Luce

Enciclopedia Dantesca (1970)

luce

Antonietta Bufano
Attilio Mellone
Guido Di Pino

– In un passo del Convivio D. afferma che l'usanza de' filosofi è di chiamare ‛ luce ' lo lume, in quanto esso è nel suo fontale principio... ‛ raggio ', in quanto esso è per lo mezzo... ‛ splendore ', in quanto esso è in altra parte alluminata ripercosso (III XIV 5). Ma è una distinzione di carattere tecnico, riguardante appunto i filosofi; nella pratica, l. indica per lo più sia la " sorgente luminosa ", il fontale principio, sia la " luminosità ", il " chiarore " che da tale principio deriva (anche nel senso traslato, non sempre nettamente distinguibile da quello proprio: l. di bellezza, di verità, ecc.), e si presenta in molti casi come sinonimo di ‛ lume ' (v.), cui si alterna nella designazione di alcuni oggetti (le stelle, per es.; o i beati definiti anche splendori [Pd V 103, IX 13, ecc.]). Ma non mancano altre accezioni.

Nel largo uso del termine (sono numericamente preponderanti, è ovvio, le occorrenze del Paradiso) va messa in risalto la frequenza delle reminiscenze scritturali; e, dal punto di vista stilistico, la mancanza pressoché totale di locuzioni verbali (fa eccezione il ‛ render l. ' di Pg XXVIII 80). Talora l. è accostato a ‛ lucere ' (v.). Si noti anche, in qualche caso, la duplicazione del termine in uno stesso verso (Pg XXIX 91, Pd II 145, X 122, XII 24).

Nel senso di " luce del sole ", talora esplicitamente nominato, o di " chiarore ", " luminosità " generici, di varia origine: Vedemo la luce del sole... diversamente da le corpora essere ricevuta... Ché certi corpi... tosto che 'l sole li vede diventano tanto luminosi, che per multiplicamento di luce... rendono... grande splendore (Cv III VII 3; anche al § 4, due volte); spelunche sotterranee, dove la luce del sole mai non discende (IV XX 8); il sole al cui esser s'adduce / lo calore e la luce (Rime LXXXIII 94; cfr. anche il v. 117); in primavera casca / giù la gran luce mischiata con quella / che raggia dietro a la celeste lasca (Pg XXXII 53), essendo il sole nella costellazione dell'Ariete, che segue quella dei Pesci.

È ancora luce del sole quella che gli spiriti dell'Antipurgatorio si meravigliano di veder rotta dal corpo di D. (Pg III 89, da avvicinare a V 9 vidile guardar... / pur me... e 'l lume ch'era rotto; cfr. anche Pd V 134 il sol... si cela elli stessi / per troppa luce) e che per converso manca totalmente nell'Inferno, il loco d'ogne luce muto (If V 28): la qualifica è riferita espressamente al cerchio dei lussuriosi (cfr. IV 151 vegno in parte ove non è che luca), ma dovrà certo estendersi a tutto il baratro infernale. Si veda ancora Cv III IX 12 Transmutasi questo mezzo [l'atmosfera] di molta luce in poca luce, sì come a la presenza del sole e a la sua assenza, e V 21, XII 7 (prima occorrenza), IV XXIX 1, Detto 188. In Pd XXVIII 23 si allude ancora alla l. del sole, ma riflessa a sua volta dalla luna. Con valore più generico, cfr. Cv III IX 6 (due volte) e Rime CII 50; Cv II VI 9 (due volte) e III XIV 5 (seconda occorrenza, già citata); Pg XVII 41 si frange il sonno ove di butto / nova luce percuote il viso chiuso; Pd XXX 59 nulla luce è tanto mera, / che li occhi miei non si fosser difesi, e II 36. Al senso proprio si associa quello traslato, in Pg XIII 69 come a li orbi non approda il sole, / così a l'ombre [degl'invidiosi]... / luce del ciel di sé largir non vole; / ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra / e cusce: " invidia facit, quod non videatur, quod expedit videre; et ideo dicitur invidia, quasi non visio " (Pietro). I due valori in due occorrenze contigue, in Cv IV XXII 17 Bianchezza è uno colore pieno di luce corporale... e così la contemplazione è... piena di luce spirituale.

Talora l. indica il " sole " stesso: Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce [" del sole (che, secondo la concezione tolemaica, girava esso intorno alla terra) ", Pazzaglia] quasi a uno medesimo punto (Vn II 1); ne la passion di Cristo... la luce si nascose / da sé, non per effetto dell' ‛ interporsi ' della luna (Pd XXIX 100); e v. anche Pg IV 59. Quindi, con ulteriore estensione di significato, in Rime CII 46 di notte e di luce vale " di notte e di giorno " (" latinismo ", Contini; cfr. Gen. 1, 5 " Appellavitque lucem diem et tenebras noctem "). Analoga identificazione si ha con le " stelle ", spesso definite ‛ lumi ': le quattro luci sante, cioè le quattro stelle / non viste mai fuor ch'a la prima gente (Pg I 37 e 23-24), simboleggianti le virtù cardinali (per le questioni relative a questo passo, v. STELLA), o con riferimento più generico: dopo il tramonto, lo ciel... si rifà parvente / per molte luci (Pd XX 6, e v. anche Pg XXIX 91); Pd VII 141 L'anima d'ogne bruto e de le piante / di complession potenzïata tira / lo raggio e 'l moto de le luci sante, cioè " dalla materia... le stelle, irradiando i loro influssi... tirano e riducono in atto l'anima sensitiva de' bruti e la vegetativa delle piante " (Scartazzini-Vandelli); e cfr. anche II 145. In Pd VIII 19 essa luce è il cielo di Venere. Ancora l. di stelle, ma in senso metaforico, è quella di Cv II XV 1 e Pd XXV 70: v. oltre.

Per la luce vermiglia ‛ balenata ' a D. alla soglia dell'Inferno (If III 134), il Boccaccio spiega che " 'l tumultuoso rivolgimento, il quale l'autore vuol mostrare che vi sia, causi alcuno impeto, il quale muova quello aere " che emana dalla cavità infernale; e suppone " quello impeto avere dalle parti inferiori seco recata qualche vampa di fuoco, la quale in forma d'un baleno aparve all'autore " (Benvenuto l'interpreta come " fulgentem claritatem cognitionis, quae illuminavit intellectum meum "; " la divina illuminante grazia ", dice il Vellutello).

Le vive luci che attirano l'attenzione di D. durante la processione nel Paradiso terrestre sono le fiammelle dei candelabri, il bello arnese che fiammeggiava... / più chiaro assai che luna per sereno (Pg XXIX 62; cfr. i vv. 73 e 52-53). In Rime CII 20 e 21 si allude allo " splendore " di una pietra preziosa; la luce rifratta di Pg XV 22 è invece quella che emana dall'angelo del terzo girone.

Non più legato al concetto di " splendore ", l., spesso al plurale, sta per " occhi ": quel pensiero... / mi si converte tutto in corpo freddo, / che m'esce poi per mezzo de la luce (Rime CII 35; e così al v. 42 ov'io volga mia luce, dove vale più esattamente " sguardo " [Contini]: l., sia come sostantivo che come verbo, è una delle parole-rima di questa sestina doppia, che in questo gruppo di versi ricorre ben 6 volte; e si aggiunga, con altro valore, il v. 43). Nella Commedia il termine indica, in questo senso, gli occhi di D. (solo in Pd XVIII 55 si allude a quelli di Beatrice), ‛ inebriati ' e mossi al pianto dalla molta gente e dalle diverse piaghe viste nella nona bolgia (If XXIX 2), o ‛ vaghi ' di veder cose nuove (Pg XV 84), o volti a Beatrice (Pd I 66), o ‛ dipinti ' dal fulgore della Vergine che essi percepiscono (XXIII 91); cfr. ancora Pg XXXI 79 e Pd XXII 126, dove il contesto - Tu se' sì presso a l'ultima salute / ... che tu dei / aver le luci tue chiare e acute - induce a intendere, con Benvenuto, " intellectuales oculos " (più esplicito in questo senso Pg XVIII 16 Drizza... ver' me l'agute luci / de lo 'ntelletto). Vale ancora " sguardo ", in Pd XXI 30 e in Rime LXVIII 4 Lo doloroso amor... / m'ha tolto e toglie… la luce / che avean li occhi miei di tale stella (con ripresa nel congedo, al v. 46), " lo sguardo della donna ", come intende il Pazzaglia (cfr. Lo Doloroso Amor Che Mi Conduce; " luce dell'anima ", in Barbi-Maggini).

Si connette a tali valori quello di " vista " come senso, talché quei c'ha mala luce, " cattiva vista " (Daniello) è il presbite, che vede chiaramente solo le cose che son lontano (If X 100).

Dal concetto di " vista " fisica è facile il passaggio al senso traslato (ma di nuovo connesso all'idea della " luminosità ") di " vista intellettuale ", di cui si è già citato qualche esempio. Per volere di Dio l'uomo è in questa vita privo di questa luce che consentirebbe al suo intelletto di salire a certe cose... si come sono le sustanze partite da materia, Cv III IV 10; per converso, la virtù della luce divina della grazia s'appunta su s. Pier Damiano permettendogli di vedere la somma essenza, Dio (Pd XXI 83: è dunque una " grazia " [lucem gratiae si ha in Mn III IV 20] che concettualmente si lega al passo ora visto; il Porena, del resto: " Io, con l'aiuto della luce che Egli mi largisce, vedo Iddio "; e cfr. anche, in Pg XXVIII 80, il sintagma ‛ render l. ' per " chiarire ", " permettere di capire "). In mancanza di tale " vista " non possiamo individuare la retta via da percorrere: al pari di colui che è cieco de li occhi sensibili, anche colui che è cieco del lume de la discrezione sempre va nel suo giudicio secondo il grido, o diritto o falso... De l'abito di questa luce discretiva... le populari persone sono orbate (Cv I XI 6; si veda Tomm. Cont. Gent. I 4, e si noti l'equivalenza l.-‛ lume ', esplicita anche in Cv IV VII 4 coloro dirizzare intendo ne' quali alcuno lumetto di ragione... vive ancora... però che non minore maraviglia mi sembra reducere a ragione [colui in cui è la luce di ragione] del tutto spenta; il passo si legge così anche nell'edizione Simonelli; nella '21, invece, [colui in cui è ragione]). E ancora, con più chiaro riferimento alla " l. della verità ": il commento in volgare alle canzoni sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale... darà lume a coloro che sono in tenebre... per lo usato sole che a loro non luce (I XIII 12, che riprende l'immagine di I 15; Busnelli-Vandelli rimandano a Esth. 8, 16 " Iudaeis... nova lux oriri visa est "; Matt. 4, 16; ecc. Vedi anche LUCERE); io volendo... la malizia d'alquanti de la mente levare, per fondarvi poi suso la luce de la veritade... (IV VIII 4, e così XV 17; IX 17, II XV 1 e 5); Pg XV 66 Però che tu rificchi / la mente pur a le cose terrene, / di vera luce tenebre dispicchi: " dalla luce della verità ch'è nelle mie parole cogli frutto... di tenebre " (Scartazzini-Vandelli: si noti l'accostamento a tenebre [frequentissimo nella Scrittura], come in Cv I XIII 12 sopra citato); Pd II 110, e XXV 70, nel corso dell'esame sulla Speranza: Da molte stelle mi vien questa luce, " questa verità che riluce nel mio intelletto ", Buti (i commentatori ricordano qui Dan. 12, 3 " Qui... docti fuerint, fulgebunt quasi splendor firmamenti; et qui ad iustitiam erudiunt multos, quasi stellae in perpetuas aeternitates "). Si veda ancora la luce interiore de la Sapienza (Cv III XV 2) e quella luce virtuosissima che s'identifica con la Filosofia, li cui raggi fanno... fruttificare la verace de li uomini nobilitade (IV I 11); per III XI 16 (terza occorrenza) v. oltre.

A questi luoghi, ma con più preciso riferimento all'origine divina della l. intellettuale, si possono accostare i seguenti: Cv III II 9 l'unimento de la mia anima con questa gentil donna [la Filosofia], ne la quale de la divina luce assai mi si mostrava, e 14; VII 8 in quelle operazioni che sono proprie de l'anima razionale... la divina luce più espeditamente raggia (Busnelli-Vandelli ricordano Ps. 4, 7 " signatum est super nos lumen vultus tui, Domine "); IV XV 9 la cristiana sentenza... è rompitrice d'ogni calunnia, mercé de la somma luce del cielo che quella allumina; e così ancora la cherubica luce di cui s. Domenico per sapïenza in terra fue / ... uno splendore (Pd XI 39; " Cherubim interpretatur plenitudo scientiae... Et sic patet quod Cherubim denominatur a scientia ", Tomm. Sum. theol. I 63 7 ad 1).

Si arriva così a quelle occorrenze, numerose soprattutto nel Paradiso, in cui il termine ha più stretta attinenza con il mondo celeste. In questi casi l. può anche essere adoperato nel senso proprio, già considerato, di " splendore ", " luminosità ": ma si tratta della viva luce che inonda i gradi della candida rosa (Pd XXXI 46), o di quella che insieme con l'amore costituisce l'unico confine del miro e angelico tempio, il Primo Mobile (Pd XXVIII 54; cfr. XXVII 112 Luce e amor d'un cerchio lui comprende), o che costituisce l'essenza stessa dell'Empireo: Noi siamo usciti fore / del maggior corpo al ciel ch'è pura luce: / luce intellettüal, piena d'amore (" imperò che quello cielo è luce purissima, luce formale di tutte le luci... che solo collo intelletto si comprende ", Buti: cfr. Pd XXX 39 e 40), luce viva che ‛ circunfulge ' D. lasciandolo fasciato di tal velo / del suo fulgor, che nulla m'appariva (v. 49: " Subito de coelo circumfulsit me lux copiosa ", Act. Ap. 22, 6).

Vivissimo " splendore ", ma di diversa origine, è quello onde s'infiora la sustanza dei beati (Pd XIV 13; cfr. anche XXI 66), splendore che da essi stessi promana e che dopo la risurrezione sarà sopraffatto dal fulgore della carne gloriosa e santa (XIV 43); tuttavia non potrà tanta luce affaticarne, vincere la nostra capacità di sopportarla (v. 58).

Hanno valore più astratto la luce del suggel, cioè la " sigillatio idealis... ut fuit in mente divina " (Pietro), la " virtus coeli, quod imprimit tamquam sigillum " (Benvenuto), che s'imprime in tutte le cose generate (Pd XIII 75 e 65), e la viva luce etterna della divina sapienza (Pg XXXI 139), che " candor est lucis aeternae et speculum maiestatis et imago bonitatis illius " (Sap. 7, 26; il passo è tradotto in Cv III XV 5; con luce de la divina bontade [IV V 17] D. allude agli " aiuti ordinari d'ordine naturale che Dio concede a ben fare anche ai pagani ", Busnelli-Vandelli). Più stretta attinenza a Dio risulta in Cv III XII 7 (seconda occorrenza), XIV 4 e 5 (prima occorrenza), If VII 76, e in alcuni altri luoghi del Paradiso (Nel ciel che più de la sua luce prende / fu' io, Pd I 4; XXXI 22), in cui l., talora con l'attributo etterna, allude a Dio come fonte di verità o di sapienza (verace luce, III 32; V 8 etterna luce, " cioè lo lume del sommo bene e lo seme del vero... e dice eterna luce: imperò che la verità è eterna ", Buti; XV 77: si arriva qui ai limiti del figurato). Nell'ultimo canto il termine ricorre ben cinque volte: lo raggio / de l'alta luce che da sé è vera, XXXIII 54, e poi ai vv. 83 e 100, cui vanno aggiunte le due invocazioni: O somma luce che tanto ti levi / da' concetti mortali, a la mia mente / ripresta un poco di quel che parevi (v. 67), e O luce etterna che sola in te sidi (v. 124: " Nel Buti: ‛ O somma luce, imperò ch'elli è la luce sopra ogni luce ', ma è eco del v. 67 ", Petrocchi), con cui si arriva alla piena identificazione con Dio, la luce che sola se medesima vede compiutamente (Cv II V 11; cfr. il " Deus lux est " di Ioann. 1, 5), la luce etterna guardando nella quale, dice s. Tommaso, li tuoi pensieri onde cagioni apprendo (Pd XI 20: " Dio... è luce indeficente che sempre è ", Buti; e cfr. Pd XXIX 136).

Accanto a un riferimento alla Trinità (Pd XXXI 28) se ne hanno altri a Cristo: Giovanni [Battista]... precedette la verace luce (Vn XXIV 4), mentre Giovanni Evangelista è ricordato in due luoghi del Convivio, una volta esplicitamente (II V 3 ‛ Lo qual [Cristo] fu luce che allumina noi ne le tenebre ', sì come dice Ioanni Evangelista: cfr. Ioann. 1, 5), un'altra implicitamente: II VIII 14 Cristo.., è via, verità e luce... luce, perché allumina noi ne la tenebra de la ignoranza mondana (cfr. Ioann. 14, 6 " Ego sum via, veritas et vita "; 8, 12 " Ego sum lux mundi "; 12, 46; Ps. 42, 3 " Emitte lucem tuam et veritatem tuam "). Ancora di origine scritturale, anzi esplicita traduzione da Salomone (Prov. 4, 18) è un passo che ritorna due volte nel Convivio, in IV VII 9 e III XV 18 (qui il termine ricorre pure un'altra volta). Si veda inoltre Pd XXIII 31, dove Cristo è la lucente sustanza che trasparea attraverso la viva luce da lui stesso emanata, e XIII 55 quella viva luce che... mea / dal suo lucente.

Ancora nel Paradiso, l. indica assai spesso i beati, che a D. si presentano appunto come " luci ", ‛ lumere ' (V 130) o ‛ lumi '. Se qualcuno di essi, nei cieli più bassi, conserva una sia pur labile parvenza umana - così per la luce de la gran Costanza di III 118, da ricollegarsi al v. 16 vid'io più facce a parlar pronte - negli altri ogni sembianza umana è annullata nello splendore che ciascuno spirito si raggia dintorno, in esso celandosi quasi animal di sua seta fasciato (VIII 54): sicché, attuatasi la perfetta identità l. - anima beata, luce la luce di Romeo sarà da intendere, come nel caso di Costanza e di altri beati, " risplende quella luce che è Romeo " (VI 128: si noti l'accostamento del verbo al sostantivo).

Nel cielo del Sole le occorrenze spesseggiano nella presentazione degli spiriti sapienti fatta da s. Tommaso (la luce che narra la mirabil vita / del poverel di Dio, XIII 32), il quale invita D. a ‛ tranare ' l'occhio de la mente... / di luce in luce dietro a le mie lode (X 122: ai ‛ sapienti ' si allude anche in XII 24): La quinta luce, ch'è tra noi più bella, la più dia, Salomone (X 109 e XIV 34; anche XIII 48), la piccioletta luce in cui ride Paolo Orosio (secondo i più: X 118), quella etterna di Sigieri (v. 136); e si vedano ancora i riferimenti a Carlo Martello (VIII 43), a Cunizza (IX 22), a s. Bonaventura (XII 28), a Cacciaguida (XVI 30, XVII 28 e 121), alle anime dei combattenti per la Fede (XVIII 49), a quelle del cielo di Giove (vv. 97 e 104, XX 10), a Rifeo Troiano (XX 69; anche al v. 146, insieme con la ‛ luce ' di Traiano), a s. Pietro (XXIV 34, 54 e 88), a Cristo e Maria, unici spiriti saliti nel beato chiostro con le due stole, il corpo e l'anima (XXV 128).

La natura del tema - l'esaltazione della donna amata - porta nella Vita Nuova, e soprattutto nelle Rime, a un uso decisamente traslato del termine: la luce de la sua [di Beatrice] umilitate / passò li cieli (Vn XXXI 10 21), e 'l piacere de la sua bieltate / ... divenne spirital bellezza grande, / che per lo cielo spande / luce d'amor (XXXIII 8 24); l. d'amore anche in Rime XC 16, LXVII 65 (in quest'ultimo passo con effetti dolorosi: io caddi in terra, / per una luce che nel cuor percosse) e nella canzone Amor, tu vedi ben (Rime CII), dove quattro occorrenze del termine si susseguono con vari significati: attraverso gli occhi del poeta entrò la dispietata luce [la " crudele immagine " della donna, Barbi-Pernicone]. / In lei s'accoglie d'ogni bieltà luce: / così di tutta crudeltate il freddo / le corre al core, ove non va tua [di Amore] luce / ... Da li occhi suoi mi ven la dolce luce / che mi fa non caler d'ogn'altra donna (vv. 36, 37, 39 e 43; altre occorrenze in questo gruppo di versi sono state già considerate). Cfr. anche Detto 187 [la donna] ha sì chiara luce / ch'al sol to' la sua luce, con allusione allo " splendore " della bellezza femminile. Con valore più indeterminato in Rime LXXXVIII 5, mentre in Rime dubbie XXVIII 11 l. s'identifica con la donna: Sola tu sei la mia luce.

Di diverso genere altre personificazioni, con Virgilio o con Beatrice, visti nella loro funzione di maestri da cui emana la l. del sapere: El par che tu mi nieghi, / o luce mia... / che decreto del cielo orazion pieghi (Pg VI 29); O luce, o gloria de la gente umana, / che acqua è questa...? (XXXIII 115). E infine, Cv III XI 16 Virgilio ... chiama Enea [a Ettore]: " O luce ", ch'è atto, e " speranza de' Troiani "... ché non era esso luce né speranza, ma era termine onde venia loro la luce del consiglio (cfr. Aen. II 281 " O lux Dardaniae, spes o fidissima Teucrum ").

La Concezione Della L. Nel Pensiero Dantesco. – La l. è una specie d'idea matrice, di filo conduttore, nel poema dantesco. Infatti D., sebbene presenti le realtà oltremondane anche con suoni, attribuisce a questi una funzione subordinata alle immagini visive; riduce le immagini visive - nel senso sia proprio che metaforico, spesso strettamente congiunti - principalmente alla presenza o all'assenza della l., essendo la l. il mezzo sensibile più adatto a esprimere la perfezione e gli esseri spirituali.

Inferno. – Già il proemio, presentandoci D. nello smarrimento e nello sforzo di uscirne, ci ambienta in una selva oscura (If I 2; cfr. anche v. 60), con i tentativi del poeta di salire su un colle illuminato dal sole nascente (vv. 13-18 e 37-43). Le tenebre della sera calano quando D. varca la porta infernale (Il 1), dalle parole di colore oscuro (III 10).

L'Inferno è caratterizzato dall'assenza della luce. È il cieco mondo (IV 13; cfr. XXVII 25), un cieco / carcere (X 58-59; cfr. Pg XXII 103). È la valle buia (If XII 86; cfr. III 130, VIII 93, XVI 82 e XXIV 141), che la profonda notte / ... sempre nera fa (Pg I 44-45; cfr. XXIII 121-122); i suoi cerchi sono scuri (If XXV 13; cfr. IV 10, XXI 6, XXIV 71, XXIX 65 e XXXII 16); il buio d'inferno è portato come esempio di massima oscurità (Pg XVI 1); la sua aria è morta (I 17), nera (If V 51, IX 6; cfr. III 29, V 89, VI 11, XVI 130, XXIII 78, XXVIII 104 e XXXI 37). Il Limbo è detto emisperio di tenebre (IV 69; cfr. Pg VII 29), parte ove non è che luca (If IV 151); il secondo cerchio è loco d'ogne luce muto (V 28); il nono è pervaso da le tenebre (XXXI 23).

V'è senza dubbio il motivo topografico di regione sotterranea e pertanto dell'aere sanza stelle (III 23 e XVI 82-83); ma il motivo più profondo è la privazione di Dio, fonte di ogni luce. Infatti l'oscurità caratterizza spesso anche il contenuto dell'Inferno: v'è un cieco fiume (Pg I 40); l'onda dell'Acheronte è bruna (If III 118); la pioggia del terzo cerchio è tinta (VI 10); l'acqua dello Stige è buia assai più che persa (VII 103) e la sua melma è negra (v. 124); nella selva dei suicidi la vegetazione è di color fosco (XIII 4) e le cagne che inseguono gli scialacquatori sono nere (v. 125); Malebolge è tutto di pietra di color ferrigno (XVIII 2), sasso tetro (v. 34); la vita dei dannati è cieca (III 47; cfr. VI 93), la loro ombra s'abbuia / ... di fuor (Pd IX 71-72; cfr. If XVI 30), nella bolgia dei ladri Francesco Guercio Cavalcanti appare trasformato in un serpentello... / livido e nero come gran di pepe (If XXV 83-84); i diavoli egualmente sono neri (XXIII 131; e cfr. XXI 29, XXVII 113, XXXIV 44-45 e 65). Fa eccezione solo, nel Limbo, il castello degli spiriti magni non cristiani morti senza peccati personali (Pg VII 25-27): ha il privilegio dell'illuminazione per l'onrata nominanza acquistata da quegli spiriti in terra (lf IV 67-151; cfr. XVI 66), privilegio del resto ridimensionato da quanto Virgilio dirà a Sordello (Pg VII 29); secondo il Porena, tale l. " è espressione dellaluce dell'intelletto, che ha rischiarato quelle anime in mancanza della luce divina "; per altri, si spiegherebbe per l'esclusione del Limbo dall'Inferno propriamente detto (v. ANTINFERNO). Con la continua discesa nell'Inferno, progrediscono la gravità dei peccati puniti e l'allontanamento da Dio (XI 16-90); per D. aumenta anche l'oscurità, poiché il cerchio più basso (la Giudecca) è 'l più oscuro (IX 28) e le anime tormentate nei punti più bassi sono le più nere (VI 85; per il significato morale di ‛ nero ', cfr. Pd XXVII 136). Questo dimostra ancora più chiaramente il significato simbolico dell'assenza della luce. Si aggiunga che, per l'indicazione dell'ora nelle varie tappe del viaggio, non viene riferita la posizione del sole (rispetto all'orizzonte di Gerusalemme), ma solo quella degli altri astri (v. ASTRONOMIA).

Impedendo il buio di vedere (If IV 10-12, XXIV 70-71, ecc.), D. avrebbe dovuto rinunziare a descrivere l'Inferno. Ma da If III 52 in poi immagina che un fioco lume (v. 75; cfr. XXIX 39 e XXXIV 99), una condizione di men che notte e men che giorno (XXXI 10) gli permetta di discernere paesaggio e abitanti nel fondo oscuro. Il Porena (nota finale a If VI) vi vede un'incoerenza commessa ai fini dell'arte. Altri notano che D. ha intuito la potenza figurativa dell'ombra e ha ideato tre sorgenti di l. infernale: i fiumi, le fiamme e la palude ghiacciata (G. Pino, La figurazione della l. nella D.C., Firenze 1952, 38-40; G. Fallani, Poesia e teologia nella D.C., I, Milano 1959, 113).

Purgatorio. - Il Purgatorio è caratterizzato dalla presenza e dall'azione della l. solare. È presentato come una montagna in un'isola posta nell'emisfero delle acque oceaniche; la montagna, per la sua altezza (If XXVI 133-135, Pg III 14-15, IV 40 e 86-87, Pd XXVI 139), dalla porta del Purgatorio propriamente detto in su, non può essere disturbata da alterazioni meteorologiche (Pg XXI 43-57, XXVIII 7-8, 97-102 e 121-126) e pertanto durante il giorno è continuamente illuminata dal sole, in piena serenità; forse (XXI 55) il cosiddetto ‛ Antipurgatorio ' potrebbe essere soggetto a perturbazioni atmosferiche, però di fatto non ne subisce alcuna durante il viaggio dantesco. Il poeta nota tutte le tappe principali del corso diurno del sole in ciascuno dei tre giorni e mezzo del suo cammin santo, descrivendo anche i vari effetti dell'astro sul paesaggio (cfr. pure Pg I 121-123, III 16 e XVI 142-143 se albor è da riferirsi al sole e non all'angelo del v. 144), le sue diverse posizioni in rapporto ai visitatori (cfr. XXXII 17-18), il suo influsso su di essi (cfr. pure XIX 10-11), specialmente (particolare del solo Purgatorio) la proiezione dell'ombra del corpo di Dante.

Questa insistenza non si spiega solo con la posizione geografica del secondo regno. Per D. il sole è simbolo di Dio (Cv III XII 7), l'alto Sol che le anime purganti desiderano vedere (Pg VII 26; cfr. XIII 85-86); la l. solare è la lucerna che... mena in alto (VIII 112), il valor / que... guida al som de l'escalina (XXVI 145-146), è l'aiuto soprannaturale necessario ed efficace per la purificazione delle anime. Appare già dagli orari assegnati all'inizio e al compimento del viaggio espiatorio: l'entrata nell'isoletta avviene nella primissima alba (I 13-30; cfr. anche v. 107 e 115-117); la vera avanzata verso la montagna comincia al sorgere del sole (II 1); l'arrivo alla cima (Paradiso terrestre) si effettua quando le tenebre fuggian da tutti lati (XXVII 112) e lo sol... 'n fronte di D. riluce (v. 133); allorché D. è puro e disposto a salire a le stelle (XXXIII 145), l'ascesa al Paradiso celeste si realizza con lo sguardo nel sole (Pd I 46-57) e nell'ora più nobile di tutto lo die e la più virtuosa (Cv IV XXIII 15), a mezzogiorno, quando quasi tutto era là bianco / quello emisperio (Pd I 44-45); D., rivolto a Dio, può dire: col tuo lume mi levasti (v. 75). Inoltre la l. solare permette a D. di vedere la strada da percorrere per iniziare la salita del Purgatorio; infatti Catone avverte i poeti: lo sol vi mosterrà... / prendere il monte a più lieve salita (Pg I 107-108). La salita (effettuata tutta nella metà della montagna che guarda il cammino del sole) segue il corso del ciel, cioè del sole, che, in quell'emisfero opposto al nostro, procede da est a ovest passando per il nord (IV 52-84 e 119-120): D. e Virgilio iniziano dal lato orientale sia la partenza dalla spiaggia sia la scalata del monte; passano per il settentrione perché, quando girano, procedono verso la destra di chi guarda il monte (XI 49-51, XIII 13-15, XIX 80-81, XXII 121-126 e XXV 110); toccano la cima sul lato occidentale. Tale direzione è necessaria, com'è indispensabile seguire l'orientamento della grazia divina per la purificazione: all'inizio del secondo girone Virgilio apostrofa l'astro: O dolce lume a cui fidanza i'entro / per lo novo cammin, tu ne conduci / ... come condur si vuol quinc'entro (XIII 16-18); se si prende direzione opposta (contra 'l sole), si è costretti a ritornare indietro (III 58-102); la sinistra è il lato onde 'l cammin nostro era chiuso (XXII 136). S'intende che D. restringe la suddetta assoluta necessità al solo Purgatorio; quando considera la guida del sole anche per la terra (XIII 19), afferma che dobbiamo seguirla a condizione che altra ragione in contrario non ponta (v. 20; tuttavia cfr. If I 17-18). Il simbolismo della l. solare appare ancora più certo dalla legge dantesca che nel Purgatorio il progresso può avvenire solo a quella l. (Pg VII 44-54, XVII 62-63 e XVIII 110); prima della levata o dopo il tramonto del sole la volontà diviene inerte (VII 55-57) e le forze fisiche vengono meno per salire (XVII 70-78): si può solo andare indietro o girare nel piano (VII 58-60). Perfino s. Lucia, per trasportare D. addormentato dalla valletta dei principi alle soglie del Purgatorio propriamente detto, attende la l. solare (IX 59-60).

Paradiso. – Qui la l. non è più un simbolo, ma esprime la struttura stessa del deïforme regno e le sue realtà.

Il paesaggio è generalmente costituito dalla l. dei cieli. Nel suo viaggio D. penetra dentro l'astro dei singoli cieli planetari (Pd II 30, V 95-97, VIII 13-15, X 28-41, XIV 85-87, XVII 115, XVIII 68-69 e 115-117, XXI 13-15), dentro la regïon del segno dei Gemelli nel cielo stellato (XXII 110-120 e 152) e dentro il Primo Mobile, sprovvisto di astri (XXVII 99-102). Gli astri riflettono la l. all'esterno (Cv II VI 9); ma anch'essi, come i cieli, sono di materia eterea (cfr. Pd XXII 132 e XXVII 70), pervasi internamente dalla l. (per es. III 111, VIII 16-19 e X 40-42); perciò D. immagina di essere coperto da una nube... / lucida nella Luna (II 31-32) e chiama cristallo Saturno (XXI 25). Il Primo Mobile, poi, è per antonomasia Cristallino, cioè diafano (Cv II III 7). Il cono ombroso della terra arriva solo fino al terzo cielo (Pd IX 118-119; v. ALFRAGANO); per cui qualche commentatore (Dragone) ritiene una specie di ‛ Antiparadiso ' i tre cieli più bassi. Alla varietà del paesaggio contribuiscono il colore rossastro attribuito alla l. di Marte (Pg II 14, Pd XIV 86-87 e cfr. XVI 38-39), il color bianco assegnato alla l. di Giove (Pd XVIII 64-68 e 96; v. anche XXVII 14-15), e anche in Marte la croce greca costituita da due raggi (XIV 95-108 e XV 19-24) e in Saturno la scala di color d'oro in che raggio traluce, la quale sale su (XXI 28-30), fino all'Empireo (XXII 68-72). La l. dei cieli è anche quella del sole (XX 1-6 e XXIII 29-30), forse secondo l'intensità normale, perché sembra che il raddoppiamento (I 59-63) e il dilagamento (vv. 79-81) della l. avvertiti nel viaggio verso la luna, si riferiscano alla sola traversata della sfera del fuoco (Porena). Però ogni astro è reso luminoso anche dalla natura lieta degli angeli motori per ridondanza (II 49-148); il Primo Mobile riceve direttamente la l. divina che gli dà vivere e potenza (XXX 106-108) e rende vivissime tutte le sue parti (XXVII 100; ma sarebbe imissione secondo S. Aglianò, Tre proposte per il testo del Paradiso, in " Studi d. " XLVI [1969] 73-88).

L'Empireo è posto in un altro ordine. È tutto e solo l. (XXX 39); ma questa, intellettual (v. 40), trascende la categoria della l. sensibile (v. EMPIREO). Appena entrato nell'Empireo, D. fu abbagliato da una luce viva, che potenziò i suoi occhi a fissarne ogni altra per quanto potente (vv. 46-60). Vide quindi un fiume di l. che, contemplato, dava alla vista la possibilità di scorgerlo trasformato in un lago luminoso, fondo centrale e specchio dell'immensa candida rosa dei beati, costituito dal riflesso di quel raggio divino che batte sulla superficie convessa del Primo Mobile (vv. 61-117 e XXXI 1 e 46).

Su questi sfondi luminosi spiccano gli abitanti del Paradiso: i beati, gli angeli, Dio. D. attribuisce al corpo aereo dei beati e a quelli risorti di Maria e Cristo un alone di l. (V 124-125, VIII 52-54, XIII 48, XIV 13-69, XV 52-53, XVII 36, XVIII 76 e XXVI 82-83). Per questo li paragona a faville (VII 8 e XVIII 101), a stelle filanti (XV 13-21); li denomina ‛ luculente gioie ' (IX 37), lucidi lapilli (XX 16), rubini in cui / raggio di sole ardesse sì acceso da rifletterlo negli occhi del poeta (XIX 4-6); li chiama fuochi (per es. XX 34 e XXII 46), fiammelle (XXI 136), ‛ fulgide fiamme ' (XXVI 2; cfr. XII 2 e XXIII 119), lucenti incendi / de lo Spirito Santo (XIX 100-101; cfr. XXV 80), lucerne (VIII 19 e XXIII 28; cfr. XXI 73), ‛ lampe ' (XVII 5), ‛ lumere ' (V 130, IX 112 e XI 16), face / ... accese (XXVII 10-11), lumi (per es. VIII 25, X 73, XIII 29, XIV 110 e 121, XXIII 110), splendori (per es. V 103, IX 13 e XXIII 82), luci (per es. XVIII 49, 97 e 104, XX 10, 69 e 146, XXV 128), folgór vivi (X 64; cfr. XVIII 25), ‛ vive stelle ' (XXIII 92; cfr. XIII 4-20 e XXI 32-33), ardenti soli (X 76; cfr. III 1); afferma, che hanno raggi (XXV 36), scintillano come raggio di sole in acqua mera (IX 113-114; cfr. XX 35). Nel cielo stellato anche la natura umana di Cristo, sotto la viva luce che la circonda, è lucente (XXIII 31-33). L'alone, essendo proporzionato al grado di visione beatifica (XIV 40-51, XXI 68-69 e 89-90), splende maggiormente nei beati più vicini a Dio (XXI 91 e XXXI 118-129); pertanto cresce nella salita da cielo a cielo (cfr. III 10-30 e 58-60 con V 107-108, VIII 16-19, X 40-48 e 64), con varie gradazioni anche nei beati di un medesimo cielo (III 110-111, IX 116-117, XIV 34, XXII 28-29, XXIII 90 e 93, XXIV 20-21). Inoltre i beati s'illuminano a vicenda (XIII 16 e forse anche XXXI 50), per manifestarsi la propria gioia (XII 23-24) e rendere l'un l'altro più felice (VII 24 e XXII 23-24; cfr. Pg XV 73-75); i superiori illuminano gl'inferiori (Pd XXIII 28-30, 72 e 79-85, XXXI 124-129). Poiché l'alone è espressione della loro beatitudine (per es. VIII 52-53, X 103 e XXI 88), i beati emettono bagliori più vividi quando provano gioia (IX 70 ecc.) o altro sentimento particolare (per es. IX 14-15, XIV 110-111 e XXI 43-45); nello sdegno mandan fuori bagliori di colore rosso (XXVII 11-36 e 54). Sono anche fregiati di una luce divina diretta che, penetrando attraverso l'alone, dà il potere di vedere Dio (XIV 46-48 e XXI 83-87). La stessa carità celeste è presentata come un lume di cui i beati per tutto il ciel sono accesi (V 118-119; cfr. III 37-38).

Pure gli angeli, presentati ‛ lucenti ' o abbaglianti fin dal Purgatorio (II 13-21, XV 10-33, ecc.), nel Paradiso sono detti fuochi (IX 77), ‛ facelle ' (XXIII 94), splendori (XXIX 138); per la differente capacità di ricevere la l. divina (XXIX 136-138, ma anche XIII 59), ciascuno è distinto di fulgore (XXXI 132). Nel Primo Mobile appaiono raggruppati in nove ‛ cerchi d'igne ' concentrici, illuminati da Dio (punto centrale) in modo che i più vicini a lui hanno la fiamma piú sincera (XXVIII 22-45); i singoli cerchi emettono innumerevoli faville, però ogne scintilla (angelo) non esce fuori dall'incendio [coro] suo (vv. 89-93); alla fine scompaiono come stelle mattutine, dalle meno alle più lucenti (XXX 1-13). Nell'Empireo si presentano dapprima come ‛ fulgori ' che rendono fulvido (giallo-rossiccio, anche secondo Petrocchi) un fiume di l., come faville vive che escono da esso (vv. 61-64 e 95); poi son visti con le facce tutte... di fiamma viva (XXXI 13).

Dio è circondato da un raggio o fulgore (XXXI 98-99, XXXII 143-144, XXXIII 52-54, 76-77 e 83); è chiamato lume (XXXIII 43 e 110), luce (per es. vv. 100 e 124), che già resplende / ne l'intelletto di D. in viaggio per il Paradiso (V 7-8); è detto il Sol dei beati (IX 8, XV 76, XVIII 105, XXV 54 e XXX 126), degli angeli (X 53), nel quale il caldo (l'amore) e la luce (la scienza) sono perfettamente eguali (XV 76-77). Nel Primo Mobile appare a D. dapprima quale ‛ lume ' riflesso negli occhi di Beatrice (come in lo specchio fiamma di doppiero / vede colui che se n'alluma retro, XXVIII 4-5); poi vien paragonato a una stella, a la luce (sole o luna) che dipigne, illumina l'alone che la circonda (vv. 19-24); viene visto quale punto abbagliante (vv. 16-18 e XXX 11), favilla pura che illumina i nove cori angelici (XXVIII 37-39). Nell'Empireo viene contemplato come una sfera di l. (G. Busnelli, in " Studi d. " XXVII [1943] 103-108; " La Civiltà Cattolica " XCIV [1943], vol. III, 339-344) nella quale si distinguono tre giri di una medesima grandezza (XXXIII 115-117); il secondo di quei circoli appare concepito come lume reflesso (v. 128), come iri da iri / ... reflesso dal primo, e 'l terzo pare foco spirato dai primi due (vv. 118-120). A questa visione corrispondono le affermazioni che Dio è trina luce 'n unica stella (XXXI 28) e che il Verbo è quella viva luce che si mea / dal suo lucente, che non si disuna / da lui (XIII 55-57).

Le luci dei beati, degli angeli e di Dio prendono rilievo sulla l. dello sfondo, tra l'altro, anche per la maggiore intensità (per es. X 40-48 e 64, XIV 76-78 e XXVIII 16-18); per cui rendono ancora più splendido il paesaggio (per es. V 96-97, XXIII 17-18, XXVII 4-5, XXVIII 13-39 e XXXI 118-129).

Dottrina Della L. ‛ Sensibile '. - La sensibil luce, creata nel tempo (Rime CII 49-50), è distinta dall'essere dei corpi che la posseggono (LXXXIII 93-94 e Mn III IV 18); penetra dentro di essi in proporzione del loro grado di diafanità (per es. Cv III VII 3-4, IX 12 e X 4), dal Primo Mobile tutto trasparente (II III 7), alla terra tanto sanza diafano, che quasi poco de la luce riceve (III VII 4); attraversando i corpi diafani, assume i loro eventuali colori (VII 4 e IX 9-10). Il lume (l. in senso generico) è detto luce in quanto si trova nella sua sorgente, raggio in quanto considerato nel passaggio dalla sorgente al corpo oscuro, splendore in quanto riflesso dall'oggetto illuminato (XIV 5; cfr. pure II IV 17, VI 9, ecc.); però alle volte viene usato un termine per l'altro (per es. in Pd XII 9 splendor al posto di ‛ raggio ').

D. parla più volte del fenomeno della riflessione regolare della l. (per es. in Cv III VII 3-4, XIV 4, IV XX 8, Pg XXIX 67-69, Pd II 88-90 e XXXI 71-72. Secondo F. Brambilla Ageno, in " Studi d. " XLVII [1970] 5-9, D. si riferisce alla riflessione qualche volta anche quando usa il verbo ‛ tralucere ', come per es. in Pd XXI 28); i corpi riflettono la l. in ragione inversa della loro trasparenza (per es. Cv II VI 9 e XIII 9; però non è coerente l'immaginazione poetica di Pd XXX 106-107, secondo cui il Primo Mobile, nonostante che sia tutto trasparente, rimanda riflesso il raggio divino) e in ragione diretta della loro lucidità (Cv III VII 3-4 e Pd XVII 123); il colore più lucido è il bianco, pieno di luce corporale più che nullo altro (Cv IV XXII 17); essendo il raggio riflesso meno luminoso di quello incidente (Pd XII 9), si suppone che i corpi assorbano sempre un po' di l.; il raggio incidente, se cade perpendicolarmente sullo specchio, ribalza all'insù nella stessa direzione (I 49-51); invece, se cade obliquamente, ribalza in direzione opposta con l'uguaglianza dell'angolo di riflessione con l'angolo d'incidenza (Pg XV 16-23). Il vastissimo fondo centrale della rosa dei beati, essendo formato dalla riflessione di un raggio divino (Pd XXX 103-107), sembra l'effetto di una diffusione di l. in tutte le direzioni (riflessione irregolare). L'aria, riflettendo il raggio solare quando è impregnata di pioggia, forma l'arcobaleno (Pg XXV 91-93), dai sette colori (XXIX 77-78), e alle volte ne forma due, concentrici, dei quali l'esterno è riflesso dell'interno (Pd XII 10-18; cfr. XXXIII 118-119); nelle medesime condizioni i vapori, trattenendo i raggi riflessi dalla luna, formano intorno a essa l'alone (X 67-69 e XXVIII 22-24), pure di sette colori (Pg XXIX 77-78). Una, sola immagine si può riflettere in un numero enorme di specchi sia direttamente in ognuno (Pd XXIX 143-144; cfr. II 97-105) sia indirettamente in quanto rimandata da uno specchio all'altro (Pg XV 75). Quando D. parla di ‛ rifrazione ' della l. (XV 22, Pd II 93 e XIX 6), intende, come i suoi contemporanei, la riflessione; del fenomeno oggi detto ‛ rifrazione della l. ', probabilmente ha descritto solo la generazione del calore dalla l. rifratta in certe condizioni (Rime XC 27).

Il sole non può esistere sanza luce (Cv IV XXIX 1), possedendola come proprietà necessaria (Rime LXXXIII 93-94). Ne è la sorgente più importante: illumina sé stésso (Cv III XII 7), il proprio cielo (Rime XC 1-2), tutti gli altri corpi celesti e terrestri sia direttamente (per es. Cv III Amor che ne la mente 19-22, Rime LXXXIII 117, Cv II XIII 15, III VII 3-4 e XII 7, Pd XX 1-4 e XXIII 29-30) sia per mezzo dello splendore degli astri (per es. Mn III IV 17-19 e Pd XX 4-6); secondo la scienza del tempo, si suppone che, accendendo in alto i vapori esalati dalla terra, produca stelle cadenti e lampi (Pg V 37-39). Pertanto è 'l gran lume (Rime CIV 47), il prenze de le stelle (LXXXIII 114), la lucerna del mondo (Pd I 38); la sua l. possiede il massimo grado d'intensità (X 48) e il suo cielo è lo cielo de la luce per antonomasia (Vn II 1). Una seconda fonte luminosa è costituita dagli altri astri (Rime LXXXVII 11-12, Cv II VI 9 e XIII 4, Pg XXXII 53-57), differenti per intensità di l. sia l'uno dall'altro (Pd II 64-66 e 130-148; cfr. Quaestio 71), sia ciascuno nelle sue diverse parti (Cv II XIII 9 e Pd II 49-148). Qualche volta D. parla come se gli astri possedessero unicamente la l. solare (Pd XX 6), altra volta invece attribuisce loro anche una l. originariamente propria (Mn III IV 18 e Pd II 142-148). Anzi assegna pure alle pietre preziose una l. propria, oltre lo splendor di sole (Rime CII 20 e Cv III VII 3) e di altre stelle Rime (LXXXIX 14). La l. diminuisce d'intensità in misura che si allontana dalla sorgente (Pd II 103-104, XXVIII 37-39 e XXXI 124-129), invece aumenta con l'aggiunta di flussi luminosi (per es. V 96-97, XXII 24 e XXIII 18). Si diffonde con velocità infinita (XXIX 25-27).

D. descrive o accenna a parecchi fenomeni che riguardano le relazioni della l. con l'occhio umano; i passi danteschi " costituiscono quasi nel loro insieme un breviario di perspectiva ", ossia di ottica, secondo A. Parronchi (" Studi d. " XXXVI [1959] 46). Innanzi tutto, con Aristotele e contro Platone, D. ammette che, nella visione degli oggetti, i raggi luminosi vanno dall'oggetto esterno all'occhio (Cv III IX 7-10; cfr. ad es. anche II IX 4, Pg XXIX 47-48 e Pd XXX 46-48); però alle volte, con gli altri stilnovisti, sembra supporre il contrario (per es. Cv III Amor che ne la mente 86, secondo Cv III X 4). Gli oggetti riflessi nei corpi trasparenti sono meno visibili in proporzione della maggiore diafanità degli specchi (Pd III 10-15). La l., da parte sua, è, come il colore, un propriamente visibile (Cv III IX 6), cioè un sensibile proprio della vista; quindi si vede per sé stessa. Anch'essa può divenire invisibile per la troppa distanza (Pd VII 9), per la vicinanza o mescolanza con altra l. più forte (per es. Cv II XIII 11, III IX 12 e Pd V 128-129); tuttavia permette la visibilità dei punti più luminosi dei quali essa sia lo sfondo (per es. Pd VIII 16, X 64 e XXVIII 89-91) o l'alone (per es. XIV 52-57 e XXIII 31-33).

La l. è mezzo necessario affinché si vedano gli oggetti, specialmente i colori (per es. Rime XC 13-15 e Cv I I 15), i quali ultimi sono meno visibili in proporzione della loro lontananza dal bianco (Ve I XVI 2). Se la l. è troppo intensa, affatica la vista (cfr. Cv III VII 4 e Pd XIV 58), sveglia gli addormentati (Pg XVII 40-42, Pd XXVI 70-75), abbaglia (cfr. Pg XV 10-30 e XXXII 10-12, Pd XXV 118-122, XXVI 1-5 e 20) e induce in errori (Pg VIII 35-36); anche la troppo debole causa false apparenze (If XXXI 10-48 e Pd XIV 70-72). Nelle tenebre gli oggetti illuminati sembrano più grandi e più lucenti (Pg XXVII 88-90) e sono visibili anche quelli che, per la loro piccolezza, non si scorgerebbero nella l. diffusa (Pd XIV 112-117). Le luci che si muovono con una certa velocità danno la sensazione, a distanza, di lasciare ognuna dietro di sé una striscia luminosa continua (Pg XXIX 73-75); per lo stesso motivo le piccole stelle filanti nel cielo sembrano stelle vere e proprie che cambino posto (Pd XV 13-18). Verosimilmente anche per D., come per le perspectivae di quel tempo, lo scintillio dei corpi luminosi o illuminati (Pg XII 90 e Pd II 111; secondo alcuni anche Pg I 117, XV 3 e XXXIII 105) è un'illusione ottica.

D., riguardo alla l. sensibile, ebbe coscienza di seguire le teorie allora comuni, che, secondo qualcuno (Parronchi, art. cit., pp. 12-13 e 22-23), forse studiò nella perspettiva (cfr. Pg XV 21; se ne parla in Cv II III 6 e XIII 27); difatti si appella a l'usanza de' filosofi (Cv III XIV 5; cfr. Quaestio 71), ad Aristotele (Vn XLI 6, Cv II III 6 e III IX 6), ad Avicenna (Cv III XIV 5), ad Alberto Magno (VII 3); alle volte opta per una fra opinioni opposte discusse in quel tempo (per es. IX 10). Realmente D. non uscì dal clima scientifico del suo tempo; anzi qualche volta adottò qualche teoria strana anche per il suo tempo (per es. l'assegnazione della luminosità degli astri all'influsso degli angeli motori) e qualche altra già allora superata almeno da alcuni (per es. la visibilità della l. per sé stessa, l'unicità della sorgente luminosa e la spiegazione degli arcobaleni per mezzo della riflessione del raggio solare sull'aria impregnata di pioggia). Pertanto esagerano quanti fanno di D. un precursore dell'ottica moderna.

La ‛ Metafisica Della Luce '. – Alcuni scolastici (si veda per esempio Adamo di Buckfield De Intelligentiis VI-VIII, ediz. C. Bäumker, in Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters, III 2, Münster W. 1908, 8-9), preceduti da taluni Padri, sostennero la cosiddetta ‛ metafisica della l. ', cioè la concrzione neoplatonica di Dio l. in senso proprio e della ceeazione quale diffusione della l. divina. Invece gli scolastici che svilupparono l'aristotelismo senza preoccupazioni neoplatoniche, soprattutto l'Aquinate, applicarono la l. a Dio soltanto metaforicamente (Tommaso II Sent. 13 1 2 [ediz. Mandonnet, Parigi 1929, II, 328-330]; Sum. theol. I 67 1), insegnando che la l., in senso proprio, non è che una forma accidentale dei corpi (Tommaso II Sent.13 1 3 [ediz. cit., pp. 331-337]; Sum. theol. I 67 2-3). Secondo parecchi saggisti D. avrebbe ritenuto Dio vera l. e gli altri esseri partecipazione della l. divina, in modo che la l. spirituale continuerebbe, trasformandosi, nella l. materiale.

Innanzi tutto, D. non concepisce la l. come sostanza, concezione che è premessa indispensabile della metafisica della luce. Ritenendo la l. un sensibile proprio della vista (Cv III IX 6), la suppone accidente dei corpi; in Cv III XI 16 la dice atto, ma la considera in senso metaforico e l'intende quale atto secondo. Spesso chiama Dio l., però sempre metaforicamente, come risulta dal contesto. Per lo più usa la metafora nel campo gnoseologico, poiché frequentemente denomina Dio l. quando lo considera oggetto della visione beatifica (per es. Pd XI 20, XXV 54, XXIX 136 e XXXIII 43). Similmente il poeta contempla Dio quale l. (XXXIII 43-132) perché, avendo immaginato di vederlo con gli occhi corporei, doveva indicarlo con un'immagine sensibile (cfr. Cv III XII 6). Se anche altrove parla della Trinità con una terminologia luministica, trovava il fondamento nella Bibbia e nella liturgia, specialmente nel " lumen de lumine " del simbolo niceno-costantinopolitano. Pertanto anche le espressioni verace luce (Pd III 32), alta luce che da sé è vera (XXXIII 54) e somma luce che tanto ti levi / da' concetti mortali (v. 67) hanno senso metaforico: la prima è resa con i termini propri di primo vero nel corrispondente Pd IV 96 (cfr. Ioann. 1, 9 [" lux vera "]; Tommaso Cont. Gent. III 53 [ediz. Marietti, Torino 1927, 279a]); la seconda indica Dio, oggetto della visione dantesca, quale fonte e principio di verità (cfr. Pd IV 116, Quaestio 1); la terza, nel medesimo contesto della visione dantesca, precisa non in che senso Dio sia l., ma l'impossibilità che sia espresso quanto D. vide di Dio. Tutto questo non discorda da Tommaso, secondo cui viene detto lume o l. quanto viene intuito dall'intelligenza dei beati (Sum. theol. I 12 5). L'affermazione che Dio prima sé con luce intellettuale allumina, e poi le [creature] celestiali e l'altre intelligibili (Cv III XII 7) è conforme all'Aquinate, secondo cui nell'ordine naturale Dio c'illumina in quanto ci dona l'intelligenza (similitudine partecipata della sua intelligenza) e in quanto ci aiuta a compiere gli atti intellettivi (Sum. theol. I 79 4 e 84 5). D. sviluppa un'immagine che si trova egualmente in Tommaso (I 12 2), quando, riferendosi all'ordine soprannaturale, presenta il " lumen gloriae " come una l. che parte dall'essenza divina e va a colpire l'intelligenza dei beati (Pd XXI 83-87; cfr. anche XIV 40-48 e XXXII 70-72. In XXX 100-108 si tratta di un'immaginazione poetica).

Mentre Tommaso mantiene la metafora entro il campo gnoseologico, D. la estende anche al campo ontologico, perché presenta la creazione come una ‛ irradiazione ' (VII 65 e 74) e misura il grado di perfezione delle creature con la loro partecipazione alla l. divina. Tuttavia anche adesso D. usa un linguaggio metaforico, perché adduce l'esempio del sole (cfr. Cv III VII 8 con §§ 3-4 e anche con § 5, ove alla fine forse si deve leggere ‛ sole ' e non sola; XIV 4 con § 3) o nello stesso testo si serve di termini propri che non indicano l. (cfr. II 9 e 14 con §§ 4-8; XIV 4 con § 6; Pd I 4 con vv. 1-3; VII 74-75 e 81 con v. 80; XIII 52-60 con vv. 79-81; XIX 90 con vv. 86-89; XXVI 33 con vv. 31-32; XXIX 14-15 con v. 18) oppure non parla più di l. nella spiegazione dell'immagine (cfr. Pd XXVIII 16-39, 88-93 e XXX 1-15 con XXVIII 41-78 e 98-139). Pertanto è da ritenersi che D. si riferisca alla diffusione delle perfezioni divine, ossia alla somiglianza analogica delle creature con Dio, sia nei detti casi sia in altri simili, come in Pd XXXI 22-24.

È sembrato ad alcuni che D. ammetta la trasformazione della l. spirituale nella materiale: la l. divina, riflettendosi sull'Empireo, resterebbe ancora spirituale, ma poi, scorrendo dall'Empireo sui cieli sottostanti, diverrebbe materiale, come risulterebbe, per es., da Pd XIII 52-66; la I. spirituale dei beati continuerebbe nel fulgore sensibile che circonda i loro corpi (per es. Pd XIV 43-60). Al primo argomento rispondiamo che la premessa è erronea, perché né Dio né l'Empireo (v.) sono l. in senso proprio; inoltre in Pd XIII 52-66 s'indica, metaforicamente, l'attuazione estrinseca degli esemplari divini, come appare dal contesto. Riguardo al secondo argomento D. afferma solo che la visione beatifica dell'anima, in proporzione del suo grado, farà risplendere di vera l. il corpo glorioso; il che veniva insegnato anche dal Supplementum della Summa di Tommaso (III 85 1), tranne che per D. le anime beate già prima della resurrezione sono circondate dal corpo aereo e dalla l. sensibile. Questa spiegazione del fulgore del corpo glorioso ci dispensa dal ricorrere alla metafisica della l. per renderci ragione dell'altra teoria dantesca (sostenuta da Giamblico e ritenuta probabile da Tommaso, secondo il Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967², 34-37; Saggi e note di critica dantesca, Milano 1966, 76-77) che le virtù infuse dagli angeli motori producono, per ridondanza, la l. degli astri (Pd II 142-148).

Ancora più chiaramente è fuori della metafisica della l. Ep XIII, sebbene vi si parli dell'influsso delle sostanze superiori sulle inferiori come se fosse un'irradiazione (§§ 56-72). Prima di tutto, la citazione del neoplatonico pseudo-Dionigi De coelesti hierarchia (III 2; Patrol. Gr. III 166), a questo riguardo (§ 60), non ha gran peso, perché gli scolastici solevano adattare alle proprie le teorie che essi citavano. Poi, secondo la spiegazione esplicita dell'epistola, la l. divina indica la bontà, la sapienza e la virtù di Dio (§ 61); risplende ovunque perché tutte le creature ricevono l'esistenza dalla divina bontà, ogni forma sostanziale è fatta secondo l'esemplare divino, ogni potenza operativa deriva dalla virtù di Dio (§§ 54-61). Inoltre, mentre il De Intelligentiis di Adamo di Buckfield, quando parla degl'influssi-irradiazioni degli esseri superiori sugl'inferiori, non si esprime in modo da far intendere che si serva di un'esemplificazione (VI-VIII, ediz. cit., pp. 8-11), l'epistola ha: ad modum recipientis et reddentis radium (§ 56); quasi a radiante (§ 60); radius quidam (§ 70). Ancora, l'epistola non ha le seguenti affermazioni del De Intelligentiis, sebbene nei §§ 70-74 le servissero per la dimostrazione che l'Empiro partecipa della l. divina più che gli altri: ogni perfezione è l. (VIII 3, ediz. cit., p. 9); ogni corpo superiore è luogo ed è forma dell'inferiore appunto perché è l. (VIII 4, ediz. cit., pp. 9-11); una sostanza, proprio in quanto è l., influisce su un'altra (VII 1, pp. 8-9). Quindi la l. che, secondo l'epistola, s'irradia da Dio sulle creature superiori e da queste sulle inferiori (§§ 56, 60, 70 e 72), è metafora che indica la perfezione e la virtù operativa. Anche Tommaso, pur negando, contro il De Intelligentiis, che la l. sia causa dell'influsso, concede che si possa dirlo se per l. s'intende, metaforicamente, l'‛ atto ' (Quaest. quodl. VI 11 19 [ediz. Torino 1931, 134b]).

Bibl. - Sull'uso letterario della l. nella Commedia è fondamentale lo studio di G. Di Pino, La figurazione della l. nella D.C., Firenze 1952. Interessante è anche Z. Dumitrescu-Busulenga, Traiectoria luminii in Divina Comedie, in Studii despre D., Bucarest 1965, 240-256. Cfr. pure P. Magistretti, Il fuoco e la l. nella D.C., Firenze 1888; L. Giuffré, Il problema delle ombre e delle luci nella D.C., Palermo 1935; R. Guardini, Das Licht bei D., Monaco 1956. Per il solo Paradiso cfr. G. Busnelli, Dalla l. del cielo della Luna alla trina l. dell'Empireo, in " Studi d. " XXVII (1943) 95-116. In quanto alla fonte cristiana e pagana delle immagini della l., cfr. E. Crema, La luz en los paraisos de Mohoma y de D., in " Revista Nacional de Cultura " XXVIII (1966), fasc. I, 83-91; F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla D.C., Firenze 1967, 68-72. Sulla fisica dantesca della l. fanno il punto E. Passera, Le cognizioni oftalmologiche di D., in " Archivio di Storia della Scienza " III (1921) 1-31, e A. Parronchi, La perspettiva dantesca, in " Studi d. " XXXVI (1959) 5-103.

Dopo che C. Baeumker, Witelo, ein Philosoph und Naturforscher des XIII. Jahrhunderts, in Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters, III 2, Münster 1908, 357-459, ebbe studiato storicamente la ‛ metafisica della l. ' fino a s. Tommaso, B. Nardi, Sigieri di Brabante nella D.C. e le fonti della filosofia di D., Spianate 1912, 33-37 e 66, la vide anche nella dottrina dantesca. Il Nardi ribadì la sua tesi in studi successivi: Intorno al tomismo di D. e alla questione di Sigieri, in " Giorn. d. " XXII (1914) 187-188; Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967², 201-213 e 342; Sulla comunicazione del p. E. Guidubaldi, in Atti del congresso internazionale di studi danteschi, II, ibid. 1966, 257. Contemporaneamente al Nardi, anche O. Miller scriveva che D. in molti punti del Paradiso seguì la metafisica della l. (cfr. E. Krebs, Scholastiches zur Lösung von Danteproblemen, in Görres-Gesellschaft zur Pflege der Wissenschaft im katholischen Deutschland. Dritte Vereinschrift für 1913, Colonia 1913, 39). La tesi del Nardi fu accettata da C. Baeumker, Dantes philosophische Weltanschauung, in " Deutsche Literaturzeitung " XXXIV (1913) 2760-2761; M. Baumgartner, Dantes Stellung. zur Philosophie, in Görres-Gesellschaft zur Pflege der Wissenschaft im katholischen Deutschland. Zweite Vereinschrift für 1921, Colonia 1921, 63; L. Negri, La l. nella filosofia naturale del '300 e nella " Commedia ", in " Giorn. stor. " LXXXII (1923) 328-336; M. Asín Palacios, D. y el Islam, Madrid 1927, 299-303; F. Ueberweg - B. Geyer, Grundriss der Geschichte der Philosophie, II, Berlino 1928, 550; L. Tondelli, Mani. Rapporti con Bardesane, s. Agostino, D., Milano 1932, 111-124; F. Orestano, Discontinuità dottrinali nella D.C., in " Archivio di Storia della Filosofia " I (1932) 125-127, e in " Sophia " I (1933) 16-17; G. Berretta, Il c. XIV del Paradiso, in " Filologia e Letteratura " XI (1965) 261-264; E. Guidubaldi, D. e la metafisica della l., in Atti del congresso internazionale di studi danteschi, II, Firenze 1966, 255-256 (v. ADAMO di Buckfield). Invece la tesi del Nardi fu negata da G. Calò, nella recens. a B. Nardi, Sigieri di Brabante nella D.C. e le fonti della filosofia di D., in " Bull. " XX (1913) 270-271; G. Busnelli, Cosmogonia e antropogenesi secondo D.A. e le sue fonti, Roma 1922, 13-19 e 71; P. Mandonnet, D. le théologien, Parigi 1935, 251-252; P. Chioccioni, L'agostinismo nella D.C., Firenze 1952, 91-95 e 134.

La rappresentazione della l. nella poesia dantesca. – La concretezza e insieme l'ardimento ideale della mente dantesca sollecitano dal linguaggio della l. una gradualità di valori che dalla semplice definizione del fenomeno fisico giunga - di ‛ senso ' in ‛ senso ' - all'identificazione di essa con Dio. Questo travaglio di rapporti e di prelievi lessicali si documenta dottrinalmente nel Convivio, ma si esperimenta, in tutta la sua ordinata potenza, nell'intuizione allegorica dei regni oltramondani e, soprattutto, nella raffigurazione del Paradiso. È nella Commedia, infatti, che il vocabolo si dispiega in tutte le sue possibilità e diventa voce determinante della complessa invenzione del mondo dantesco. Come muovendo dal concetto di Bonaventura secondo cui la terra è l'opaco e il cielo la l., e tenendo fermo il fondamento della l. quale " affectus " efficace - come dice s. Tommaso - " ad producendum intelligibilium cognitionem ", D. ha ordinato attraverso la figurazione sensibile consentita dall'allegoria, gl'infiniti gradi che separano la l. dalla tenebra.

Accertate, nell'ordine delle corrispondenze morali e spirituali del vocabolo, le identità tra l. e perfezione da una parte e tra tenebra e peccato dall'altra (Pg VII 49-60, Pd VII 79-81), D. le ha espresse nella letterale rappresentazione di luoghi oscuri con creature ottenebrate, e di luoghi in progrediente illuminazione con creature sempre più perfettibili e raggianti; ha, cioè, raffigurato, nell'ordine ideale del poema, tre vaste visioni: quella dell'oscurità abissale, quella della montagna in lume di sole e quella, infine, degli splendori celesti. In tale ordine la l. ha il suo seme stesso nell'invenzione dell'Inferno il quale è loco d'ogne luce muto (If V 28) più nel senso traslato che in quello strettamente letterale. Di fatto, la gradualità stessa delle pene propone all'immaginazione del lettore un diverso grado di tenebra (If IX 28) e questo fa capire che, malgrado i puntuali richiami alla cecità dell'abisso (IV 151, XII 86, XXXII 16, ecc.), si diffonde per la voragine una condizione di fioco lume (III 75), un tenebrore che fa pensare a luoghi dove è men che notte e men che giorno (XXXI 10). In realtà, tra il fondo e i primi piani dell'Inferno, trema un'atmosfera: un respiro di aria che trapassa e avvolge l'abisso. È l'aria degli elementi in travaglio; riverberi che irrompono dalle acque, dai vapori, dal fuoco. Perché veramente D., nell'invenzione strutturale dell'Inferno, ha ideato, e consapevolmente disposto, tre grandiose fonti di lume abissale: i fiumi, le fiamme, la palude ghiacciata. Intorno a queste sorgenti di riflessi che lampeggiano per la voragine richiami indefiniti, si raccoglie tutta la materia della cantica.

Il corso avvolgente e attraversante delle acque; la dispersione del fuoco in arche roventi, in falde, in fiamme, in vapori; l'irrompere dell'aria vetrigna del Cocito su per le bugne del pozzo dei giganti, tutto questo stabilisce il tipico aere perso dell'Inferno. Una temperanza di l. oblique e di gravi vapori che si smuove dal fondo cieco dei luoghi verso i primi piani e allenta la densità del nero in toni nebbiosi e rossigni. Riverberi di fuoco e nebbia sono gli accenti dominanti dell'Inferno. La qualità drammatica della poesia della prima cantica si spiega pensando a questa condizione della l.: le visioni di maggiore sgomento, il terrifico di certe apparizioni - Gerione, i serpenti, Betrarm dal Bornio, i giganti, ecc. - prendono forza fantastica da quel dissiparsi puntuale delle tenebre che provoca subiti riconoscimenti e svela impreveduti orrori. Tutte le figure dell'Inferno hanno dietro di loro quest'atmosfera che si sfalda sui contorni della persona e dei gesti.

La più singolare intuizione di D. risulta, in realtà, la scoperta della potenza figurativa dell'ombra, e questo si dimostra, per potenti effetti di paesaggi e di figure, fino alla natural burella: fino a quel punto del viaggio, cioè, in cui la temperie abissale perde tono e densità ai primi annunzi del chiaro mondo (If XXXIV 134). Da questo punto e quindi per la rappresentazione delle regioni della montagna fino alla figurazione delle plaghe celesti, la l. diventa una condizione sempre più determinante nel senso fisico e in quello traslato. Nella concezione del Paradiso essa è, ormai, l'unico purissimo instrumentum operandi. E lo stesso dissidio tra la conchiusa perfezione dei cieli e la tentazione dell'uomo a prevaricarne la geometria nell'ansia di un'eternità senza limiti, cerca la sua conciliazione nelle possibilità della l. la quale definisce le forme ma trama, nel tempo stesso, prospettive incommensurabili. Tutto questo riflette un'acquisizione sempre più vasta e determinante dei valori semantici della voce e una loro storia rintracciabile nell'arco crescente del pensiero dantesco.

A commento di un passo della seconda canzone del Convivio (v. 77 Tu sai che 'l ciel sempr'è lucente e chiaro) D. si richiama al De Anima di Aristotele per precisare che, contrariamente a quanto accade per le cose comuni, quelle cioè che si possono percepire con più sensi, la l. - proprietà dei corpi celesti - si può comprendere solo con la vista (cfr. Cv III IX 5-6). Derivano da essa, secondo una distinzione accolta da Avicenna, il lume che è l'effetto più immediatamente connesso alla sorgente (fontale principio, Cv III XIV 5, e anche IX 6) e il ‛ raggio ' il quale è un lume che viene dal principio de la luce per l'aere infino a la cosa illuminata (II VI 9), che è quanto dire dal principio al primo corpo dove si termina; quando poi il lume è in altra parte alluminata ripercosso si chiama splendore (III XIV 5), e basta, per intenderne il significato, l'esempio della l. solare i cui raggi si riverberano variamente sui corpi (VII 3 ss.). E tale riverbero vale anche in senso spirituale: Beatricelume... tra 'l vero e lo 'ntelletto (Pg VI 45) è isplendor di viva luce etterna (XXXI 139), cioè isplendor di Dio (Pd XXX 97).

Connessi a quello della l., e dei suoi naturali attributi, sono anche il concetto del colore e la definizione fondamentale di bianco e di nero, secondo la quale il nero denota l'assoluta mancanza della l. (lf V 51) e il bianco è colore pieno di luce corporale (Cv IV XXII 17). Il bianco, anzi, costituisce la misura per gli altri colori: in coloribus omnes albo mensurantur; nam visibiles magis dicuntur et minus, secundum quod accedunt vel recedunt ab albo (Ve I XVI 2).

Per estensione retorica, il vocabolo designa anche l'insorgere di una fonte luminosa (If III 134 balenò una luce vermiglia), le stelle (Pg I 37 Li raggi de le quattro luci sante, XXIX 91 sì come luce luce in ciel seconda), la vista e le facoltà visive (Pd XXI 30 nol seguiva la mia luce; If X 100 come quei c'ha mala luce; Pd XVIII 55 e vidi le sue luci tanto mere; XXIII 91 ambo le luci mi dipinse), lo scioglimento di un dubbio (Pg XXVIII 80 luce rende il salmo Delectasti) e, infine, impersona l'essenza spiritualmente illuminante di personaggi come Virgilio (Pg VI 29 El par che tu mi nieghi, / o luce mia) e Beatrice (Pg XXXIII 115 O luce, o gloria de la gente umana).

D. ha raffigurato gli effetti e i fenomeni della l. secondo l'ordine fisico e secondo quello metafisico. Ha avvertito che la l. passa senza alcun ostacolo attraverso i cieli in quanto corpi diafani (Pg III 29-30) e su questo transito ha costruito la teoria della virtù (spirto) che muove dal corpo solido delle stelle (Cv II Voi che 'ntendendo 12-13) seguendo la traiettoria dei raggi che sono appunto la via per la quale discende la loro vertude in queste cose di qua giù (Cv II VI 9).

Nell'ordine dei fenomeni terrestri la l. ha suggerito a D. immagini e similitudini tra le più celebri del poema: dalla solitudine notturna del viaggio di Ulisse su cui si accendono tutte le stelle... de l'altro polo (If XXVI 127) a quel cielo d'alba reso luminoso dal fulgore di Venere (Pg I 13-21); da Trivia che ne' plenilunii sereni /... ride tra le ninfe etterne (Pd XXIII 25-26) al raggio di sol che filtra per fratta nube, sopra un prato di fiori (vv. 79-80).

Un effetto particolare è quello della fonte luminosa attraverso vapori (Pg XVII 4-6) o, ancora, quello delle forme reali che affiorano lentamente all'occhio col dissiparsi della nebbia (If XXXI 34-36).

In due luoghi del Paradiso (XII 9, XIX 4-6) si fa cenno alla rifrazione della l., e in Quaestio 82 il fenomeno riferito all'acqua è spiegato come conseguenza della convessità della superficie liquida (frangitur radius rectus rei visibilis inter rem et oculum a convexo aquae). Il rapporto tra la l. e l'acqua suggerisce comunque una certa varietà d'immagini sui riflessi della l. nell'acqua: bagli un foco acceso, / com'acqua per chiarezza fiamma accende (Rime XC 26-27); quando da l'acqua o da lo specchio / salta lo raggio a l'opposita parte, / salendo su per lo modo parecchio / a quel che scende (Pg XV 16-21); ne ricevette, com'acqua recepe / raggio di luce permanendo unita (Pd II 35-36); come raggio di sole in acqua mera (IX 114).

Dell'arcobaleno, alcune volte personificato in Iri (la figlia di Taumante, / che di là cangia sovente contrade, Pg XXI 50-51), D. ha dato anche una ragione scientifica quando, immaginando l'irraggiarsi della virtù formativa dell'anima dopo la morte del corpo, paragona il prodursi di quell'attività al fenomeno dell'arcobaleno, cioè all'aere che quand'è ben pïorno, / per l'altrui raggio che 'n sé si reflette, / di diversi color diventa addorno (Pg XXV 91-93). Anche le liste dei sette candelabri della processione edenica rammentano quei colori / onde fa l'arco il Sole e Delia il cinto (XXIX 75-79); ma il fenomeno, per la sua poetica suggestione, ispira luoghi del poema più degni di memoria (la similitudine dei due archi paralelli e concolori, Pd XII 10-18; i cerchi che nella sostanza del lume divino sembrano riflettersi l'un da l'altro come iri da iri, XXXIII 118-119).

Il Paradiso, in cui si assommano e definiscono poeticamente tutte le precedenti proposizioni speculative del pensiero dantesco, è un vasto campo di prelievi per le accezioni del vocabolo. Tuttavia, il rapporto tra semantica e allegoria sembra qui assottigliarsi fino all'assorbimento di ogni distinzione in quell'identità l.-Dio dalla quale discendono i concetti di l.-intelletto, l.-perfezione, l.-grazia, ecc., che formano il tessuto teologico e poetico della cantica.

Nel Paradiso tutto è meraviglia di forme e di congegni luminosi. Il trapassare da stella a stella non è sensibile (per tempo non si sporge, X 39), ma si rivela per un trasmutare della l., per lo splendore sempre più vivo della guida. Dio, sole spirituale e intelligibile (Cv III XII 6), la luce che sola se medesima vede compiutamente (II V 11), è simboleggiato in un punto d'insostenibile luminosità: un punto vidi che raggiava lume / acuto sì, che 'l viso ch'elli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume. (Pd XXVIII 16-18). Quel punto opera per modo di diritto raggio sopra le Intelligenze e queste riverberano la ‛ luce prima ' sulle altre cose (Cv III XIV 4; Pd II 139-148). Nel suo raggiare e moltiplicarsi la viva luce non si disunisce, ma restando eternamente una (Pd XIII 55-60) per l'universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove (I 1-3; cfr. II 112-148, XXXI 22-24, Cv III XII 7, Ep XIII 53, 60-61).

Dei cieli, che hanno natura lucente (Cv III Amor che ne la mente 77-78; Pd XXIII 102, XXVII 112), il più luminoso è l'Empireo in quanto è lo luogo di quella somma Deitade che sola [sé] compiutamente vede (Cv II III 10; cfr. If I 126-128). Esso è la suprema spera (Pg XV 52; Pd XXIII 108) che più prende della l. di Dio (Pd I 4; Ep XIII 69-72) ed è, pertanto, ciel ch'è pura luce: / luce intellettüal, piena d'amore (Pd XXX 39-40).

Creati insieme con i cieli e la materia (Pd XXIX 16-47) gli angeli (o Intelligenze) distinti in nove cori o sussistenze (XIII 58-60) ricevono e irraggiano la l. di Dio la quale si conforma alla condizione dell'ordine angelico a cui s'appaia (XXIX 136-138).

Sotto l'aspetto figurativo, la natura lucente degli angeli è un motivo di vario interesse nella poesia della Commedia. Nel Purgatorio D. ha raffigurato gli angeli con tonalità che si conformano alla condizione dei luoghi e delle situazioni. C'è l'angelo della navicella con quel fulgore di bianchi che riprendono il motivo stellare dell'alba (Pg II 13-24); ci sono gli angeli della valletta dei principi i cui colori - il verde tenero delle ali e il biondo delle teste - sembrano accordarsi alla varietà cromatica delle erbe e dei fiori; ci sono, infine, gli angeli che appaiono nelle varie cornici, e che istituiscono con la loro chiarità (XV 10-30, XVI 142-144, XXV 136-139) un suggestivo confronto con il fondo cinereo della montagna. Mentre gli angeli del Purgatorio rammentano da vicino la figurazione di Daniele (" facies eius velut species fulguris, et oculi eius ut lampas ardens ", 10, 5-6), quelli del Paradiso formano uno splendido motivo luministico dentro la trasparenza dei cieli: le loro facce sono di fiamma viva, l'ali d'oro e bianca più che neve la veste, e pur nel tripudio di tanta moltitudine volante ognuno di essi appare distinto di fulgore e d'arte (Pd XXXI 13-15, 19-21, 130-132).

In ordine alla sua essenza, la l. agisce nei congegni paradisiaci secondo un principio che è proporzionale alla qualità e finalità delle operazioni spirituali. Ed è un principio che, discendendo dalle supreme strutture, si articola e si dimostra nella rappresentazione dei beati il cui splendore, ancora in forma di alone luminoso nel secondo cielo (Pd V 106-108), progredisce in intensità, secondo i meriti e la conseguente allegrezza delle anime, fino ai fulgori fiammeggianti del settimo. Qui le anime uguagliano la chiarità de la fiamma alla limpidezza della visione di Dio (Pd XXI 83-90).

Alla fine (XXX 88-117), il ritmo della l., la quale si è variata e infinitamente moltiplicata (XXVIII 93) in fulgori e baleni per nove cieli, si compone e pacifica nella grandiosa armonia di un lume disteso in circular figura. E in questa immagine - suprema nell'ordine fisico e in quello spirituale - vengono ad assommarsi tutte le più dichiarate o riposte accezioni del complesso vocabolo dantesco.

Bibl. - G. Busnelli, Il concetto e l'ordine del ‛ Paradiso ' dantesco, Città di Castello 1911-12; F. Olivero, La rappresentazione dell'immagine in D., Torino 1940; G. Getto, Aspetti della poesia di D., Firenze 1947; A. Sacchetto, Il gioco delle immagini in D., ibid. 1947; L. Malagoli, Linguaggio e poesia nella D.C., Genova 1949; C. Singleton, Commedia: Elements of Structure, Cambridge Mass. 1949; G. Di Pino, La figurazione della l. nella D.C., Firenze 1952; Y. Batard, D., Minerve et Apollon. Les images de la ‛ Divine Comédie ', Parigi 1952; M. Barbi, Allegoria e lettera nella D.C., in Problemi fondamentali per un nuovo commento della D.C., Firenze 1956, 115-140; I. Brandeis, The ladder of Vision, Londra 1960; G. Petrocchi, Itinerari nella ‛ Commedia ', in " Studi d. " XLI (1964) 55-73 (rist. in Itinerari danteschi, Bari 1969, 7-24); F. Ulivi, L'esperienza figurativa nella Commedia, in D. e Giotto. Atti del convegno di studi promosso dalla Casa di D. in Roma, Roma 1968; G. Fallani, D. e la cultura figurativa medievale, Bergamo 1971.