DALLA, Lucio

Dizionario Biografico degli Italiani (2015)

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DALLA, Lucio

Marinella Venegoni

Cantautore, clarinettista, regista, visionario, nato a Bologna il 4 marzo 1943, figlio unico di Giuseppe e di Iole Melotti.

Lucio Dalla è stato un artista complesso, che ha incontrato la creatività grazie a un’irrequietezza onnivora. Ha attraversato passioni sportive come il basket e le automobili, anche il calcio della sua amata squadra cittadina, si è infilato progressivamente nella musica popolare, e ha imparato strada facendo; ne ha estratto semi felici di jazz, e più tardi ha guardato alla cultura alta, senza mai perdere di vista l’immediatezza dell’espressività. La qualità del suo percorso artistico è fissata nella capacità di mescolare linguaggi e ispirazioni, non rinunciando mai a una forte dose di autoironia. Ha consegnato al ritmo interno della sua musica il segno di una parola non ricercata però sempre immaginifica (non a caso, alcune canzoni sono difficilissime da cantare per gli altri). Il suo stile ha conquistato più generazioni.

Il cantante e la città

La Bologna dei suoi primi anni di vita era una città segnata ancora drammaticamente dalla guerra. Molte famiglie erano sfollate verso le campagne dell’Emilia, trovando nella lontananza dalla città una più sicura speranza di sottrarsi ai pericoli degli attacchi dal cielo. I Dalla erano rimasti in città, una delle mille famiglie della piccola borghesia urbana che riuscirono a superare senza troppi danni le penurie dei lunghi anni del conflitto, e quando la sirena strillava l’allarme – di giorno e di notte – aveva potuto trovare riparo dalla minaccia delle bombe nel rifugio antiaereo che era stato organizzato nei sotterranei dell’edificio della Banca d’Italia; erano esperienze diffuse di quel tempo, e i primi ricordi che Lucio rammentava del proprio passato disegnano una vaga memoria di quell’affanno, delle fughe rapide nel buio, dell’attesa paziente che lo sfiorava, e dei tonfi angosciosi delle esplosioni.

Più tardi, Lucio unì e integrò quei primi ricordi, appena abbozzati, con le piccole avventure quotidiane di un tempo non facile, i giochi ingenui nei giardinetti spelacchiati di piazza Cavour, di fronte a casa e a due passi dal rifugio della Banca d’Italia, le corsette incerte, una palla di pezza. E «siamo nati tutti orfani» (Baldazzi - D’Arvia, 1984, p. 14) sarà il consuntivo amaro di quel tempo. Il papà resterà sempre una figura evanescente, scomparsa troppo presto, che non entrerà mai davvero nei sentimenti che il bimbo diventato poi uomo si trascinava dal passato («Avevo 7 anni quando mio padre cominciò a star male. Dovette peggiorare in fretta […]. Poi morì […]. Provai la sensazione struggente di una perdita che mi consentiva di dire a me stesso con pietà e tristezza: “Da oggi sei solo come un cane”»; L’Europeo, n. 42, 18 ottobre 1982, pp. 45 s.); e la mamma, la signora Iole, occuperà, lentamente, progressivamente, ogni spazio emotivo del piccolo Lucio, seguendolo dapprima da lontano nella casa affollata dei tessuti e dei modelli del suo lavoro di stilista, e però recuperando, poi, un rapporto reale di affetto attraverso il sostegno continuo, pressante, quasi complice, prestato alla vivacità istrionica che il figlio rivelava nei giochi con i suoi piccoli compagni di strada.

Briciola

Lucio fu un bimbo irrequieto, scatenato, sempre in movimento, che imitava i grandi e rispondeva senza timori alle loro sollecitazioni a far vedere quanto fosse bravo a fingere di ballare il tip-tap o a canticchiare qualche parola di canzoni che aveva sentito alla radio, seduto accanto alla mamma che tagliava e cuciva i vestiti per le clienti che la andavano a trovare. Già a tre anni gli avevano fatto cantare una filastrocca in un caffè concerto, in Piazza Maggiore, e lui se l’era cavata senza inciampi, con stupore e divertimento dei clienti del bar. Lo chiamarono ‘Briciola’ da subito, perché era piccolo, minuto, un fagotto di panni con un faccino sottile e, in una foto di quel tempo, i capelli tagliati da una riga sulla destra. E quel nome gli restò appiccicato addosso come una seconda identità.

Ma era talmente bravo in queste sue spensierate imitazioni degli adulti che venne ingaggiato per poche lire da una compagnia di operette che si esibiva nella sala del teatro che avrà poi per nome La Soffitta, anche questa (in via d’Azeglio) a pochi passi da casa sua: aveva piccole parti, ovviamente, ma era talmente naturale, rilassato, anche divertito, che strappava subito la simpatia del pubblico, e quando sul palco balzava fuori da un valigione sgangherato dentro cui lo avevano nascosto e trascinato fin sulla ribalta, allora l’applauso e le risate scatenavano la sala, e Briciola era tutt’uno tra bimbo e personaggio.

Una vecchia foto lo mostra con le mani nella tasche dei pantaloni, a gambe larghe, proprio come il piccolo inaffidabile ‘spaccone’ che recitava sul palco, e in un’altra si torce verso l’obiettivo con la paglietta in testa e la canna di bambù, nella imitazione di un Nino Taranto che canta Dove sta Zazà? Un suo vecchio compagno di giochi a piazza Cavour, che divenne poi un suo paroliere e restò comunque sempre il più affettuoso, forse, dei suoi amici, Gianfranco Baldazzi, lo ricorda come «una piccola star», una ‘briciola’ spassosa e spigliata che accompagnava la troupe dell’operetta in giro per l’Emilia e diventava dappertutto un personaggio riconosciuto, famoso a suo modo.

Un ruolo che finisce

Ricordò poi Lucio: «Ma a sette otto anni non me la sentivo già più di recitare il ruolo del bambino. Prima, non me ne fregava niente: fare l’attore era per me solo un gioco! La fine del teatro per me coincise con la scoperta dell’erotismo. Coi primi stimoli e coi primi rapporti smisi di essere un bambino prodigio» (Baldazzi - D’Arvia, 1984, p. 19). Era arrivato il passaggio all’adolescenza, e i viaggi scassati con la compagnia di giro, le recite e le interpretazioni di particine che ormai lo annoiavano, non gli bastavano più: aveva viaggiato quanto nessun bambino, aveva avuto successo e si era fatto conoscere perfino sul palco del teatro Valle, a Roma, e anche Vittorio De Sica e Nino Taranto si erano interessati a questo ragazzetto che a stare sulla scena aveva la capacità di un professionista; ma ora un tempo si chiudeva.

«Di Bologna in quegli anni ho un ricordo pieno di neve... Avevamo sempre mani e piedi gelati. Eravamo infagottati in cappottoni, calzoni alla zuava, sciarpone e guanti di lana. Vivevamo per strada, in piccole bande. Ci litigavamo la proprietà dei luoghi. Una volta prendemmo di forza un giardino... C’era la mania della moto, Guzzi, Rumi, Isomoto, Gilera. I ragazzi facevano le corse per le strade, sprezzanti del pericolo, con le ragazze sul sellino di dietro. Il sesso era un vero mistero… A noi dicevano che il sesso era il diavolo, quindi dovevamo lavorare di fantasia» (ibid.).

Molti anni più tardi, ormai uomo adulto con fantasie che certamente hanno radici in quei tempi di difficile adolescenza, ebbe a scrivere Disperato erotico stomp, e dovette essere come un felice recupero, e un risarcimento divertito, di quel mistero.

Gli anni del jazz

Da ragazzo, la pratica felice del rapporto con un pubblico sempre diverso in quelle sceneggiate a teatro, l’abitudine a recitare, la scioltezza delle improvvisazioni da mettere in campo allegramente di fronte a un imprevisto, avevano comunque formato la base sulla quale Lucio Dalla costruì poi il suo rapporto come interprete, quando «quasi senza voler nemmeno scegliere» (ibid., p. 21) si provò a tentare strade nuove, in una città dove il vivere leggero, l’abbandonarsi al piacere del frequentar gli amici e passare le serate al bar o nell’osteria di quartiere era un costume quasi genetico. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, Bologna era diventata una delle più note e frequentate ribalte del jazz, con piccoli locali che nascevano per le stradine del centro storico e facevano concorrenza vincente a Roma e Milano. C’era anche Dalla in quei locali, dapprima come un frequentatore affascinato da quella musica strana, così lontana dalle melodie che la signora Iole ascoltava alla radio, ma poi con una voglia irrefrenabile di starci da primo attore, sperimentando suoni e armonie con uno straordinario talento naturale. Ricordava Lucio:

«Quando avevo 12-13 anni, mia madre mi regalò un clarinetto. Cominciai ad ascoltare jazz, Bologna era invasa dal jazz. C’erano formazioni di jazz tradizionale, con un vasto seguito di amatori. Era una cosa molto provinciale, che si accompagnava al gusto delle cose difficili e un po’ snob, ed era diffusa negli ambienti goderecci. Cominciai a suonare praticamente senza insegnanti» (ibid.).

Nel 1950, alla morte del padre, direttore del Club del Tiro a Volo di Bologna, la mamma lo iscrisse in un collegio religioso di Treviso, che lui frequentò per sei lunghi inverni («è stato il mio servizio militare, anticipato»; ibid., p. 21) con uno spirito ribelle, marcatamente anarchico, e dove apprese anche a suonare, pur senza saper leggere la musica. Il suo strumento preferito fu la fisarmonica, che imparò a suonare da autodidatta, dopo averne ricevuta una in regalo dallo zio Ariodante Dalla, popolare cantante di quegli anni; ma quando, poi, a Bologna, ebbe tra le mani il suo nuovo clarinetto, se ne innamorò subito.

«In poche settimane avevo fatto enormi progressi, e da lì rientrai nell’ottica artistica... Ma non ero più il bimbetto sfrontato che si esibiva nelle operette: in qualche modo mi nascondevo dietro la musica. Lasciavo che fosse lo strumento a far emergere il mio bisogno di pubblico» (ibid., p. 21).

Più tardi, ormai famoso, suonò anche il pianoforte, e se ne accompagnò in molti concerti affollati nei teatri e negli stadi, e suonò anche il sax, con un piacere dell’improvvisazione che viene via diretto dalle cantine bolognesi dove aveva cominciato a farsi notare nelle jam sessions con i grandi del jazz, in lunghe serate dove dal dixieland si passava senza grandi strappi al be-bop e al cool jazz. Nel 1982, agli studenti di un seminario su ‘Il mestiere della musica’, ricordò in questi termini quel tempo lontano:

«Quando mi regalarono il clarino, andai subito da un maestro che mi spiegasse come funzionava. Ressi solo per tre lezioni. Non perché non fosse un bravo maestro, per carità! Si affannava a spiegarmi che il clarinetto è uno strumento melodico, come era suo dovere: ma io mi rifiutavo di imparare la tecnica giusta, e non l’ho mai imparata! Anche adesso, tecnicamente, io sono un bidone, lo giuro! Ho un mio modo istintivo di cavar suoni dal clarino, lo uso ritmicamente. Questo scatenava la curiosità di chi mi ascoltava, perché potevano ben dire che suonavo come nessun altro. Hengel Gualdi, che è molto più bravo di me – è un vero strumentista – incuriosiva meno gli americani che venivano a Bologna di quanto facessi io con la mia tecnica personale» (ibid., p. 22).

E di questo suo gusto divertito di non fare come gli altri, d’essere sempre e comunque un trasgressivo, uno che non accetta le formule e gli schemi, gli rimase poi la gag che avrebbe usato in alcuni concerti, di smontare e rimontare sul palco il suo clarino, col pubblico che seguiva felice la mimica e la tecnica.

Verso il professionismo

Dalla partecipazione improvvisata alle jam sessions – suonò anche con Chet Baker, che in quegli anni viveva a Bologna, ed Eric Dolphy, Charles Mingus, Bud Powell – a una vera attività di strumentista, Lucio Dalla passò quasi inavvertitamente verso l’inizio degli anni Sessanta. Cominciò con la band di dilettanti che si erano dati il nome di Reno Jazz Gang (c’era anche Pupi Avati, poi noto regista), e però presto la sua vivacità, la facilità dell’improvvisazione, la scaltrezza istrionica con la quale affascinava il pubblico, lo fecero ingaggiare da uno dei complessi più noti del dixieland italiano, il gruppo della Second Roman New Orleans Jazz Band di Carlo Loffredo. I banchi di scuola, con cui aveva avuto frequentazioni molto difficili – prima ragioneria, poi al liceo classico e infine al linguistico – vennero abbandonati definitivamente; Dalla divenne un musicista di professione.

I Flippers

All’inizio degli anni Sessanta, Lucio era un giovane musicista che aveva avuto già qualche riconoscimento artistico. Aveva estro e personalità, un carattere che alternava momenti di introversione a improvvise esplosioni di allegria, e viveva tra Roma e Bologna seguendo le serate della band di Loffredo. Ma non era una gran vita, né il gruppo gli offriva grandi possibilità di mettersi in mostra; lui era soltanto uno strumentista tra gli altri. Alla prima occasione abbandonò allora la formazione romana e si unì a uno scanzonato gruppo di giovanotti innamorati quanto lui del far musica in allegria: erano i Flippers, venuti fuori dal generone che tra cantine e piccole balere incastrava serate dove jazz e melodie italiane si fondevano senza pudore con gli echi del rock’n’roll che ormai aveva conquistato la nascente generazione dei ‘giovani’. Alla batteria c’era Fabrizio Zampa, figlio del regista e allegro animatore dei quartieri bene della capitale, il pianoforte lo strimpellava Franco Bacardi, e con loro suonavano i due fratelli Catalano (Massimo, trombettista che acquistò poi una certa notorietà col suo personaggio televisivo di Renzo Arbore, e il contrabbassista Maurizio), le percussioni erano di Romolo Forlai; Dalla era voce solista oltre che clarino e sax. I Flippers si fecero conoscere presto nel giro della nuova musica che mescolava ribellione e divertimento, e incisero alcuni 45 giri, dando anche l’occasione al clarinettista di esibirsi nel suo primo disco come cantante: Lei (non è per me), un testo che – come usava a quel tempo – nella versione di Sergio Bardotti e Gino Paoli era la rimasticatura italiana d’una cover internazionale, Careless Love, di Bessie Smith e Ray Charles; e la voce aspra, volutamente soul, di Dalla, è una forte stonatura nella tradizione del canto melodico dominante in quegli anni. I Flippers suonavano in dancing e balere, accompagnavano cantanti assai noti come Edoardo Vianello, furono anche l’attrazione di una sala a quel tempo famosa, Le Roi Lutrario di Torino, dove Dalla s’inventò di esibirsi a piedi nudi; l’ambiente – architettura di Carlo Mollino – non era dei più trasgressivi, ne nacque qualche aspro scontro col gestore del locale, e una sera, indispettito, Lucio arrivò a pitturarsi i piedi nudi per farli sembrare dei calzini.

Ma il risultato di una così intensa e quasi anonima attività era modesto, ben pochi si accorsero del nuovo cantante; in quegli anni, la popolarità si raggiungeva e si consolidava soprattutto con la partecipazione al Cantagiro, manifestazione canora che portava lungo le strade italiane le nuove star della musica, e che però gli riservava una salva solenne di fischi e lanci di ortaggi quando lui riproponeva dal palco la sua Lei. In quello stesso sconfortante Cantagiro del 1964 Lucio Dalla tuttavia, un gigione introverso e riservato, strinse un’intensa amicizia con un altro spirito introverso quanto lui e però già molto famoso, Gino Paoli. Ricorderà ammirato Paoli: «Lucio si mostrò veramente un duro e non si lasciò abbattere» (ibid., p. 30). Fu l’amicizia generosa di Paoli ad aprirgli spazi altrimenti impossibili, per la concorrenza spietata che in quegli anni dominava il mondo discografico. Dirà più tardi Dalla, ricordando il passaggio ormai definitivo dal dixie alla ‘musica leggera’ (questo era il nome che ancora si dava alla canzone di consumo):

«Mi disturbava il carattere esclusivo e snob che aveva il jazz, per chi lo suonava e per chi lo ascoltava. Sembravano dei cospiratori! Uscire da quest’ottica provinciale, mi mise in contatto con la varietà del pubblico: quello odioso dei night di lusso, che crede di poterti comperare con un assegno, e quello indecifrabile dei Cantagiri, che devi inchiodare con tre minuti di canzone. Una esperienza tremenda ma necessaria, che t’insegna l’umiltà e, in definitiva, il mestiere» (Tutto, mensile di musica e spettacolo, marzo 1979).

Tanta fatica

Sì, il mestiere e anche l’umiltà, ma furono anni molto duri. Lucio Dalla, che ora amava indossare un poncho vagamente latinoamericano, costruì un trio allegro e nervoso, gli Idoli, che però era soltanto uno dei tanti, semisconosciuti, gruppi di musica pop (si cominciava in quegli anni a sostituire orgogliosamente con ‘pop’ la definizione tradizionale di ‘musica leggera’, per marcare una differenza di approccio e d’impianto culturale), con serate difficili di fronte a un pubblico ovunque distratto e diffidente. L’aiuto di Paoli, di Bardotti, e soprattutto di un grande scopritore di talenti, Gianfranco Reverberi, lo fecero arrivare anche sul mitico palco del Festival di Sanremo, con una divertente e irrituale Pafff... Bum, nel 1966, in abbinamento con dei mostri sacri, gli Yardbirds; e poi ancora, l’anno dopo, con una efficace interpretazione di Bisogna saper perdere, che però gli rubò qualsiasi prospettiva di successo nella versione, più ritmica, dei Rokes. In quel 1967, il Festival venne travolto dal suicidio di Luigi Tenco, con cui Dalla aveva cominciato a collaborare: «Andammo a Sanremo insieme, avevamo la camera vicina, la sua morte mi sconvolse… non dormii per un mese» (Lucio Dalla: il futuro dell’automobile, 1977, p. 101).

Furono anni di gavetta semioscura, che Dalla tentò poi di raccontare in un brano-confessione (Lucio dove vai), paradossale e amaro, per il quale scrisse la musica che accompagnava il testo di Bardotti, lato B del 45 giri con la canzone sanremese di Cassia-Cini (cantava amaro: «Lucio come stai? | Cosa pensi dei momenti colorati | che tu chiami vita?»). La contestazione sessantottina, la musica pacifista, i messaggi ‘politici’ che la scrittura dei cantautori di quegli anni indossava con forte carica militante lo sfioravano appena; ne registrò l’eco soprattutto in due brani senza grandi fortune, la nervosa Quando ero soldato e poi, con un’ispirazione molto poetica, 1999. Entrambe facevano parte del suo primo album, che ebbe per titolo proprio 1999, e che fu una sorta di manifesto programmatico del suo stile canoro, giocato sullo swing, sulla memoria dello scat appreso negli anni del jazz, su una ironia danzante e fuori schema. L’album non ebbe grandi riscontri di vendita, mentre un discreto successo se lo guadagnò Il cielo, i cui coautori furono propria quella banda di amici che aveva sempre accompagnato e sostenuto la sua traiettoria artistica, Bardotti, Baldazzi e Reverberi. Il cielo e Hai una faccia nera nera divennero imprevedibilmente popolari in America Latina, consentendogli una tournée argentina e un album quasi interamente in spagnolo (Esta la cosa negra negra, 1969).

Il primo testo

Ma i 45 giri e le serate non erano granché per vivere, e Dalla si industriò anche a montare la colonna sonora di un noto locale bolognese, il Whisky a Go-go, a tentare senza fortuna la strada delle serate di teatro-musica con un localetto alternativo, La Grondaia, a fare anche la sua prima esperienza cinematografica, con una parte nei Sovversivi dei fratelli Taviani, e perfino a guadagnarsi – con gran sorpresa – il suo primo premio artistico, con la coppa assegnatagli dalla critica discografica al Festival delle Rose, nel 1967, all’Hilton di Roma. Un autentico colpo di fortuna gli arrivò quando, nel 1969, gli fu affidata la conduzione di un programma tv sui fumetti (Gli eroi di cartone) e Lucio, che ne scrisse la canzone guida Fumetto, era talmente ispirato, convincente, quasi egli stesso un cartone animato, così piccolo, tutto nervi, il viso come una maschera, che si guadagnò una prima larga popolarità, soprattutto fra i piccoli telespettatori; e l’anno dopo pubblicò il secondo LP, Terra di Gaibola, dal nome di una collina nella periferia bolognese. Non ebbe alcuna risonanza commerciale ma conteneva, su una partitura di Paoli, il suo primo testo come autore: Non sono matto (o la capra Elisabetta); era già il segno forte di una personalità artistica irriverente, paradossale, tentata dalla rottura dei moduli correnti del consumo musicale.

Gesù Bambino

La svolta arrivò nel 1971, dal palco di San Remo. La canzone che Dalla interpretò, 4/3/43, non vinse, ma la linea melodica della ballata, la tensione struggente del violino, la sovrapposizione tra il racconto di quel «Gesù Bambino» (era questo il titolo originale della canzone) e la figura minuta e modesta del cantante ebbero sul pubblico un impatto talmente forte, intenso, che il suo successo travolse ogni classifica nazionale. Le parole non erano di Lucio, ma di Paola Pallottino, una illustratrice di libri per bambini, «una ex-bambina prodigio, proprio come me. Aveva scritto parecchi testi per me. Tra questi c’era Gesù bambino. Mi piacque. Lo musicai alle isole Tremiti senza strumento, cantandolo alla maniera dei cantastorie» (Baldazzi - D’Arvia, 1990, p. 68). In realtà, il linguaggio della canzone era inusuale per l’epoca, «allora non si poteva pensare di dire in una canzone “Gesù bambino” o “puttana”. La censura a San Remo fu spietata: la parola “puttana” scomparve, e il titolo “Gesù bambino” diventò la mia data di nascita, “4/3/43”» (ibid., p. 69). Infine, il ritornello, che recitava «E ancora adesso mentre bestemmio e bevo vino… per i ladri e le puttane sono Gesù Bambino», venne censurato con «E ancora adesso che gioco a carte e bevo vino… per la gente del porto mi chiamo Gesù Bambino».

Lo sbarco al Festival era stato comunque possibile soltanto per il recupero che da una prima bocciatura, durante la selezione delle canzoni candidate, ne avevano fatto i tre membri di una giuria speciale, lo scrittore Alberto Bevilacqua, il regista Piero Vivarelli, e quel Fabrizio Zampa ch’era stato compagno felice nella banda dei Flippers, diventato critico musicale del Messaggero. Subito famosa e registrata all’estero da celebri interpreti come Chico Buarque de Hollanda, o come Dalida che l’aveva cantata con lui a Sanremo, rivoluzionò la vita di Dalla, gli aprì anche la strada per una tournée in America:

«E immediatamente, per venti milioni di italiani che seguivano il Festival ero un cantante di successo. Ma stranamente mi etichettarono come un cantante di sinistra. La gente, il giorno dopo, mi fermava per strada e mi chiamava compagno. Non che mi dispiacesse, ero sempre stato di sinistra. Solo che non mi pareva di avere interpretato una canzone politica!» (ibid., p. 68).

Il successo di Sanremo determinò un imprinting che fissava già i caratteri con i quali veniva ormai connotato in forma definitiva il profilo artistico e umano di Dalla nell’immaginario del pubblico, un cantante dello spazio ‘alternativo’, anarchico a suo modo, ribelle ma profondamente umano, capace di emozioni intense e però anche di ironie sottili, quasi il paradosso di sé stesso.

In quel periodo andavano personaggi come Gaber, Fo, Bennato, così anomali da divertire proprio proponendo problemi drammatici. Così feci quella canzone e la portai nella sede meno idonea, Sanremo. Non solo: il protagonista era un ribaldo che però si chiamava Gesù, sicché impersonava sia il bisogno di religiosità, sia il bisogno di trasgressione della gente. Il brano era, dunque, un intreccio di anomalie (Jachia, 1998, p. 140).

E da quel giorno, per tutti, Dalla fu quel Gesù Bambino.

Ora, Roversi

Il cantante non si fermò al successo di pubblico: più che mai irrequieto, insoddisfatto, cercò altro. Amava provarsi su strade e percorsi sempre nuovi. Un tempo era finito, ne tentava uno inesplorato. C’era anche il cinema, di nuovo, e di nuovo con i fratelli Taviani, che lo avrebbero voluto per Allonsanfan. Però la sua storia era la forma-canzone, e le ricerche, le innovazioni, restavano sempre rinserrate in quel modulo espressivo. Pubblicò il suo primo album di successo popolare (Storie di casa mia, 1971), con due testi di presa immediata, Il Gigante e la bambina e Itaca, ma costruito soprattutto con una sapienza musicale che metteva in rilievo la qualità originale dell’interpretazione vocale rispetto a un’organizzazione strumentale semplice, pochi accordi narrati su uno sfondo appena leggibile. E fu così ancora col Festival del 1972, dove propose Piazza Grande, scritta con Rosalino Cellamare (Ron), Bardotti e Baldazzi, in una struttura musicale piana e fortemente cantabile, incentrata sull’intensa storia emotiva di un senzatetto, racconto simbolico del rapporto fra l’uomo e la città.

Dalla si sentiva stretto nei panni che si era cucito addosso. Cercava strade nuove, nuove suggestioni. Nacque così la straordinaria collaborazione con un poeta bolognese, un grande nome della sperimentazione letteraria, Roberto Roversi, già animatore di una rivista poetica di forte impegno culturale, Officina (1955-1959). Non fu una sintonia immediata: caratteri, formazione, progettualità artistica avevano certamente similitudini e assonanze; erano, entrambi, anime inquiete, sentivano la dimensione del tempo collettivo e la sfida del fantastico che le mutazioni sociali imponevano al vissuto comune. Comunque la collaborazione tra scrittura delle parole e scrittura della musica creò, per finire, alcuni dei brani più significativi della tensione di quegli anni, in una società che andava perdendo l’identità del passato e si tuffava vorticosamente nei nuovi moduli della velocizzazione industriale. Nacquero Nuvolari, L’operaio Girolamo, Anidride solforosa, Il passato, il presente, L’auto targata TO, Comunista. Parole pesanti, una cantabilità non consolatoria. «Canto l’uomo che è morto, | non il Dio che è risorto» (così in Comunista). I tre album che condensavano quell’esperienza comune (Il giorno aveva cinque teste, 1973; Anidride solforosa, 1975; e soprattutto Automobili, 1976) si riveleranno poi seminali per la canzone d’autore italiana. Vi si srotolava un canzoniere autenticamente ‘politico’, che raccontava un paese e la sua gente nei loro giorni d’ogni giorno, senza slogan ideologici e però con una tessitura profonda, penetrante, cui musica e canto offrivano l’eco di una sonorità nervosa, fatta di scartiarmonici e derive tonali mai rassicuranti. Dalla non era mai stato tanto creativo con la propria voce, flessibile e però puntuta, tutta slanci e ripieghi; e le orchestrazioni ne sottolineavano la modernità vibrante, lo strappo sonoro.

La collaborazione si ruppe nel 1976, per l’inconciliabile distinzione fra l’impianto dello spettacolo teatrale, che era fatto di dodici canzoni (sarebbe poi stato proposto anche dalla RAI in sei puntate), e l’album, che invece ne riportava soltanto sei (dominate da Nuvolari e Intervista con l’Avvocato, due gioielli senza tempo della canzone d’autore, epici, ironici, coinvolgenti come pochi). Fu una rottura amichevole, ma comunque una rottura. Dalla chiuse per sempre un altro ciclo della sua vita artistica; e fu pronto a ripartire ‘altrove’. Ma ora portava con sé una consapevolezza nuova:

«Roversi mi ha insegnato cose ininsegnabili… mi ha fatto capire delle cose che non avrei mai capito né a scuola né da solo né andando tre volte sul Monte Sinai. Ho capito soprattutto l’organizzazione del pensiero della canzone, la parola, il segno, il senso, la forza» (cfr. Il Foglio, ed. digitale, 1° marzo 2012: http://www.ilfoglio.it/articoli/v/104183/rubriche/il-magico-quotidiano-di-lucio-dalla-cantautore-felice.htm).

Il mare

Morì in quei giorni del 1976 la mamma di Dalla, figura fondamentale nella costruzione identitaria del cantante e sua prima, entusiastica fan, già dai giorni lontani di quel ‘Briciola’ sfrontato che passeggiava sul palco dei piccoli teatri di quartiere. Lucio ne ebbe un amaro sbandamento emotivo e psicologico; si chiuse in sé stesso, si ritirò per qualche tempo da ogni contatto pubblico, andò a rinchiudersi in quelle isole Tremiti che aveva scoperto da bambino e che ora diventavano il suo rifugio, la culla dove acquietare le sue solitudini. Nella casa di San Domino meditò, a lungo, poi scrisse di getto, quasi per dimenticare: e ora non più la partitura soltanto, ma anche i versi che diedero voce alla musica, quelle ‘parole’ che proprio l’intenso rapporto con Roversi gli aveva fatto scoprire dentro di sé: una presa di coscienza che andava al di là di un tentativo dall’apparenza meramente sperimentale. Simbolicamente, il suo nuovo ‘altrove’ fu il mare.

Ebbe per titolo Come è profondo il mare, infatti, la canzone che aprì l’ultima, decisiva, traiettoria della lunga carriera di Dalla, e che pilotava un album (1977) sorprendente per la discontinuità col passato, venato d’una disperazione che si proponeva quasi come un manifesto, la progettualità d’uno scenario dove una solitudine irrisolvibile doveva misurarsi col peso della noia o la crudezza della vita metropolitana. Come è profondo il mare era la confessione, trasparente eppure mimetica nelle figure retoriche che l’addobbano, d’una sorta di sessione psicoanalitica («Babbo... caccia via queste mosche | che non mi fanno dormire, | che mi fanno arrabbiare»), dove Lucio metteva a nudo la drammatica conquista di un sé fino a quel momento non ancora disvelato. Nel contesto organico dell’album la canzone che ancor più di quella del titolo conquistò subito il grande pubblico, Disperato erotico stomp, era la proclamazione liberatoria – venata da un divertito cantilenare autoironico – della crisi esistenziale che Lucio stava vivendo, una crisi che non era però il vissuto di un artista chiuso nelle inquietudini d’un’amarezza fuori dal mondo ma si manifestava piuttosto come l’introflessione d’un tempo che l’artista abitava con gli altri. Questo processo assunse poi i moduli linguistici di una scelta espressiva che non aveva bisogno di ulteriori epifanie in due brani dell’album Lucio Dalla (1978): sono la tenera Anna e Marco, e soprattutto L’anno che verrà, la cui fortuna dura fino ai nostri giorni, allargando alle tensioni che si rincorrono la metafora originaria del disagio degli ‘anni di piombo’.

Libertà creativa

Era l’ora della consacrazione d’un personaggio ormai liberatosi dal profilo, già interessante ma comunque limitato, che aveva caratterizzato la prima parte della sua carriera. Ora Dalla veniva inserito a pieno titolo nel territorio elitario dei cantautori che imprimevano una forte traccia personalistica alla forma-canzone, riscattando la ridotta struttura espressiva dell’impianto musicale con un’articolazione compositiva originale. Trattate con la consapevolezza di chi poteva servirsi liberamente di qualsiasi forma d’espressione musicale, tonalità e armonie si aprivano a un impiego poco convenzionale, facendo di Dalla uno degli autori più moderni sulla scena contemporanea. Negli anni successivi Lucio venne coinvolto in produzioni cinematografiche – da Borotalco di Carlo Verdone (1982) a I picari di Mario Monicelli (1987) a Pummarò di Michele Placido (1990) – e in opere liriche, in spettacoli teatrali, sia come autore di colonne sonore o musiche di scena sia come regista e costruttore di interpretazioni innovative, sperimentali anche, di testi classici. Alla fine, nel 2003, ‘riscrisse’ pure una sua Tosca ricalcata sull’opera di Giacomo Puccini: ne fece un musical, Tosca amore disperato, che ebbe una spettacolare rappresentazione proprio a Castel Sant’Angelo e nella quale, pur rispettando in larga parte il plot del melodramma, reinventò la scrittura musicale con contaminazioni che vanno dal pop al rhythm & blues a, perfino, Mahler e Vivaldi.

Insieme col jazz, che continuò ad essere un suo felice territorio espressivo – nel 1985 pubblicò l’album Lucio Dalla - Marco di Marco, con uno dei migliori pianisti jazz italiani –, Lucio Dalla amava profondamente la musica classica, la frequentava, la usava, ne intrecciava con libera spregiudicatezza memorie, forme, connotazioni. Spaziava certamente da Mozart a Bach, ma sperimentava anche Prokof’ev (con la regìa e l’interpretazione di Pierino e il lupo, 2005), il Busoni del capriccio teatrale Arlecchino ovvero Le finestre (2006), Stravinskij (il balletto Pulcinella, 2007), mise in scena l’Opera del mendicante di John Gay e John Christopher Pepusch (2008), e provò anche a scrivere «con grande ironia» (Alemanno, 2013, p. 97) le parole per un concerto dell’Estro armonico di Vivaldi, ch’egli eseguì più volte con la Royal Philharmonic Orchestra di Londra. Questa sua nuova, composita identità condensò nel corso degli anni un processo di maturazione che lo spinse non soltanto sull’avanscena della composizione musicale – con una capacità assai rara d’integrare le forme della musica d’arte e una comunicazione dichiaratamente popolare – ma anche su un uso della voce come duttile strumento della rappresentazione artistica: erano dissonanze, scalate timbriche, strappi improvvisi del recitato, rotture della linea melodica, mugolii, incursioni di sonorità scat ereditate dalla memoria del jazz.

Il forte successo popolare che gli diedero le canzoni proposte nei due album della fine degli anni Settanta, e la forza identitaria che da questo successo ricavò, lo portarono a provare con liberalità e curiosità collaborazioni che in genere il mondo dei cantautori non ama granché. A Bologna, e in Emilia, hanno radici nomi importanti della nuova musica italiana, da Francesco Guccini a Vasco Rossi. Tutti spiriti solitari, beninteso, ed è difficile dire che Dalla abbia segnato con la propria storia una ‘scuola bolognese’ della canzone d’autore (come si dirà egualmente d’una scuola genovese o d’una romana o, ancora, di una milanese): ma di certo Lucio contribuì a creare un clima aperto, di lavoro comune, che nel tempo ha dato spazio e prospettive a giovani musicisti in cerca d’una strada, come Renzo Zenobi, gli Stadio che furono anche la sua band, Luca Carboni, Samuele Bersani, Angela Baraldi, e soprattutto – e prima di tutti costoro – Ron. Un’allegra Cosa sarà (1978), creata con la complicità autoriale del giovane Ron entro un ritmo fortemente sincopato tenuto da basso, piano e batteria, confermò la felice sintonia dei due, e la loro Piazza Grande divenne subito tributo e omaggio alla storia d’una città affascinante e aperta alle emozioni com’era Bologna, ma anche narrazione autobiografica d’una malinconica difficoltà del viversi.

Con Francesco De Gregori

Da questa innata disposizione a provarsi, a sperimentare, a rompere comunque schemi e gabbie identitarie, derivò la felicissima unione con un altro grande cantautore, Francesco De Gregori, ‘il principe’. Già Francesco aveva inciso con Dalla Cosa sarà, ma ora, tra il giugno e il luglio del 1979, i due riempirono gli stadi di mezz’Italia con la tournée memorabile di Banana Republic: che è uno degli esempi significativi di come ‘alto’ e ‘basso’ possano convivere, là dove la comunicazione popolare non è d’impaccio a una retorica espressiva che reca l’impronta culturale raffinata della canzone d’autore. Nel gioco dello show – il primo grande tour italiano di massa – i due si scambiavano l’interpretazione dei propri brani e trascinavano il pubblico a cantare poi in un coro gigantesco, una scatenata, felice ballata, Ma come fanno i marinai, e la dondolante canzone che dava il titolo alla tournée e all’album subito in uscita. (Il giro a due venne ripetuto nel 2010, andò avanti per un anno intero, fino alla chiusura nel maggio 2011, e ritrovò nelle piazze italiane lo stesso, straordinario consenso popolare di quello originale negli stadi strapieni di pubblico; Lucio e Francesco ne trassero anche un doppio album con 29 brani, Work in Progress, 2010, e ne venne anche un «film concerto dal vivo», regista Ottavio Fabbri.)

Intanto c’era stata, nel 1988, ancora un’altra tournée ‘in collaborazione’, quella con Gianni Morandi, anch’essa di grande successo pur se metteva assieme due figure assai diverse, dove l’unico vero legame era la forte amicizia tra i due, perché – disse poi Gianfranco Baldazzi, suo sodale dall’infanzia – «Morandi è la balera, Dalla il teatro» (Baldazzi - D’Arvia, 1990, p. 182). Anche di questa tournée se ne fece un doppio album di gran successo, Dalla Morandi, con testi da Mogol a Guccini a Roversi, e con una trascinante interpretazione al clarinetto di un brano di Thelonious Monk, Misterioso (per il mercato estero fu pubblicato un album singolo, dal titolo In Europa, 1989).

Un linguaggio aperto

Tornando agli anni Ottanta, ossia al tempo in cui era esploso il personaggio Dalla, in un sondaggio commissionato per una trasmissione tv di Mike Bongiorno, Lucio risultò essere effettivamente il cantante più popolare della scena italiana. Le canzoni che da quella felice stagione continuò a comporre, gli album che seguirono quest’impennata di un successo consolidato per sempre, avevano ancora questo tracciato comune, una piana cantabilità ma anche la pressione, subito riconoscibile, di una lingua dove la lezione rigorosa di Roversi si riversava nell’autonomia di un’originale lettura interpretativa del sentire comune. «Scrivo quello che sente la gente. Parlo con il loro linguaggio. Non faccio liriche, non scrivo poesie. Quello che dicono le mie canzoni potrebbe dirlo anche mia zia» (ibid., p. 102).

Era vero, ma anche no. La lingua di Dalla era un italiano molto chiaro, privo di mimetismi linguistici, ma anche uno strumento raffinato di simbolismi, notazioni culturali, costrutti sintattici che sono tutt’altro da ciò che ‘la gente’ esprime nella lingua d’uso quotidiano. Questa sua originale qualità espressiva gli fece assegnare la direzione di un seminario sulla comunicazione, che tenne agli studenti al Centro Arti e Mestieri dello Spettacolo di Roma nel 1982 sul tema ‘Il mestiere della musica’: esperienza che Dalla ricorderà sempre con orgoglio, consapevole della consacrazione ufficiale che con quell’invito il mondo della cultura istituzionale gli aveva voluto riconoscere. Venne poi anche una laurea honoris causa dell’Università di Bologna, nel 1999, e una cattedra di ‘tecniche e linguaggi pubblicitari’ all’Università di Urbino, città che amò profondamente, e dove ebbe anche una casa ricavata da una torre isolata sull’altura di Rancitella.

Caruso

Dalla si muoveva ormai con un’impressionante facilità nell’uso dei moduli espressivi: le sue frequentazioni musicali senza frontiere gli offrivano occasioni compositive che pochi potevano avere, lo sottraevano alla catalogazione rigida dei generi artistici. L’esempio più straordinario di questa navigazione senza rotte fu Caruso (1986), un brano divenuto subito famoso in ogni parte del mondo – lo interpretarono anche Mercedes Sosa, Luciano Pavarotti, Céline Dion, Andrea Bocelli, Julio Iglesias –, dove la contaminazione tra la musica d’oggi e la tradizione della grande canzone napoletana diventava omaggio universale alla forza dei sentimenti e ai legami che le emozioni sanno congiungere nel recupero della memoria, al di là dello scorrere del tempo. La canzone era stata creata a Sorrento, nell’albergo dove il tenore Enrico Caruso aveva passato i suoi ultimi giorni, e ora il cantautore bolognese – di cui Pino Daniele ebbe a dire ch’era «un napoletano mancato» (ibid., p. 123) – la offriva come brano d’apertura, unico brano inedito, di un doppio album live (DallAmeriCaruso, 1986), che riproponeva alcune tracce degli album pubblicati dopo il successo di Banana Republic: sono Dalla (1980), con Futura una delle più belle canzoni d’autore, il Q-Disc senza titolo (1981), 1983, Viaggi organizzati (1984) e Bugie (1986).

Ma irrequieto sempre, mai soddisfatto di ciò che già aveva, curioso di una stagione della società che mutava abitudini e forme espressive per l’accelerazione impressa dalle nuove tecnologie sul costume e sulla costruzione della conoscenza – «Chissà chissà domani | su che cosa metteremo le mani... | I russi, i russi, gli americani», aveva già cantato, incerto ma fortemente interessato nel suo Futura, e chiudeva infatti cantando «aspettiamo..., aspettiamo | senza avere paura, domani» –, Dalla innervava la sua produzione artistica di tutte le suggestioni che il web sollecitava in lui, ma anche di tutte potenzialità che l’elettronica forniva al musicista, con arrangiamenti nervosi e sonorità inusitate. Lo affascinavano le forme espressive dei giovani; prese da Ron per l’album Cambio (1990) un Attenti al lupo che sembrò un cedimento troppo facile alle suggestioni delle mode del giorno e si rivelò, invece, un’ironica invasione in territori consumati dalla banalità: Dalla lo reinventò trasformandolo in una sorta di balletto beffardo, e ne fece il simbolo straniante del gusto pervertito dalla televisione. Più tardi un album gli fu molto caro, Henna, che nel 1993 raccontava con testi severi e però fortemente evocativi del clima e dell’angoscia della guerra in Iugoslavia. Scrisse ancora brani di successo (Canzone, composta con Samuele Bersani nel 1996, contenuta nell’album Canzoni, e pure Ciao nel 1999, doppio disco di platino, nell’album omonimo), fece ancora concerti e tours in Italia e in Europa, riprese perfino la collaborazione con Roversi al quale musicò lo spettacolo Enzo Re (Bologna 1998), fece più di prima teatro, con un progressivo scivolamento verso la messinscena e la regìa lirica e drammatica, già menzionate. Trascurò, senza però abbandonarlo, il territorio della canzone: nel 2006 pubblicò un cofanetto triplo (12000 lune, con copertina di Milo Manara e tre canzoni inedite accanto ai brani più famosi), e nel 2011 dopo la seconda lunga e felice tournée con De Gregori un’intera raccolta  di canzoni d’amore scritte nelle pause dell’impegno teatrale di quegli ultimi anni (Questo è amore); tornò anche a Sanremo, a febbraio 2012, come coautore, corista e direttore d’orchestra di Nanì per Pierdavide Carone. Ma la sua vena compositiva si mostrava da tempo prosciugata, il successo sembrava trascurarlo, e il suo interesse pareva concentrarsi sempre più intensamente sul teatro, anche per le sollecitazioni che riceveva da un giovane attore che gli è stato compagno nell’ultima parte della vita, Marco Alemanno. Che fu poi lo stesso che lo trovò morente, il primo giorno di marzo del 2012 a Montreux, poche ore dopo il debutto di un tour internazionale.

Nel giorno del suo compleanno, il 4 marzo 2014, i cugini eredi hanno dato vita a una Fondazione a lui intitolata, per valorizzare il patrimonio culturale dell’artista.

Oltre gli album già citati, si ricordano: Amen, 1992; Lucio Dalla - Dance Remixes (raccolta con arrangiamenti dance), 1996; Luna Matana, 2001; Lucio, 2003; Il contrario di me, 2007; LucioDallaLive – La notte con la luna (albumo doppio, registrazione dal vivo), 2008; Angoli nel cielo, 2009

Fonti e Bibliografia

Cercando un altro Egitto, a cura di S. Dessì, Roma 1976; L. D.: il futuro dell’automobile, dell’anidride solforosa, e di altre cose, a cura di S. Dessì, Roma 1977; C. Bernieri, Non sparate sul cantautore, II, Milano 1978; L. D. Canzoni, a cura di S. Micocci, Roma 1979; W. Veltroni, Il sogno degli anni ’60, Milano 1981; M. Cavezzali, Piglia e Dalla in concerto, Bologna 1981; R. Rinetti, L. D., Roma 1982; M. Guarino, L. D., il poeta della canzone, Milano 1984; G. Baldazzi - P. D’Arvia, L. D., Fratelli Gallo 1984; G. Borgna, Storia della canzone italiana, Roma-Bari 1985, Parole cantate, a cura di G. Baldazzi, Roma 1988; G. Baldazzi - P. D’Arvia, D., Padova 1990; G. Baldazzi - L. Clarotti - A. Rocco, I nostri cantautori, Bologna-Torino 1990; G. De Grassi, Mille papaveri rossi, Bologna 1991; P. Jachia, La canzone d’autore italiana 1958-1997, Milano 1998; R. Bertoncelli, Paesaggi immaginari. Trent’anni di rock e oltre, Firenze 1998; Id., Storia leggendaria della musica rock, Firenze 1999; A. Aragozzini, Enciclopedia del Festival di Sanremo, Milano 2000; Dizionario del pop-rock, a cura di E. Gentile - A. Tonti, Milano 2000; Sanremo 50, a cura di M. Venegoni, Torino 2000; L. Dalla, Bella Lavita, Milano 2002; Id., Gesù, San Francesco, Totò. La nebulosa della comunicazione, Milano 2004; L. Dalla - M. Alemanno, Gli occhi di L., Milano 2008; F. Pivano, Complice la musica, Rizzoli 2008; M. Alemanno, Dalla luce alla notte, Milano 2013.

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