Napoli per le precarie condizioni di salute del padre, che morirà nel novembre dell'anno successivo. La parentesi napoletana, specialmente nel 1684, lo vide impegnato, tra l'altro, nel proseguimento dei lavori a S. Gregorio Armeno (gli idilliaci episodi relativi alla traslazione delle reliquie del santo sulla parete che fa da balaustra al coro), e nella realizzazione della grande macchina scenica della Cacciata dei mercanti dal tempio per la controfacciata dei Gerolamini, con le quadrature del pittore e architetto Arcangelo Guglielmelli, che riproponevano il verde colonnato di Lanfranco ai Ss. Apostoli. Prima di tornare a Firenze, il G. si fermò a Roma, dove nel marzo del 1685 eseguiva la pala con S. Anna per la cappella omonima in S. Maria in Campitelli. Solo nell'aprile del 1685 il G. fu dunque in grado di soddisfare le pressanti e continue insistenze del marchese Riccardi, e di riprendere l'opera, terminata probabilmente entro la fine dell'anno.

Attraverso l'uso di una tavolozza chiara, che meglio poteva esaltare l'abbondante luce naturale del luogo, e una struttura compositiva priva di quadratura o di compartizione dei singoli episodi, il G. mise in scena, proseguendo e superando la lezione fiorentina di Pietro da Cortona, una complessa allegoria del progresso del genere umano: dall'Antro dell'eternità (lato corto), dove la vita ha inizio, l'uomo può evolvere la propria condizione (episodi mitologici sui lati lunghi) guidato dalla Sapienza (la Minerva dell'altro lato corto) e dall'esercizio delle Virtù (ai quattro angoli); solo così l'anima, raffigurata come una donna nuda, può entrare nel paradiso, dove siedono i virtuosi che hanno raggiunto la grazia. Qui, al centro della volta, sono allora raffigurati, e celebrati, alcuni rappresentanti del casato mediceo (tra cui, oltre a Cosimo I, il regnante Cosimo III con figli), ciascuno dei quali, secondo l'iconografia dei Sidera Medicea, tanto diffusa soprattutto negli apparati encomiastici di corte, ha una stella sopra il capo; mentre quattro di loro tengono in mano gli attributi delle Virtù cardinali. La stessa tensione umanistica sta alla base del programma per il soffitto dell'adiacente biblioteca, realizzata dal G. subito dopo, e comunque entro la metà del 1686, quando il pittore risulta essere di nuovo a Napoli: l'Allegoria della Divina Sapienza, di cui esiste un bozzetto (collezione Mahon), è ancora una metafora del riscatto dell'intelletto umano, rappresentato come un giovane inginocchiato che si libera dei lacci dell'ignoranza attraverso l'intervento della Teologia - la figura alata che lo conduce verso l'alto - e della Verità - la donna nuda poco al di sopra. Un'iscrizione, "levan di terra a ciel nostro intelletto", rende perfettamente intellegibile il significato della figurazione, congruente al luogo di studio, e forse ancora su programma di Segni.

Mentre portava rapidamente a compimento l'impresa Riccardi, il G. fu attivo ancora in una commissione di pertinenza, anche se solo in parte, granducale. Concorrendo per metà alle spese per la chiesa di S. Maria Maddalena de' Pazzi, Cosimo III legava il suo nome a una delle imprese architettoniche e decorative più interessanti di tutto il Seicento fiorentino, che vide attivi Ciro Ferri e Pier Francesco Silvani, Pier Dandini, Carlo Marcellini, i più abili maestri nell'arte della fusione, dell'intaglio, del commesso in marmo e il G., cui spettò la realizzazione delle due tele da porsi sopra le porte laterali, in loco il 26 maggio 1685.

In realtà, la commissione del Matrimonio mistico di s. Maria Maddalena de' Pazzi e della Vergine che offre Gesù Bambino a s. Maria Maddalena de' Pazzi risaliva al precedente soggiorno fiorentino, sulla scorta della favorevole impressione suscitata dalla cupola Corsini, ed era inizialmente relativa a un solo dipinto; mentre l'altro era stato affidato al Volterrano. Fu il G. a proporre l'esecuzione di entrambi dietro il compenso di uno solo, ciò che fu accettato di buon grado dalle monache, che nel 1685 versarono le somme dovute al pittore presso l'abitazione di Andrea Del Rosso (Pacini, p. 158), dove era domiciliato; per il suo ospite il G. avrebbe realizzato ancora dipinti destinati alla sua collezione e all'arredo della cappella domestica (Meloni Trkulja, pp. 35, 65).

Dalla metà del 1686 il G. fu di nuovo a Napoli. Ciò non gli impedì di proseguire il suo rapporto di committenza con Cosimo III che in una lettera del 26 dic. 1687 chiese al pittore due tele per la chiesa dei Ss. Quirico e Lucia presso la villa medicea dell'Ambrogiana a Montelupo Fiorentino, giunte a Firenze nel settembre del 1689: l'Immacolata Concezione fu immediatamente sostituita con una copia e destinata alla galleria palatina, dove si trova tuttora, mentre in situ rimase il rovinatissimo S. Francesco riceve le stigmate.

Nell'arco di circa sei anni, tra la conclusione dell'esperienza fiorentina (1686) e la non lontana partenza per la Spagna (1692), il G. realizzò numerose opere a Napoli, con la rapidità di mestiere ormai così caratteristica della sua arte e secondo un linguaggio barocco che sempre più si avvicinava alle sperimentazioni berniniane viste a Roma, improntate sul dialogo tra spazio e luce.

A questa fase risalgono la Madonna del Baldacchino (o del Rosario: Napoli, Museo nazionale di Capodimonte) eseguita intorno al 1686 per la chiesa di S. Spirito in Palazzo; gli affreschi di soggetto veterotestamentario dell'anno successivo nella cappella Merlino al Gesù Nuovo distrutti in gran parte durante il terremoto del 1688; l'intera decorazione su tela, ancora con Storie del Vecchio Testamento, della chiesa dell'Annunziata, perduta completamente nell'incendio del 1757. Tra il 1691 e il 1692 si collocano le tele per i Ss. Apostoli (Natività di Maria, Presentazione di Maria al tempio, Adorazione dei pastori, Sogno di s. Giuseppe), le pale (perdute) per tre cappelle - S. Vittore, S. Apollinare, Ss. Gennaro e Guinazzone - nella chiesa abbaziale di Montecassino, gli affreschi di S. Maria Donnaromita (Trionfo di Debora), terminati per la partenza del maestro alla volta della Spagna dal suo allievo Giuseppe Simonelli, che portò a compimento anche il soffitto di S. Restituta con il Trasporto del corpo della santa, commissionato dai deputati del duomo, tra cui il canonico Carlo Celano, ritratto dal G. intorno al 1692 (Napoli, Museo nazionale di S. Martino).

Il 22 apr. 1692 il G. si metteva in viaggio per la Spagna sopra la galera del capitano don Antonio Gonzales, accompagnato dal figlio Nicolò, dal nipote Giuseppe, da tre aiutanti - Aniello Rossi, Matteo Pacelli, Giovan Battista Sottile - un domestico e un confessore (De Dominici, pp. 419 s.). Lo avevano convinto i favori concessi dal re Carlo II fin dal dicembre precedente al figlio Lorenzo, estesi poi anche ad altri membri della famiglia.

Da almeno un secolo i sovrani spagnoli si servivano di artisti italiani per ornare le proprie residenze; e Carlo II non si discostò dalla tradizione quando, dopo l'incendio del 1671, dovette provvedere alla ricostruzione del monastero dell'Escorial, il tempio sacro della monarchia. Richiedere la presenza del G. in Spagna fu a questa data una scelta quasi obbligata. In fatto di pittura, il gusto spagnolo era profondamente influenzato da quanto giungeva da Napoli: e la scuola partenopea era quella più ampiamente rappresentata a corte. Con l'esperienza fiorentina, il G. aveva inoltre dimostrato di essere un decoratore brillante, confacente perciò alle esigenze celebrative del sovrano.

Il 3 luglio giunse a Madrid; ma solo il 1° settembre si recò all'Escorial, dopo aver studiato e preso parte attiva, insieme con il priore Alonso de Talavera e con il padre Francisco de los Santos, alla definizione del programma da tradurre sulla volta dell'Escalera, lo scalone monumentale del monastero. Nel febbraio 1693 alcuni bozzetti (Ferrari - Scavizzi, p. 126) furono inviati al re, che visitò il cantiere in marzo; in aprile l'opera era già terminata.

Sotto il controllo a distanza del sovrano e dei suoi consiglieri, ma con una certa libertà di azione, il G. realizzò un'allegoria della funzione del monastero e della monarchia spagnola nel disegno divino: un fregio illustra episodi relativi alla vittoria riportata dagli Asburgo a San Quintino il giorno di S. Lorenzo del 1557 (due scene di battaglia, dove il G. dimostrò la sua abilità anche in questo genere, e le vicende dell'assedio e della resa). Il monastero d'altro canto fu eretto quale monumentale ex voto per quell'occasione (nel fregio si illustra anche la Costruzione dell'Escorial in presenza di Filippo II, dove compare l'autoritratto del pittore). Carlo V e Filippo II figurano in paradiso, nell'atto di adorare la Trinità, secondo uno schema tizianesco già adottato per l'imperatore nella celebre Gloria del Prado. Spettatori terreni, più in basso e affacciati dalla balaustra, sono Carlo II, sua moglie Mariana di Neuburg, sua madre Mariana d'Austria e alcuni nani. La decorazione si completa nella parte inferiore, dove coppie di putti sostengono le armi dei sovrani spagnoli, mentre, al di sopra delle finestre, in finto porfido sono rappresentate scene della vita di Carlo V, oltre alle allegorie delle virtù cardinali.

Già nell'aprile del 1693 si cominciava a pensare alla decorazione delle volte nella chiesa del monastero, per la quale il G. sottoponeva i modelli al re.

I lavori s'iniziarono nell'ottobre. Si decise, forse ancora per cautela, di intervenire prima sulle quattro volte laterali, sovrastanti gli altari delle reliquie (Immacolata Concezione e altri temi mariani; Cristo trionfante e s. Girolamo; il Carro della Chiesa militante; il Carro della purezza verginale). Solo in seguito alla buona riuscita dell'opera, e alla soddisfazione mostrata dal sovrano, il G. passò con la rapidità richiesta dalla committenza all'esecuzione delle altre volte, più importanti, del presbiterio (Giudizio universale, Transito e assunzione della Vergine), della crociera (Passaggio del Mar Rosso, Vittoria di Giosuè sugli Amalachiti) e del coro (Storie di David e Salomone), terminando l'impresa tra il giugno e il luglio del 1694. È probabile che al G. si debba ascrivere, se non tutto, almeno gran parte del programma, deciso in corso d'opera, dell'intera decorazione, a fondamento del quale stava l'identificazione del monastero con il tempio di Gerusalemme. Sebbene lo schema compositivo adottato - un cerchio di figure in basso e un cielo aperto al centro - si ripeta sistematicamente nelle volte, il risultato qualitativo si differenzia, specialmente nelle parti ritenute più importanti, anche dalla committenza: nelle volte sopra la crociera, un vero capolavoro, come d'altronde quelle con Storie di David e Salomone, il G. recupera con grande maestria la continuità compositiva necessaria alla narrazione, dove gruppi di personaggi si agitano, ora in monumentale controluce, ora con effetti di evanescenza negli sfondi luminosissimi, raggiungendo esiti di cromatismo veronesiano.

Gli stessi temi, legati al parallelo tra i profeti e gli Asburgo, furono alla base di un certo numero di opere eseguite dal G. al suo ritorno a Madrid. Sono infatti documentate tele di grandi dimensioni per il Buen Retiro (la serie si è in parte ricostruita e individuata nei dipinti sparsi tra il Prado, Aranjuez e palazzo reale di Madrid, e in origine nella Hermita de San Juan al Retiro: Ferrari - Scavizzi, p. 135), forse concepite come replica o variante del ciclo escorialense e caratterizzate da un simile, delicato colorismo, unito a un gusto per la monumentalità delle figure che emerge esemplarmente nel David e l'orso del palazzo reale di Madrid o nella Morte di Assalonne del palazzo reale di Aranjuez.

Simile atmosfera si ritrova non solo negli unici due dipinti datati di questo momento: la pala delle Commendadoras di Santiago a Madrid del 1695 (S. Giacomo a Clavijo) e il Martirio di s. Lorenzo nella vecchia chiesa dell'Escorial, siglato l'anno successivo; ma anche, con una declinazione più classicista, quasi raffaellesca, nella contemporanea serie della Vita della Vergine (Vienna, Kunsthistorisches Museum), forse di poco preceduta dalle tele di analogo soggetto del Real Convento de S. Jeronimo a Guadalupe, realizzate entro il 1696. È in queste ultime, in particolare, che il G. dimostra un'intensità espressiva certo favorita da un fare rapido e sommario negli sfondi e in alcuni particolari della composizione, spesso solo abbozzati, nonché dalla matura riflessione sulla contemporanea pittura spagnola di Bartolomé Esteban Murillo e di Claudio Coello. Ma anche di Diego Velázquez, già osservata dal G. mentre portava a compimento la volta dell'Escalera. Lo dimostrano gli esiti luministici lì raggiunti, i ritratti a cavallo dei reali di Spagna (Prado), e soprattutto il cosiddetto Omaggio a Velázquez della National Gallery di Londra, dove, reinventando Las meninas, il G. produceva il ritratto della propria famiglia, presentata in basso dallo stesso pittore.

Carlo II impiegò ancora il G. per decorare altre residenze reali. È oggi pressoché impossibile ricostruire la serie di affreschi e tele per il palazzo di Aranjuez, con storie degli elementi e delle stagioni. Sopravvivono, anche se non nella totalità, gli affreschi della volta del Casón, uno degli edifici principali e di maggior rappresentanza del Buen Retiro, il complesso costruito da Filippo IV negli anni Trenta ai limiti orientali di Madrid.

Dopo un periodo di abbandono, il Retiro fu portato a nuovi splendori per volontà di Carlo II che mutava la destinazione originaria (sala da ballo) del Casón, eleggendolo a edificio di ricevimento degli ambasciatori. La commissione era dunque per il G. di grande importanza; e ciò giustifica la rutilante e laica allegoria della monarchia incentrata sul tema del Toson d'oro, istituito da Filippo il Buono per la difesa della Terrasanta e del cristianesimo, e portato in Spagna da Carlo V, suo legittimo erede. Alla base della finta balaustra, Apollo e le Muse intonano il canto per gli Asburgo, cominciando dall'origine mitica della dinastia rappresentata dal leggendario Ercole. Le sue fatiche vennero ritratte dal G. tra le finestre, nella zona inferiore della volta, in una serie di quattordici finti arazzi ora perduta, ma ricostruibile attraverso i bozzetti (Barcellona, collezione privata) e le incisioni di Nicolás Barsanti e Juan Barcelón, eseguite tra il 1779 e il 1785. Ercole figura nella volta, nell'atto di consegnare il vello d'oro alla casa di Borgogna, che come Giasone aveva lottato strenuamente per la riconquista di un regno usurpato. Questo distingue la monarchia spagnola dalle altre; ed è perciò magnificata dagli dei. Portata in gloria, la corona reale è destinata all'Eternità, a sottomettere le genti del mondo, di diversa estrazione sociale, e a sconfiggere quei nemici, personificati in basso, che possono distoglierla dallo scopo: la Guerra (l'uomo incatenato e sottomesso dalla croce di s. Andrea, emblema della casa di Borgogna), l'Eresia (il dragone), il Potere (il leone), la Ricchezza (i preziosi sulla scalinata). Tutto ciò era amplificato negli affreschi e nelle tele delle due anticamere, ai lati opposti del grande salone, con episodi della Reconquista e della guerra di Granada, perduti, come le storie di Ercole, nella trasformazione ottocentesca dell'edificio.

Fu intorno al 1698 che il G. venne impegnato in un'altra grande impresa: la decorazione della volta nella sacrestia della cattedrale di Toledo.

Dovendo intervenire su una superficie molto allungata e di grandi dimensioni, concepì una struttura tale da collocare gli episodi principali alle due estremità brevi della volta (la Vergine impone la pianeta a s. Ildefonso, S. Giovanni Evangelista scrive l'Apocalisse); dipinse inoltre una serie di balconate sui lati lunghi, tra le finestre, utilizzandole come balaustre per i gruppi di angeli musici che vi si affacciano, e, al di sotto, come nicchie per i Padri della Chiesa. Il centro del soffitto è ancora una volta un luminosissimo spazio di cielo aperto circoscritto da cerchi concentrici di angeli. Più che altrove, il G. realizzò dunque una struttura architettonica che gli permise di articolare l'intera composizione: un inedito quadraturismo, per il pittore napoletano, che forse aveva avuto modo di osservare le realizzazioni madrilene di Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli, invitati nel 1658 da Filippo V a decorare alcuni ambienti dell'Alcázar e del Retiro (opere completamente perdute nel Settecento), secondo uno schema messo a punto in Italia, che ebbe immediatamente seguito in Spagna, a partire dalle realizzazioni dei pittori di corte Francisco Rizi e Juan Carreño de Miranda.

Purtroppo, è solo dalle copie di bozzetti (Firenze, Galleria degli Uffizi) e da uno autografo fortunatamente conservato (San Ildefonso, La Granja), che si può in parte ricostruire la decorazione, costituita dall'affresco della volta e dalle tele per le pareti laterali, della cappella reale dell'Alcázar di Madrid, perduta nell'incendio del 1734. Eseguita intorno al 1699, svolgeva di nuovo il tema dell'identificazione tra personaggi biblici e sovrani spagnoli. In particolare, con un gusto quasi rococò dell'ornato e del prezioso, caratteristico di quest'ultima fase della sua attività, veniva qui sviluppata la vicenda della costruzione del tempio da parte di Salomone. Ancora per questa cappella, nel 1703 Filippo V avrebbe commissionato altre Storie di Salomone al G., ormai a Napoli, rimaste incompiute a causa della sua morte, e terminate probabilmente da Francesco Solimena (ora conservate nei palazzi reali di Madrid e Aranjuez).

Lo stesso intento celebrativo degli Asburgo, difensori della Chiesa per volontà divina, fu alla base della contemporanea impresa (interamente perduta) per la cappella reale della chiesa madrilena, all'interno del Retiro, di Nuestra Señora de Atocha, dove il G. realizzava, al di sotto di una cupola con angeli, santi, episodi biblici e due grandi quadri rappresentanti altrettanti momenti della Riconquista di Madrid con la protezione della Vergine.

Nel novembre 1698, il G. aveva già avviato i lavori nella chiesa madrilena di S. Antonio de los Portogueses (o de los Alemanes), l'ultima sua opera pubblica condotta in Spagna. Dopo aver modificato gli affreschi sulla cupola eseguiti in precedenza da Rizi e Carreño de Miranda, il G. intervenne al di sotto del cornicione. Negli spazi tra le aperture delle finestre, dei coretti e degli altari, realizzò come finti arazzi e con un raffinato cromatismo le Storie di s. Antonio di Padova, intervallate da figure di re santi (anche questa chiesa era all'interno del Retiro) e elementi floreali e architettonici di carattere puramente ornamentale.

Il 1° nov. 1700 moriva Carlo II, il re che nell'agosto del 1694 aveva consegnato al G. la chiave dello studio di palazzo, facendolo con ciò capo dei pittori di corte. Il rapporto dell'artista con il suo successore, Filippo V, si protrasse per pochissimo tempo e, certo anche per l'età ormai avanzata, il pittore decise di far ritorno in Italia. L'8 febbr. 1702 lasciò Madrid alla volta di Napoli, dove dimostrò di essere ancora in grado di condurre, sebbene con l'aiuto dei collaboratori, opere su grande scala. Tali sono le enormi tele di Donnaregina Nuova realizzate con rapide pennellate, quasi fossero bozzetti in scala gigantesca, rappresentanti le Nozze di Cana e il Discorso della montagna, lasciato incompiuto alla morte dell'artista e saldato ai suoi eredi l'11 marzo 1705 (Pavone); i dipinti di S. Maria Egiziaca (S. Maria Egiziaca nel deserto, S. Maria Egiziaca ha la visione della Vergine); la Decollazione di s. Gennaro per la chiesa romana di S. Spirito dei Napoletani, di grande novità compositiva, tutta organizzata sul gioco delle diagonali; le sei tele con Storie di s. Filippo della cappella dei Ss. Carlo Borromeo e Filippo Neri ai Gerolamini. Vero e proprio testamento artistico dell'anziano e malato pittore è infine da sempre considerato il fantasmagorico Trionfo di Giuditta nella cappella del Tesoro Nuovo in S. Martino, per il quale sottoscrisse il contratto il 7 apr. 1703. Un anno più tardi, in aprile, l'opera era conclusa, saldata, e presentata ai Napoletani. Nell'abbagliante luminosità della volta, il G. riprese la struttura già sperimentata in Spagna del racconto continuo, svolto al di là di un finto zoccolo che corregge la struttura quadrata del soffitto in uno spazio circolare, con gli episodi principali: la Mortedi Oloferne, la Giuditta trionfante e la Vittoria degli Israeliti sugli Amalachiti. Tutto condotto con un'estrema, virtuosistica, rapidità di tocco cui non corrispose però un altrettanto immediato processo di invenzione. La composizione fu infatti a lungo studiata, come dimostra l'elevato numero di disegni e bozzetti, tutt'oggi in parte conservati (Ferrari - Scavizzi, pp. 357 s.).

Questo modo di procedere costituisce in realtà una caratteristica precipua dell'arte del Giordano. Solo a cominciare dagli anni Settanta del Novecento si è cominciata a indagare sistematicamente l'attività grafica del G., intensissima come la sua pittura, e con lo stesso grado di variabilità stilistica e tecnica. Se i problemi legati alla definizione di un corpus di disegni sono ancora quanto mai aperti, tuttavia è stato già possibile rendersi conto di quanto la sua velocità esecutiva fosse solo un atto finale, una riproduzione - spesso rimeditata - di quanto era stato, a volte anche dettagliatamente, studiato attraverso disegni e bozzetti.

Il 31 dic. 1704 il G. faceva testamento, istituendo un fidecommesso perpetuo di primogenitura del quale fu beneficiario il figlio Lorenzo (Borrelli, pp. 19 s.).

Il G. morì a Napoli il 3 genn. 1705.

Il giorno dopo fu allestito un palco a S. Brigida, dove venne sepolto, per onorarlo, e "non vi fu persona che non corresse a vederlo, ragionandosi dappertutto delle sue belle pitture, e dell'onore che per esse aveva apportato alla Patria" (De Dominici, p. 454).

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