Ludovico Ariosto

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Gianfranco Agosti
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Ludovico Ariosto è a tutto tondo poeta di corte, e di una corte vivace come quella ferrarese del primo Cinquecento sa riflettere e assecondare l’indole, ma anche denunciare le contraddizioni. Definendo “cosette” il resto della sua produzione, Ariosto lascia in piena luce il suo capolavoro, l’Orlando Furioso, il poema cavalleresco più amato della storia letteraria italiana: un classico già per i contemporanei, sa esaudire i gusti dell’uomo del Rinascimento e insieme orchestrare la poliedrica descrizione delle passioni degli uomini di ogni tempo.

Tra azione e contemplazione

Nasce l’8 settembre 1474 a Reggio Emilia, dove suo padre è comandante di guarnigione al servizio di Ercole I d’Este; dopo alcuni trasferimenti, nel 1484 si stabilisce a Ferrara, dove intraprende regolari studi di grammatica, quindi di diritto. Avvicinandosi alla corte estense, partecipa all’allestimento degli spettacoli teatrali e, ottenuta finalmente la concessione paterna, si dedica agli studi letterari e approfondisce lo studio della filosofia, in particolare quella neoplatonica, verso la quale deve averlo spinto anche Pietro Bembo, che soggiorna a Ferrara e diventa suo amico. Alla prima produzione poetica in latino si affianca e sostituisce quella in volgare.

Primo di dieci fratelli in una famiglia nobile ma non agiata, nel 1500 la morte del padre segna per lui il passaggio obbligato dalla dedizione totale alle arti alla gestione pratica: Ariosto diventa un funzionario regolarmente stipendiato dagli Estensi. Dal 1503 al 1517 è alle dipendenze del cardinale Ippolito d’Este; la corte di Ferrara dove risiede lo delude con le sue false apparenze, mentre gli incarichi e le prestigiose ambascerie (Bologna, Mantova, più volte la Roma di Giulio II, poi di Leone X) sottraggono tempo all’impegno letterario, che nel frattempo si sta concentrando intorno alla stesura dell’Orlando Furioso, la cui prima edizione vede la luce nel 1516. L’anno successivo, rifiutandosi di seguire il cardinale in Ungheria, passa alle dipendenze del duca Alfonso, per il quale deve assumere l’incarico di commissario della Garfagnana (1522-1525): la difficoltà di mantenere l’ordine in una regione funestata dal brigantaggio e dalle tensioni politiche è aggravata dalla lontananza dagli studi, dalla vita cittadina e da Alessandra Benucci, la donna che ama da tempo.

Tornato a Ferrara, la fama che gli deriva dal suo poema gli permette di dedicarsi all’attività letteraria, con pochi incarichi pubblici e senza preoccupazioni di tipo economico; la salute precaria non gli consente tuttavia di sopravvivere più di un anno alla stampa della terza redazione del Furioso, avvenuta nell’ottobre del 1532.

Le opere minori e il nuovo teatro

Per un giovane che si è formato sui classici in una città dalla salda tradizione umanistica, non stupisce che il confronto coi modelli avvenga sul piano della composizione poetica in latino; questa produzione “giovanile”, mai raccolta dall’autore e così pervenutaci solo in parte, è testimonianza e frutto della sua appartenenza a una società di intellettuali che si esprime mediante queste forme artistiche. Spesso legate a occasioni e ad amici che appartengono a tale ambiente, le liriche latine anticipano anche temi propri del poeta maturo, come testimonia l’elegia De diversis amoribus (Amori diversi), che tocca il tema della varietà delle passioni umane e richiama l’universo del Furioso.

Recependo gli stimoli di una cultura letteraria che propende sempre più verso una lingua nazionale, le composizioni poetiche in latino sono sostituite da quelle in volgare. Tale scelta, su cui certamente ha influito la lezione del Bembo, non è una passiva acquisizione del modello petrarchista, che l’Ariosto vivacizza col richiamo agli affetti e a una realtà concreta e vissuta, e con una vocazione narrativa, testimoniata dai capitoli in terza rima, che trova nel Furioso il terreno per la sua massima espressione. L’assiduo labor limae riservato al poema manca alle Rime, motivo per cui l’Ariosto si rifiuta di pubblicarle (vivo l’autore, ne circolano solo edizioni clandestine).

Presto si avvicina anche al teatro: nel 1493 collabora con la compagnia voluta da Ercole I, partecipando probabilmente anche come attore e componendo una Tragedia di Tisbe, andata perduta. Alla corte ferrarese, tra feste e spettacoli, tra sperimentazione e recupero delle commedie classiche, la sua naturale propensione all’intreccio di voci e vicende diverse lo spinge a scrivere per il teatro comico: non solo con traduzioni da Plauto e Terenzio, ma soprattutto con commedie nuove, in cui travestimenti, riconoscimenti e scambi di persona, vecchi ingannati e servi che imbastiscono trame non appartengono a un mondo antico e lontano, ma si muovono nel presente, nella brulicante Ferrara contemporanea che si estende fuori dalla corte e che, come in un gioco di specchi, all’interno della corte stessa viene messa in scena. In questo modo chi assiste alla rappresentazione delle prime due commedie ariostesche, La Cassaria e I Suppositi, allestite alla corte di Ferrara per il carnevale del 1508 e del 1509, assiste anche alla nascita del nuovo teatro volgare. Il teatro comico cinquecentesco prosegue sulla via della prosa, scelta dall’Ariosto per queste sue prime commedie ma da lui non perseguita con le successive; tornando a scrivere teatro dopo un decennio, opta infatti per il verso, e sceglie l’endecasillabo sdrucciolo, più simile al trimetro giambico dei comici classici: nel 1518-1519, quando inizia a scrivere Gli Studenti, lasciata incompiuta, il poeta che ha già pubblicato la prima edizione del Furioso e ha già composto alcune Satire deve ritenere il verso il mezzo a lui più congeniale per imbastire narrazioni e dialoghi. Avanza quindi su questa strada per Il Negromante(1520) e per La Lena (1528 o 1529), la commedia ferrarese più riuscita, e fa anche una trasposizione metrica delle due commedie in prosa.

Oltre a Cassaria e Suppositi nella loro prima redazione, la sua produzione in prosa comprende l’Erbolato, orazione paradossale di un medico ciarlatano, e soprattutto le lettere: ben distanti dagli epistolari umanistici e dalle loro ambizioni intellettuali, non sono mai state organizzate dal loro autore in un organismo unitario e vengono raccolte solo a fine Ottocento; del corpus di 214 Lettere di cui oggi disponiamo, la maggior parte risale al periodo della Garfagnana: la loro funzione eminentemente pratica, con riferimenti puntuali a questioni politiche e dati economici, è completata da riflessioni sulla vita sua propria e sulle condizioni dei “poverhuomini” che tenta di tutelare, declinazione epistolare di una humanitas tutt’altro che atteggiata.

Le Satire

Ludovico Ariosto

Di quanto poco sia considerato l’esser poeta

Satire, I

Io desidero intendere da voi,

Alessandro fratel, compar mio Bagno,

s’in corte è ricordanza più di noi;

se più il signor me accusa; se compagno

per me si lieva e dice la cagione

per che, partendo gli altri, io qui rimagno;

o, tutti dotti ne la adulazione

(l’arte che più tra noi si studia e cole),

l’aiutate a biasmarme oltra ragione.

Pazzo chi al suo signor contradir vole,

se ben dicesse c’ha veduto il giorno

pieno di stelle e a mezzanotte il sole.

[…]

Apollo, tua mercé, tua mercé, santo

collegio de le Muse, io non possiedo

tanto per voi, ch’io possa farmi un manto.

«Oh! il signor t’ha dato...» io ve ’l conciedo,

tanto che fatto m’ho più d’un mantello;

ma che m’abbia per voi dato non credo.

Egli l’ha detto: io dirlo a questo e a quello

voglio anco, e i versi miei posso a mia posta

mandare al Culiseo per lo sugello.

Non vuol che laude sua da me composta

per opra degna di mercé si pona;

di mercé degno è l’ir correndo in posta.

A chi nel Barco e in villa il segue, dona,

a chi lo veste e spoglia, o pona i fiaschi

nel pozzo per la sera in fresco a nona;

vegghi la notte, in sin che i Bergamaschi

se levino a far chiodi, sì che spesso

col torchio in mano addormentato caschi.

S’io l’ho con laude ne’ miei versi messo,

dice ch’io l’ho fatto a piacere e in ocio;

più grato fòra essergli stato appresso.

E se in cancellaria m’ha fatto socio

a Melan del Constabil, sì c’ho il terzo

di quel ch’al notaio vien d’ogni negocio,

gli è perché alcuna volta io sprono e sferzo

mutando bestie e guide, e corro in fretta

per monti e balze, e con la morte scherzo

Fa a mio senno, Maron: tuoi versi getta

con la lira in un cesso, e una arte impara,

se beneficii vuoi, che sia più accetta.

L. Ariosto, Satire, a cura di C. Segre, Torino, Einaudi, 1987

Sono sette, per un totale di 1837 versi, e sono composte tra il 1517 e il 1525, quindi in un periodo successivo alla pubblicazione del primo Furioso e delle commedie in prosa. Più che a quelle di Giovenale, le più apprezzate a inizio Cinquecento, le Satire ariostesche guardano a Orazio, alle sue Satire ma ancor più alle sue Epistole, e adottano la forma metrica del capitolo in terza rima, che negli ultimi decenni era stato abbondantemente utilizzato nell’ambito della riflessione morale o politica, in ambiente padano e soprattutto fiorentino (i Capitoli di Machiavelli sono forse l’esempio più illustre), spesso connotata come conversazione con un destinatario.

Mediante il dialogo con vari interlocutori, sodali cui l’Ariosto si rivolge e ai quali deve avere realmente inviato le singole satire, la riflessione interiore può dispiegarsi: essa scaturisce da un’occasione o una necessità contingente, anche di ordine pratico, per esempio il matrimonio di un amico (satira V), il rifiuto di seguire in Ungheria il cardinale suo signore (satira I), o l’esigenza di trovare un precettore per il proprio figlio (satira VI), e si apre a considerazioni più ampie, che attraverso l’espressione delle diverse posizioni – dell’autore che scrive in prima persona, dei destinatari, dei personaggi fittizi introdotti per esprimere punti di vista diversi – rende dialetticamente conto della complessità dei pareri sul mondo e dei “varii appetiti” degli uomini. Il punto di vista privilegiato dello scrivente, facendosi autobiografismo, può ragionare su questioni private, come l’insofferenza verso un mondo cortigiano falso e arrivista, rifiutato a favore della tranquillità che deriva dallo studio e dagli affetti (satire I-III) o le difficoltà del commissariato in Garfagnana (satira IV); nel contempo l’inserzione delle altre voci nello svolgimento del discorso, così come alcune favole ed apologhi, contribuisce a far assumere agli episodi personali un valore universale.

Ludovico Ariosto

A Messer Annibale Malegucio (V)

Satire

Da tutti li altri amici, Annibale, odo;

fuor che da te, che sei per pigliar moglie:

mi duol che ’l celi a me, che ’l facci lodo.

Forse mel celi perché alle tue voglie

pensi che oppor mi debbia, come io danni,

non l’avendo tolta io, s’altri la toglie.

Se pensi di me questo, tu te inganni:

ben che senza io ne sia, non però accuso

se Piero l’ha, Martin, Polo e Giovanni.

Mi duol di non l’avere, e me ne iscuso

sopra varii accidenti che lo effetto

sempre dal buon voler tennero escluso;

ma fui di parer sempre, e così detto

l’ho più volte, che senza moglie a lato

non puote uomo in bontade esser perfetto.

Né senza si può star senza peccato;

che chi non ha del suo, fuor accattarne,

mendicando o rubandolo, è sforzato;

e chi s’usa a beccar de l’altrui carne,

diventa giotto, et oggi tordo o quaglia,

diman fagiani, uno altro di vuol starne;

non sa quel che sia amor, non sa che vaglia

la caritade: e quindi avien che i preti

sono sì ingorda e sì crudel canaglia.

Che lupi sieno e che asini indiscreti

mel dovreste saper dir voi da Reggio,

se già il timor non vi tenesse cheti.

Ma senza che ’l dicate, io me ne aveggio;

de la ostinata Modona non parlo,

che, tutto che stia mal, merta star peggio.

Pigliala, se la vuoi; fa, se déi farlo;

e non voler, come il dottor Buonleo,

alla estrema vecchiezza prolungarlo.

Quella età più al servizio di Lieo

che di Vener conviensi: si dipinge

giovane fresco, e non vecchio, Imeneo.

Il vecchio, allora che ’l desir lo spinge,

di sé prosume e spera far gran cose;

si sganna poi che al paragon si stringe.

in Tutte le opere di Ludovico Ariosto, a cura di C. Segre, Milano, Mondadori, 1984

L’Orlando Furioso

Ludovico Ariosto

Astolfo sulla luna

Orlando furioso, Canto XXXIV

Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,

ch’egli già avea perduti, si converse;

che se non era interprete con lui,

non discernea le forme lor diverse.

Poi giunse a quel che par sì averlo a nui,

che mai per esso a Dio voti non ferse;

io dico il senno: e n’era quivi un monte,

solo assai più che l’altre cose conte.

Era come un liquor suttile e molle,

atto a esalar, se non si tien ben chiuso;

e si vedea raccolto in varie ampolle,

qual più, qual men capace, atte a quell’uso.

Quella è maggior di tutte, in che del folle

signor d’Anglante era il gran senno infuso;

e fu da l’altre conosciuta, quando

avea scritto di fuor: «Senno d’Orlando».

E così tutte l’altre avean scritto anco

il nome di color di chi fu il senno.

Del suo gran parte vide il duca franco;

ma molto più maravigliar lo fenno

molti ch’egli credea che dramma manco

non dovessero averne, e quivi dénno

chiara notizia che ne tenean poco;

che molta quantità n’era in quel loco.

Altri in amar lo perde, altri in onori,

altri in cercar, scorrendo il mar, richezze;

altri ne le speranze de’ signori,

altri dietro alle magiche sciocchezze;

altri in gemme, altri in opre di pittori,

ed altri in altro che più d’altro aprezze.

Di sofisti e d’astrologhi raccolto,

e di poeti ancor ve n’era molto.

L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di C. Segre, Milano, Mondadori, 1990

La composizione del poema inizia probabilmente nel 1505 e si presenta come una prosecuzione dell’Innamoramento di Orlando del Boiardo, suo antecedente più prossimo alla corte di Ferrara dove aveva avuto grande successo: riprendere le vicende dei paladini laddove si erano arrestate un decennio prima con l’interruzione del poema boiardesco esprime il preciso desiderio dell’Ariosto di voler dilettare la sua corte con un tipo di narrazione che le è gradita e che ora deve risultare anche più prossima all’esperienza dei lettori, nella cospicua portata delle descrizioni di battaglie, mentre la penisola è attanagliata dalle guerre d’Italia. La materia acquisita da un passato molto prossimo eppure superato, data la rapidità dei mutamenti storici, non si attarda tuttavia su moduli quattrocenteschi, ma viene vitalizzata: il Furioso, la cui creazione è indissolubilmente legata alla stampa, strumento con cui per la prima volta un capolavoro si trova a interagire così da vicino, diventa un modello per quella letteratura volgare di respiro nazionale che andava plasmandosi. Lo scarto dalla tradizione è evidente già dal titolo, uno degli ossimori più ingombranti della nostra letteratura: Orlando, l’eroe saggio e integro per eccellenza, furens come l’Ercole euripideo e senecano.

Ludovico Ariosto

Canto 36

Orlando furioso, Canto XXVI, 29-40

Di qua di là gridar si sente all’arme,

come usati eran far quasi ogni giorno.

Monti chi è a piè, chi non è armato s’arme,

alla bandiera ognun faccia ritorno!

dicea con chiaro e bellicoso carme

più d’una tromba che scorrea d’intorno:

e come quelle svegliano i cavalli,

svegliano i fanti i timpani e i taballi.

La scaramuccia fiera e sanguinosa,

quanto si possa imaginar, si mesce.

La donna di Dordona valorosa,

a cui mirabilmente aggrava e incresce

che quel di ch’era tanto disïosa,

di por Marfisa a morte, non riesce;

di qua di là si volge e si raggira,

se Ruggier può veder, per cui sospira.

Lo riconosce all’aquila d’argento

c’ha nello scudo azzurro il giovinetto.

Ella con gli occhi e col pensiero intento

si ferma a contemplar le spalle e ’l petto,

le leggiadre fattezze, e ’l movimento

pieno di grazia; e poi con gran dispetto,

imaginando ch’altra ne gioisse,

da furore assalita così disse:

- Dunque baciar sì belle e dolce labbia

deve altra, se baciar non le poss’io?

Ah non sia vero già ch’altra mai t’abbia;

che d’altra esser non déi, se non sei mio.

Più tosto che morir sola di rabbia,

che meco di mia man mori, disio;

che se ben qui ti perdo, almen l’inferno

poi mi ti renda, e stii meco in eterno.

Se tu m’occidi, è ben ragion che deggi

darmi de la vendetta anco conforto;

che voglion tutti gli ordini e le leggi,

che chi dà morte altrui debba esser morto.

Né par ch’anco il tuo danno il mio pareggi;

che tu mori a ragione, io moro a torto.

Farò morir chi brama, ohimè! ch’io muora;

ma tu, crudel, chi t’ama e chi t’adora.

Perché non déi tu, mano, essere ardita

d’aprir col ferro al mio nimico il core?

che tante volte a morte m’ha ferita

sotto la pace in sicurtà d’amore,

et or può consentir tormi la vita,

né pur aver pietà del mio dolore.

Contra questo empio ardisci, animo forte:

vendica mille mie con la sua morte. -

Gli sprona contra in questo dir, ma prima:

- Guàrdati (grida), perfino Ruggiero:

tu non andrai, s’io posso, de la opima

spoglia del cor d’una donzella altiero. -

Come Ruggiero ode il parlare, estima

che sia la moglie sua, com’era in vero,

la cui voce in memoria sì bene ebbe,

ch’in mille riconoscer la potrebbe.

Ben pensa quel che le parole denno

volere inferir più; ch’ella l’accusa

che la convenzïon ch’insieme fenno,

non le osservava: onde per farne iscusa,

di volerle parlar le fece cenno:

ma quella già con la visiera chiusa

venìa dal dolor spinta e da la rabbia,

per porlo, e forse ove non era sabbia.

Quando Ruggier la vede tanto accesa,

si ristringe ne l’arme e ne la sella:

la lancia arresta; ma la tien sospesa,

piegata in parte ove non nuoccia a quella.

La donna, ch’a ferirlo e a fargli offesa

venìa con mente di pietà rubella,

non poté sofferir, come fu appresso,

di porlo in terra e fargli oltraggio espresso.

Così lor lancie van d’effetto vòte

a quello incontro; e basta ben s’Amore

con l’un giostra e con l’altro, e gli percuote

d’una amorosa lancia in mezzo il core.

Poi che la donna sofferir non puote

di far onta a Ruggier, volge il furore

che l’arde il petto, altrove; e vi fa cose

che saran, fin che giri il ciel, famose.

In poco spazio ne gittò per terra

trecento e più con quella lancia d’oro.

Ella sola quel dì vinse la guerra,

messe ella sola in fuga il popul Moro.

Ruggier di qua di là s’aggira et erra

tanto, che se le accosta e dice: - Io moro,

s’io non ti parlo: ohimè! che t’ho fatto io,

che mi debbi fuggire? Odi, per Dio! -

Come ai meridional tiepidi venti,

che spirano dal mare il fiato caldo,

le nievi si disciolveno e i torrenti,

e il ghiaccio che pur dianzi era sì saldo;

così a quei prieghi, a quei brevi lamenti

il cor de la sorella di Rinaldo

subito ritornò pietoso e molle,

che l’ira, più che marmo, indurar volle.

L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di L. Cavetti, presentazione di I. Calvino, Torino, Einaudi, 1993

Il poema ha tre edizioni diverse (1516, 1521, 1532), che corrispondono a tre diverse redazioni, in momenti in cui l’autore ritiene definitiva l’elaborazione; l’intensa revisione operata dall’autore in vista della prima edizione – le carte manoscritte contenenti il lavoro non sono sopravvissute, ma ne troviamo testimonianza nelle lettere – non si arresta infatti con la pubblicazione del ’16, ma prosegue, soprattutto a livello linguistico, finché nel ’32 viene consegnata alle stampe un’opera alquanto diversa; l’ampliamento da 40 a 46 canti di per sé è un mero dato pratico di un processo complesso ampiamente studiato dai critici e che è fuorviante incasellare in categorie, se non per un aspetto: la pubblicazione delle Prose della volgar lingua di Bembo (1525), fissando i modelli per l’italiano letterario, alimenta ancor più in Ariosto la necessità di svincolarsi dalla koiné padana (con i suoi tratti settentrionali e i latinismi), non per aderire passivamente a dettami classicisti, ma con l’obiettivo di scrivere per un pubblico sovramunicipale, che ha la necessità di riconoscersi in una letteratura comune. Tra le carte dell’autore, tutte relative agli episodi introdotti nella redazione del 1532, quella definitiva e che quindi leggiamo oggi abitualmente, compaiono anche i così detti Cinque canti, su cui la critica ha largamente discusso senza poter giungere a una soluzione univoca: al di là del periodo in cui sono stati composti, essi non sono mai confluiti del poema; la distanza dal Furioso è stata individuata nel loro tono cupo e amaro, ma anche nella narrazione di vicende che dilatavano troppo il discorso minandone l’organicità; forse non sono mai stati destinati ad essere assorbiti nel Furioso.

Sin dal celeberrimo incipit, “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori”, il poeta esprime chiasticamente ciò che si accinge a cantare, cioè la guerra e l’amore, attraverso una fusione tra ciclo bretone (i cavalieri della Tavola Rotonda e le loro vicende sentimentali) e carolingio (le chansons de geste, con le battaglie di Carlo Magno in difesa della cristianità) operata già dall’antecedente boiardesco; la guerra è quella di re Carlo contro i re saraceni d’Africa e di Spagna, Agramante e Marsilio, che riescono a mettere sotto assedio Parigi a causa dell’indebolimento dell’esercito cristiano, i cui paladini più valorosi, innamorati di Angelica, figlia del sovrano del Catai, hanno abbandonato il campo per inseguirla; progressivamente respinti, i “mori” sono infine sconfitti da Orlando. Due sono le fondamentali declinazioni del tema amoroso: una è legata ad Orlando che, innamorato di Angelica e lacerato dalla consapevolezza dell’amore tra lei e il saraceno Medoro, impazzisce: solo grazie ad Astolfo, che fa un viaggio sulla luna per recuperare il suo senno, può rinsavire e uccidere Agramante; l’altra si svolge intorno a Ruggiero, eroe pagano che si converte al cristianesimo per amore di Brandimarte: dalla loro unione discende la dinastia estense, elemento celebrativo ripreso dall’epica classica e presente già in Boiardo.

L’impossibilità di riassumerne brevemente la trama è connaturata alla struttura stessa dell’opera, poiché su questi filoni si innestano svariate vicende e molteplici personaggi, che l’Ariosto fa avanzare all’interno di un disegno complesso e variegato, ma non casuale e per nulla caotico; egli infatti, attraverso la tecnica dell’entrelacement, sospende la narrazione di un episodio per riprenderne un altro interrotto prima e fa emergere da un ordito multiforme uno degli innumerevoli fili dei quali è composto. Attento a creare situazioni che possano via via convogliare e disperdere personaggi diversi, differisce le conclusioni degli episodi almeno al canto successivo, aumentandone la coesione e insieme l’interesse per il lettore, il cui campo visivo è dilatato da un punto di vista spaziale (che abbraccia tutta la geografia terrestre e ingloba anche quella lunare) e temporale: l’autore, infatti, generalmente al principio di un nuovo canto, interrompe il flusso narrativo e fa emergere la propria voce, per esprimere il proprio giudizio sulle vicende, stimolare la riflessione morale o introdurre riferimenti diretti alla vita e alla storia contemporanea ed esplicitando quindi il legame tra l’antico e la modernità.

Gli interventi dell’autore a commento delle vicende eroiche chiariscono la prospettiva con cui viene trattata la materia epica: attraverso l’uso dell’ironia, la celebrazione dei valori eroici viene messa in discussione, sottolineando come la contemporanea vita di relazione sia caratterizzata da falsità e simulazioni; anche il tema encomiastico, con la celebrazione della casa d’Este e la dedica del poema al cardinale Ippolito, che non sa comprenderne il valore, viene smorzato dalla critica verso il mondo della corte e dalle allusioni esplicite all’incapacità dei principi italiani di fronte agli eserciti stranieri che invadono la penisola. In quest’ottica le vicende fantastiche possono assumere un valore simbolico: il meraviglioso non si limita a soddisfare il gusto del pubblico per la favola, ma si fa emblema dell’illusione che incombe sulla vita reale, dominata dall’errore e dall’incapacità di distinguere i simulacri dal vero. Se l’equilibrio formale sa ricondurre la narrazione ad una suprema armonia che fa dell’Orlando furioso un emblema del classicismo rinascimentale, una concezione apollinea del mondo non sembra più possibile dopo la presa di coscienza delle incoerenze umane, così come i valori cavallereschi non possono più risplendere in piena luce nell’epoca della polvere da sparo.

Il modello narrativo, culturale e umano del Furioso, riverberando nella follia di Don Chisciotte fino a esempi di narrativa novecentesca, come il Castello dei destini incrociati, romanzo di Italo Calvino, non smette di influenzare la letteratura successiva, suggerendo la strada per il romanzo moderno, mentre nelle sistoli e diastoli narrative e ritmiche, nella musicalità variegata e persistente delle sue ottave, esprime la varietà del mondo, nella sua suprema e laica bellezza ricolma di contraddizione.

Accanto a cavalieri e dame, ai loro incontri e scontri, un ruolo rilevante nell’intreccio del Furioso è giocato dalla magia. Cavalli, spade e altri oggetti dotati di poteri soprannaturali compaiono insieme a maghi e maghe in punti nodali del racconto.

L’elemento magico contribuisce a fare del poema di Ariosto un’opera in cui la realtà si congiunge e a volte si confonde con la fantasia e in cui si compongono in una complessa convivenza fonti classiche, medievali, orientali.

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