GONZAGA, Ludovico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 57 (2001)

GONZAGA, Ludovico

Gino Benzoni

Quarto dei cinque figli maschi del duca di Mantova Federico II e di Margherita Paleologo, vede la luce il 18 sett. 1539: lo precedono Francesco, Federico (che muore in tenera età), Guglielmo e nasce dopo di lui un altro Federico destinato alla carriera ecclesiastica.

Fanciullo dal promettente ingegno e dalla spiccata avvenenza, è il nipote prediletto della nonna materna Anna d'Alençon, la quale, morta attorno al 1541, lo lascia erede dei propri beni. Anche per prenderne possesso, il G., il 1° luglio 1549, con una ventina di persone al seguito - tra queste il precettore Leonardo Arrivabene - parte alla volta di Parigi, ove giunge a fine agosto, accolto a corte. Nelle grazie di Enrico II e di sua moglie, al sovrano il G. fa "di continuo" la più premurosa e "diligente servitù et sempre al manzare" porge "la salvietta […] garbatamente", come scrive, il 25 settembre, Arrivabene. Morto, il 21 febbr. 1550, Francesco, il fratello primogenito, è il G. che, a tutta prima, la madre e lo zio paterno il cardinale Ercole, dirottando Guglielmo - brutto, gobbo, sgraziato - sulla carriera ecclesiastica, vorrebbero succedesse nel Ducato. Ma Guglielmo rifiuta sdegnato la ventilata ipotesi della rinuncia. Sicché è questi a essere, il 24 aprile, proclamato duca, mentre il G. rimane in Francia, crescendo e formandosi in quella corte non senza un tenore di vita elevato, dato che può contare, oltre che sulle rendite dei beni della nonna, sugli 8000 ducati d'entrata assegnatigli dal padre per testamento.

Diciottenne, il 10 ag. 1557 partecipa alla battaglia di S. Quintino. Fatto prigioniero, vanamente lo zio paterno Ferrante cerca d'indurlo a cambiare bandiera, a militare per l'Impero. Preso, allora, in consegna, da Lamoral conte di Egmont - descritto dai contemporanei "barbaro senza fede, senza cortesia, impio et avidissimo" - e di questo "prigione", non è tuttavia chiuso tra sbarre. Abita con agio a Bruxelles, previo impegno d'onore a non allontanarsi sinché non sia riscattato. Esorbitante la somma di 80.000 scudi pretesa da Egmont. Solo che - mentre il duca Guglielmo fa appello per la liberazione del G. a Emanuele Filiberto di Savoia e attiva il proprio diplomatico conte Federico Maffei, mentre il re di Francia a titolo di risarcimento per quel che deve pagare concede al G. il "tagio d'alcuni boschi" - via via la riduce, sino ad accontentarsi della metà, "20 mila alla mano et il resto tra quattro mesi", come precisa Arrivabene. Libero nell'aprile del 1558 - dopo un viaggio d'istruzione, con Arrivabene, in Belgio e Francia -, il G. soggiorna a Mantova fino al marzo del 1559. I rapporti con il fratello duca sono sino a un certo punto cordiali: Guglielmo non ignora che c'era chi, a Casale e alla corte di Francia, ipotizza un marchesato di Monferrato autonomo in cui insediare il G.; questi, da parte sua, non si controlla, al punto da replicare al fratello, constatante che è fortunato a non farsi male quando maneggia i cavalli, essere lui il vero fortunato con il ritrovarsi duca semplicemente perché nato "prima".

Di nuovo in Francia, il G. è al seguito del re nel 1560, al seguito del re di Navarra Antonio di Borbone nel 1562 e presente tanto all'assedio di Bourges che a quello di Rouen e accanto al Borbone quando questi, ferito, muore il 17 novembre. Alla morte, il 22 febbr. 1565, del cardinale Federico Gonzaga, il duca Guglielmo si affretta a far presente a Roma il proprio desiderio che la porpora sia, in certo qual modo, girata al Gonzaga. È evidente quanto il duca, preoccupato di eventuali future ambizioni, specie monferrine, del G., voglia preventivamente vanificarle con un destino ecclesiastico. Ma a Pio IV, di lui più informato, non risulta che il G. volesse "esser prete". Da tempo si era messo a corteggiare Henriette de Clèves, orfana di padre ed erede, morti i due fratelli François e Jacques, del ducato di Nevers e della contea di Rethel. La giovane non è insensibile al corteggiamento, poiché, iniziato prima di tanta eredità, non le pare da questa suggerito, né il G. - il quale, in virtù d'una transazione con Carlo IX relativa all'eredità della nonna materna, ha avuto, nel 1563, Senonces e Brezolles - le pare un cattivo partito. Fatto sta che, con le nozze, caldeggiate dalla stessa regina madre Caterina de' Medici, del 4 marzo 1565, il G. diventa duca di Nevers. E questa diviene la sua corte, dove vivono, con mansioni domestiche o semplicemente come suoi familiari - così, almeno, risulta negli anni 1565-71 - 86 persone, di cui 51 francesi e 35 italiani. La sua passione per i cavalli - oltre a rafforzare il prestigio dell'arte equestre italiana tramite un entourage ove non mancano provetti maestri d'equitazione - ha un risvolto lucroso nella misura in cui si intensifica l'importazione in Francia di cavalli provenienti dal Mantovano. Forte, nel 1565, d'"intrada" che, "con la provision" regia e la "dotte" della consorte oltrepassa i 25.000 ducati - è lo stesso G. a comunicarlo, non senza un pizzico di esibizione, al duca di Mantova -, si colloca, per il trentennio che ancora vivrà, nel crocevia delle grandi decisioni politiche, con un'autorevolezza che ha il suo riscontro in incarichi di grande responsabilità.

Luogotenente generale, nel 1567, del re Cristianissimo al di qua delle Alpi, il suo governo, inizialmente ispirato da sensi di equità - sicché blocca un'arbitraria persecuzione mossa dal vescovo di Mondovì Vincenzo Lauro contro l'ugonotto signore di Centallo Benedetto Antioche -, una volta iniziata, sul finire di settembre, di nuovo la guerra civile in Francia, s'irrigidisce con un'intolleranza persecutoria del tutto allineata con le istruzioni della corte. Donde, il 10 ottobre, l'emanazione, a Pinerolo, di un editto che ingiunge a quanti, nel governatorato, professano la "nova religione" l'autodenuncia, "sotto pena", in caso d'omissione, "di confiscatione di vita et beni". L'attentato alla vita di Carlo IX, il colpo sferrato al castello di Monceaux presso Meaux il 27 settembre bastano, per il G., a motivarlo a "sapere la qualità, quantità, nome et cognome, gradi et esercitii, case et contrade" di quanti vanno considerati potenzialmente nemici del re, virtuali conniventi col tentativo contro di lui perpetrato. Sin qui un G. deciso a censire la presenza riformata. Ma va oltre con il successivo decreto del 19 ottobre. Scheda tutti gli aderenti alla Riforma in quattro categorie: sudditi regi residenti nel luogo natio; sudditi non residenti nel luogo natio; sudditi divenuti tali, ma nati in terre estranee al dominio regio; residenti sudditi di altri principi. Salvo che per la prima categoria tenuta ad attenersi alla disposizione regia del 1564 (questa concede libertà di coscienza, ma non di culto) e a non ospitare alcuno né stabilmente né di passaggio, si tratta di fatto di un provvedimento di espulsione per tutte le altre, tenute ad andarsene entro tre giorni. La delazione è incoraggiata con il premio di un terzo dei proventi delle pene pecuniarie o degli immobili confiscati. Una cacciata, questa decisa dal G., che si presenta come provvedimento di polizia, di ordine pubblico nei confronti di chi può politicamente insidiare la monarchia. Non è, di per sé, un bando direttamente antiereticale, un manifesto di cattolica crociata. Di fatto, l'editto del 19 ottobre è una mazzata per il progredire della Riforma, espelle forzatamente i suoi ministri, decapita le comunità della guida spirituale. La sua applicazione fu condotta con zelo dal governatore Ludovico Birago, mentre il G. opera in Francia, dove si reca dal Piemonte con quattro compagnie di cavalli assoldate con denaro pontificio e con sei compagnie di fanti, cui - una volta Oltralpe - s'aggiungono due reggimenti francesi e 4000 svizzeri. è dapprima in Borgogna, quindi all'assedio e alla conquista di Macon, quindi congiunto con il duca d'Angiò, quindi - nel tornare all'esercito dopo una breve visita alla moglie che ha dato alla luce la primogenita Caterina - assalito, nei pressi di Dorsier, a metà febbraio del 1568, da un'imboscata ugonotta. Si libera, ma non senza rimanere colpito al ginocchio sinistro da un colpo di archibugio, rimanendone definitivamente - così Davila - "stroppiato". Immobilizzato a Nevers sino, almeno, ad aprile, l'anno dopo è ancora sofferente per la ferita, come scrive a Roma il nunzio pontificio Vincenzo Lauro recatosi a trovarlo a Moncalieri il 25 apr. 1569. Tant'è che in giugno è ad Abano, senza che la "cura" di quei "bagni" producesse il "miglioramento" sperato, come informa, da Venezia, il nunzio Giovanni Antonio Facchinetti il 29. Dopo un rapido soggiorno a Mantova e una puntata a Loreto a "sodisfare" il "voto" formulato per rimettersi dalla "molestia" al ginocchio, il G. è di nuovo in Francia, angosciato dalla crescente influenza, a corte, dell'ammiraglio Gaspard de Coligny e tra i più decisi a contrastarla. L'orditura dello stratagemma - così definisce la strage di S. Bartolomeo il mantovano Camillo Capilupi - del 22 ag. 1572 risalirebbe anche al G., a ogni modo massacratore con zelo entusiasta e quel giorno e in quelli successivi. Stando a un dispaccio del 27 di Giovanbattista Salvago la carneficina non sarebbe che una replica preventiva alla "sceleragine" dei calvinisti che stavano tramando l'eliminazione anche del Gonzaga.

Partecipa quindi all'assedio di La Rochelle - e se questa non cede fu perché, a detta dell'opinione circolante, non è attuato un piano suggerito dal G. -, accompagna poi il duca Enrico d'Angiò nel suo viaggio alla volta del Regno polacco. Reduce dalla Polonia e prossimo a Venezia, il G. - così informa il 12 giugno 1574 il nunzio pontificio Castagna - è avvisato della morte del Cristianissimo e della partenza clandestina del successore. "Mutando proposito", da Padova, si precipita a incontrare il nuovo re di Francia che, giunto a Vienna il 24 giugno, di lì arriva il 20 luglio a Venezia. E con lui il G., nel frattempo aggregatosi al suo seguito. Splendida l'accoglienza d'Enrico III a Venezia. E anche Mantova vorrebbe accoglierlo splendidamente. Solo che il re, giunto il 2 e ripartito la notte del 3 agosto, sosta troppo poco. E opportunamente evita di andare alla Mirandola, limitandosi - così il 7 da Venezia il nunzio - a inviarvi il G. "a visitare" la "signora contessa" Fulvia da Correggio (cognata di quell'Ippolito Pico conte della Mirandola caduto a Passac nel 1569 e già, nel 1565, luogotenente della compagnia del G.), allora in contrasto con il cognato Luigi a cui contende la reggenza. Abile mentore dell'itinerario regio in Italia settentrionale fu il duca sabaudo, cui, in virtù del trattato concluso a Torino il 14 dicembre, vengono consegnate Pinerolo, Savigliano e Perosa già occupate dalla Francia nel 1562. Un duro colpo per il duca Guglielmo Gonzaga. Ma ancora più contrario del fratello alla restituzione è il G., e non nell'ottica gonzaghesca, ma in quella degli interessi di Francia: spalleggiato da Renato Birago, non solo si oppone vivamente a essa, che con il trattato diverrà irrevocabile, ma pure pretende - non senza che Enrico III si infastidisca di questa sua pretesa di "sapere de' suoi segreti più adentro di quello ch'egli medesimo sapeva" -, nel vedersi inascoltato, sia messo per iscritto e in atto notarile il proprio netto disaccordo. Vigorosamente affermato questo nella Remonstrance… au roy, sorta di memoriale di protesta - redatto il 25 settembre ai bagni d'Acqui - a stampa, presentata al Parlamento di Grenoble. Enrico III è irritatissimo dal vibrante protestare del Gonzaga, ma preferisce dissimulare. Sicché la posizione del G. a corte non ne risente. Ed è a lui che anzitutto si rivolge il re, nel settembre del 1575, perché procuri di bloccare - ma è ormai troppo tardi, troppe le ore di vantaggio del fuggitivo sugli inseguitori - il fratello Francesco, duca d'Alençon, repentinamente fuggito dalla corte. Il G. - inviso agli ugonotti quale uno dei "principaux executeurs de la tyrannie" e inviso pure ai malcontenti facenti capo al duca d'Alençon, che lo ritengono corresponsabile dell'intollerabile fiscalismo di cui personalmente lucrerebbe - è intanto sempre più convinto che occorresse procedere alla distruzione totale degli ugonotti e, nel 1577, allineato col cardinale Luigi di Guisa, col duca di Mayenne Carlo di Lorena nel rifiuto del perseguimento di una qualche pacificante ricomposizione, di un qualche non sanguinoso compromesso.

Concomitanti all'intransigenza sfoggiata, il 2 genn. 1577, in un advis al re, si riaffacciano rivendicazioni relative all'eredità materna, le conseguenti mire sul Monferrato, la pretesa di averlo dall'imperatore come feudo in appannaggio. Il fratello Guglielmo corre prontamente ai ripari, con l'appoggio di Filippo II - e comprensibilmente: laddove, come sottolineano, reduci da Mantova, gli inviati veneti il G. "fa professione di esser francese", Mantova è "del tutto spagnola" ed è per questo che Enrico III la "odia" -, interessato a sventare l'eventualità d'un insediamento monferrino d'un principe francesizzato come il Gonzaga. Donde, nel febbraio del 1578, esplicite istruzioni del re Cattolico al proprio rappresentante presso l'Impero di contrastare le richieste del G., di sostenere le ragioni del duca di Mantova, il quale, a sua volta, preme, tramite il proprio ambasciatore, perché al G. sia persino negata l'udienza imperiale. Rodolfo II è convinto dal congiunto adoperarsi della diplomazia spagnola e di quella mantovana per scalzare l'istanza del G. e questi è costretto a rinunciare a tale suo vagheggiamento d'un marchesato in Italia. In questo, d'altronde, sarebbe stato debole e ricattabile. è in Francia, invece, che poteva grandeggiare: patrimonialmente era il più ricco del Regno; è il primo nella lista dell'Ordine di S. Spirito, istituito nel 1578 da Enrico III; a Parigi, l'hôtel de Nevers, in quai des Augustins, spicca per imponenza architettonica; Nevers è dominata dal medievale castello da lui fatto ingrandire e abbellire, con le sue torrette d'angolo a mascherare le antiche, con la sua torre ottagonale, al centro della facciata, slanciata verso il cielo mentre le finestre disegnano l'andamento spiraliforme della scala. Né la rinuncia alla "mira del Monferrato", cui di fatto il G. si acconcia, è infruttuosa se - come ricorderà al Senato veneziano, il 3 sett. 1588, reduce da Mantova, l'inviato Francesco Contarini - Guglielmo, pur di togliersi il cruccio, sottopone la questione pure al "re Cristianissimo", il quale "terminò che", a scioglimento delle "difficoltà" tra lui e il G., corrispondesse a questo la somma di 157.000 ducati.

E però non è appagata la grande ambizione del G., nella misura in cui - dopo aver rinunciato, come osserva Davila, "al governo del marchesato di Saluzzo e d'altre terre al di là delle Alpi" - non vede premiati i propri "gran meriti verso la corona" dal conferimento di un "governo" di prestigio, laddove nelle "cariche" e nei "favori" regi sono i "mignoni" quelli che spudoratamente si avvantaggiano. Tra i "mal sodisfatti" per la "potenza" crescente di questi, il G., a partire dal 1584, gravita sulla Lega, così mescolando cattolico zelo e grandiosi appetiti. Donde un manovrare di fatto spregiudicato e nel contempo nobilitato da scrupoli religiosi (così, almeno, la protestation, del 15 dic. 1584 del G. non dimentico di dirsi "prince de Mantoue, duc de Nivernois, de Rethelois et de Clèves, pair de France, lieutenent general des armées du roy"), che lo spinge a imbarcarsi a Marsiglia per Livorno e di qui raggiungere i Bagni di Lucca - questo il pretesto del viaggio - per poi portarsi, il 2 giugno 1585 ripartendone il 18 e tornando a fine luglio, a Roma a consultarsi con la S. Sede. Già messosi in luce con Gregorio XIII, è Sisto V il papa cui si rivolge, proponendogli, all'inizio di settembre, addirittura uno schema di bolla per l'estirpazione dell'eresia in Francia, piacendo, nel frattempo, al grosso del Collegio cardinalizio, essendo elogiato dal S. Uffizio, essendo lodato dall'ambasciatore spagnolo Enrico Olivares. Ormai direttamente sotto la protezione del re Cattolico, il G. - nel frattempo ancora in Italia; è a fine novembre che risulta a Nevers - nell'incontro, del 2 ott. 1585, di Jonville, donde sortisce un vero e proprio accordo operativo ispano-guisardo. Nella momentanea ribellione di Marsiglia il G. spera "d'essere fatto dalla lega governatore della Provenza". Ma via via si allontana dalla Lega a mano a mano che non si realizzano per lui immediati e consistenti vantaggi. Sicché, abbandonata la Lega, già all'inizio del 1586, ripara "totalmente" sotto la "protezione" della regina madre, l'accompagna all'abboccamento, del 18 ott. 1586, con il re Enrico di Navarra a Saint-Brice, tratta - per conto di quella - con il visconte di Turenne (e futuro duca di Bouillon), assume nell'andirivieni delle trattative un risalto arbitrale. Governatore in Piccardia e luogotenente nel Patou, è contro gli ugonotti che guida le truppe regie, non senza che, nel frattempo, attizzata ad arte da Enrico III, si accentui la rivalità tra lui e il duca di Guisa Enrico di Lorena, il quale - marito di Caterina di Clèves, sorella minore della moglie del G. - è di lui cognato. Sospetta agli occhi della Lega è la direzione del G. delle operazioni dell'autunno del 1588 contro il re di Navarra: prende Mauléon e Maintagu e poi si mette, anziché sferrare un attacco diretto, ad assediare La Garnache. Una diversione che rallenta l'offensiva, che dà ragione ai sospetti della Lega, divenuta nemica del re, allorché Enrico III si sbarazza a Blois, il 23 dicembre, dell'ingombrante condizionamento del duca di Guisa. La piazza assediata dal G. intanto è conquistata, ma l'esercito da lui guidato, composto in maggioranza da Guisardi, si dissolve. Ostilissimo a un accordo con gli ugonotti, il G., a disagio - ancorché avvantaggiato dall'assassinio del cognato (a lui subentra nel governo, rimasto vacante, della Champagne; attento a che, rischiando egli la vita, sia il figlio Carlo, appena decenne, il titolare del governo da lui esercitato, a ciò autorizzato da patente regia del 18 genn. 1589, in suo nome) - nell'accelerazione convulsa che, morta la regina madre e assassinato Enrico III, sospinge alla soluzione borbonica della crisi, a tutta prima ripara nelle sue terre evitando di schierarsi come "non interessato né coll'una né coll'altra parte". Ma siffatta proclamata estraneità non paga e, come tale, è in breve accantonata, se, nel luglio del 1590, superato "le scrupule" ancor presente in maggio, il G. è nuovamente in armi e dalla parte del re borbonico. Questi, con la strategia del "campo volante", da un lato è sempre in movimento, dall'altro, a mo' di centro mobile, dispone l'invio di truppe nelle varie province, ora dislocando, ora ricongiungendosi colle forze dislocate. Rientrante in siffatta impostazione l'operato del G. che, a sua volta, ora procede per conto proprio ora converge con l'esercito regio, ora è all'assedio di Provins, che prende il 2 genn. 1591, ora - mentre il re tentava d'introdursi di soppiatto a Parigi - sorveglia la campagna circostante. Se da un lato preme perché Enrico di Borbone si converta, dall'altro con lui s'indispettisce perché questi non lo favorisce quando avrebbe voluto combinare il matrimonio tra il figlio Carlo e la calvinista Charlotte de la Marck (questa sposerà il correligionario Henri de la Tour). All'inizio del 1592 con l'esercito regio "nel campo sotto" Rouen, quindi ad Aumale, quindi tempestivo, a capo d'un grosso squadrone di cavalleria a salvare il re che, spintosi in avanscoperta, è stato sorpreso da un'imboscata, quindi - mentre il sovrano ferito ripara a Dieppe - nuovamente all'assedio di Rouen - che è stata conquistata il 21 aprile da Alessandro Farnese -, quindi, in maggio, ancora una volta tempestivo con il suo squadrone a ricacciare un attacco guidato da Camillo Capizucchi alla fanteria. Caduto, il 26 luglio, il maresciallo Armand de Gontaut barone di Biron, è sul G. che ricade "il carico totale" - così Davila - dell'esercito. Provvede all'erezione di un forte a Gournay, e all'impedimento del "commercio" tra Parigi e Meaux.

Il G. è a questo punto divenuto una personalità eminente tra i "cattolici del partito del re". è a lui che questi si rivolge, dopo l'abiura del 25 luglio 1593, perché perori la propria causa a Roma. Prontamente il G. si mette in viaggio il 14 agosto. Sono con lui due dotti canonisti come il decano della cattedrale parigina e consigliere parlamentare Louis Séguier e il teologo Claude Gouin, decano di Beauvais, "commandeur" dell'abbazia di St-Denis, nonché il vescovo di Mans Claude d'Angennes. è già partito in tutta fretta Isaïe Brochard de La Clielle che giunge a Roma il 17 settembre a preannunciare al papa l'arrivo del G. e a "chiedere" - così riassume Davila - in nome del re "la sua benedizione" e a "renderli la dovuta obbedienza". Segreta, nel frattempo, deve rimanere la delicatissima missione del G., quanto meno segreto il suo nome. Ma sin dal 9, in udienza a palazzo ducale, l'ambasciatore francese presso la Serenissima Hurault de Maisse, visto che "ognuno lo sa", lo fa pubblicamente: è il G. la "persona espressa" incaricata dell'"honorata ambasciaria" di "render conto" a Clemente VIII della "conversione" di Enrico di Borbone. Inconcepibile - sospira Maisse - che egli e i suoi compagni di viaggio "non siano ben veduti dal papa", che "dovrebbe hormai procurar la pace et union della christianità et pensar modo di difenderla dalla gran potentia turchesca". Ma di ben altro avviso - come, in realtà, paventa lo stesso de Maisse - è il pontefice che, all'indomani dell'arrivo di La Clielle, il 18 settembre fa propria la "risoluzione" della "consulta": questa esclude che l'"ambascieria" del G. "abbi ad essere admessa". Segue il breve del 19 al duca di Mantova Vincenzo I Gonzaga perché invii il gesuita mantovano Antonio Possevino incontro al G. a dissuaderlo dal presentarsi a Roma. Inutilmente Paolo Paruta, rappresentante veneto presso la S. Sede, fa notare che "con questo atto di cacciare Nevers si veniva a troncare ogni trattazione di negozio". Per il papa non ne esistono i presupposti: "incorreggibile", a suo avviso, "il Navarra", come ha a dire, ancora il 16 gennaio, a Paruta; una volta "ricevuto in grazia ed assolto", sarebbe tornato "alle sue prave opinioni", si sarebbe rimesso a "perseguitare i cattolici". Da bloccare il G. prima che "entri nel stato ecclesiastico" con la pretesa di essere l'ambasciatore dell'"eretico" Borbone; non va "ascoltato" - così intanto martellante la propaganda ispano-guisarda - chi viene in nome di un "falso cattolico che simula e inganna" quale "il re di Navarra". E, proprio per averlo "seguito e favorito" automaticamente lo stesso G. è "caduto in censure", per emendarsi dalle quali sarebbe necessitata la sua pubblica "abiurazione" e - come dirà perentoriamente Clemente VIII - tutti "cascati nelle scomuniche e censure ecclesiastiche" i tre partiti in sua "compagnia". "Sommo" è - commenta Paruta il 2 ottobre - il "dispiacere" degli "uomini di sano giudizio" per tanto drastica chiusura foriera di "molti mali". Raggiunto a Desenzano da Possevino, intesa da questi - in un diffuso colloquio a Iseo - "la mente del papa", il G. non inverte la marcia. Andrà "alli piedi di Sua Santità", da "solo", senza seguito, "incognito". Che venga pure, questa la "risoluzione" romana comunicata da Paruta al Senato veneto il 13 novembre, purché spoglio della veste di "ambasciatore", purché a titolo personale, come "duca di Nivers" e "solo per dieci giorni". Già partito da Mantova, nel frattempo, il G. arriva a Pesaro l'11, per poi - dopo una puntata devota, il 12, a Loreto - procedere alla volta di Roma, dove entra, il 21, nottetempo, senza "apparenza", senza "alcuna pompa" - comunque, come racconta egli stesso, "en carosse, et accompagné seulement" da 50 gentiluomini "et de son train ordinaire"; non del tutto dimesso, insomma, l'ingresso - con delusione del "gran numero" di gente che, incuriosita, stava attendendolo. Sistematosi in un "alloggiamento" poco discosto da S. Pietro - con tutta probabilità nel palazzo, in Borgo, del cardinale Girolamo Riario -, si porta a "baciare i piedi a Sua Santità". Nessuno che lo riceva degnamente. Un eloquente segnale di freddezza ad anticipo del raggelante atteggiamento papale in tutte le poche e sbrigative udienze concessegli. Cinque in tutto, tra la fine di novembre e l'inizio del 1594. Unica concessione al G. quella di non dover partire entro dieci giorni. Con "sospetto" dei cardinali filospagnoli e filoleghisti, è in contatto costante con Paruta e avvicinato da quanti avevano simpatia per la Francia; di frequente, nel suo protratto soggiorno romano, si consiglia con Filippo Neri, che ritiene "santo", "nel negotio della rebeneditione".

Al G. - appurata l'irremovibilità di Clemente VIII, che, nel concistoro del 28 dic. 1593, si proclama addirittura pronto al martirio piuttosto che accogliere nella Chiesa il Navarrese: inutile offrirgli in "ostaggio" l'unico figlio Carlo, a pegno dell'"ottima disposizione" del suo re; cocciuta l'intransigenza che il pontefice oppose a ogni suo accenno all'"assoluzione" del sovrano - al G. non resta che partire, a fine gennaio 1594.

Fallimentare, a una prima valutazione, la sua missione: mentre egli consegna una "scrittura" con l'"istesse cose" che ha tentato di dire a voce, gli viene negata una "scrittura" ove si "dica e comandi" cosa il papa pretende dal Borbone "per farsi capace del perdono". Ma non del tutto inutile, ché la sua presenza a Roma ha pur costretto la S. Sede all'ineludibilità del problema. Già questo è da considerarsi un "frutto": anche se, nell'ultima udienza, il papa si è limitato a esortarlo a "lasciare Navarra e accostarsi alla lega", anche se torna - passando per Firenze, Ferrara, Mantova (e di qui una puntata a Venezia) - a mani vuote, lascia una Roma in cui non si parla d'altro che del "negozio" di cui s'è fatto latore. Inascoltato e umiliato il G., epperò - nell'andar "ogni giorno crescendo di forze e di riputazione" delle "cose del re di Navarra" (così Paruta il 5 febbraio) - di lì a pochi mesi da ciò autorizzato ad alzare la voce, quando, per conto d'Enrico IV, fa "sapere" al pontefice, come informa Paruta il 6 agosto, "che dovesse […] tenere per fermo e costante non essere mai il suo re per condiscendere ad alcun accordo, né per deporre le armi se prima non averà ridotti alla sua ubbidienza i […] sudditi […] ribelli". A questo punto il re non dà più l'impressione di piatire. Pone condizioni. E le comunica anche tramite il Gonzaga. Non "ascolterà parola […] promossa da Sua Santità di accomodarlo con altri" se prima non "ricevuto e riconosciuto" per re Cristianissimo. Solo se tale anche agli occhi di Roma è disponibile alla pace col re Cattolico. Ma se il papa intende esserne il credibile mediatore, si separi, antecedentemente, "in tutto da ogni interesse de' principi della lega".

Intanto la guerra continua e a capo d'operazione militari era il Gonzaga. E, nell'infuriare di provvedimenti antigesuitici in seguito all'attentato, del 22 dicembre, di Jean Chastel, il G. - protettore dei gesuiti come dei cappuccini, in linea colle propensioni gonzaghesche e non ignaro del Luigi Gonzaga gesuita morto in odor di santità il 20 giugno 1591 - si dissocia: i gesuiti sono al sicuro a Nevers, ove - come riferisce al G., ancora il 20 luglio 1593, il precettore del figlio Carlo, il classicista Blaise de Vigénère -, ogni mattina, dalle 8 alle 10, in una sala del castello si riunisce "la classe des jésuites" (composta di circa una trentina d'"escoliers") ad ascoltare la lezione del gesuita Trousson, il quale poi, per un'ora e mezza, impartisce a Carlo una lezione individuale.

Comprensibile che il Sully - che ritiene i gesuiti mandanti di Chastel - disapprovi aspramente il sostegno fornito alla Compagnia dal Gonzaga. Questi però non ne risente nel suo ruolo nella guerra, né vengono ridimensionate le sue responsabilità. Sta a lui operare nella Champagne, sovrintendere alle "cose di Piccardia". Al "governo dell'esercito" è ad Amiens il 2 ag. 1595, proseguendo poi sino a Corbie, Harbonnières, Peronne. Ma Cambrai si arrende al conte di Fuentes Pedro Henriquez de Azevedo. Il G. è incolpato da Enrico IV di lentezza operativa, non senza che egli, amareggiato, non accusi a sua volta il sovrano del troppo tempo sottratto - un'esplicita messa in causa della relazione con Gabrielle d'Estrées - ai suoi doveri bellici. Ma, al di là delle immediate responsabilità della resa di Cambrai, sulle quali il G. ribatte al re al punto da indurlo se non a ritirare le proprie accuse, a ridimensionarle, era in discussione l'intera strategia. A detta di Davila, il G. propugna una controffensiva dispiegata che sferri l'attacco ad Arras o a una qualche altra "città grande" in mano spagnola, laddove gli "altri capitani" ritengono "troppo pericoloso", quando "in casa propria" la situazione è difficoltosa, sguarnire la difesa per aggredire "le viscere del paese nemico". Per il momento il G. - incupito dallo scontro con Enrico IV, con addosso il logorio della guerra, sempre sofferente per la ferita al ginocchio, suo cruccio costante - ripara a Nesle.

Qui, nel sommarsi della dissenteria con una febbre violenta, il G. muore il 23 ott. 1595.

Enrico IV, addolorato, ne scrive, commosso al figlio del G., Carlo: "vous avez perdu un bon père et moi un parent et un bon serviteur dans lequel j'avois mis toute mon affection". E nel comunicare, il 17 novembre, la perdita al duca di Mantova Vincenzo I Gonzaga, nipote del G., definisce il defunto proprio insostituibile collaboratore.

Dal matrimonio con Enrichetta di Clèves (1542-1601) il G. ebbe tre maschi - Federico (1573-74), Francesco (1576-80), Carlo, il futuro duca di Mantova - e due femmine, Caterina (1568-1629) e Maria (1571-1601). La prima andò in sposa, nel 1588, al duca di Longueville Enrico d'Orléans e l'altra, nel 1599, al duca di Mayenne Enrico di Lorena.

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