LUCE

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1997)

LUCE

G. Federici Vescovini

Nel Medioevo la l. è stata considerata secondo angolazioni molteplici e diverse.

Religione della luce

Nelle religioni iraniche dualistiche, come lo zoroastrismo, il mitraismo e il manicheismo, e in quelle che subirono quest'influenza, come la gnosi cristiana, la l. è concepita come una sostanza divina. In particolare, nel mitraismo (Philipps, 1969), Mitra è un dio ario di natura solare, onorato come tale nella festa dell'estate avanzata (Mithrākana); egli ha tutti i caratteri del sole, occhio di Varuna, forza e vigore della terra. In questa religione, il fuoco, identificato con Vulcano, è la più elevata delle forze naturali; inoltre, come spirito di l. e calore, costituisce l'essenza dei quattro elementi, che così vengono a essere divinizzati.Nel culto della l. del sole rientrano anche l'astrolatria e l'astralismo, di cui è esempio il discorso Al re Sole di Giuliano l'Apostata (331-363; Bidez, 1930). La l. del sole e quella della luna furono in seguito privilegiate rispetto a quelle degli altri pianeti da parte di astrologi persiani, come Sa'dān Abū-Sa'īd Shādān, vissuto in Iran alla fine del sec. 9° e discepolo di Abū Ma῾shar. Negli Excerpta de secretis Albumasaris (Roma, BAV, Vat. lat. 4603, c. 109rb), nota operetta circolante nel mondo latino alla fine del sec. 13°, Sa'dān celebrò il sole e la luna come principi di vita di tutti i viventi, secondo un tema in seguito ripreso dai medici e dagli astrologi medievali, come Pietro d'Abano (ca. 1254-1315) nel Conciliator (diff. 10), Enrico Bate di Malines (1246-post 1310) e Pellegrino Presciani (fine sec. 15°-inizi 16°), dotto umanista e astrologo di Isabella d'Este Gonzaga (Federici Vescovini, 1987). Mitra, dio della l., non è solo divinità in sé, ma anche mesites, cioè colui che dimora nella zona intermedia, il mediatore tra la sfera divina e quella terrena, perché la l. trasportata dall'aria tutto penetra e vivifica.

Simbolica o mistica della luce

La l. è anche simbolo privilegiato del divino. La simbologia della l. è una caratteristica comune a tutte le religioni, in particolare alle teologie mistiche, sia veterotestamentarie, sia neotestamentarie, sia musulmane, ed è un elemento fondamentale del pensiero religioso medievale.Nelle opere di quest'ambito, la l., con tutti i suoi nomi derivati di 'splendore' e 'lucentezza' (splendor, claritas, lumen, radius, speculum, imago, reflexio) e gli aggettivi corrispondenti (lucens, radians, reflectens), è una nozione simbolica di grande rilievo. La l. come simbolo mistico è intesa per lo più come un'apparizione o un'espressione di una realtà sconosciuta, inesprimibile, che manifesta l'incongruità del simbolo rispetto alla cosa significata. La l. come simbolo mistico è un modo di accesso alla divinità, ma non è epifania del divino. In qualche caso, in alcuni mistici cristiani della l., soprattutto del sec. 12°, come Ildegarda di Bingen (Ep. V; Liber Scivias, Praef.; Liebeschütz, 1930; Meier, 1972) e Guglielmo di Conches (Dragmaticon, I; Philosophia mundi, I; Chenu, 1952; Gregory, 1955), l'attribuzione simbolica si fonda, ma non sempre ed esclusivamente, su un'analogia schematica, su una certa concordanza.Nel Medioevo la funzione e l'idea del simbolo erano diverse da quelle moderne, in quanto si fondavano sull'interpretazione dell'affermazione di s. Paolo "Videmus nunc per speculum in aenigmate" (1 Cor. 13, 12), che era stata estesa e dilatata fino ai misteri divini più alti. La l. e gli atti della visione apparivano come i simboli più adatti a esprimere una concezione misteriosa o enigmatica della realtà, per cui qualunque immagine non poteva limitarsi al suo significato immediato perché tutte le cose si estendono per un lungo tratto in un al di là, inconoscibile, enigmatico e misterioso.Nella mistica cristiana, rappresentata esemplarmente dall'opera del neoplatonico pseudo-Dionigi (fine sec. 5°-prima metà 6°) e da quella dei suoi seguaci, come i Domenicani tedeschi continuatori della linea platonica-neoplatonica procliana (Mojsisch, 1971; Hedwig, 1980) - quali Alberto Magno (sec. 13°), Ulrico di Strasburgo (m. nel 1278), Teodorico di Vriberg (ca. 1250-post 1310), Bertoldo di Moosburg (sec. 14°), Eckhart di Hochheim (ca. 1260-1328), la cui dottrina della l. fu ripresa in modo originale anche da Nicola Cusano, soprattutto nel De coniecturis e nel De visione Dei -, è sviluppato il simbolo della l. di Dio intesa come caligine luminosissima, tenebra accecante che non è né corpo, né figura, non è forma e non ha quantità o qualità o peso, non è in un luogo, non vede, non ha tatto sensibile, non è né anima, né intelligenza, non è numero, né ordine, né grandezza, non è sostanza, né eternità, né tempo, non è tenebra e non è l., non è errore e non è verità (pseudo-Dionigi, De div. nom., IV, 4-7; De myst. theol., I, 2-3; II-V).Lo pseudo-Dionigi trasformò l'idea dell'emanazione divina da questa l. inaccessibile che è oscurità luminosissima e che è sempre al di là in un concetto di 'partecipazione' della l. della realtà superiore da parte della l. dell'inferiore nella gerarchia celeste o angelica, rispecchiata poi nella gerarchia ecclesiastica, secondo una concezione di òrdine' delle luci partecipate che fu in seguito l'ispirazione di tutta una tradizione cristiana neoplatonico-dionisiaca di teofanie luminose e di cui si ha un singolare esempio nell'opera di Giovanni Scoto Eriugena (sec. 9°). La l., intesa come simbolo mistico, dello pseudo-Dionigi si trasformò in seguito, nell'approccio razionale di Tommaso d'Aquino e degli scolastici aristotelici, nel ragionamento per analogia, che procede per una semiosi di rinvio dagli effetti alle cause, in un gioco di giudizi di proporzione e non di folgorante similitudine.Questo simbolismo metafisico della l. aveva avuto radici anche nella bassa latinità, laddove Macrobio (secc. 4°-5°), nel Somnium Scipionis (I, 14), parlava delle cose come altrettanti specchi, in quanto riflettenti nella loro bellezza il volto unico della divinità. Questa tradizione mistico-simbolica della l. si trova grandiosamente svolta nel pensiero di Nicola Cusano (1401-1464), soprattutto nel De coniecturis, dove la figura piramidale della l. è impiegata come simbolo paradigmatico della realtà immaginata come una pyramis lucis et tenebrarum: paradigmatica perché è il modello figurato che permette di spiegare la partecipazione dell'unica l. nei moti dell'universo creato. Scrive Cusano: "Raffigurati una piramide di luce che avanza nelle tenebre, e una piramide di tenebre che avanza nella luce e riporta a questa figura ogni problema su cui stai indagando in modo che, guidato sensibilmente quasi per mano, possa rivolgere la tua congettura ai segreti più arcani" (De coniecturis, I, 10, 12). Cusano svolge qui anche un tema racchiuso nella metafisica simbolica della l. del Liber XXIV philosophorum o delle ventiquattro Regulae di Dio (sec. 12°) dello pseudoErmete, che alla propositio XXIV definisce la conoscenza di Dio in sé o per essenza come ignoranza, sulla base della mescolanza (ma anche della distinzione) della l. creata, mista a tenebre, con la l. divina increata, inconoscibile e splendente.Nicola Cusano sviluppa inoltre l'importante distinzione tra Dio, lux divina impartecipabile in sé, e lux contracta, che è la l. partecipata di Dio nelle nostre menti. La partecipazione delle creature a Dio è concepita come una contrazione luminosa, ossia come una concentrazione che è una limitazione della l. divina entro le potenzialità create, siano esse l'uomo o la natura (De dato patris luminum, I-II; De coniecturis, I-II; Federici Vescovini, 1995).La simbolica della l. nella mistica ebraica è particolarmente sviluppata nei testi cabalistici più antichi come il Libro brillante (Bāhir) e il Libro dello Zōhar (Sēfer ha-Zōhar) o Liber splendoris, opera a più mani di cabalisti spagnoli del 13° e soprattutto del 14° secolo. Si tratta di una simbologia veterotestamentaria per la quale si pensa che dall'essenza delle Sacre Scritture si irradi una l. mistica che brilla (bāhir) nella Scrittura, la quale è l'unico nome sublime di Dio. La l. è parola divina che risplende nell'intera Tōrāh. Questa concezione passa nei commenti dei diversi autori del Libro dello Zōhar, di cui la parte principale è attribuita a Mosè di León (1280-1286). Il Libro dello Zōhar ha stratificazioni diverse, tuttavia secondo alcune interpretazioni (Scholem, 1966, pp. 66-69) il nome di Jahvè è inteso contenere una potenza di l. che abbraccia anche le leggi e l'ordinamento armonico che regge tutte le esistenze. Si tratta dell'interpretazione in senso mistico di Gn. 1, 3, di Sal. 19 (18), 2, e di Es. 32, 20 (Scholem, 1966, p. 56). Si sviluppa una simbologia mistica del colore bianco, che è il giorno, o del fuoco bianco, che sono contrapposti alla notte, il fuoco nero che è l'oscurità senza l. (Scholem, 1966, p. 62).I cabalisti non trovano nella Bibbia una rappresentazione di pensieri filosofici, ma, attraverso la simbologia della l. dei versetti biblici, rintracciano una rappresentazione simbolica dei processi segreti della vita divina che si sviluppa anche nelle manifestazioni ed emanazioni delle sĕfīrōt. La l. è un linguaggio divino, di cui le sĕfīrōt sono gli attributi di l., le lettere o i nomi che ne simbolizzano la realtà. Le sĕfīrōt sono gli attributi della sfera della l., ma non sono sostanze, bensì segni, le lettere e i caratteri con i quali i nomi divini sono formati. La qabbālāh compie pertanto un'esegesi simbolica e non analogica della Tōrāh, per cui nel libro l. e mistero sono identici (Scholem, 1966, p. 75). L. viene da or ed è intesa come splendor (Zōhar). I cabalisti hanno creato un mondo di simboli luminosi, tra cui quello dell'albero delle dieci sĕfīrōt, delle porte della l. del paradiso (Pardes), della fiamma della l. dell'origine, con cui il Libro dello Zōhar (I, 15) spiega la creazione per cui "una fiamma di luce splendente fa nascere colori brillanti e insieme nasconde nel suo recesso più profondo una sorgente segretissima che cela i misteri più riposti dell'Infinito"; questa fonte rimane del tutto sconosciuta fino a che la potenza della sua forza debordante rischiara il punto più alto e più nascosto.Al di sopra di questo punto toccato dallo splendore non vi è niente di riconoscibile. Esso è l'Infinito inconoscibile in sé (eEn-Sōf), che è la radice sconosciuta di tutte le radici. Queste opere sviluppano dunque l'idea del punto come energia luminosa, che divenne in seguito così feconda in tutta la speculazione simbolica religiosa della l., come in Nicola Cusano o nei neoplatonici del 14° e 15° secolo. Inoltre questa tradizione cabalistica lega la concezione della visione e del vedere anche al simbolo dello specchio, per cui la l. divina non risplende mai in sé, ma nel volto di Mosè specchio di Dio e quindi in tutte quelle realtà spirituali che sono le sĕfīrōt, attributi di Dio. In alcune elaborazioni successive esse furono concepite come specchi dello splendore divino, racchiudendo l'idea della reciprocità della riflessione della l.: le luci speculari riflettendosi l'un l'altra producono i diversi mondi. La rottura di questi specchi avverrà quando la l. dello specchio inferiore non sarà capace di reggere l'intensità della l. degli specchi più alti e provocherà quei frammenti di l. che costituiscono la diversità, la molteplicità e il male del mondo negli individui. Così le sĕfīrōt che nella tradizione del Libro della creazione (Sēfer Yĕṣīrāh) rappresentano solo i primi dieci numeri primari, nel Libro brillante e nel Libro dello Zōhar sono rappresentate come raggi di l. riflettente che si irradiano da un centro luminoso che è l. e splendore, non come essenza divina, ma come prima manifestazione dell'eEn-Sōf, l'inconoscibile (Bloom, 1975).

Filosofie della luce

La tradizione filosofica della l., che anche nel mondo greco aveva la sua lontana origine nella religione persiana e che adorò in Mitra lo spirito della l. (Cumont, 1902; 1906; Turcan, 1975), fa della l. una realtà privilegiata di natura incorporea che finisce per fare da tramite tra Dio, le regioni superiori del mondo e l'uomo. Le caratteristiche generali di questa concezione filosofica della l. sono una contaminazione di dottrine religiose persiane e iraniche di Dio concepito come l.: la l. è Dio, oppure è da Dio. Venendo da Dio essa fa da tramite tra il mondo incorporeo e il mondo corporeo e rappresenta una teofania del divino nelle sue diverse manifestazioni, come le Intelligenze, il Verbo-Cristo, l'uomo e la natura.

Metafisica della luce

La concezione filosofica della l. come sostanza spirituale divina intelligibile è introdotta nella filosofia occidentale da Platone, che paragona la l. intelligibile dell'idea del bene a quella originaria della l. del sole che fa essere e fa conoscere le cose illuminandole (Repubblica, 508B-509B). Il paragone tra la triade sole-vista-visibile e quella costituita da l.-bene, intelletto-idee e realtà è costante nella tradizione platonica e si sistema nel medioplatonismo come una delle vie possibili per giungere a Dio (Rudberg, 1942). La l. intelligibile esprime il concetto in cui si fondono Dio ΝοῦϚ, pensiero di pensiero di Aristotele e il mondo platonico delle idee.Nel Didaskalikós tón Plátonos dogmáton del medioplatonico Albino di Smirne (sec. 2°; Hermann, 1976; Napolitano Valditara, 1994) avviene una contaminazione tra la concezione della l. come illuminazione dell'idea del bene di Platone e il passo della Metafisica (1074B, 1-20) di Aristotele, in cui la divinità è concepita come pensiero di pensiero e, così, come ΝοῦϚ. Successivamente con Plotino (sec. 3°) e la sua filosofia della l. Dio viene posto al di sopra di ogni intelletto e di ogni essenza e, quindi, una tale l. è posta al di sopra di ogni atto intellettivo e dello stesso ΝοῦϚ: torna il tratto dell'accecamento dell'occhio impotente di fronte alla piena solarità della luce. La descrizione dell'espandersi attivo di questa fonte di luminosità che si irradia senza impoverirsi costituì in seguito il fondamento della dottrina della l. come metafisica della l., ossia di quella dottrina che intende la l. come forma incorporea, spirituale della corporeità. Era stato Plotino che nelle Enneadi (IV, 5, 4) aveva stabilito che la l. non è corpo, è incorporea (II, 1, 7; IV, 5, 7), non è qualità, ma forza attiva (IV, 5, 6-7), è lo splendore della bellezza (I, 6, 9); anche se si mescola al corpo producendo il colore (IV, 5, 7), la l. dei corpi luminosi è un'essenza che corrisponde all'essere formale di questi corpi ed è sempre incorporea, anche se appartiene ai corpi. Qualora questa nozione sia estesa a Dio, uno e primo che è al di là dell'intelletto e di ogni l. dell'anima, essa esprime lo svelamento di Dio. Quando l'anima coglie improvvisamente la l. folgorante, l'anima coglie Dio, "poiché questa luce proviene da Lui, o meglio è Lui stesso [...] E così: un'Anima non illuminata è priva di Dio; ma se è illuminata, possiede ciò che cercava. Questo è il vero fine dell'Anima: toccare quella luce e contemplarla mediante quella stessa luce" (V, 3, 17).Le metafisiche della l. dei secc. 12° e 13° sono fondate sul concetto che la l. è sostanza spirituale. Per i filosofi cristiani questa l. come sostanza spirituale è la forma delle cose corporee e non di Dio, fatte alcune eccezioni, come Scoto Eriugena, per il quale è la manifestazione della natura divina. Secondo Roberto Grossatesta (sec. 13°), la l. è forma della corporeità; è principio originario, per sé, che si diffonde istantaneamente e irradiandosi genera le forme come tante sfere di l. ("Lux ergo quae est previa forma in materia prima creata, seipsa per se ipsam undique infinities multiplicans [...] Formam primam corporalem, quam quidem corporeitatem vocant, lucem esse arbitror", De luce). Tutta quanta la realtà si configura pertanto come una differenziazione di esseri e di forme che seguono il modo di diffondersi della l., cioè per diffusione radiale o per radios, in linea retta. Siccome tutte le cose sono tali per la percezione di un'unica l., questa l. è più perfetta, spirituale e divina a mano a mano che ci si allontana dal mondo sublunare e ci si avvicina alla sorgente (De luce). All'origine essa è causa prima: "Possibile est contemplari lucem primam que est causa prima" (In Analytica Posteriora, I, 7).Una metafisica teosofica della l., d'ispirazione persiana e indiana, è la teologia della l. òrientale', o teosofia orientale, che è concepita come una risurrezione della sapienza dell'antica Persia. Le grandi figure che dominano questa dottrina sono Ermete, Platone e Zoroastro/Zarathustra. Questa teosofia della l. fu elaborata dal filosofo iraniano Shihāb al-Dīn Yaḥyà Suhrawardī (da non confondersi con i suoi omonimi 'Umar e Abū Najīb Suhrawardī), nato intorno al 1155 nell'antica Media. Egli si ricollega ad Avicenna e alla sua filosofia orientale per la nozione di Oriente o lumen orientale, ma si spinge più avanti in quanto sviluppa l'idea che la sapienza viene da una l. che nasce (oriens), ossia che è primeva od originale.Questa dottrina della l. fu rivelata agli antichi Persiani direttamente da Dio stesso. Secondo questa testimonianza, il capo indiscusso di questa scuola degli 'Orientali' è lo stesso Suhrawardī che risuscitò le dottrine dell'antica sapienza persiana che riguardavano i principi della l. e delle tenebre. Suhrawardī avrebbe ammirato la dottrina della l. dei platonici e per questo gli fu dato anche il nome di Platone di Persia (Corbin, 1964, p. 287). Questa filosofia della l. orientale ha analogie anche con la dottrina del buddismo tendai della natura illuminata (Marchianò, 1994) ed è incentrata su concetti filosofici-metafisici-gnoseologici: la l. è intesa come illuminazione che si manifesta come rivelazione di una sapienza che sgorga da una fonte divina nell'atto conoscitivo che la svela entro l'uomo, 'l'uomo di l.' (Corbin, 1971); come nel mondo sensibile il termine lux orientalis designa la l. pura del mattino che sorge, allo stesso modo questo termine designa la sfera intelligibile. La filosofia orientale della l. è una dottrina fondata sulla presenza dell'apparizione mattutina delle l. intelligibili nell'anima del sapiente; si tratta quindi di una filosofia della l. che posa su di una visione interiore e una esperienza mistica, di una conoscenza che si origina all'Oriente delle pure Intelligenze, quindi come conoscenza orientale. Questo concetto di l. o di lume orientale non designa tanto una zona geografica, quanto la conoscenza originaria, mattutina, che nasce da una rivelazione interiore e mistica della l. divina.Nel Medioevo latino cristiano il concetto di lumen orientale si ritrova nelle teologie mistiche dionisiane ed è stato studiato in particolare da Chenu (1957, p. 298). Inoltre, l'idea di Oriente della l. si ritrova nel Medioevo latino alla base del concetto di conoscenza 'mattutina' degli angeli, discussa dai teologi medievali come Tommaso e gli Agostiniani, e nei testi alchemici per il concetto di Aurora consurgens, che significa conoscenza quae est orientalis perché è essa stessa l'Oriente o anche l'orientamento della conoscenza. Essa si trova dentro l'uomo di l. o uomo della natura perfetta che è infusa dall'alto e nascosta in lui.

Alchimia della luce

Nel testo alchemico medievale Aurora consurgens (sec. 14°-15°; Zurigo, Zentralbibl., Rh. 172), la sostanza attiva del sole è una realtà benefica. Questo sole alchemico è meno una sostanza definita che una virtus o potenza misteriosa alla quale è attribuita un'azione di generazione e di trasformazione. Come il sole fisico illumina e riscalda l'universo, esiste nel corpo umano un arcano solare da cui sgorgano il calore e la vita. La potenza meravigliosa del sole alchemico deriva dal fatto che esso contiene in sé tutti gli elementi semplici come il cielo e i corpi celesti, per cui il sole in definitiva è un unico elemento ed è la quintessenza. In Aurora consurgens si ha l'idea di un fuoco o di una l. o sole primordiale che è una potenza diffusa in ogni luogo, che tutto lega, fa crescere e che è ovunque, nell'uomo come nelle piante e nel cielo. Soprattutto nell'uomo 'illuminato' o uomo di l., questo sole può generare l'oro dell'alchimia spirituale: è l'uomo dalla natura perfetta descritto anche nel manuale di magia medievale del sec. 12°, conosciuto nel Rinascimento come Picatrix e largamente utilizzato anche da Marsilio Ficino. L'opera prodotta dall'oro o dalla l. alchemica è meravigliosa e realizzata grazie a una natura abscondita, realtà di l. divina nascosta che non è percepita dagli occhi esteriori, ma solo dalla pura mente. Essa è infusa dall'alto del cielo, coelitus infusa (Aurora consurgens, I, 10, 5; Jung, 1980, pp. 136-137). Quindi il sole alchemico o oro filosofico non è né l'oro volgare, né il sole fisico, ma designa una sostanza luminosa o essenza attiva dotata come la l. di capacità di irradiazione che è una virtù magica e trasformatrice di tutta la realtà. Secondo Picatrix (I, II, 15) la l. è lo spirito di Dio che discende su tutte le forme dalle più basse alle più alte, le Intelligenze, i cieli, gli astri, le anime, le nature animali e vegetali. Nella concezione alchemica della l. di Aurora consurgens si sviluppa l'idea che l'oro o la pietra filosofale o il sole o il fuoco alchemico traducano la ricchezza spirituale dell'anima dell'operatore, in cui si trova nascosta la sapienza originaria, per cui essa è l. di rivelazione e di bellezza estratta con travaglio e fatica dalle tenebre della condizione umana. Il processo dall'ombra alla l., dal piombo all'oro, intende ripercorrere i tempi divini della genesi, della creazione del mondo attraverso l'azione irradiante della l., secondo il Fiat lux di Gn. 1, 3.

Teofania della luce

I filosofi cristiani, ebraici e musulmani del Medioevo elaborarono in senso biblico sia vetero-testamentario sia neotestamentario il tema neoplatonico plotiniano (poi ripreso anche da Proclo e dallo pseudo-Dionigi suo discepolo cristiano) della l. come realtà spirituale che emana e irraggia, che in definitiva manifesta la realtà divina, 'senza' stabilirne l'essenza, che è sempre al di là e inconoscibile. I filosofi platonico-neoplatonici sia cristiani, come Agostino d'Ippona (354-430), Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274) e i Francescani successivi, sia ebraici, quali Isacco Giudeo (sec. 9°-10°), Abrāham ben Ḥiyyā, noto come Abramo Savosarda (sec. 12°), e Ibn Gĕbīrōl, detto Avicebròn (sec. 11°), sia musulmani, come Abū ῾Alī Ibn Sīnā, detto Avicenna (sec. 10°-11°), e al-Ghazzālī (sec. 11°-12°), svilupparono un'idea della l. come noetica, per cui la l. è una realtà spirituale che costituisce la sostanza divina della natura umana, come possibilità intelligente e intelligenza da un lato, e dall'altro come forma della materia. Questa realtà spirituale si ordina pertanto in gradi e in gerarchie di luci, che sono le Intelligenze, le quali manifestano come teofanie la realtà divina.Abramo Savosarda, filosofo, matematico, astrologo e teologo neoplatonico, vissuto in Spagna alla metà del sec. 12°, sviluppò il tema del Fiat Lux e di Sal. 19 (18), 2 ("i cieli narrano la gloria di Dio e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento"). La l. è la rivelazione dell'opera di Dio che si concentra soprattutto nel firmamento e nelle sfere celesti dei cieli planetari, retti, secondo una concezione neoplatonica, da Intelligenze angeliche che sono i motori delle sfere celesti e che muovono dal di fuori e dall'alto (Liber de redemptione Israel, Prol., 5). Si origina da questa impostazione filosofico-neoplatonica (Federici Vescovini, 1991) della l. biblica creata una visione astrologica per cui dalle Intelligenze dei cieli, che sono poi gli angeli del Signore, partono influssi di l. che reggono il mondo con il loro soffio. Nell'angeologia ebraica mistico-magico-astrologica, così come esposta nei libri di Salomone, quale il Liber Razielis, queste Intelligenze o spiriti celesti hanno nomi diversi (Federici Vescovini, in Pietro d'Abano, Lucidator, p. 71; Secret, 19852, pp. XII, XIV). Pietro d'Abano chiama queste luci angeliche, che sono le Intelligenze dei pianeti, con i nomi della tradizione ebraica, probabilmente rifacendosi a questo filone neoplatonico astrologico: il primo angelo di l., che è l'intelligentia Saturni, si chiama Cassiel; la l. "secunda intelligentia Iovis, Sachiel; tertia Martis, Samael; quarta Solis, Michael; quinta Veneris, Anael; sexta Mercurii, Raphael; septima vero Lunae, Gabriel" (Conciliator, diff. 9, propter tertium). E questo perché gli angeli di l. o le Intelligenze celesti sono sette come i sette pianeti.Una formula di invocazione dei nomi di questi sette angeli o spiriti di l. planetaria si trova nel testo di magia Picatrix (IV, VII); per essa si compiono operazioni magiche servendosi di specchi che imprigionerebbero queste luci.Anche per l'altro grande filosofo neoplatonico ebraico Ibn Gĕbīrōl, conosciuto dai latini come Avicebròn, autore di un'opera che esercitò una grande influenza nella filosofia medievale, il Fons vitae, la l. è la forma della materia, come forma dei corpi. La materia pertanto si costituisce come forma luminosa perché tutta la realtà è una compenetrazione e diffusione di l. da una sorgente prima: "cum autem penetratio luminum pertingit usque ad materiam corporalem, tunc apparet lumen et manifestatur sensui propter crassitudinem materiae corporalis" (Fons vitae, IV, 20, 254, 21; III, 16, 113, 8; Schlanger, 1968, p. 256). Le forme si originano per un flusso (fluxus) di l. che sgorga dalla prima fonte e si irradia come la l. del sole (Fons vitae, III, 16, 112, 25).

Luce come teofania della natura divina

Secondo il filosofo neoplatonico cristiano Giovanni Scoto Eriugena, la l. che si manifesta nella natura è la manifestazione di Dio nel mondo, la sua teofania. Essa è un processo che da Dio discende nell'uomo con la creazione per ritornare attraverso l'uomo a Dio con l'amore. L'essenza divina è infatti inconoscibile e si manifesta solo nella l. visibile delle cose create, come teofania del divino, rendendosi così visibile anch'essa (De divisione naturae, I, 10; V, 23). Infatti Dio è per Scoto "Lux cuius per excellentiam tenebra nominatur, quoniam a nulla creatura quid vel qualis sit, comprehenditur" (Hom. Prol. Iohan., XIII).Dio è così intelligibile come l. trina, trina lux (Expositiones in Ierarchiam caelestem, I, 1, 67), nella Trinità e quindi in Cristo, l. divina per eccellenza: "omnia in Verbo Dei non solum aeterna, verum etiam ipsum Verbum esse" (De divisione naturae, III, 8). Così Scoto interpreta il passo di Gn. 1, 3 come "processio primordialium causarum in suos effectos". Queste luci che manifestano Dio ("Deus apparens in theophaniis") non appaiono tuttavia con la stessa intensità di l. (splendor o claritates), ma le luci si distinguono in lumi più opachi a mano a mano che si allontanano dai lumi intelligibili. Così Scoto, interpretando il prologo del vangelo di Giovanni, "Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo" (Gv. 1, 9), introduce una distinzione tra la lux divina della Trinità o di Cristo e la l. dei lumi più bassi dei cieli, degli intelletti e della natura (Hom. Prol. Iohan., XVIII). Questa distinzione si ritrova in seguito come tema ricorrente, esposto, discusso e interpretato in vario modo dai filosofi e teologi medievali cristiani che si interessarono della l. corporea, fisica, creata rispetto alla l. divina. Così secondo Scoto Eriugena la l. sottilissima è quella delle Intelligenze, dell'intelletto e della ragione e costituisce la natura degli angeli; il mondo corporeo invece è costituito da lumina, lumi di chiarore diverso: "sublimissima lux, intellectus videlicet et ratio, in consortio angelicae naturae constituta est" (De divisione naturae, V, 10).

Luce come Verbo divino

Nella tradizione platonico-neoplatonico-cristiana biblica, Agostino, interpretando il libro della Genesi (De Genesi ad litteram, IV, 28) e il prologo del vangelo di Giovanni (Tract. in Iohan., I, 5), intende Cristo (Lógos) come parola di vera l. di conoscenza, di vita e di salvezza (lux crucifixa). La vita di Cristo è la l. degli uomini, la cui illuminazione è la nostra partecipazione del Verbo: "illuminatio quippe nostra partecipatio Verbi est, illius scilicet vitae quae lux est hominum" (De Trinitate, IV, 2, 4; Thonnard, 1962). Soprattutto Agostino elabora quel concetto di Dio Cristo, vero Dio, come sostanza di vera l. per il quale Cristo si dice l. propriamente, e non in senso figurato come si dice l. della pietra: "Neque enim et Christus sic dicitur lux, quomodo dicitur lapis: sed illud proprie, hoc utique figurate" (De Genesi ad litteram, IV, 27, 14). La speculazione veterotestamentaria sulla parola (Lógos) di Dio che è l. dell'uomo viene così rafforzata e superata con l'asserzione che il Lógos, Verbo eterno e Dio egli stesso, è vita e perciò l. dell'uomo. Se si aggiunge che questa parola e questa l. sono diventate carne in Gesù, si afferma una profonda unità dei due ordini per Cristo mediatore (l. che media) in contrapposizione al dualismo gnostico di l. e tenebre del mondo. La vita data nella creazione è l., e non contempla se stessa, ma la vera realtà: cioè vive nella soggezione a Dio in ubbidienza alla sua parola. Pertanto il mondo non è tenebra, quasi che le tenebre e il mondo fossero una potenza a sé stante e contraria a Dio (come nelle posizioni dualistiche gnostiche sia ebraiche sia cristiane); per esse il mondo si fa tenebra quando si chiude in se stesso o si rifiuta di farsi illuminare dalla parola di Dio, respingendo così la vera vita. Invece l'uomo deve cercare la gloria di Dio che è la l. vera di Dio che risplende nella sua parola.Nel prologo del vangelo di Giovanni e nei commentari dei padri e dei teologi scolastici, la l. è privata del suo significato naturale e portata al suo più alto significato spirituale.Nella teoria gnostica della l. essa appare una potenza cosmica, mentre nella religione greca e in quella biblica non importa che si sia nella l., ma che si abbia dentro di sé la l. che è la forza dell'immortalità (Bultmann, 1948). Illuminare non significa tanto 'porre nella l.', quanto 'riempire di l.' come invece accade nei riti misterici dell'illuminazione gnostica. In tale dualismo gnostico, il cosmo appare come la presenza del male inteso come tenebra contrapposta alla l. che è divina (pléroma tés kakías) e la redenzione assume un significato radicalmente anticosmico come ritorno alla luce.

Culti della luce

Il cristianesimo adattò i culti della l. della Tarda Antichità trasformandoli e riferendoli al Cristo storico. Il simbolismo cosmico della l. del giorno fu inserito nella fede cristiana da Origene quando sostenne che Elio e Selene furono creati da Dio soltanto per guidare la danza del cielo per la salvezza dell'universo (De Orat., 7; PG, XI, coll. 440-441). Così la domenica cristiana, che nella settimana planetaria profana era il giorno dedicato al sole, passò a indicare il Risorto, come l. risorgente, ricollegandosi all'espressione biblica 'sorgere dall'alto' e alla creazione della l. il primo giorno (Lc. 1, 78; Gn. 1, 3). Allo stesso modo il Natale sostituisce il culto del Sol invictus; ambedue le feste vogliono indicare Cristo come vera luce. Dal collegamento della Risurrezione vittoriosa di Cristo con l'idea del sorgere della l. si arrivò poi all'idea per cui si vedeva nel cammino notturno del sole un'immagine dell'esistenza delle anime nell'aldilà e quindi della discesa di Cristo agli inferi.

Ontologia cristologica della luce

Bonaventura da Bagnoregio sviluppa i temi platonici della noetica della l. di Agostino secondo un'ontologia cristologica della luce. Egli distingue tre forme fondamentali dell'essere, entro le quali l'essere proprio della l. consiste nella suprema actualitas, che è rappresentata da Cristo, per il quale il perpetuo esistere e il perpetuo essere generato sono la stessa cosa. Così Bonaventura riprende da Agostino il tema che la l., la cui realtà vale solo nell'ambito spirituale, esiste in senso reale e non semplicemente figurato. Il tratto comune che unisce la l. materiale a quella spirituale denota la maniera di essere del divenireessere, per cui al concetto della l. si unisce quello di 'influenza'. Dalla l. si irradiano delle influenze molteplici per cui da questa concezione metafisica e gnoseologica della l. cristologica si origina una concezione dinamica e mobile della creazione divina.

Noetica della luce

La l. intesa da Agostino come illuminazione interiore, che è vita in quanto salvezza in Cristo, è formulata in un senso che sarà ripreso da buona parte della teologia francescana allorché si contamina con la teoria dell'illuminazione del pensiero di Avicenna, nella corrente teologica definita da Gilson (1929) di 'agostinismo avicennizzante'. Secondo lo studioso, questi maestri cristiani sono coloro che inclinano a una riflessione sulla natura della l., intesa in senso spirituale come principio di conoscenza che sgorga come l. da Dio nella nostra anima. Essi si ispirano non solo ad Agostino, ma anche alla teoria della conoscenza dell'anima speculativa di Avicenna, che riceve dalla l. dell'intelligenza divina l'illuminazione conoscitiva. Così Ruggero Marston (m. nel 1303 ca.) fa coincidere la l. increata con l'intelletto agente (De emanatione aeterna, De anima, q. III; Federici Vescovini, 1965, p. 24). D'altronde anche gli averroisti fecero in seguito coincidere la natura dell'intelletto attivo divino e separato con quella della l. spirituale. Taddeo da Parma, filosofo averroista attivo a Bologna tra il 1318 e il 1321, compie una curiosa contaminazione tra la teoria dell'intelletto attivo separato e divino di Abū'l-alīd Muḥammad ibn Rushd, noto con il nome di Averroè (1126-1198), con la concezione della l. di Roberto Grossatesta, per cui la l. è la prima forma intelligibile. Secondo Taddeo da Parma esiste una l. spirituale che si propaga nella realtà intelligibile e nell'occhio dello spirito. Questa l. agisce sull'occhio interiore e sulla realtà intelligibile, come il sole corporeo agisce sulle realtà corporee e visive: "Est enim quedam lux spiritualis quae superfunditur intelligibilibus et oculo mentis" (Expositio in Theorica planetarum Gerardi; Federici Vescovini, 1994).Il tema della lux in luce, cioè della l. verità divina nella l. creata dell'occhio interiore dell'anima, venne in seguito ripreso anche da Eckhart di Hochheim. L'anima ha infatti due occhi: uno interiore, l'altro esteriore (Predigten, 10). Agostino aveva sviluppato una teoria dell'illuminazione per cui l'uomo conosce non in quanto diviene l., ma in quanto egli, che è l., 'vede' la l. più alta, che non è lui stesso, ma che lo illumina e gli si mostra. Gli agostiniani neoplatonici come Eckhart sviluppano pertanto anche una concezione dell'oculus mentis interiore per analogia a quello esteriore. In questa accezione le Intelligenze umane o angeliche non sono manifestazioni della l. divina come nelle filosofie neoplatoniche, ma 'partecipano' della l. divina secondo il modo del loro libero arbitrio, nel loro occhio interiore. Al posto dell'idea plotiniana dell'anima singola come riflesso o specchio dell'anima universale o sua emanazione, Agostino e i Francescani sviluppano l'idea dell'anima non come riflesso di l. divina, ma memoria Dei, verbum Dei, oculus mentis Dei, partecipazione e ripresentazione del creato stesso.Questa teoria della partecipazione del dono della l., che è la grazia, venne in seguito particolarmente ripresa e svolta da Nicola Cusano nel suo trattatello teologico De dato patris luminum. Così l'illuminazione in questa concezione agostiniana e francescana non è qualcosa che scende o degrada dall'alto come nelle filosofie neoplatoniche, ma è un momento interiore all'anima stessa. Se l'uomo manca a se stesso, allora avviene l'aversio a Deo, cioè l'uomo si fa tenebra, allontanandosi dalla vita della conoscenza che è luce. Questo tema divenne centrale nella speculazione religiosa della l. di Nicola Cusano.La scienza che studia le regole di diffusione geometrica della l. e quindi quella della formazione delle immagini visive ebbe il nome di perspectiva. Il suo compito d'indagine era vasto. Se prendeva in considerazione gli oggetti del mondo circostante, a cominciare dagli esseri superiori dell'universo, i cieli, le sfere e le stelle, assumeva il carattere di una perspectiva astronomica o atmosferica, meramente geometrico-ottica. Se prendeva in considerazione le radiazioni dei corpi del mondo sublunare, assumeva il carattere di una vera e propria scienza fisica configurata come ottica matematica. Se trattava invece della l. spirituale divina, assumeva per oggetto Dio e le Intelligenze separate e dava luogo ai diversi trattati de causis o de intelligentiis o alle compilazioni di angeologia o di gerarchia celeste.Sono, queste ultime, opere di metafisica gnoseologica della l. d'ispirazione neoplatonico-araba ed ebraica più che cristiana, in cui la l. è intesa come 'manifestazione consecutiva causale' della l. divina nelle Intelligenze inferiori e intermedie tra Dio e il mondo. Mentre Bonaventura aveva detto che se la l. si dice più propriamente degli esseri spirituali che di quelli corporali, più propriamente di Dio e degli angeli, ciò è vero "quantum ad proprietatem vocabuli, non est tamen verum quantum ad usum communem" (In II Sent., d. 13, a. 1, 1, ob. 3); in questi scritti - come nello pseudo-avicenniano Liber de causis o De intelligentiis, o come nel De intelligentiis di Witelo - è invece sviluppata la dottrina che la l. non è solo da Dio, ma è Dio stesso. In tali opere ricorre il concetto platonico e plotiniano ontologico-causale della l. che fa essere e che fa conoscere le cose illuminandole: in altre parole vi si ritrova la concezione della causalità gnoseologica e ontologica insieme degli esseri, la cui essenza è definita come luce. In questi trattati risultano svolte la dottrina della natura sostanziale della l., la teoria della visione contemplativa per illuminazione superiore, l'idea della causalità ontologica e gnoseologica della l., secondo una gerarchia di cause, in cui l'inferiore è il riflesso o lo specchio del superiore secondo una teoria di necessitarismo o emanazionismo luminoso. Pertanto, così come aveva sostenuto Avicenna, se l'uno genera solo l'uno e gli esseri sono energia di l., una catena di Intelligenze si genera da questo uno, che costituisce gli esseri intermedi che si causano l'un l'altro per via di illuminazione. Queste multitudines di l. sono chiamate da al-Ghazzālī, nella sua esposizione della Metafisica di Avicenna, coequaevae, in quanto si generano tutte istantaneamente dall'uno, sono una moltitudine 'una' e agiscono come l. che degradano successivamente. Nel Liber de causis dello pseudo-Avicenna la "lux secundum se est intelligentia pura"; da essa sgorga una intelligentia secunda, differenziata ma identica sostanzialmente con la l. prima. La l. prima e la l. seconda, che si congiungono con l'intelletto, sono una e medesima l. e il processo conoscitivo avviene secondo le regole della visione sensoriale.

Angeologia della luce

Nel mondo cristiano medievale la concezione neoplatonica delle Intelligenze di l. intermedie tra Dio e il mondo si è sviluppata nell'angeologia cristiana che si è fondata soprattutto sulla dottrina della gerarchia celeste dello pseudo-Dionigi, da un lato, e sull'angeologia di Tommaso, in un'accezione differente, dall'altro. Secondo lo pseudo-Dionigi, gli angeli di cui stabilisce la gerarchia sono l. di l. (De div. nom., IV, 1) irradiate dal bene, sole divino che distribuisce i raggi della sua completa bontà. Questi raggi devono sostenere tutte le essenze, tutte le potenze e gli atti, e sono raggi intelligibili e intelligenti. Essi possiedono una intellezione che non è di questo mondo ed è per essi che esistono tutti gli esseri che possiedono una vita indistruttibile e inalterabile e quanti sfuggono alla morte, al divenire della materia al di là del fluire instabile; essi sono incorporali e immaterici e non sono che l. di intellezione (phós noetón).Su questa base i teologi cristiani, sviluppando anche un tema di Agostino, intendono l'angelo come una creatura spirituale la cui essenza è l. mattutina, lucidissima ed eterea (Agostino, De div. quaest., 83, q. 47; Lechner, 1966, p. 422). Secondo Agostino, l'angelo conosce l'universa creatura in Verbo Dei e questa è una conoscenza come quella della l. mattutina ed è verso l'alto. Questa conoscenza è paragonata a quella della l. del giorno, al mattino e alla sera (vespertina). Il tema venne in seguito ripreso da Tommaso, attento alla terminologia gnoseologica illuminativa in ambito angeologico; egli introduce una distinzione ontologica tra la l., sostanza divina, e il lumen, qualità dei corpi naturali. Tommaso, trattando della conoscenza degli angeli scandita nella l. del giorno, ritiene che la vespertina può essere intesa anche come l., in una circolarità tra l. mattutina e l. vespertina per cui se Dio è sempre l. piena, esente da tenebre, e conoscerlo in se stesso è l. piena, questa è la l. meridiana di Dio e non è la l. della creatura che è mista di tenebre; pertanto il conoscere della creatura consiste in un momento duplice, il mattino e la sera. Così la conoscenza mattutina dell'angelo che conosce la creatura "in Verbo Dei secundum quod exit ab arte divina" è mattutina come il mattino è fine delle tenebre e principio di l.; allo stesso modo la creatura, poiché non esisteva prima, ha assunto dal Verbo anche il principio di luce. La vespertina è la conoscenza della creatura nella sua natura propria e di per sé tende alle tenebre, se non è portata alla l. dal Verbo stesso. Tutta questa conoscenza dell'angelo, mattutina e vespertina, può dirsi il giorno dell'angelo. Dunque esso è una creatura che viene formata quando si converte alla l. immutabile del Verbo divino, dal quale trae l'esistenza e che, quando si allontana da Lui, ritorna alla sua informità (Tommaso d'Aquino, Summa theol., I, 74, 2). In questa concezione cristiano-tomistica, l'angelo è creatura di l. e non è emanazione della l. divina.

Luce e lume

Alcuni filosofi medievali, d'ispirazione più aristotelica che neoplatonica, elaborarono un'ontologia della l., come l'anonimo autore della Summa philosophiae, lo pseudo-Grossatesta. Egli distingue la l. in sé (lux) dal lumen o l. derivata da una sorgente divina e sostiene che lo splendore o la luminosità è un accidente o una qualità che proviene da un corpo luminoso (lucido). Ma vi è una differenza tra lo splendore che proviene per es. dal sole, dallo splendore che è nel sole, come la differenza tra ciò che è in sé e ciò che è derivato come un rivolus dalla sua fonte (Tract., XIV, 11). Così lo splendore è sempre un lume, ma non ogni lume è splendor; perché il lume naturale è mutevole, passa attraverso l'aria o i mezzi elementari, per cui appartiene al genere delle qualità accidentali del corpo. Così anche Witelo (metà sec. 13°), amico di Tommaso, trasforma in senso aristotelico la teoria della metafisica della l. neoplatonica di Grossatesta, introducendo come Tommaso la distinzione tra l. come sostanza e il lume come qualità o accidente dei corpi naturali. Witelo, autore di un'importante opera di ottica (Perspectiva), scrisse un prologo in cui spiegava che la l. sensibile o naturale deve essere definita come 'lume', di cui egli studiava le regole ottiche di propagazione geometrica nel suo trattato. Essa non è la forma sostanziale per sé dei corpi, ma è il 'modo' per il quale un fenomeno sensibile diventa intelligibile. Per Tommaso la l. è una qualità accidentale come il colore, che è una qualità attiva che consegue dalla forma sostanziale del sole: la l. cioè non è la forma sostanziale del corpo, perché la materia prima, creata sotto forme sostanziali, solo in un secondo momento è stata formata secondo alcune condizioni accidentali tra cui si trova la l. come il colore (Summa theol., I, 67, 4).Nel Medioevo si ebbe un gusto vivacissimo per i colori e per la l. racchiusa nelle superfici d'oro delle aureole dei santi o dei fondali e nelle grandi vetrate delle cattedrali gotiche. Nella contemplazione delle pietre preziose che brillano nell'altare dell'abbazia parigina di Saint-Denis, l'abate Suger veniva trasportato dalla visione della bellezza sensibile della l. materiale di quelle pietre alla superiore bellezza della l. spirituale immateriale di Dio (Panofsky, 1955). Così Dante Alighieri cantava il "dolce colore d'oriental zaffiro" (Purg. I, v. 13) e Guido Guinizzelli il "viso de neve colorato in grana" (Poesie, VII, v. 5; Eco, 1987, pp. 56-57).La distinzione tra lume naturale creato e l. divina eterna increata che si propaga in luci intermedie e riflesse nei diversi lumi delle creature è il tema centrale della Divina Commedia di Dante, per il quale la sede del paradiso o empireo è rappresentata come la "spera supprema" di l. (Par. XXIII, v. 108), "ciel ch' è pura luce" (Par. XXX, v. 39), "ciel che più de la sua luce prende" (Par. I, v. 4; Nardi, 1930; Busnelli, 1943, p. 98ss.; Di Pino, 1952; Guardini, 1956; Nardi, 1964, p. 9ss.).

Analogia della luce

Il tema biblico della l. mattutina tra le nebbie, come la luna risplende nei suoi giorni e il sole raggia (Sir., 50, 6-7), è ripreso anche da Eckhart (Predigten, 9) nel senso dell'opera creatrice di Dio: la creazione è il suo tempio di luce. D'altronde anche la tradizione agostiniana e francescana, sulla scia di Bonaventura, aveva inteso le immagini luminose in senso analogico o metaforico, come similitudini del divino per spiegare l'operato e la natura di Dio. Bartolomeo da Bologna, attivo a Parigi intorno al 1278, aveva distinto dalla l., il lume, il raggio e lo splendore e aveva aggiunto che come questi quattro fenomeni spiegano la varietà di ciò che si vede, così si può stabilire che Cristo "se assimilavit luci et non lumini aut splendori vel radio" (De luce). Sulla base del principio analogico o della similitudine, Bartolomeo da Bologna spiega le espressioni che Cristo è l. e centro del mondo, emana raggi, rivela e rende manifeste le cose occulte.L'analogia tra i processi della diffusione della l. sensibile con quelli della l. spirituale è sviluppata nelle opere di un altro francescano, l'inglese Ruggero Bacone (sec. 13°), che elaborò dalle teorie della propagazione in linea retta della l. fisica una dottrina del vedere come scienza experimentalis exterioris, per l'illuminazione solare sensibile, e una scientia experimentalis interioris per l'illuminazione della l. divina spirituale. La l. si diffonde in linea retta e le forme che essa produce diffondendosi non sono che azioni, ossia movimenti provocati da una sorgente o da una causa luminosa, su un sostrato che li riceve (De multiplicatione specierum). Questa dottrina delle forme o immagini luminose spiegate in termini di movimento o actio, impressio, proveniva a Bacone probabilmente dalle opere degli ottici arabi come al-Kindī (m. nell'873 ca.) e Ibn al-Haytham (ca. 965-1039), detto dai latini Alhazen (De aspectibus; Rashed, 1968; Federici Vescovini, 1987, p. 47ss.). Per Bacone le regole della visione sensibile stabilite sulla base della propagazione della l. in linea retta e delle condizioni del vedere sono estese per analogia alla visione intellettuale spirituale e divina. Otto sono le condizioni della visione esteriore e otto quelle della visione interiore che sono le otto beatitudini. Ma le percezioni sono passive come lo è l'anima sensibile, che riceve le forme miste di già ordinate all'interno dell'occhio secondo la volontà di Dio. Per questo, secondo Bacone, la certezza della visione è fondata sulle virtù o capacità dell'anima razionale creata e illuminata direttamente da Dio e non sulle percezioni dell'anima sensibile. Così le regole della visione sensibile sono inferiori e subordinate all'illuminazione spirituale e all'azione divina diretta (Federici Vescovini, 1990).

Meccanica della luce

Una considerazione della l. in termini di movimento meccanico quantitativo-matematico osservabile sensibilmente e misurabile si trova nel più importante trattato di ottica medievale, il Kitāb al-manāẓir dell'egiziano Ibn al-Haytham, la cui opera fu tradotta in latino nel sec. 12° con il titolo De aspectibus ed ebbe una straordinaria diffusione nel sec. 13°, quando Witelo ne fece una parafrasi, e poi nei secc. 14°-15° e nel 16°, quando Pietro Ramo (1515-1572) la ristampò.La teoria meccanica della l. di Ibn al-Haytham è stata avvicinata a quella di Cartesio (Sabra, 1967; 1987; Rashed, 1968; Federici Vescovini, 1990), per cui la l. sarebbe un fenomeno visibile spiegabile in termini di movimento dell'energia luminosa materiale corpuscolare che si diffonde secondo le regole matematiche dell'ottica geometrica. In altre parole, a differenza delle teorie della l. degli altri ottici medievali come Roberto Grossatesta, Witelo e Giovanni Peckham (sec. 13°), la l. non è il principio intelligibile della realtà fisica, ma un fenomeno meccanico di movimento di materia luminosa, osservabile con l'esperienza e quindi un fenomeno empirico-matematico e non ontologico-metafisico. Questa dottrina della l. e del colore venne in seguito ripresa nella perspectiva di Biagio Pelacani da Parma nel sec. 14° (Federici Vescovini, 1979).

Luce astrologica strumentale

La dottrina veterotestamentaria della l. intesa come l. cosmica dei primi versetti della Genesi fu adattata da molti filosofi, teologi e dotti medievali ad alcuni passi della cosmologia di Aristotele allorché nel Medioevo cristiano si diffusero le traduzioni delle sue opere, nel senso che questa l. creata da Dio si comunica nelle sfere celesti e nei pianeti, i quali divengono pertanto cause strumentali che trasmettono il moto e l'influenza della luce. La l. è così strumento del cielo, "lux est qualitas activa primi corporis alterantis, scilicet caeli"; essa non è sostanza e si predica sempre come attributo di un altro corpo rendendolo lucido in atto, ossia lo attualizza: "ipsa actualitas rei est quidam lumen ipsius" (Tommaso, Super librum de causis, prop. 6, nr. 168; Summa theol., I, 5, 5, 5; In II Sent., 13, 1, 3; 17, 1, 1). Tommaso pertanto ritiene che dagli astri provengano azioni luminose strumentali nel mondo terreno, giustificando così indirettamente sul piano fisico e naturale una concezione astrologica naturale o razionale largamente accettata e condivisa dai filosofi medievali. Questa dottrina era stata elaborata in prima istanza da Alberto Magno, il quale nel De natura locorum e nel De causis et proprietatibus elementorum ritiene che dal lume, dal calore e dal movimento dei corpi celesti provenga un'azione che è come un'influenza o un influsso che attualizza le potenze inchoatae, cioè racchiuse allo stato seminale nella materia, generando la vita, che così dipenderebbe dall'influenza dei cieli.Sia Alberto Magno sia Tommaso d'Aquino tra i teologi, sia Guido Bonatti (sec. 13°) sia Pietro d'Abano tra i fisici, non facevano che interpretare la teoria di Aristotele che dalla l. del sole diffusa dagli astri si originassero tutte le forme della vita compreso l'uomo (Phys., 194 B, 13; De gen. et corr., 336 A, 31ss.; Litt, 1963). Alberto Magno o un suo discepolo adattarono questa teoria astrologica della causa strumentale della l. dei cieli alle vicende terrene al creazionismo cristiano nell'opera nota come Speculum astronomiae: in essa, la l. che proviene dalle stelle è meramente fisica, strumentale e non spirituale o demoniaca. Lo Speculum astronomiae attribuito ad Alberto Magno costituì il manuale di adattamento dell'astrologia araba medievale alla visione cristiana dei cieli e delle stelle create da Dio, nutu Dei, fino al momento in cui fu sostituito dalla concezione magica della l. dei cieli e delle stelle di Picatrix nell'opera De vita coelitus comparanda di Marsilio Ficino (Federici Vescovini, 1993).

Bibl.:

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