ANCESCHI, Luciano

Dizionario Biografico degli Italiani (2016)

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ANCESCHI, Luciano

Niva Lorenzini

Nacque a Milano il 20 febbraio 1911 da Giovanni, industriale, e Agar Zambonini, casalinga, secondo di quattro fratelli (Luigi, Mario, Anna Maria). Il 5 settembre 1938 sposò Maria Cannito, premurosa compagna di vita, e da lei ebbe nel 1939 il figlio Giovanni, divenuto noto studioso di design.

Gli anni della formazione e il «razionalismo critico» di Antonio Banfi

Una testimonianza sulla famiglia d’origine fu affidata da Anceschi al Ritratto su misura di scrittori italiani (a cura di E.F. Accrocca, Venezia 1960, pp. 13 s.), in cui rivelò aspetti segreti della sua personalità, delle sue inquietudini: «Sono nato […] da genitori emiliani, e ho passato la mia infanzia tra l’Emilia e la Lombardia; anche oggi divido la mia vita tra Milano e Bologna. Amo pochissimo parlare di me, si sa; ma dei miei genitori dirò qualche cosa, perché lo meritano. Mia madre di nervi acuti fino all’eccesso, sensibile fino al presentimento, di rara intuizione, era disattenta di sé quanto attenta, non senza sue angosce, ai figli, e continuamente malata di malattie vere e immaginarie; mio padre fu un costruttore prudente, paziente, sicuro, chiuso in sé, ma a tratti proprio amabilissimo, e sempre vero. Io devo molto a loro; non fosse altro il temperamento difficile e inquieto, indipendente, poco incline ai compromessi e alle fazioni, di scarsa diplomazia sociale, diretto, e pronto sempre, se occorra, a ricominciare da capo e a patire con estrema acutezza ogni momento del vivere come se fosse l’ultimo». Quelle righe consegnarono un autoritratto di rara penetrazione, in grado di restituire la fisionomia di un pensatore sensibile, bisognoso di condividere con chi avvertiva affine a sé itinerari di ricerca e scoperte, coniugando riflessione teorica e impegno militante a partire dagli anni universitari. Dopo aver compiuto gli studi liceali al liceo Berchet, Anceschi frequentò le aule ubicate nella sede di corso Roma della facoltà di lettere e filosofia dell’Università statale di Milano, dove si laureò in estetica nel 1934, relatore Antonio Banfi, con una tesi intitolata «Dal classicismo inglese al simbolismo francese. Storia del concetto di autonomia dell’arte e di poesia pura. Conclusioni teoriche», poi pubblicata da Sansoni con il titolo Autonomia ed eteronomia dell’arte. Sviluppo e teoria di un problema estetico (Firenze 1936).

Dalle lezioni di Antonio Banfi, che nei primi anni Trenta teneva gli insegnamenti di estetica e storia della filosofia frequentati da Anceschi e da compagni di corso restatigli nel tempo amici, tra cui Enzo Paci, Giulio Preti, Giovanni Maria Bertin, Dino Formaggio, Remo Cantoni, Luigi Rognoni, Raffaele De Grada e Vittorio Sereni, venne ad Anceschi ben più che un insegnamento. Secondo la testimonianza stesa da Fulvio Papi in Gli amati dintorni. Filosofia, arte, politica negli specchi della memoria (Milano 2001, p. 16), mettersi nell’orizzone di Banfi significava, per gli allievi, seguire in primo luogo la via del 'razionalismo critico', coniugando neokantismo e fenomenologia husserliana in un’opzione antidogmatica aperta alla molteplicità delle relazioni tra estetica, letteratura, arte, antropologia, scienze umane. Significava soprattutto confrontarsi con l’esperienza, mettersi in situazione, aprirsi alle connessioni, in contrasto con ogni assolutismo concettuale e perciò in contrapposizione all’idealismo crociano prevalente, che dava dell’arte definizioni a priori, relegandola ad atto intuitivo che ne condizionava l’autonomia.

L'apprendistato e le prime prove critiche

Nella temperie storico-culturale segnata, all’avvio degli anni Trenta, dall’idealismo crociano, Anceschi aveva per altro compiuto il suo “apprendistato” critico. Lo confessò ancora nel 1990, in un’intervista radiofonica: «quando arrivai all’Università ero un idealista militante e polemico» (Che importa chi parla? Dialoghi con L. A. …, 1992, p. 28). E l’aveva del resto riconosciuto decenni prima proprio nella crociana La Rassegna d’Italia (I [1946], 2-3, pp. 261-264), nel numero celebrativo per gli 80 anni di Croce. Indirizzando a Francesco Flora una sua Lettera privata per un omaggio, Anceschi scrisse: «è certo che sotto il suo segno esclusivo fu vissuta tutta la prima parte del mio apprendistato», chiarendo subito dopo: «Un discorso su Croce, così legato com’è alle ragioni più intime della mia formazione e del mio vivere, sarebbe per me un discorso infinito», soprattutto perché – tenne a puntualizzare – occorreva distinguere in cosa Croce aveva sorretto la sua generazione e in cosa, invece, la sua generazione l’aveva sentito “diverso e lontano”. E di fatto già quelle prime prove giovanili, affidate a interventi d’occasione su riviste di impostazione idealistica come Leonardo, La Nuova Italia, Cronache latine, Convegno (un’ampia testimonianza in Verdino, 1987, e in Anceschi, 1997), avevano messo in luce segnali di presa di distanza dall’idealismo. Tra i tanti, un intervento su Umanità di Ungaretti (in Cronache latine, II [1932], 8-9, p. 4), in cui Anceschi appena ventenne difese la poesia dell’«uomo di pena» da una lettura idealistica che lo appiattiva sulla sfera della psicologia e del contenutismo, in aperto dissidio con la redazione della rivista che fece seguire al suo scritto una nota di dissenso; o un intervento sul Significato dell’autobiografismo (in Orpheus, II [1933], 4-5, pp. 1-4), in cui sostenne le ragioni dell’aderire alla vita «in tutta la complessità dei suoi aspetti», optando per un «realismo dinamico» e una «nuova concretezza», anche in questo caso contro l’idealismo crociano. Si avvertiva in quelle prese di posizione l’influenza banfiana, evidente nell’opzione per un 'realismo critico' orientato verso un’arte 'sociale' cui si indirizzavano le prime riviste cui collaborò tra il 1932 e il ’34 (tra queste Orpheus, fondata nel ’32 da Anceschi e Paci, Camminare, sempre del ’32, o Il Cantiere, del ’34, sospese tutte dal regime). In quel contesto di apprendistato stava prendendo forma per Anceschi, tra difesa di Ungaretti e recensioni dedicate oltre che alla poesia alla narrativa, come un intervento su Socialità di Gogol (in Orpheus, II [1933], 1, pp. 3-9), o sugli Indifferenti di Alberto Moravia (in Il Giornale dell’arte, IV [1930], 5, p. 2), o sui Tre operai di Carlo Bernari (in Camminare, III [1934], 4), una dialettica tra autonomia ed eteronomia dell’arte che costituì il nucleo delle riflessioni approdate nel ’36 in volume.

Autonomia ed eteronomia dell’arte (1936)

Libro fondamentale, libro della vita, fu per Anceschi Autonomia ed eteronomia dell’arte. Sviluppo e storia di un problema estetico (cit.), se più di cinquant’anni dopo il critico confessò, nell’avvertenza intitolata Qualche avviso per il lettore in apertura de Gli specchi della poesia. Riflessione, poesia, critica (Torino 1989, p. 6): «Posso qui accennare che dall’Autonomia in poi desidererei esser stato capace di scrivere un solo libro, di cui i vari volumi pubblicati sono capitoli di un discorso in continuo movimento». Come dire che le 30 monografie e le centinaia di saggi e interventi sparsi in rivista trovarono tutti, per Anceschi, la loro motivazione in quella prima e fondamentale opera di strutturazione teorica e interpretativa che lo stesso autore, introducendo la seconda edizione riveduta del volume, con sottotitolo Saggio di fenomenologia delle poetiche (Firenze 1959), presentò così: «è una proposta di storiografia e di teoria fenomenologica, il campo scelto per l’esame è il gran mondo della moderna cultura poetica, il nodo Poe-Baudelaire, e la nozione di poesia pura nel suo movimento, in tutti i gesti in cui essa vive si significa, e opera»; e aggiunse, nella ristampa Garzanti, con titolo Sviluppi, 1992 (Milano 1992, p. VII): «Questo libro è nato da un proposito, sollecitato anche da una sorta di urgente desiderio, di conciliazione […]. Mi riferisco a una conciliazione con me stesso e con le cose che occuparono con energia i miei anni più giovani. In realtà ero molto preso dalla poesia che nasceva e viveva in quegli anni; nello stesso tempo ero anche ben convinto dalla filosofia dell’arte che dominava in quegli stessi anni nel nostro paese. Mi trovavo pertanto in un dissidio che avvertivo criticamente: le due tensioni (in cui vivevo) non andavano d’accordo».

La tensione riguardava il dissidio tra la filosofia neo-idealistica dominante, che concependo l’arte come 'un momento dello svolgersi dello Spirito' ne costringeva l’autonomia entro i limiti di un 'concetto logico', e le esperienze della pratica artistica che invece, come stava sperimentando il giovane critico, «sfuggiva da tutte le parti e s’affermava in modi imprevedibili», con una molteplicità di aspetti e una vivacità di tendenze irriducibili a schema (L. Anceschi, Annotazione, 1959 alla 2ª ed., poi Milano 1992, p. XXV). Scritto tra il 1930 e il 1936, pubblicato nel ’36 e poi, in edizioni rivedute, nel 1959, ’76, ’92, il libro ‘della vita’– che a detta di Anceschi «in ogni caso agì», anche se non fu subito universalmente «capito» - puntò proprio ad affrontare, in linea con la fenomenologia banfiana, la tipologia dell’autonomia dell’arte nella sua complessità, liberandola dagli assolutismi. L’indagine privilegiava la storia della poesia pura, che dal classicismo inglese a Poe, da Baudelaire al simbolismo e a Valéry, fino agli approdi novecenteschi, aveva messo in evidenza, secondo l’autore, la «volontà ed esigenza dell’arte di distinguersi dagli altri aspetti della realtà o di badare a se stessa, o di darsi comunque, da sé la propria legge senza chiederla ad altro o di risolversi in altro» (Annotazione…, in ed. 1992, cit., p. XXVIII); mentre alla “poetica” veniva affidato il compito di rappresentare «la riflessione che gli artisti e i poeti esercitano sul loro fare indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità, gli ideali» (v. Progetto di una sistematica dell’arte, Milano 1962, p. 46).

La «poetica» si rivelava dunque parte integrante del concetto di “autonomia” dell’arte. Ne conseguiva che il binomio autonomia ed eteronomia non veniva assunto come polarità di categorie e principî astratti ma si riconduceva alle situazioni pragmatiche dell’operare, in cui l’autonomia era espressione del bisogno di distinguere l’arte dagli altri momenti del reale e della ragione, mentre l’eteronomia richiamava alla «consapevolezza teoretica e pragmatica» di inserire l’arte «in tutti i piani della vita», in contrasto con astrazioni filosofiche e vocazioni metafisiche (ibid., p. 227).

Recensito positivamente da Eugenio Montale, Paci, Galvano Della Volpe, Francesco Flora, Walter Binni, tra gli altri, il libro venne accolto dal silenzio totale dei critici di area crociana.

L'insegnamento e la presa di distanza definitiva dal crocianesimo

Con quel volume si concluse l’apprendistato critico di Anceschi: Banfi lo chiamò a collaborare presso la cattedra di estetica (e un corso libero di estetica Anceschi tenne poi all’Università Bocconi, presso la facoltà di lingue straniere, fino al suo trasferimento, nell’anno accademico 1952-53, all’Università di Bologna). Era anche iniziato per lui un lungo periodo di insegnamento alle scuole superiori (a Taranto dall’ottobre 1937, poi a Milano, dove ebbe tra gli allievi, al liceo scientifico Vittorio Veneto, Nanni Balestrini), mentre si intensificavano le collaborazioni a riviste militanti: tra tutte Corrente di Vita Giovanile (1937-38), divenuta poi Corrente (1938-40), fondata a Milano il 1° gennaio 1938 dal giovanissimo Ernesto Treccani e finanziata dal padre di lui, responsabile dell’Istituto della Enciclopedia italiana. A quella rivista, portavoce della più viva intelligenza critica del tempo, fatta chiudere dal regime nel ’40, Anceschi collaborò sia con poeti e critici appartenenti all’ermetismo fiorentino come Mario Luzi, Carlo Bo e Piero Bigongiari, sia con letterati ed esperti d’arte collegati alla fenomenologia milanese, come Sereni e De Grada (e alla critica d’arte Anceschi continuò poi a interessarsi lungo il corso della sua vita, come testimonia il volume Decisione della forma, Bologna 1993). Alla rivista, che Treccani ricordò come «giornale eclettico attento a un contesto europeo e d’avanguardia molto pronunciato» e come punto dinamico di convergenza di scelte fondamentali in via di maturazione (Dialoghi…, cit, p. 33), Anceschi affidò la sua definitiva presa di distanza dalla tradizione crociana con tre contributi usciti in Corrente nel ’39 (rispett.: Questione idealistica dello stile, n. 5, p. 4; Replica ai pedanti, n. 7, p. 6; Tempi del liceo, n. 10, p. 3). Assunta la direzione delle Edizioni di Corrente, promosse tra l’altro l’uscita di Frontiera di Vittorio Sereni (1941), dei Lirici spagnoli tradotti da Carlo Bo (1941) e dei Lirici greci tradotti da Salvatore Quasimodo (1940), accompagnandoli con una Introduzione (cui ne fecero seguito altre tre modificate nelle edizioni 1944, ’51 e '78) del tutto in linea, in quel contesto storico, con i principî esposti in Autonomia ed eteronomia dell’arte, soprattutto laddove si riconosceva che «la possibilità della comprensione "nuova" dei lirici greci», intesa come riscoperta di un nuovo umanesimo, era divenuta possibile solo dopo la «recente approfondita esperienza» della «poesia pura». E del resto alla poesia pura si collegava per Anceschi anche la poetica dell’ermetismo, al centro dei suoi interessi tra il ’36 e l’avvio degli anni Quaranta che lo videro collaborare a Letteratura, Prospettive, Meridiano di Roma, L’Italia letteraria e portare a termine il saggio Sulla poetica dell’ermetismo, schierato per una nozione post-crociana di lirica e uscito sulla banfiana Studi filosofici (III [1942], 3, pp. 222-226), come prima tappa di una riflessione che sfociò, nel ’77, nella compilazione della voce Ermetismo per l’Istituto della Enciclopedia italiana (in Enciclopedia del Novecento, II, pp. 741-751). Sull’equivalenza ermetismo-lirica pura tornò a insistere Anceschi ancora nell’intervista del ’90, puntualizzando significativamente: «Vorrei chiarire che quando parlo di ermetismo io mi riferisco a quel fenomeno europeo che comprende poeti come Valéry, Pound, Eliot […]» (Dialoghi…, cit, p. 48).

La riflessione critica sul linguaggio poetico e i «lirici nuovi»

All’avvio degli anni Quaranta, raggiunta consapevolezza piena delle proprie scelte, Anceschi poteva tentare dunque una prima sistematizzazione di un’attività critica sino a lì ricca ma piuttosto disseminata, orientando le ricerche future verso la direzione tracciata da Autonomia ed eteronomia dell’arte. Prese così avvio un quindicennio di inchieste sulla poesia italiana ed europea, preceduta dalla messa a punto, nei Saggi di poetica e di poesia (Firenze 1942), di quanto andava conservato della sua precedente produzione (una Breve giustificazione dell’autore avvertiva, a p. 275: «solo alle pagine qui ristampate [relative a scritti usciti tra il 1934 e il 1941] l’autore riconosce di poter, oggi, tener fede come a momenti necessari della sua formazione nel suo svolgimento»). Toccò all’antologia Lirici nuovi, scritta tra il 1940 e il ’42 e dedicata a Antonio Banfi (Milano 1943), tradurre sul campo vivo delle scelte l’anceschiana idea di poesia: trovarono infatti spazio nell’antologia 20 poeti, tra cui Campana, Ungaretti, Montale, Cardarelli, Bertolucci, Luzi, Penna, Sereni, Gatto, Quasimodo, accompagnati ciascuno da una breve dichiarazione di poetica e da una sintetica bibliografia critica.

Fu lo stesso Anceschi ad avvertire, nella prefazione alla 2ª edizione dell’antologia dedicata in chiusura, significativamente, ai Novissimi (Milano 1964), che quell’idea di poesia aveva preso forma per lui proprio da Autonomia ed eteronomia dell’arte, che considerava vera “premessa teorica dell’antologia”, chiarendo che  «[…] fin dal suo primo proporsi, dal suo primo progetto, l’antologia intese soprattutto testimoniare del ricco e strano movimento del principio fondamentale della poesia del secondo periodo del secolo, nella sua variante ermetica». Anticrociana fino dalle righe che avevano aperto l’Introduzione del ’43, che chiamavano apertamente in causa l’«intollerante difensore del principio ideale dell’"unità" dell’arte» («Cacciati dalla porta signorile della teoria, i "generi letterari" rientrano, si sa, dalla più accogliente porta di servizio della "pratica", dell’"empiria"»), l’antologia provocò questa volta l’intervento diretto di Croce, che il 20 giugno 1943 la stroncò su La Critica (pp. 221 s.), con un livore sopra le righe, dileggiando l’autore – un «giovanotto», scriveva, «che non possiede alcuna preparazione in materia» – ma decretandone insieme, controvoglia, il successo. Da quel momento, infatti, “antologista” per vocazione si considerò Anceschi che, regolati di nuovo i conti con Croce con una nota inclusa in Idea della lirica (Milano 1945, volume contenente le ristampe delle prefazioni ai Lirici greci e ai Lirici nuovi), fece presto seguire ai Lirici nuovi altre antologie: Poeti antichi e moderni tradotti dai lirici nuovi (Milano 1945, in collab. con Domenico Porzio); Linea lombarda (Varese 1952, con Prefazione intitolata Poesia in re, poesia ante rem, pp. 5-26), che riuniva Sereni, Roberto Rebora, Giorgio Orelli, Nelo Risi, Renzo Modesti, Luciano Erba, giudicati “lombardi” non come espressione di una poesia regionale, che Sereni, su tutti, rifiutava, ma di una poesia “nuova” che, benché inizialmente orientata verso la costellazione ermetica, si indirizzava verso una poetica dell’oggetto in prospettiva europea; Lirica del Novecento (in collab. con Sergio Antonielli, Firenze 1953), aperta da un’ampia Introduzione di Anceschi (pp. VII-CIV) che illustrava il panorama della poesia italiana dal 1905 al 1945 in chiave di ricapitolazione, senza optare per decise scelte di campo e accogliendo qualche risvolto heideggeriano che non piacque al giovanissimo Edoardo Sanguineti recensore dell’antologia (v. Questioni, 1, febbraio 1954, pp. 26-34); ma era stato del resto lo stesso Anceschi, nel ’37, a segnalare la conferenza di Martin Heidegger su Hölderlin e l’essenza della poesia, che si coniugava per lui con lo sviluppo della poesia pura; infine Poetica americana e altri studi contemporanei di poetica (Pisa 1953), antologia di svolta antiermetica, dal momento che vi si richiamava l’attenzione non più sulla poesia pura, ma sulla poetica dell’allegoria e del correlativo oggettivo attraverso l’analisi di Thomas Stearns Eliot ed Ezra Pound (della Poetica di Eliot Anceschi si era comunque già occupato tra il 1945 e il ’49 in interventi su rivista, oltre che nella Introduzione a Il bosco sacro da lui tradotto Milano 1946, pp. 13-42 – intitolata Primo tempo estetico di Eliot; di Pound in Letterature moderne, I [1950], 2, pp. 220-226, e in Aut Aut, 1951, 2, pp. 131-133).

L'«Umanesimo disilluso» e il Barocco

In quegli anni di lavoro indefesso, tra il ’43 e il secondo dopoguerra, Anceschi pagò in prima persona, con un doloroso isolamento segnato da attacchi ricevuti non solo da avversari, la scelta di non assecondare conversioni radicali né di tipo politico né di tipo culturale (alla maniera del “maestro” Banfi, divenuto sostenitore di un marxismo coniugato con la fenomenologia, o del poeta Quasimodo, o di improvvisati fautori del neorealismo – da cui restarono separati, per lui, Cesare Pavese, Romano Bilenchi, Elio Vittorini). Assente da riviste militanti come il Politecnico o Primato, concentrò la sua difesa di un 'umanesimo disilluso' – divenuto da quel momento motivo dominante nei suoi scritti – analizzandolo in Fenomenologia e morfologia della crisi (in La Fiera letteraria, 26 dicembre 1946, pp. 17 s.), e coniugando lo studio di Eliot e Pound con quello del Barocco, cui si era accostato sin dal ’43, negli anni cupi della guerra, con scritti dedicati a Daniello Bartoli e a Giambattista Vico (per Bompiani avrebbe dovuto curare una ristampa della Scienza nuova rimasta allo stato di progetto). L’attenzione al Barocco, in particolare al suo 'momento genetico', alla sua 'condizione aurorale', si collegò per Anceschi all’intenzione di veder nascere, in quel clima non di anime fiacche, ma di 'profonda inquietudine' e di 'angoscia', 'il momento originario della modernità' (il rilievo è di Andrea Battistini, Studi di L. A. sul Barocco, nel volume collettaneo intitolato a Il laboratorio di L. A., a cura di M.G. Anceschi - A. Campagna - D. Colombo, Milano 1998, pp. 238-244): da qui i libri su Eugenio D’Ors e il nuovo classicismo europeo (Milano 1945), introdotto dal Rapporto sull’idea del barocco, poi ripreso in Del barocco e altre prove (Firenze 1953), e soprattutto le sistematizzazioni del tema in Barocco e Novecento con alcune prospettive fenomenologiche (Milano 1960), Le poetiche del Barocco (Bologna 1963), e il suo approdo a L’idea del Barocco (ibid. 1984).

Per Alfredo Giuliani l’interesse di Anceschi per il Barocco trovò impulso nella scoperta che nella «sproporzione», nella «svogliatura», nella «tensione» dell’uomo barocco si annidavano «profonde analogie con lo stato dell’uomo novecentesco». Nel suo contributo al Laboratorio di L. A., Giuliani citava parole di Anceschi ricavate da L’idea del Barocco, che confermavano l’analogia profonda da lui avvertita tra Barocco e Novecento: «Una letteratura del vuoto e del nulla (non è difficile oggi intenderlo) non è necessariamente una letteratura vuota o nulla: può essere il segno di una disperazione tutta vissuta» e può farsi segno produttore «d’incredibili invenzioni, di incubi di fantasie inattese, d’imprevedibili "allegrie"» (p. 39). Nello stesso volume Battistini si spingeva a ipotizzare che «la passione di Anceschi per la stagione irrequieta del Barocco» scaturisse, nel fondo, per Anceschi, «dalla sua stessa inquietudine» (p. 241), derivante dal bisogno di coniugare, nei suoi scritti, ricerca storica e partecipazione militante. Quasi a conferma Anceschi scelse di dedicare il primo numero monografico della rivista il verri (1958, 2) proprio al Barocco visualizzato in prospettiva europea; e del resto l’attenzione alla situazione europea aveva già promosso la ricerca su Bacone e Locke al centro del volume L’estetica dell’empirismo inglese (Bologna 1958), che vedeva la luce in quello stesso anno.

Militanza e teoria: la cattedra di estetica e «il verri»

Dalla seconda metà degli anni Cinquanta Anceschi si trovò di fronte a un periodo di nuovi stimoli e vitali ricerche. Come professore incaricato di estetica iniziò a insegnare dall’anno accademico 1952-53 presso la facoltà di magistero dell’Ateneo di Bologna e poi presso quella di lettere e filosofia, essendo divenuto titolare della cattedra di estetica nel 1962. A Bologna il “professore” amatissimo, benché osteggiato nei primi anni da parte del corpo accademico vicino alla cultura idealistica, ricevette l’attenzione e l’affetto di allievi affascinati dalle sue lezioni. Tra questi Cesare Sughi, futuro critico letterario e giornalista, che descrisse così il primo incontro a lezione con l’'omino sorridente', il 'Gufo Saggio', lontano dalle etichette accademiche (L’allievo perenne. I miei anni con L. A., Bologna 2005, pp. 17 s.): «Senza nessuna solennità, Anceschi cominciò a parlare. La sua faccia era rosea e divertita, una linea impercettibile che dalla bocca saliva agli occhi passando per il naso moderatamente ricurvo, e si sparpagliava sulle guance illuminandole […]. Anceschi aveva una faccia, e sopra la faccia gli occhiali. Fu la mobilità di questo oggetto a segnare per me, dal primo giorno, l’immagine del professore. Anceschi stava iniziando a spiegare le materie del corso, le poetiche del Novecento in Italia, Pascoli, D’Annunzio, Gozzano, Montale, Ungaretti, quindi l’idea dell’arte nel barocco, Shaftesbury, fancy e imagination, che differenza c’è, Bacone e Kant, e mentre sfogliava gli appunti il movimento degli occhiali dalla montatura nera cominciò, il professore se li alzò sulla fronte calva […] e li teneva lì in equilibrio precario […] Vi era nel gesto, un’animazione, un’esigenza espressiva […] una comunicazione traboccante […] Si restava incantati».

Alle lezioni Anceschi faceva seguire liberi dibattiti sui libri in uscita e su problemi culturali d’attualità, cui partecipavano, con gli studenti, critici di passaggio da Bologna, poeti, filosofi, artisti amici. Era il critico militante a svelarsi, il ‘maieuta’ che, lasciata la stagione ermetica, aveva già sponsorizzato l’uscita, presso il piccolo editore Magenta di Varese, nella collana «Oggetto e Simbolo» da lui diretta tra il 1952 e il ’56, del Cuore zoppo di Giuliani (1955), di Essere & non avere di Giuseppe Guglielmi (1955), e soprattutto di Laborintus di Sanguineti (1956), e che si apprestava ad accompagnare la venuta alla luce dell’antologia dei Novissimi, curata nel 1961 dallo stesso Giuliani. Ed era, soprattutto, l’ideatore e direttore del Verri, fondata nel 1956 a Milano con la piena collaborazione, fino dall’inizio, del giovanissimo Balestrini.

Rivista di stampo illuministico fino dal titolo (ispirato al caffè Verri di Milano, luogo abituale di incontro di intellettuali e poeti che ne divennero collaboratori), il verri si fece interprete di un’idea antidogmatica della cultura attenta alla realtà storica e aperta all’interdisciplinarità nella convinzione, dichiarata nell’editoriale firmato da Anceschi sul primo numero (Discorso generale, pp. 3-7), che «la letteratura vive solo in una partecipazione piena dell’amplissimo sistema delle mutevoli relazioni in cui, volta a volta, si attuano tutti i significati del tempo, anzi proprio tali significati essa, nei suoi modi, contribuisce a formare». Di qui l’attenzione alle «questioni più urgenti e stimolanti» che la letteratura, la filosofia, la scienza, l’arte nelle sue varie espressioni, dalla pittura al cinema al teatro alla nuova musica, rendevano di volta in volta attuali, affrontate in prospettiva interdisciplinare e internazionale testimoniata dai numeri 'unici' che si articolarono sempre, nella programmazione della rivista, ai numeri “normali”, a partire dai fascicoli dedicati a Barocco (1958, 2), Nuovo romanzo francese (1959, 2), Fenomenologia (1960, 4), Informale (1961, 3), Condizione atomica (1963, 6), Avanguardia e impegno (1963, 8). Negli Interventi che aprivano ogni numero (poi raccolti in Interventi per “il verri” 1956-1987, Ravenna 1988, a cura e con Postfazione di L. Vetri, pp.199-216, che considerò giustamente quegli interventi «brani di un discorso continuato» condotto attraverso «ricorrenti fili tematici»), Anceschi sottolineò l’impegno a coniugare ricerca teorica e ricerca critica, prese di posizione pragmatiche e riflessione estetica, nella convinzione che non si dà teoria se non la si confronta con l’esperienza, aderendo alle relazioni plurime tra gli eventi: da qui il carattere aperto, in progress, che il direttore assegnò alla rivista, in trasformazione continua a partire dalla stessa articolazione in 'serie' rinnovate, nell’esigenza di stare al passo con il mutare dei tempi arricchendosi ogni volta «di nuovi significati» (L. Anceschi, Del “verri”, perché lo abbiamo fatto e lo facciamo, in Interventi…, cit., p. 11). E di fatto la rivista mantenne un ruolo centrale nel dibattito culturale del Novecento, svolgendo una funzione capitale nello sviluppo della ricerca letteraria non solo nei confronti della nuova avanguardia, ma nello scandaglio di tradizioni antiche e moderne collocate in un orizzonte internazionale.

La produzione critica, filosofica e saggistica fra gli anni Sessanta e Ottanta

L’impegno a congiungere militanza e sistematizzazione teorica perseguito nella rivista, che dal 1995 proseguì sotto la direzione di Giovanni Anceschi e Milli Graffi, caratterizzò in modo sempre più incisivo, sin dai primi anni Sessanta, la vastissima produzione di Anceschi. La si è suddivisa, con partizione condivisa dai critici, in un Orizzonte di comprensione storico/teorico, avviato da Progetto di una sistematica dell’arte (Milano 1962) e da Fenomenologia della critica (Bologna 1966), proseguito con Il caos, il metodo, che contiene l’importante saggio Della poetica e del metodo (Napoli 1981), e approdato a Gli specchi della poesia (Torino 1989), e in un Orizzonte delle scelte, rappresentato dalle antologie, dalla direzione del Verri e dagli studi sulle poetiche e sulle istituzioni poetiche, da Le poetiche del Novecento in Italia (Milano 1962, poi Torino 1972 e Venezia 1990: nuova ed. riv., ampl. e aggiornata a cura di L. Vetri) a Le istituzioni della poesia (Milano 1968) e Da Ungaretti a D’Annunzio (Milano 1976): si rimanda all'illustrazione esemplare per mano di Fausto Curi in Fenomenologia e storiografia nell’opera di L. A. (in Id., Il critico stratega e la nuova avanguardia, 2014, pp. 9-39), e in A. e l’orizzonte della poesia (in Studi di estetica, s. 3, 2013, n. 47, pp. 93-114).

C’è l’Anceschi autore di opere filosofiche che convive con l’Anceschi critico di letteratura e studioso di estetica (fu condirettore con Luigi Pareyson, dal 1967, della Rivista di estetica e fondatore, nel ’73, del Bollettino universitario Studi di estetica): ma ogni volta tutto si teneva in chi non aveva disgiunto mai la «comprensione del mondo molteplice», da indagare in senso aperto, fenomenologico, dalla necessità di interpretare, assumendosi la responsabilità delle scelte. Lo sancì con coerenza ostinata, lo stesso Anceschi, ribadendolo nell’intervista del ’90 già ricordata: «[…] il problema dei rapporti tra il critico e il filosofo – confessò – ha finito per animare ogni mio studio, fino a quella conclusione provvisoria che è Gli specchi della poesia», che andava considerata, precisò, come «una analisi fenomenologica dell’arte», esito degli arricchimenti ed esperienze compiute sino a quel momento (p. 106).

Prima tappa essenziale dell’«analisi fenomenologica» si pose, all’avvio degli anni Sessanta, Progetto per una sistematica dell’arte (1962), traguardo del percorso compiuto in campo teorico e sintesi dei problemi di “estetica dell’arte” inseparabili dal pensiero critico di Anceschi (dall’autonomia alla critica letteraria e artistica, dalle poetiche ai generi letterari, dalle strutture storiografiche del Barocco agli scritti storici su Husserl e Banfi e alla riflessione destinata a Per una estetica filosofica dell’arte). Anche in quel caso l’approfondimento teorico si era congiunto con la ricognizione storiografica, così come aveva fatto l’Anceschi filosofo nelle ricerche avviate su Kant fino dal 1955, pervenute a maturità con le Considerazioni sulla Prima introduzione alla «Critica del Giudizio» di Kant (Bari 1969, pp. 7-53) seguite dal volume Da Bacone a Kant. Saggi di estetica (Bologna 1972), comprensivo del saggio Modelli di metodo per una storiografia estetica. In quegli studi Kant andò assumendo, per Anceschi, la fisionomia del filosofo del Sistema che del Sistema percepì storicamente tutta la crisi; e di crisi, inquadrata su un piano storiografico, si occupò il volume Da Bacone a Kant, perché neppure l’Anceschi filosofo poteva concepire la teoria separata dalla prassi e dalla storia. Lo ripetè ancora nell’intervista del ’90: «Non esiste alcun libro mio, tranne […] Gli specchi della poesia, in cui la parte teorica non sia sostenuta e garantita da una serie di esempi storici»: anche se talora la fenomenologia della riflessione sull’arte e delle domande lasciate aperte poteva imporsi sulle verifiche, nei modi di una riflessione sulla riflessione (Che cos’è la poesia?, Bologna 1976; nuova ed., ibid. 1998, per cura e con Prefazione di F. Bollino, pp. 9-19).

Vetta dell’'analisi fenomenologica' restò, nell’89, proprio il volume che Anceschi dichiarò nell’intervista radiofonica non sostenuto da una serie di esempi storici, ma in cui i critici riconobbero condensato «il senso dell’eredità culturale e spirituale anceshiana» (cfr. C. Gentili, L’«Umanesimo disilluso» di L. A., in L. A. tra filosofia e letteratura, Bologna 1997, p. 74). In effetti toccò a Gli specchi della poesia rappresentare, in forma di saggio «mai assertorio ed essenzialista» – come indicò Anceschi nella quarta di copertina – la summa del percorso fenomenologico avviato con Autonomia ed eteronomia dell’arte. E del saggista l’autore di quel panorama, in cui si trovò sintetizzato il rapporto tra poetica e istituzioni, filosofia dell’arte, generi, critica nelle sue diverse modalità (dalle figure del critico-poeta al critico scrittore, saggista, filosofo, scienziato), mise in luce tutta l’eleganza e la versatilità: quella che gli consentì sempre, nei momenti più alti della sua riflessione, di spezzare il ritmo della scrittura, insinuare sul piano sintattico lo scatto ironico rivolto al lettore «paziente e non disattento» (quel lettore – rilevò Giuseppe Pontiggia – prediletto da Anceschi con quella sua «scrittura mobilissima» e «attraversata da trasalimenti, allusioni, ironie dissimulate, pacati rammarichi» (v. La bussola A. sulla via dei lettori, in Omaggio a L. A., 1991, p. 56).

Eleganza e versatilità caratterizzarono allo stesso modo le vette del percorso critico letterario, rappresentate dalle analisi dedicate alla poetica dell’oggetto che da Pascoli si irradiava verso il Montale dell’eliotiano correlativo oggettivo, e a quella dell’analogia, che vedeva in D’Annunzio (iniziatore di una linea che raggiungeva crepuscolari ed ermetici) un protagonista indiscusso, sia nei capitoli delle Poetiche del  Novecento in Italia, sia in quelli dedicati a Pascoli e a D’Annunzio nelle Istituzioni della poesia, sia ancora nel saggio su D’Annunzio e il sistema dell’analogia compreso in Da Ungaretti a D’Annunzio. Punto d’arrivo della perlustrazione dannunziana restò poi l’Introduzione ai Versi d'amore e di gloria (I-II, Milano 1982-84), stesa nella casa divenuta negli anni rifugio estivo di Anceschi, accanto alla prediletta di Rapallo: quella di Vetto d’Enza, dove il critico ricostruì, con rigorosissimo studio, il farsi del laboratorio poetico di D’Annunzio, dalle inquietudini, dal 'dubbio profondo', delle prime scelte, fino alla poetica dell’artificio e del nulla su cui si concluse, per il critico, la sua parabola.

Anche nel caso di D’Annunzio, era stato dunque il momento in cui il poeta si trova a decidere di sé a catturare l’attenzione dell’Anceschi critico. E ancora sul «tempo acuto, aperto, fertile in cui una idea di poesia stimolante si vien definendo e formando» il critico si soffermò nell’ultima fatica, consegnata a un libretto prezioso testimone dell’incontro atteso e rinviato a lungo, nel corso della vita, con Leopardi. Davvero un lascito spirituale restò affidato alle cinquanta paginette di Un laboratorio invisibile della poesia. Le prime pagine dello “Zibaldone” (Parma 1992) dedicate a illustrare il momento «in cui la poesia comincia ad accendersi proprio come poesia» e in cui «la poesia pensa il proprio progetto di formazione e di significato» (ibid., p. 10). A quel momento Anceschi si dedicò sempre, perché in fondo fu la poesia, in tutte le fasi del suo lavoro, a indirizzarne ogni volta le scelte critiche e le riflessioni teoriche.

Gli ultimi anni

A Bologna, città di adozione dove si era trasferito da Milano nei primi anni Sessanta e aveva messo radici la sua scuola, Anceschi lavorò fino a quando le condizioni fisiche glielo consentirono, tra lezioni di dottorato e incontri con i redattori del Verri nella casa di via Finelli. Fino all’ultimo si dedicò alla stesura dei diari, iniziati nel 1948 (l’ultimo foglio reca la data 23 aprile 1995) e pubblicati nel Verri (2006), per gli anni 1986-1995 (rispett. sui numeri 31 e 32, pp. 17-156 e 7-160). Li stese, Anceschi, con l’eleganza e il rigore del Valéry dei Cahiers da lui tanto amato, reso semmai più inquieto e ironico nella fedeltà al principio guida dell’intera sua vita: quello di «cercare la regola, ma amare l’irregolarità», tenendo sempre «un certo distacco dalle cose, dalle affermazioni, dalle verità raggiunte» (il verri, 31, p. 67).

Morì a Bologna il 2 maggio 1995.

Professore emerito dal 1986, presidente dell’Ente bolognese manifestazioni artistiche, accademico dei Lincei dal 1988, il 15 novembre 1983 ricevette dal sindaco Renzo Imbeni l’Archiginnasio d’oro con discorso pronunziato da Gillo Dorfles, e al Comune di Bologna fece dono del patrimonio librario (più di 30.000 stampati) e archivistico (oltre 18.000 lettere e migliaia di autografi), conservato presso la Biblioteca comunale dell’Archiginnasio.

Opere

La vastissima produzione di Luciano Anceschi è catalogata nel volume Il laboratorio di L. A. Pagine, carte, memorie, a cura di M.G. Anceschi - A. Campagna - D. Colombo, Milano 1998, con in Appendice II una accurata Bibliografia di L. A. 1928-1998, per cura di A. Serra e M. Giuffredi. A integrazione delle opere citate nel testo, si indicano nell’ordine: Che importa chi parla? Dialoghi con L. A., a cura di M. Gulinucci (con Bibliografia 1928-1991, a cura di A. Serra, pp. 157-214), Reggio Emilia 1992; L. Anceschi, Autonomia non è indifferenza. Scritti dal 1929 al 1963, scelti e ordinati da L. Cesari, Rimini 1997 (con una scelta di voci bibliografiche 1936-97).

Di Autonomia ed eteronomia dell’arte si elencano le quattro edizioni: Firenze 1936 (con sottotitolo Sviluppo e storia di un problema estetico); Firenze 1959 (con sottotitolo Saggio di fenomenologia delle poetiche e nota: A proposito di questa seconda edizione, pp. VII-XXII); Milano 1976 (nota invariata ma con titolo: Annotazione 1959); Milano 1992 (con nota Sviluppi, 1992); Decisione della forma. Esercizi critici e della memoria sulla pittura e sulle arti, a cura di A. Serra - F. Bollino, introd. di R. Barilli, Bologna 1993; per l’antologia Quasimodo, Lirici greci, Anceschi scrisse tre introduzioni, tutte riunite nell’ed. a cura di N. Lorenzini (Milano 1985); Ultima lezione e programma. 11 maggio 1981, in Studi di estetica (giugno 1981), poi in Itinerario aperto (Parma 1990); Tra Pound e i novissimi, a cura di A. Tesauro (Salerno-Roma 1982); Cinque lezioni sulle istituzioni letterarie (Napoli 1989); L’esercizio della lettura, a cura di L. Rampello e con introd. di G. Guglielmi (Parma 1995).

Fonti e Bibliografia

La Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna custodisce, nel Fondo L. A. (fondo Librario)  e nel Fondo speciale L. A. (fondo archivistico, comprensivo dei carteggi) oltre 27.000 volumi, 18.000 lettere  e alcune migliati di manoscritti e dattiloscritti, inventariati nella casa di via Finelli nel corso di 8 anni in vista della donazione. I Diari sono, invece, conservati a Milano presso l’Archivio privato G. Anceschi - M. Graffi.

Per un repertorio della critica si rimanda a: L. Rossi, Situazione dell’estetica in Italia, Torino 1976, pp. XXX-LXXIX, e V. De Angelis, L’estetica di L. A., Bologna 1983.  Si vedano inoltre: C. Gentili, Nuova fenomenologia critica: metodi e problemi  dell’estetica fenomenologica italiana, Torino 1981, ad ind.; S. Verdino, L. A.: esperienza della poesia e metodo, Genova 1987; Omaggio a L. A. (20 febbraio 1991), Modena 1991; L. A. tra filosofia e letteratura, a cura di R. Barilli et al., Studi di estetica, s. 3, XXV (1997), 1 (n. monografico); I. Zaffagnini, A. lettore di Kant , ibid., pp. 189-201; L. A. tra filosofia e letteratura,  Bologna 1997; Attualità di L. A. (dieci anni dopo: 1995-2005), Studi di estetica, XXXIII (2006), 32 (n. monografico); T. Lisa, Le poetiche dell’oggetto da L. A. ai Novissimi. Linee evolutive di un’istituzione della poesia del Novecento, Firenze 2007; Gli specchi dell’estetica. Per il centenario della nascita di L. A. (1911-1995), a cura di F. Bollino - F. Cattaneo - G. Matteucci, in Studi di Estetica, s. 3, 2013, n. 47 (n. monografico); F. Curi, Fenomenologia e storiografia nell’opera di L. A., in Id., Il critico stratega  e la nuova avanguardia, Milano-Udine 2014, pp. 9-39.

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