GATTILUSIO, Luchetto

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 52 (1999)

GATTILUSIO, Luchetto

Roberto Gigliucci

Figlio di Giacomo e di Alasina Usodimare, nacque a Genova non oltre il 1230, probabilmente nel terzo decennio del secolo (risulta da un documento che nel 1248 doveva essere già almeno diciottenne). La famiglia del G. era fra le più ricche di Genova e aveva notevole influenza politica: i suoi membri (non ultimo suo padre) rivestirono cariche pubbliche rilevanti. Il G. ebbe due fratelli, Gattino (già morto nel 1306) e Giacomo o Giacomino; sposò in data imprecisata Eleonora (Linò) Doria, figlia di Corrado, ed ebbe da lei cinque figli: Franceschino, Nicolò, Domenico, Obertino, Ilisina.

Il G. fu poeta ed esercitò la professione di mercante, come risulta da alcuni documenti, il primo dei quali in data 13 ott. 1248; egli non abbandonò mai l'attività mercantile, come è attestato da documenti che risalgono al 1251-52, 1267-68, 1281 e 1287.

È del 1262 la prima testimonianza della sua partecipazione alla vita pubblica genovese: l'8 agosto il G. fu presente nel consiglio che ratificò l'intesa fra il Comune di Genova e Carlo d'Angiò (nell'atto figurano tra i testimoni altri poeti genovesi, fra i quali Percivalle Doria, Giacomo Grillo, Luca Grimaldi). Fra l'aprile e il luglio del 1266 fece parte dell'ambasceria inviata da Genova presso la Curia di Clemente IV, e quindi presso la corte di Carlo d'Angiò come segno di omaggio da parte del Comune dopo la vittoria di Benevento. Alla corte angioina conobbe probabilmente il poeta Sordello, al quale si rivolse in due componimenti poetici. Già questi primi incarichi pubblici testimoniano come la posizione politica del G. fosse improntata a un moderato guelfismo filoangioino.

Dopo altri incarichi per il Comune genovese, il G. fu nel 1272 podestà di Bologna, dove, fra l'altro, fu presente alla dettatura del testamento da parte di re Enzo (6 marzo 1272). In veste di podestà partecipò ai conflitti che opponevano Bologna a Venezia, nemica tradizionale anche di Genova, guidando alcune spedizioni militari. Si trovò poi a dover risolvere problemi interni al Comune bolognese, primo fra tutti la rivalità fra Lambertazzi e Geremei (rispettivamente di fede ghibellina e guelfa): i primi premevano per una spedizione contro Modena, i secondi vi si opponevano. Il G. fece uscire il carroccio nella piazza principale ma la fazione filomodenese riuscì a ricondurlo nella chiesa di S. Pietro e la battaglia contro Modena non ebbe luogo. Il cronista bolognese Pietro da Cantinello accusò il G. di aver favorito la mossa dei Geremei: da questo episodio risulta confermato il guelfismo del G. e si arricchisce l'immagine di un uomo politico accorto, prudente, ma deciso.

Nel 1273 ricoprì l'incarico di capitano del Popolo a Lucca, che, dal 1266, era sotto il dominio di Carlo d'Angiò. Ancora nel 1277 il G. sarebbe stato di nuovo capitano del Popolo a Lucca (Ferretto, II, p. 198). Nel 1281 era a Bologna per la sua attività di mercante; è improbabile che abbia frequentato l'università felsinea, giacché il "Luchitus Gatiluxius" che risulta studente in quell'anno era probabilmente un nipote del G., figlio di Gattino. Nel 1282 venne chiamato come podestà a Milano, ma rifiutò l'incarico che gli era stato offerto dal marchese Guglielmo VII del Monferrato. Anche in questa circostanza si dimostrò la sua lungimiranza politica: l'urto fra il marchese e l'arcivescovo milanese Ottone Visconti sarebbe infatti di lì a poco sfociato in una sommossa e Giovanni del Poggio (podestà in luogo del G.) sarebbe stato cacciato dalla città. Il 13 ott. 1284 il G. era a Firenze, testimone dell'accordo fra Genova, Firenze e Lucca in funzione antipisana. In questa occasione conobbe forse Brunetto Latini, uno dei sindaci designati dal Comune fiorentino. Nel 1287 era a Genova; nel 1295 fece parte dell'ambasceria genovese a Bonifacio VIII per cercare una risoluzione pacifica del conflitto fra Genova e Venezia; ad accompagnare gli ambasciatori c'era l'arcivescovo della città Jacopo da Varazze. L'operazione si risolse tuttavia in un nulla di fatto e l'ostilità fra le due repubbliche marinare riprese subito dopo. Il G., nel frattempo, otteneva dal pontefice una bolla a favore della chiesa di S. Giacomo di Priano da lui fondata e dotata. Nel 1301 era podestà di Cremona, dove fu a capo di una spedizione militare contro i Bergamaschi. Il "Luchino Gattilusi" podestà di Savona nello stesso anno (se non nel precedente o alla fine del 1299) è probabilmente ancora il nipote Luchino.

Il G. risulta ancora vivo in documenti del 1307, ma, per ragioni di età, la data della sua morte è da collocare poco dopo.

Al G. sono attribuiti sei componenti scritti in lingua provenzale: una canzone, un partimens con Bonifacio Calvo, quattro sirventesi. Le sue rime non ebbero grande diffusione: sono state infatti tramandate da tre soli codici. Inoltre la loro scarsa fortuna fece sì che più d'un suo componimento venisse attribuito dai copisti al più celebre conterraneo Lanfranco Cigala. Si deve a M. Boni la definizione del piccolo corpus e la soluzione dei problemi attributivi (Liriche, a cura di M. Boni, Bologna 1957, cui si rinvia per l'analisi di tutte le fonti sul G. e della bibliografia precedente). Al G. erano già sicuramente ascrivibili il sirventese "Cora q'eu fos marritz" e il partimens con il Calvo. La scoperta di uno dei codici contenenti rime del G. da parte di G. Bertoni aveva permesso di attribuire a lui anche "D'un sirventes m'es granz volontatz preza"; inoltre il Boni, sulla scia di studiosi precedenti, ma con argomentazioni più articolate, assegna al G. altri due sirventesi, da sottrarre al Cigala per motivi cronologici: "A 'n Rizart man que per obra d'aragna" e "Be.m meravilh del marques Moruel". Il curatore ha inserito, se pur con qualche esitazione, nel corpus del G. anche la canzone d'amore "Anc mais nuls hom non trais aital tormen", per contiguità nel medesimo frammento di codice che ospita i precedenti componimenti, anche se in questo caso non ci sono supporti di tipo cronologico per l'attribuzione.

Si tratta di un testo di materia amorosa che sviluppa motivi topici: sarebbe l'unica poesia di tale genere del G. a noi pervenuta. L'autore lamenta la propria sofferenza mortale quando vede la donna amata e similmente quando non la vede. È giusto per lui desiderare la morte, giacché la donna "non vol fragner sos tortz", non vuole por fine al male che fa. Ha creduto che allontanandosi da lei potesse migliorare la propria situazione: fu follia. Meglio accettare la morte al cospetto dell'amata, "de totas beutatz flors", fiore d'ogni bellezza il cui pretz (pregio, parola chiave trovadorica) lascia adito comunque a speranza. La tornada della canzone nomina un giullare, Ugonet, che non è stato identificato. La canzone termina comunque su un movimento di euforia laudativa che permette un tipico superamento della sofferenza nel nome delle qualità supreme della donna amata. È possibile che il componimento sia stato scritto quando il G. era ancora giovane, nel periodo in cui iniziava a confrontarsi con l'armamentario topico amoroso dell'universo trovadorico, mentre in seguito sarebbe prevalsa l'opzione per la materia "politica" dei sirventesi. Ma "ad esser molto cauti a questo proposito deve indurci anche il fatto che il "partimens" tra Luchetto e Bonifacio Calvo, che tratta di una questione d'amore, è probabilmente posteriore al più antico dei sirventesi del G." (M. Boni, p. XXXVII n. 27).

Il partimens è situabile cronologicamente dopo il 1266, anno nel quale Bonifacio Calvo era già tornato a Genova, e si ascrive anch'esso a una fase giovanile dell'attività del Gattilusio. Nel partimens è il Calvo a proporre il tema: è meglio amare con lealtà (finamen) la propria donna senza essere corrisposto o non piuttosto ottenere il suo amore con inganni e con ogni sorta di falsità (ab tota falsura), se necessario? Il trovatore configura due modelli di comportamento, due universi etici incommensurabili: la sfera della fin'amors, ove il valore supremo è la fedeltà, ove la sofferenza è portato ineliminabile e costitutivo, non conosce inganni, tradimenti, anzi, si definisce appunto in opposizione all'enjanz (inganno) come area della totale lejautatz (lealtà). Così ribatte infatti nella seconda cobla il G.: non è possibile neppure porre un'alternativa come quella offerta dal Calvo. Questi risponde condannando gli amanti che rimproverano alla propria donna di non aver pietà né misura (merces e mesura), preferendo ancora l'opzione per una finzione gioiosa. Il G. ribadisce: l'amante perfetto (fiz amics) non può praticare la mistificazione, non può attraverso l'imbroglio ottenere gioia saporita (jois saboros). Bonifacio giunge allora al cuore del suo pensiero antitragico ed edonistico: se con l'inganno si ottiene il piacere di entrambi, allora è assurdo voler sempre languire, in osservanza a un'etica innaturale. Il G. sostiene che ottenere il risultato, soddisfare il desiderio, è secondario rispetto alla condizione di gioia, perfezione, lealtà del puro amante che non merita essere avvilita dal tradimento. Il puro amante, deric joi joios, si realizza nell'euforia paziente della fin'amors. Questo leale amante, sbotta Bonifacio, è un demente: che senso ha concentrarsi sull'amore per una donna che non lo merita e non corrisponde? G. risponde: voi, Bonifacio, desiderate falsa gioia (fals jois), giacché non la sostiene ragione (razos) né purezza di desiderio. Bonifacio conclude dichiarando che ha difeso un'opinione sbagliata, perché contraria alla fin'amors e quindi alla ragione suprema di canto, per il gusto del dibattito e, pur sostenendo la tesi errata, ha poetato meglio di Luchetto.

Il resto della produzione poetica del G. è dato da quattro sirventesi, di notevole importanza per definire ulteriormente la posizione politica e la capacità d'intervento poetico sulle vicende contemporanee da parte del Gattilusio.

"Cora q'eu fos marritz ni conziros" è il componimento più antico del gruppo. L'esordio è giubilante: gioia e pregio (jois e pretz) ritornano, giacché si preparano scontri memorabili fra i grandi, Carlo d'Angiò, Corradino di Svevia, Manfredi. Il G. propone all'angioino i modelli di Carlo Magno e di Alfonso X il Saggio, vero speculum, mirail, vittorioso sugli Arabi e strenuo orditore di trame espansionistiche. Oggi, egli si lamenta, regna la fiacca e l'inerzia; si esorta quindi Corradino di Svevia a prendere ciò che è suo e a smentire la voce, diffusa da Manfredi, della sua morte (diceria messa in giro da Manfredi nel 1258 per facilitare la propria incoronazione). La quinta stanza è dedicata a Manfredi, che dovrà difendere con tutte le forze quanto ha finora ottenuto. La tornada, che si rivolge al giullare Bernart, ribadisce il desiderio violento, da parte del G., di vedere imprese valorose senza esclusione di colpi. Questo sirventese è il più alto cronologicamente (fine del 1264 o inizi dell'anno seguente), giacché è collocabile prima della calata di Carlo d'Angiò in Italia. Il tema della gioia nel veder combattere fra di loro i signori della terra, con la lode implicita della battaglia, è di tradizione illustre: basti pensare a Bertran de Born, come antesignano, e si pensi anche, per non allontanarsi troppo dal G., a Bonifacio Calvo, autore di "En luec de verjanz floritz". Il suo interesse per questo topos è testimoniato anche nel sirventese "A 'n Rizart". Comunque, mentre il G. si sbilancia nel dichiarare la sua brama di assistere alla lotta, rimane invece piuttosto neutrale di fronte ai contendenti in campo. Evidentemente il suo atteggiamento è in sintonia con l'accorto, equilibrato modo di porsi della Repubblica di Genova nei confronti di Manfredi e dell'angioino. Il G. si mostra dunque ottimo interprete della posizione politico-diplomatica della propria patria. Sembra comunque già in questo sirventese trasparire una preferenza angioina da parte del G.: abbiamo visto che egli avrà occasioni, in seguito, di mostrare con maggiore decisione, se pure con una certa prudenza, la propria fede guelfa.

Proprio a Carlo d'Angiò si rivolge "D'un sirventes m'es granz volontatz preza", offrendogli una messe di consigli, visto che il sovrano aspira alla vicaria o alla baillia dell'Impero. Conformemente al genere dei conselhs poetici ai regnanti, il G. esorta al coraggio, alla coerenza, alla magnanimità. Tutto culmina in un invito alla misura, all'equilibrio: "en son cor port tota via \ la balanza" (nel suo cuore porti ognora la bilancia), da intendere come dominio esteriore, capacità di autodominio assoluto e quindi nascondimento della propria integrale volontà da parte del regnante. Il G. conclude il sirventese rivolgendosi a Sordello (e su note di materia amorosa), non a caso, giacché era stato proprio Sordello, nel suo Ensenhamen d'onor, a raccomandare, per chi volesse saviamente regnare, "di portar \ una balanza en son corage". L'omaggio finale al trovatore di Goito è quindi anche un omaggio a un modello letterario prestigioso. Il sirventese va datato dopo il 6 genn. 1266, giorno in cui fu incoronato Carlo d'Angiò re di Sicilia. Il Boni, interpretando il progetto dell'angioino come riferimento all'aspirazione alla conquista dell'Impero d'Oriente, colloca la composizione del sirventese dopo il maggio del 1267, cioè dopo il trattato di Viterbo concluso da Carlo d'Angiò per riportare Baldovino sul trono imperiale di Costantinopoli.

Non troppo distante cronologicamente dal precedente dovette essere il sirventese "A 'n Rizart man que per obra d'aragna" (incipit della seconda stanza, poiché la prima è perduta). In esso il G. si rivolge prima di tutto a Riccardo di Cornovaglia, rimproverato di essere inerte, di operare vanamente (obra d'aragna, opera di ragno) e di non fare il possibile per avere l'Impero. Quindi si indirizza ad Alfonso X, che perde tempo a far penitenza e non viene a rivendicare l'Impero. Infine è la volta di re Carlo, considerato strenuo e inesausto combattente. La quarta cobla chiude su un entusiastico assaporamento del prossimo conflitto per bran o per lansa, con brando o lancia. Gli ultimi versi sono di materia amorosa, tranne quelli rivolti ancora a Sordello, dove il G. dichiara apertamente il proprio gradimento per le lotte dei signori. Il componimento dovrebbe essere anteriore all'agosto 1269 perché in quell'anno Sordello era quasi sicuramente morto. Se si identifica la lotta che attende l'angioino con la guerra contro Corradino si può datare più precisamente il sirventese al 1267, in estate o in autunno.

L'ultima lirica del G., il sirventese "Be.m meravilh del marques Moruel", ci riporta alla guerra fra Genova e Carlo d'Angiò, iniziata nel 1273. Il poeta adotta un registro ironico; si stupisce del fatto che il marchese Moroello Malaspina, pur in giovane età, sappia così saviamente (sottilmentz e bel) destreggiarsi fra i contendenti, mostrandosi disponibile ad aiutare entrambi ma poi astenendosi dal farlo. E aggiunge: se il marchese s'è condotto allo stesso modo anche in amore, ne deve aver avuti di successi! Certo, si desume fra le righe, successi ottenuti con l'inganno e quindi fuori dall'etica cortese. Le altre coblas del sirventese sono frammentarie e non comprensibili. Vi si fa menzione di una Berlenda, che potrebbe essere la moglie di Moroello, ma non è certo; non la si può comunque identificare con la Berlenda cantata e pianta da Lanfranco Cigala. In ogni caso il comportamento rimproverato dal G. al marchese aveva concrete motivazioni, giacché il feudo del Malaspina fu proprio zona di scontri fra i due eserciti genovese e angioino nel primo anno di guerra, il 1273. Fra l'aprile e il maggio di questo stesso anno cade la data di composizione del sirventese.

Fonti e Bibl.: Pietro da Cantinello, Chronicon, a cura di F. Torraca, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XXVIII, 2, p. 11; A. Ferretto, Codice diplomatico delle relazioni fra la Liguria, la Toscana e la Lunigiana ai tempi di Dante (1265-1321), I-II, Roma 1901-03, ad ind.; Jacopo da Varagine e la sua Cronaca di Genova, a cura di G. Monleone, in Fonti per la storia d'Italia [Medio Evo], LXXXV, Roma 1941, II, p. 103; J.B. Holloway, Twice-told tales. Brunetto Latini and Dante Alighieri, New York 1993, p. 394; I trovatori minori di Genova, a cura di G. Bertoni, Dresden 1903, pp. XXIX-XXXI, 24-29, 73-77; G. Bertoni, I trovatori d'Italia, Modena 1915, pp. 110-112, 430-440; A. Pillet - H. Carstens, Bibliographie des troubadours, Halle 1933, pp. 255 s.; M. Boni, Note intorno a L. G., in Studi medievali in onore di Antonino De Stefano, Palermo 1956, pp. 79-89; G. Toja, Trovatori di Provenza e d'Italia, Parma 1965, p. 41; J.M. Marshall, Étude des contrafacta dans la poésie, in Romania, CI (1980), p. 325; C. Bologna, La letteratura dell'Italia settentrionale del Duecento, in Letteratura italiana (Einaudi), Storia e geografia, I, L'età medievale, Torino 1987, pp. 132 s.; Grundriss der romanischen Literaturen des Mittelalters, VI, La littérature didactique, allégorique et satirique, Heidelberg 1970, p. 342; II, Les genres lyriques, ibid. 1990, pp. 311, 456; Lex. des Mittelalters, IV, 2, coll. 1140 s.

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